00 07/01/2012 22:58

12 Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15 Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 16 In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17 Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.
Secondo il suo solito, l’evangelista è sobrio nel descrivere i gesti di Gesù, quasi fossero privi di qualsiasi importanza, ma il modo in cui li mette in sequenza ci fa comprendere come l’autore vi abbia annesso un rilevante valore teologico: dopo aver lavato i piedi agli apostoli (simbolo, come abbiamo già avuto modo di riflettere, del suo sacrificio volontario sulla croce e della sua discesa nel mondo ultraterreno dei morti), Gesù si alza e si rimette le vesti (immagine della resurrezione), andando di nuovo a sedersi a tavola (il che dà a intendere che Gesù ritorna alla destra del Padre, luogo da Lui occupato sin dall’eternità e che si riappropria della sua piena dignità divina). Neppure il più abile dei cineasti odierni avrebbe saputo fare di meglio.
Sapete ciò che vi ho fatto? No, i discepoli non lo hanno capito e sono troppo frastornati per formulare una risposta coerente, sicché se ne stanno in silenzio, in attesa di ulteriori spiegazioni che Gesù non tarda a fornire.
Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene, perché lo sono. Ecco precisati i ruoli dell’uno e degli altri, senza alcun equivoco di sorta. Gesù è il Signore (6,68; 13,6.9.36s ecc.) e ne fanno fede i miracoli da lui compiuti a dimostrazione della sua signoria sulla natura e sulle forze del male ed è, inoltre, il Maestro o rabbì (1,39; 11,28; 20,16), da tutti ascoltato con ammirazione e rispetto anche dai notabili della nazione giudaica ed i cui insegnamenti contengono “parole di vita eterna” (6,68). Il preambolo auto-rivelativo di Gesù (“voi mi chiamate… e dite bene… perché lo sono”) conferisce maggior peso a quanto sta per affermare: se io, che sono il Signore ed il Maestro, ho lavato i piedi a voi, che siete i miei discepoli, allora anche voi dovete fare altrettanto, lavandovi i piedi a vicenda. Le parole di Gesù non suonano come una supplica o una raccomandazione, ma come un ordine: se vogliono rimanere all’interno del piano di salvezza e seguire Gesù nella gloria, i discepoli devono necessariamente mettersi al servizio gli uni degli altri, abbandonando qualsiasi velleità di predominio e scordandosi di eventuali e presunti diritti di precedenza. La disponibilità a mettersi al servizio fraterno gli uni degli altri è premessa essenziale per il dono supremo di se stessi sull’esempio del Maestro e Signore, che per primo ha amato sino ad effondere tutto il suo sangue sulla croce per amici e carnefici. Se l’uomo moderno vuole recuperare appieno la propria dignità umana, non può sfuggire alla logica del servizio, offerto per amore ai propri consimili e compagni di viaggio verso l’eternità: la sopraffazione, la violenza, l’ingiustizia, l’accaparramento dei primi posti nei vari ambiti della vita sociale, la negligenza, la furbizia maliziosa non sono atteggiamenti degni di un seguace di Cristo, ma, al contrario, sono comportamenti certamente anti-cristiani, anche se assunti da cosiddetti uomini “di Chiesa”. L’ordine di Gesù (“dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”) non ammette deroghe, perché è parte integrante del “comandamento nuovo” dell’amore (13,34), che fa di tutta la vita di Gesù, e soprattutto della sua morte, il metro del reciproco amore dei discepoli (15,12; 1Gv 2,6;3,3.7; 4,17). Il presente salvifico, elargito a piene mani da Gesù, esige che si “faccia la verità” (3,21) e, per tutti gli uomini, questo significa accogliere, custodire ed osservare il comandamento dell’amore nel reciproco servizio; se ciò vale anche per i non cristiani per l’intrinseco valore salvifico del Vangelo di Cristo, a maggior ragione deve valere per ogni cristiano minimamente dotato di ragione.
