00 07/01/2012 22:56

Il Vangelo di Giovanni

Parte seconda (cc. 13-21)


Commento a cura di


Damiano Antonio Rossi


Con la collaborazione delle Suore Adoratrici Perpetue


del S.S. Sacramento di Vigevano




















L’ultima cena di Gesù coi suoi discepoli
(Gv 13-17)

Premessa

I primi dodici capitoli del IV Vangelo sono stati caratterizzati da segni (seméia) e da discorsi mediante i quali Gesù si è rivelato al mondo come la Parola (Lògos) incarnata di Dio, storicamente inserita nella realtà concreta delle vicende umane per essere la fonte della salvezza per l’intera umanità, ottenebrata dal male e dall’ignoranza. Di volta in volta, Gesù è stato riconosciuto o si è manifestato come “l’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (1,29), “il Figlio di Dio, […] il re d’Israele” (1,49; 10,38), il Tempio della nuova e definitiva Alleanza (2,19-22), l’Inviato del Padre (3,16-17), la luce del mondo (3,19; 8,12), l’acqua che dona la vita eterna (4,13-14), colui che dona la vita e la salute (4,50; 5,6-9.21), il pane disceso dal cielo (6,32-33), colui che domina la natura (6,18-21) perché Egli è lo stesso Io sono adorato dal popolo eletto come unico e vero Dio (8,24.58), il buon pastore (10,11), la porta attraversando la quale si può giungere alla salvezza eterna (10,9), la resurrezione e la vita (11,25), il Messia (12,13).
I capitoli 13-17 del Vangelo giovanneo sono incentrati sui discorsi di addio, che Gesù rivolse ai suoi discepoli nel cenacolo in occasione dell’ultima cena; la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia, presente nei sinottici, manca del tutto nel racconto del quarto evangelista, il quale ha invece voluto porre in evidenza l’episodio della lavanda dei piedi, gesto che getta una luce chiarificatrice sul contenuto teologico dell’intero discorso di commiato, pronunciato da Gesù prima della sua passione.
I capitoli 18-19 narrano la passione di Cristo, di cui l’evangelista propone particolari narrativi che gli sono propri, come l’interrogatorio condotto da Pilato e caratterizzato da un dialogo serrato con Gesù, che risponde da par suo a quel giudice piuttosto riluttante nel pronunciare la condanna a morte (18,28-19,11); l’episodio drammatico dell’Ecce homo (19,5); l’affidamento della madre di Gesù al discepolo prediletto (19,26-27); il colpo di lancia che trafigge il costato di Gesù, ormai morto, facendo uscire dal suo cuore squarciato “sangue e acqua” (19,34); la presenza di Nicodemo accanto a Giuseppe d’Arimatea, al momento della sepoltura di Gesù (19,39).
Il capitolo 20 narra l’evento della resurrezione di Gesù, di cui Maria di Magdala è la testimone privilegiata, prima ed unica nell’alba di quel giorno straordinario ed irripetibile nella storia dell’intera umanità (20,1). Le apparizioni di Gesù ai suoi discepoli sono, in certo qual modo, avvalorate dal dubbio, tipicamente umano, di Tommaso, che rifiuta di credere se prima non vede di persona il Risorto, verificando “scientificamente” che non si tratti di un’allucinazione collettiva o di un fantasma (20,24-25), salvo poi riconoscere, primo fra tutti i discepoli, che il Risorto è il “Signore e Dio” (20,28).
Secondo gli esperti di esegesi e di critica letteraria, il capitolo 21 del IV Vangelo è un’aggiunta redazionale tardiva, compiuta dall’evangelista stesso in epoca successiva alla stesura del racconto evangelico originario, oppure composta da un suo discepolo.
Lasciando agli esperti le questioni relative allo sviluppo diacronico del testo evangelico (chi lo compose; come, quando, per chi e perchè fu composto), a noi interessa lo studio meditato del IV Vangelo nella sua presentazione sincronica, così come ci è pervenuto nel corso dei secoli nella sua versione attuale, consapevoli che dall’accoglienza o dal rifiuto della persona del Risorto e del suo messaggio dipendono la nostra salvezza o perdizione. Il mondo moderno, così come noi lo conosciamo (globalizzato e dominato da internet, dai cellulari, dai servizi televisivi in diretta, dai reality show, dal rapido mutamento dei costumi e dei valori etici, talvolta surrogati da scoperte scientifiche che pretendono di dimostrare come l’uomo sia l’artefice di se stesso e che non sia necessaria l’esistenza di un Essere supremo per saper programmare e realizzare il proprio destino), sembra non aver bisogno di Cristo e delle sue esigenze etiche e mostra indifferenza nei confronti di un “Risorto” che non si lascia vedere o toccare e che non concede facilmente grazie e miracoli a richiesta. Il mondo occidentale “cristiano” si sta laicizzando e scristianizzando, sta perdendo sempre più la fede nel Cristo risorto per inseguire la certezza di ciò che vede, che tocca e che può manipolare e dominare, giungendo persino a considerare l’intero cristianesimo come una solenne montatura storica, messa in atto da una gerarchia ecclesiastica perversa e scaltra, il cui scopo non dichiarato è quello di esercitare un dominio globale sulle coscienze, ma dovrebbe ricordare le parole che Gesù rivolse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (20,29). L’attacco a Cristo ed ai cristiani non è una novità d’oggi, ma è sempre stata una realtà storica, “umana e diabolica” insieme, che nel corso dei secoli ha prodotto persecuzioni, ostilità, rifiuto, derisione, insofferenza e schiere di martiri in ogni angolo del globo terrestre. Perché, allora, perdere tempo a leggere, meditare e cercare di comprendere il Vangelo di Cristo? Perché Cristo ha vinto il mondo con la sua passione, morte e resurrezione ed ha assicurato la salvezza a quanti credono in Lui, che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); perché l’uomo, senza Cristo, perde se stesso; perché solo con Cristo l’uomo può dare un senso alla propria vita ed al mondo che lo circonda; perché solo con Cristo l’uomo si sente veramente “amato” da qualcuno fino all’estremo sacrificio di sé; perché solo con Cristo l’uomo può sperare nell’eternità, non accontentandosi solo di una vita ultracentenaria per effetto delle conquiste della medicina; perché solo Cristo può curare lo spirito umano inquieto e perennemente insoddisfatto; infine, perché no? Perché non credere? Perché non accettare il rischio della fede? Perché non riconoscere l’esistenza del mistero? Perché presumere di essere così autosufficienti da non aver bisogno del soprannaturale? Perché aver paura di Dio, che interpella l’uomo nel profondo della sua coscienza? Perché tentare di sfuggire al proprio destino di eternità e d’infinito?