Vi ho dato l’esempio. Gesù sa quanto sia difficile, per l’uomo, rinunciare al proprio egoistico interesse personale ed alla propria sicurezza psico-fisica. In un certo senso, anche nel nostro tempo ci vuole un certo coraggio per andare controcorrente e comportarsi secondo la dinamica del servizio totale, amorevole, disinteressato, assolutamente gratuito e spesso gratificato non con medaglie e riconoscimenti, ma con insulti, incomprensioni, dileggi o, peggio, con attentati alla propria incolumità. Era difficile dimostrare la propria fede cristiana in epoca di aperte persecuzioni, ma non è facile nemmeno oggi, nell’ambito di un contesto sociale sempre più egoista, litigioso e guastato da rapporti interumani basati sulle vuote apparenze (quanti soldi sperperati da personaggi pubblici per curare la propria “immagine”!). Vi ho dato l’esempio, fate come me; non otterrete premi in questa vita, ma il Regno del Padre mio è pronto per voi (Lc 22,29) se agirete come me. Gesù vuole incoraggiare i suoi attenti e sconcertati discepoli, che non molto tempo prima avevano sollevato la questione su chi, tra loro, fosse il più grande ed il più degno a sedere alla sua destra ed alla sua sinistra (Mt 20,21) e vuol far capire loro che devono deporre ogni velleità di predominio gli uni sugli altri, “perché come ho fatto io, facciate anche voi”.
Il servo non è più grande del suo padrone e l’apostolo non è più importante di colui che lo ha inviato. Questo concetto dovette arrivare ben chiaro nella mente degli apostoli, che con tutta probabilità non avevano ancora pienamente afferrato il senso del discorso fatto dal loro Maestro per spiegare le implicazioni “etiche” del gesto, da Lui compiuto poco prima. Dopo i tragici fatti della passione e dopo lo straordinario evento della resurrezione del loro Signore e Maestro, i discepoli comprenderanno forte e chiaro il valore immenso dell’umile ed amorevole servizio reso loro da Gesù e sapranno farne tesoro, conducendo per mano le sorti della Chiesa primitiva con dedizione assoluta e generoso impegno sino ad affrontare il martirio per amore del loro Signore e Dio.
Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica. Gesù non definisce beato colui che si limita a sapere, vale a dire a conoscere approfonditamente il contenuto del suo messaggio d’amore e di servizio reciproco, ma chiama beato chi sa mettere in pratica ciò che ha appreso. È questo il significato reale del verbo biblico “ascoltare” (Dt 6,3-9). La conoscenza del Vangelo, anche se erudita, può limitarsi ad uno sterile esercizio intellettuale, ma se è seguita da un’azione concreta ed impegnata significa che tutte le facoltà umane sono coinvolte nella dinamica del vero “ascolto” della Parola di Dio. Per giungere alla piena conoscenza della verità (3,21; 7,17; 8,31s), è necessario mettere in pratica la legge dell’amore sull’esempio concretamente dimostrato da Gesù e che ogni suo discepolo deve sforzarsi d’imitare. Il macarismo (ossia, il ricorso alla formula “beati…”) ricorre nel Vangelo secondo Giovanni solo due volte (13,17; 20,29) e, con tutta probabilità, risente di una consolidata tradizione sinottica (cf. Lc 11,27s; 12,37s; 14,14), anche se ricorre frequentemente in tutto il cristianesimo delle origini (cf. Gc 1,25; Ap 14,13; 16,15), con evidente significato parenetico (esortativo). Esprimendo il concetto in parole semplici: solo se ti comporterai conformemente all’insegnamento di Gesù, allora potrai considerarti beato (gr. machàrios, lat. beatus, ossia felice e pienamente realizzato come persona), come possono esserlo solo coloro che godono dell’eterna luce e dell’infinita pace di Dio (gli angeli, i santi), anche se sei ancora alle prese con i tanti problemi e le quotidiane difficoltà di questo mondo terreno. La beatitudine dell’uomo trova, infatti, la sua piena realizzazione solo “nel mondo altro”, ultraterreno, ma ha il suo inizio concreto e reale già in questo mondo, dove va plasmandosi la fiduciosa attesa delle promesse divine. Gesù invita i suoi discepoli a fidarsi di Lui ed a non scoraggiarsi neppure di fronte allo scandalo supremo della croce.

18 Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma si deve adempiere la Scrittura: Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno. 19 Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che IO SONO. 20 In verità, in verità vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.
Il tradimento di Giuda e la morte di Gesù sulla croce dovranno rafforzare la fede dei discepoli, manifestando la scienza divina di Gesù e la verità delle Scritture. La pericope 13,18-20 costituisce, probabilmente, il passaggio redazionale dalla spiegazione morale al preannuncio della morte in croce di Gesù Cristo. Infatti, perché un discepolo dovrebbe essere escluso dal comandamento universale dell’amore? Questo passo si riallaccia alla pericope 13,1-10 di cui riprende il tema del tradimento di Giuda, che sta per essere consumato.
Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto. Per i cristiani della prima ora, lo scandalo del tradimento di Giuda, uno dei prescelti da Gesù, doveva sembrare un evento così mostruoso e misterioso da richiedere una spiegazione da parte dell’evangelista. Gesù ha scelto personalmente i suoi collaboratori diretti, conoscendo di ciascuno “vita , morte e miracoli”, difetti e virtù, debolezze e slanci interiori, carattere e temperamento ed ha chiamato a seguirlo, consapevolmente e liberamente, anche il suo futuro traditore, un uomo introverso, avido, meschino ed avaro; il destino umano di Gesù e quello di Giuda Iscariota erano indissolubilmente legati sin dalla notte dei tempi e non è difficile immaginare il velo di tristezza che, per un attimo, deve aver offuscato lo sguardo limpido, sereno e sicuro di sé di Cristo quando, per la prima volta, ha incrociato quello obliquo e malizioso di quel discepolo inaffidabile. Perché Dio ha scelto di incarnarsi e di morire su una croce? Perché ha deciso di essere tradito da un uomo di sua fiducia? È possibile trovare una spiegazione logica al comportamento di Dio? Il “mistero della salvezza” (mysterium salutis) si è scontrato con il “mistero dell’iniquità” (mysterium iniquitatis) e, a prima vista, è Dio che ci ha rimesso la credibilità ed il prestigio, perché si è fatto battere dal male su tutti i fronti, subendo il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la fuga di tutti gli altri discepoli impauriti e smaniosi di salvare la propria pelle e, infine, patendo la tortura, la morte e la sepoltura. Eppure, Gesù ha dato più di una chance di ravvedimento e di conversione a quel suo discepolo rinchiuso nei propri dubbi e prigioniero delle proprie debolezze e fragilità, così come l’ha concessa a Pietro ed agli altri compagni di ventura. Prima della tragica notte del tradimento, Gesù non ha mai rimproverato apertamente Giuda né gli ha riservato atteggiamenti discriminatori, ma lo ha trattato amorevolmente alla stessa stregua degli altri undici apostoli. Come tutti i suoi compagni, Giuda ha ascoltato gli insegnamenti di Gesù, ha assistito ai suoi miracoli, ha visto coi propri occhi Lazzaro uscire dalla tomba avvolto nelle bende funebri, ha condiviso lo stesso timore quando ha visto Gesù camminare sulle acque agitate e tempestose del lago di Galilea, ma, nonostante il privilegio di aver condiviso per tre anni le vicende umane del Maestro, non ha saputo scegliere da che parte stare, o meglio, ha scelto la parte sbagliata e, colmo dei colmi, non ha saputo o voluto ravvedersi dell’errore compiuto ed ha preferito togliersi la vita, gesto di estremo rifiuto e di aperta sfiducia nei confronti della misericordia di Dio, che Gesù aveva insegnato a chiamare abbà, papà.