La lavanda dei piedi
(Gv 13,1-20)

13,1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
Il preambolo all’episodio della lavanda dei piedi è solenne, denso di significato e fissa tre coordinate, entro le quali l’autore intende muoversi per dare la giusta interpretazione a quanto sta per esporre: la circostanza storica della festività pasquale, in occasione della quale sta per consumarsi la tragedia della morte del Figlio di Dio; la consapevolezza di Gesù che sta incombendo l’ora della sua passione; l’amore di Gesù per i suoi discepoli.
La festa della pasqua, in cui Gesù doveva essere condannato al patibolo, è un evento dominante nell’esposizione dell’autore del IV Vangelo (11,55; 12,1; 18,28.39; 19,14) e non solo per motivi storici, bensì per ragioni prettamente teologiche. Secondo l’evangelista Giovanni, infatti, Gesù è morto come perfetto agnello pasquale del nuovo e definitivo patto (testamentum), al quale non è stato rotto alcun osso (cf. 19,36) come preannunciato dalle antiche Scritture (Es 12,46; Sal 34,21), sottolineando l’aspetto sacrificale ed espiatorio della morte in croce di Cristo. L’interpretazione teologica della morte di Gesù ha una sfumatura diversa nei vangeli sinottici e nelle lettere scritte dall’apostolo s. Paolo, da cui emerge che il sacrificio di Gesù è stato compreso come l’elemento fondamentale del nuovo banchetto pasquale, in sostituzione dell’antico rito pasquale ebraico, che prevedeva la manducazione dell’agnello sacrificato durante la cena pasquale. Secondo tale interpretazione, col suo sacrificio Gesù si è offerto come pasto in sostituzione dell’agnello pasquale per ripristinare l’intima comunione tra Dio salvatore e l’uomo peccatore, colmando l’abissale distanza tra Dio e l’uomo causata dal peccato originale e ribadita dal peccato abituale, commesso da ciascun essere umano. Giovanni, dunque, accentua la dimensione sacrificale ed espiatoria della morte di Gesù Cristo, mentre Paolo e gli evangelisti sinottici ne evidenziano la dimensione eucaristica. Tale differente sottolineatura da parte degli evangelisti e dell’apostolo Paolo è rintracciabile nella differente collocazione temporale della morte di Gesù, che Giovanni fa coincidere con il momento in cui gli agnelli venivano uccisi nel Tempio prima di essere distribuiti per essere consumati durante la cena pasquale ebraica, mentre i Sinottici e Paolo la fanno corrispondere al giorno stesso in cui veniva celebrata la cena pasquale.
L’indicazione temporale iniziale (“prima della festa di Pasqua”) è strettamente collegata al fatto che Gesù “sa” che è giunta la sua ora, quasi a volerne sottolineare la prescienza divina; Gesù non è un uomo qualunque, ma è anche Dio e, quindi, sa tutto circa il suo destino umano, conosce in anticipo l’ora prestabilita della sua morte ed è consapevole delle atroci sofferenze cui sta per sottoporsi (cf. 7,30; 8,20), prima di giungere alla piena glorificazione (cf. 12,23). L’evangelista descrive la morte-glorificazione di Gesù come un “passaggio” da questo mondo al Padre, utilizzando una metafora spaziale che gli è cara: il “mondo”, nel quale Gesù ha compiuto la sua opera come rivelatore del Padre (cf. 9,5), è anche il regno delle tenebre, assoggettato al “principe di questo mondo”, che è identificato con il diavolo, nemico giurato di Dio (cf. 12,31; 14,40), ma il passaggio di Gesù al Padre presuppone anche lo spodestamento