L’evangelista giustifica la scelta di Giuda come apostolo, nonostante che Gesù ne conoscesse le inclinazioni al male ed al tradimento, in quanto realizzazione della profezia: “Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno” (Sal 40 [41],10). Un commensale di Dio (“colui che mangia il pane con me”) preferisce compiere un gesto blasfemo supremo (“ha levato contro di me il suo calcagno”), disprezzando Colui che l’ha sfamato ed accolto con fiducia, piuttosto che riconoscere la propria miseria ed indigenza e ringraziare il suo benefattore del dono ricevuto! Il giudizio storico sul comportamento di Giuda non è sempre stato univoco e coerente. Infatti, ad alcuni il discepolo traditore è sembrato un predestinato al tradimento, privo di vera libertà di scelta: secondo il piano di salvezza, stabilito da Dio sin dall’eternità, era necessario che Cristo fosse proditoriamente consegnato ai suoi carnefici ed era inevitabile che ci fosse un traditore. Secondo costoro, Giuda sarebbe colpevole di tradimento per necessità e suo malgrado, sicché la sua colpa sarebbe irrilevante essendo un “necessario ed incolpevole prescelto” da Dio per compiere un’azione malvagia, finalizzata ad un’azione di salvezza universale. Mettendo a confronto il tradimento di Giuda ed il rinnegamento di Pietro, però, si può recuperare il tanto contestato principio del libero arbitrio.
Macchiatosi pure lui di una colpa grave, al pari di Giuda, Pietro ha avuto un rimorso sincero dell’atto compiuto e, riconoscendosi un miserabile peccatore, si è disposto a chiedere perdono al suo Signore, ripetutamente rinnegato con spergiuro; i tre rinnegamenti hanno valore non tanto sul piano quantitativo, bensì su quello teologico, poiché per la cultura semitica il numero “3” esprime un valore di perfezione che, in questo caso, è da intendersi in senso assolutamente negativo, dal che si può dedurre che Pietro abbia rinnegato il Signore liberamente, consapevolmente e volontariamente, seppure per paura. Dopo la resurrezione, Pietro si sentirà chiedere per tre volte da Gesù se lo ama e per tre volte Pietro gli dichiarerà il proprio amore (21,15-17), pur essendo pienamente consapevole del proprio peccato, per il quale ha già pianto amaramente (Mt 26,75); la triplice professione d’amore ripara il peccato commesso e ricolloca Pietro nella perfetta dimensione dell’amore per Dio, il quale richiede che lo si ami “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5).
Al contrario di Pietro, Giuda non si è fidato della misericordia e del perdono di Gesù ed ha mantenuto, sino alla fine, un atteggiamento di disperato orgoglio. Il suicidio di Giuda è affidato al giudizio insindacabile di Dio, il quale “conosce quelli che ha scelto”.
Ve lo dico fin d’ora… perché… crediate che IO SONO. Gesù si premura di preparare i suoi al momento dello scandalo della croce e li sollecita ad avere fede in Lui. La fede è cristologicamente accentuata con la formula tipicamente giovannea dell’IO SONO. Il fatto inconcepibile del tradimento non sminuisce il valore della realtà: Gesù è l’Inviato di Dio, il Messia, il Profeta, l’Eletto, l’Emmanuele, il Figlio di Dio, il Salvatore, il Signore della storia. Dopo lo sconvolgente evento della croce, ci si accorgerà che il tradimento di Giuda e l’assalto disperato di satana sono serviti all’esaltazione di Gesù Cristo, “che è resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20). La formula assoluta “IO SONO” riceve luce da 8,28: i giudei conosceranno, dopo l’elevazione del Figlio dell’uomo, che Gesù giustamente avanza il diritto assoluto, contenuto in quella formula, alla maestà ed alla dignità divina. In 14,29-30 manca la formula esplicita IO SONO, ma il significato delle parole ivi riportate è analogo: il principe di questo mondo (satana) non ha alcun potere su Gesù, poiché è giudicato e spodestato per effetto della crocifissione del Figlio di Dio (cf. 12,31). Se si aggiunge che satana incita e trascina il traditore a compiere il suo misfatto (13,27.30), si riconosce la spiegazione teologica che l’evangelista vuole dare a tutto l’avvenimento, comunicandola ai lettori con la formula IO SONO.
Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Questo detto di Gesù (gr. lòghion), riportato dall’evangelista o dal redattore finale del testo evangelico, concorda quasi alla lettera con Mt 10,40 ed esprime il principio giuridico giudaico, in base al quale un inviato vale quanto il suo mandante. Il tradimento di Giuda avrebbe potuto delegittimare l’autorità e, in futuro, anche l’affidabilità degli altri apostoli agli occhi del mondo, sicché Gesù si premura di qualificare i suoi discepoli con un “certificato di garanzia”, per assicurare che essi riporteranno sempre fedelmente i suoi insegnamenti. Gli apostoli sono i veri rappresentanti di Gesù, come pure i loro successori (i vescovi), ma non devono illudersi di avere vita facile in questo mondo, perché alcuni li accoglieranno con la stessa venerazione con cui accoglierebbero Gesù, ma molti altri li respingeranno, perseguiteranno ed uccideranno così come hanno respinto, perseguitato ed ucciso Gesù. Chi accogli me, accoglie colui che mi ha mandato. Gesù è l’Inviato del Padre e, chi accoglie Gesù nella fede, lo riconosce come il mediatore unico del Dio onnipotente; chi rifiuta Gesù, invece, si mette contro Dio stesso. La scelta dell’uomo è libera ed assolutamente responsabile; ciascuno è causa della propria salvezza o dell’autodistruzione.

Annuncio del tradimento di Giuda
(Gv 13,21-30)

Dopo l’intermezzo della lavanda dei piedi, il racconto prosegue con un’altra scena dai contorni drammatici. Ripreso il banchetto, interrotto per un tempo che agli occhi dei discepoli deve essere sembrato un’eternità, Gesù si cala nuovamente nel clima mesto e confidenziale di quella serata, da tutti i presenti avvertita come speciale, unica. Nella sala si fa sentire il pàthos di un addio improvviso ed imprevisto; solo Gesù appare sicuro di sé ed i suoi gesti sono calmi e misurati, come sempre, mentre gli apostoli si fanno inquieti. Il gesto di Gesù li ha frastornati e dentro di sé vanno interrogandosi sul significato di quella lavanda. Gesù li ha abituati a frequenti azioni insolite e controcorrente, ma questa volta li ha veramente sorpresi superando ogni immaginazione. Come un abile e consumato cineasta, l’evangelista fa emergere dalla scena quattro personaggi: Gesù e Giuda Iscariota da una parte, Pietro e Giovanni dall’altra. Sullo sfondo, si avverte la presenza defilata degli altri discepoli, la cui inquietudine e perplessità sono quasi palpabili.

13,21 Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. 22 I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse.
Il sorprendente annuncio del tradimento (cf. anche Mc 14-18; Mt 26,21), fatto improvvisamente da Gesù dopo aver compiuto un gesto di amore estremo nei confronti dei suoi discepoli, coglie questi impreparati. Tutto si sarebbero aspettato i seguaci di Gesù, fuorché un tradimento per opera di uno di loro! Non per nulla l’evangelista mette in risalto la profonda commozione provata da Gesù nel dare tale annuncio, un sentimento assai simile a quello da Lui provato mentre si stava avvicinando alla tomba dell’amico Lazzaro (11,33) od a quello che aveva manifestato poco prima, dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme (12,27). Il profondo turbamento interiore, quasi viscerale, provato da Cristo, va di pari passo con lo sbigottimento dei discepoli, che si guardano l’un l’altro negli occhi, quasi a voler cogliere nel vicino una scintilla della perfidia tipica dei traditori e, nello stesso tempo, cercando ognuno di rassicurare se stesso. Lo smarrimento iniziale, cede il posto alle indagini. Chi sarà mai il malvagio, capace di tradire l’amato rabbì? Ciascuno dei discepoli si sente messo sotto esame e, quasi certamente, si va chiedendo se può aver fatto qualcosa di sbagliato, durante il periodo di convivenza con Gesù, tanto da lasciar trasparire una qualche tendenza al tradimento. Fatto un rapido esame di coscienza, tutti gli apostoli, eccetto uno, spostano la loro attenzione sul vicino di tavola; ognuno cerca di scoprire negli altri qualche indizio dell’imminente misfatto e si sforza di mantenere la calma per sviare da sé gli altrui sguardi indagatori. Il silenzio di Gesù, che ha lasciato in sospeso la frase accusatrice, sembra durare un’eternità.