dell’avversario antico come inevitabile conseguenza della glorificazione del Figlio di Dio (cf. 13,31s). Da raffinato esegeta, s. Agostino d’Ippona collega il verbo “passare” (gr. metabàino, lat. trànseo) al vocabolo ebraico “pasqua” (pesàch; aram. pascha), che significa “passaggio”: “Ecce Pascha, ecce transitus” (In Joannem 55,1). Secondo una lettura allegorica, accolta da vari esegeti antichi e moderni, l’evangelista avrebbe tenuto presente, come modello del trapasso di Gesù da questa vita al Padre, l’antico esodo del popolo ebraico (Es 14), che fuggì dall’Egitto malvagio, schiavista ed idolatra, per attraversare le paludi insidiose del “mare delle Canne” (divenuto il più celebre Mar Rosso nel linguaggio poetico e rievocativo, adottato dall’autore sacro) e raggiungere la terra promessa della Palestina. Secondo tale modello interpretativo, Cristo (e noi con lui) è passato da questo mondo, prigioniero del peccato, per raggiungere il Padre, di cui la terra promessa è immagine e prefigurazione, ma solo dopo aver attraversato le acque paludose e mortali dello sheòl, il mondo dei morti. Ciò che caratterizza il transito di Cristo da questa vita al Padre è una motivazione profondamente “etica”: l’amore.
“Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo” è un’espressione che acquista un significato particolare se interpretata sulla base della parabola del buon pastore (10,1-18). Tra Gesù (il pastore) e quanti credono in Lui (le sue pecore) si crea un vincolo di reciproca fiducia e di amorevole intimità; Egli si prende cura di loro (cf. 10,3.4.12) ed essi lo seguono perché ne riconoscono la voce (10,14) e sanno di appartenergli, certi che Egli mai li tradirà né mai li consegnerà nelle mani del nemico (il lupo). Il “mondo” è come un grande ovile, nel quali i falsi pastori, ladri ed assassini, pullulano come non mai, pronti ad insidiare le anime impaurite e sprovvedute, incapaci di riconoscere la voce del vero pastore, il solo capace di condurle ai verdi pascoli della salvezza (Sal 22 [23],1-3). L’amore, che Gesù nutre per i suoi (gr. òi ìdioi), è realmente smisurato, insuperabile e dimostrato sino alle estreme conseguenze (gr. éis télos, “fino alla fine, all’estremo”). Nell’ora in cui Gesù muore, la sua ultima parola, di cui il solo Giovanni fa menzione, è: tetélestai (“è compiuto”). Con questo verbo, Giovanni dà un senso compiuto all’ora vissuta da Gesù come realizzazione di un amore senza limiti temporali (fino alla fine) o qualitativi (fino all’estremo). Possiamo chiederci se la suprema prova d’amore di Cristo per i suoi sia sintetizzabile più dal gesto della lavanda dei piedi o dalla morte in croce; la seconda opzione appare come la più ovvia, ma per l’evangelista la lavanda dei piedi sarebbe da intendersi come chiara anticipazione profetica del martirio di Gesù sul Gòlgotha. Nella lavanda dei piedi, infatti, si può cogliere l’estrema dedizione di Gesù per i suoi (cf. 15,13) ed il pieno significato di quel gesto, servile ed al contempo amorevole, è quello di preannunciare sia la morte violenta di Cristo, sia la sua piena comunione con i discepoli, fondata propriamente nel suo sacrificio cruento (13,7s).
Questa frase, così densa di contenuto teologico, è adatta a servire tanto da titolo all’intera seconda parte del IV Vangelo quanto da introduzione all’episodio della lavanda dei piedi, nel senso inteso dall’evangelista.

2 Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone di tradirlo, 3 Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4 si alzò da tavola, depose le vesti, e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto.
La frase, contrassegnata dai vv. 2-4, è costruita in modo contorto, quasi ad esprimere la complessità della tragedia che sta per consumarsi. Si fronteggiano da una parte gli apparenti vincitori della vicenda storica in questione, Giuda e satana e, dall’altra, i due presunti sconfitti, Gesù e Dio, gli uni e gli altri riuniti attorno ad un’unica mensa. Tradizionalmente, l’occasione di una cena è un evento di condivisione, di amicizia, di allegria e di sincerità, specie se supportata da un buon bicchiere di vino schietto e d’annata. In vino veritas, affermavano gli antichi e non a torto, specie se si pensa che l’effetto tipico dell’alcol è quello di sbloccare i freni inibitori, rendendo aperti e sinceri i propri pensieri e le proprie emozioni. Chi eccede nel consumo del vino, però, va spesso e volentieri oltre le righe di un comportamento controllato e garbato. In occasione di questa particolare cena, al contrario, s’interpone l’azione malefica del “diavolo” (letteralmente, “colui che separa”), che s’insinua nel cuore e nella mente di uno dei Dodici per metterlo contro Gesù e contro Dio, dei quali il maligno è l’antagonista sul piano storico ed esistenziale (cf. 8,44; 14,30; 1Gv 3,8). Giuda figlio di Simone e chiamato Iscariota per le sue origini (nativo della cittadina di Keriot, come lascerebbe supporre il passo di Gs 15,25) o per le sue inclinazioni psicologiche alquanto ambigue (come farebbe intendere il vocabolo aramaico sheqarja, che significa “mentitore, ipocrita”), non ha bisogno di ubriacarsi di vino per mettersi a tramare contro il suo rabbì, ma gli basta assecondare la passione che cova nell’intimo della propria coscienza e sulla quale fa leva la potenza diabolica (cf. 6,70s; 8,44; 12,31; 13,27; 16,11; Ap 12,4.17;13,2; Lc 22,3; 1Cor 2,8). D’altra parte, non sembra plausibile che Giuda sia giunto a tradire Gesù in modo repentino, quasi colto da un raptus, ma è più logico supporre che, dentro di sé, abbia covato giorno dopo giorno sentimenti di invidia, gelosia, bramosia, avidità, avarizia al punto da formarsi la convinzione che non valesse la pena di seguire un maestro, il quale non dava alcun peso al denaro, agli onori, al successo ed al potere e che, al contrario, si schierava coi poveri, i diseredati ed i maledetti di tutta la Palestina. L’evangelista Giovanni ha definito Giuda Iscariota “ladro” ed avido perché, essendo il tesoriere del gruppo degli apostoli, arraffava dalla cassa comune quanto veniva offerto dalle anime buone per sostenere le esigenze materiali di Gesù e dei suoi (cf. 12,6). Orbene, mentre Giuda sta studiando il da farsi per consegnare Gesù alle autorità ebraiche e di realizzare il massimo possibile come prezzo del tradimento, Gesù matura la piena consapevolezza di essere sul punto di ritornare al Padre, dal quale è stato inviato e dal quale ha ricevuto il potere su ogni cosa, anche se le potenze del male sembrano sul punto di prevalere e di vincere su tutti i fronti (cf. 7,30.44; 10,28s; 14,30), mandando all’aria i progetti di salvezza di Dio sull’uomo. Il potere, di cui gode Gesù, si fonda sulla potenza di Dio e nulla potrà scalzare Dio dal suo supremo ed eterno potere. Colui che viene da Dio e sta per tornare a Dio è superiore a qualsiasi avversario di Dio, diavolo compreso (cf. 8,44; 1Gv 3,8.10; 4,4).
Mentre cenavano. Il fatto che Gesù interrompa la cena per lavare i piedi dei suoi discepoli sarebbe, dal punto di vista strettamente storico, un fatto poco verosimile, perché solitamente la lavanda dei piedi dei commensali per opera di schiavi avveniva prima che ci si mettesse a tavola (cf. Lc 7,44), occupando ciascuno il posto assegnatogli secondo precise norme di etichetta. È possibile che l’evangelista contestualizzi l’episodio senza preoccuparsi troppo delle evidenti incongruenze di carattere storico o di semplice galateo, ma è pure possibile che egli voglia sottolineare con particolare enfasi la straordinarietà del gesto compiuto da Gesù che, in qualità di “padrone di casa” o “di capo-famiglia”, interrompe in modo del tutto inconsueto la cena per compiere un gesto, tipico di uno schiavo, lavando i piedi dei suoi commensali-familiari. Gesù ci sorprende per il suo modo di fare imprevedibile e controcorrente e non c’è da stupirsi se i suoi discepoli, che lo veneravano come il più grande dei rabbì, ne siano rimasti a dir poco sconcertati e di stucco, come possiamo arguire dalla reazione veemente di Pietro (13,8). Fatto sta che Gesù, con semplici gesti, privi di particolare solennità ma tra lo sgomento generale, si alza da tavola, depone le vesti (meglio, la sopravveste), prende un asciugatoio e se lo cinge ai fianchi, versa dell’acqua in un catino, lava i piedi dei suoi discepoli e glieli asciuga con l’asciugatoio. Dal punto di vista narrativo, l’evangelista ci fa ripercorrere in tutta semplicità un evento teologicamente assai rilevante: di propria iniziativa, il padrone di casa (il Figlio di Dio) si è alzato (lasciando la sua condizione celeste), si è tolto le vesti (spogliandosi della sua dignità divina ed assumendo la condizione umana), si è cinto i fianchi con un asciugatoio (disponendosi a svolgere un umile lavoro servile al servizio degli uomini) ed ha lavato ed asciugato i piedi dei suoi discepoli (segno di una totale donazione di sé, il cui culmine è il patibolo su cui muore come uno schiavo, privato di qualsiasi parvenza di dignità umana). Il breve dialogo tra Gesù e Pietro (13,6-11), interrompe la sequenza dei gesti che, come vedremo, completano la parabola discendente ed ascendente del Figlio di Dio: dopo essersi completamente spogliato della dignità divina ed umana, Egli ritorna al posto che più gli compete, alla destra del Padre (cf. 13,12).