23 Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. 24 Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Dì, chi è colui a cui si riferisce?”. 25 Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”.
La scenetta, per certi versi gustosa e, dal punto di vista psicologico, assai efficace ed aderente alla realtà dei fatti, non può che essere frutto di un’esperienza vissuta in prima persona, anche se qualche commentatore ha voluto ridurla a semplice immagine simbolica. Come un abile regista, l’evangelista riprende la scena con un grandangolo, per inquadrare tutti i presenti e, poi, sfuma l’insieme dei discepoli per soffermarsi su uno solo di essi, rendendo nitidi i suoi contorni con uno zoom adatto per un ritratto di alta precisione, mentre tutto il resto dell’immagine rimane sfocata, lontana, fuori campo. Il discepolo, ora inquadrato, è esaminato sino al profondo dell’anima: egli è “quello che Gesù amava”. L’annotazione dell’evangelista-regista non è di poco conto. Gesù amava tutti i suoi discepoli, anche quello che lo avrebbe tradito per una manciata di monete d’argento, prezzo di un rancore covato da tempo e senza una ragione plausibile, se non, forse, un’attesa di gloria e di trionfo andata delusa: Gesù non era un re-messia glorioso ed invincibile, ma un miserabile senz’arte né parte, un illuso sognatore, capace di fare miracoli senza essere nemmeno capace di monetizzare tutta quella grazia di Dio che, misteriosamente ed inspiegabilmente, sprigionava dalle sue mani e dalla sua bocca! Un talento veramente sprecato.
Quel discepolo, che “Gesù amava”, era forse il più giovane ed il più innocente del gruppo dei Dodici ed a lui il Maestro riservava delle confidenze precluse agli altri. Lo stesso gesto di reclinare il capo sul petto di Gesù, con atto filiale, rafforza la convinzione che egli fosse il discepolo prediletto. Secondo la moda del tempo, i convitati ad un banchetto stavano coricati su un fianco sopra appositi lettini, rialzati in avanti, detti triclini, disposti a raggiera attorno alla mensa sulla quale si trovavano le vivande e collocata a breve distanza dalla testa e dalle mani dei commensali. Il gesto del discepolo prediletto si spiega con la sua vicinanza, quasi intima, al venerato Maestro: “si trovava al fianco di Gesù”. Con un gesto furtivo, Simon Pietro, che secondo logica si trovava, a sua volta, accanto al giovane collega, cerca di attirare la sua attenzione, senza farsi troppo notare dagli altri, con un gesto universalmente noto, piegando più volte e rapidamente verso di sé il dito indice: ehi, guarda qua, avvicinati che ti devo parlare… dì un po’, fatti dire chi è quello svitato che lo vuole tradire…
Detto, fatto. Il giovane discepolo, incuriosito pure lui, non si fa ripetere due volte la richiesta di Pietro, il capo riconosciuto dei Dodici e, con innocente noncuranza, appoggia la testa sul petto di Gesù e gli sussurra: “Signore, chi è?”, a me lo puoi dire… La risposta di Gesù è immediata, quasi a volersi togliere subito un peso che gli opprime il petto.