6 Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. 7 Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”. 8 Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. 9 Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”. 10 Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti”. 11 Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete mondi”.
Inarrivabile Pietro! Il capo degli apostoli non conosce proprio mezze misure, ma è tutto d’un pezzo, solido ed affidabile come una “pietra”. Non per nulla Gesù, che legge nel profondo del cuore tutti gli uomini, ha affibbiato al pescatore galileo Simone, figlio di Giovanni (Mt 16,18), l’azzeccato soprannome di Pietro (aram. kefa, “roccia”).
Venne dunque da Simon Pietro. La scena con Simon Pietro, che consente di spiegare il gesto compiuto da Gesù, ha una struttura tipicamente giovannea. Il dialogo, che si svolge tra il rabbì ed il suo discepolo, produce in questo un’incomprensione ed un equivoco, tale da richiedere da parte del primo un ulteriore chiarimento e la rivelazione del significato profondo di quanto ha affermato in precedenza. Lo schema è semplice: affermazione di Gesù – incomprensione da parte del suo interlocutore, che equivoca sul significato delle sue parole – nuovo intervento chiarificatore di Gesù.
Dal testo non si capisce se Pietro sia stato il primo a ricevere la lavanda dei piedi (s. Agostino), o l’ultimo (Origene), ma è facile arguire che egli abbia espresso ad alta voce la perplessità di tutti gli altri discepoli, seppure con la veemenza che gli è propria e che appare giustificata dal profondo rispetto che egli nutre per Gesù: Signore, tu lavi i piedi a me? Sembra di vedere il povero Pietro, che strabuzza gli occhi e che non riesce a credere a quanto sta avvenendo. Gesù ha appena compiuto un miracolo che ha dell’inverosimile, resuscitando Lazzaro (11,17.43-44), morto da ben quattro giorni e si abbassa a lavare i piedi a lui, che sa solo pescare e che spesso non riesce nemmeno a “beccare” l’ombra di un pesce (cf. Lc 5,5). Tu…a me? Pietro capisce bene che tra il “Tu” maestoso ed ineffabile di Gesù ed il “me” del povero apostolo, che non è nemmeno il più istruito dei Dodici, c’è un abisso incolmabile, che neppure le distanze siderali possono lontanamente far immaginare. Il rifiuto espresso da Pietro di farsi lavare i piedi da Gesù non è un atteggiamento superficiale o arrogante, ma è espressione di un sentimento di umiltà consapevole e supportata da fatti ben precisi ed evidenti agli occhi di tutti. Pietro si sente letteralmente annichilito e, nello stesso tempo, scandalizzato al punto che Gesù cerca di rincuorarlo. Ora non lo capisci, ma lo capirai dopo. C’è un tempo per ogni cosa (cf. Qo 3,1); ora è il momento di vedere il Cristo umiliato, offeso ed ucciso, ma verrà anche il tempo del Cristo glorioso e trionfante sul male e sulla morte. Dio non ha fretta, perché i suoi tempi sono infinitamente più ampi e di lungo respiro rispetto a quelli dell’uomo (Sal 89 [90],4; 102 [103],15), che calcola tutto in centesimi di secondo. Nel cenacolo, i discepoli sono ora nel buio più totale della mente e non sanno capire né i gesti né le parole del loro Maestro, ma verrà il giorno in cui lo Spirito Santo chiarirà il senso degli uni e delle altre, gettando una luce abbagliante sul significato del sacrificio supremo di Gesù (cf. 14,26; 16,12s.25.29-32). Ora… dopo. Tra il tempo presente, intriso di angoscia, paura, tristezza, debolezza, tradimento ed il tempo futuro, che sarà contrassegnato dallo Spirito, da cui scaturiranno pace, sicurezza, gioia, coraggio, fiducia e fermezza nella testimonianza, c’è di mezzo un evento tragico ed ineluttabile, la croce, che Dio ha scelto come strumento e veicolo per incontrarsi con l’uomo e fare pace con lui (Is 9,5-6).
Non mi laverai mai i piedi! L’umanissima ottusità di Pietro produce un categorico “mai!” che in greco suona ancora più solenne e drastico: “ non mi laverai i piedi in eterno!”. Un adagio corrente recita: mai dire mai. Anche l’ateo più convinto, l’anti-cristiano più accanito, il mangia-preti ideologicamente ben strutturato, il nemico giurato del Vaticano e dintorni, l’ex bacia-pile passato ad altra religione può, prima o poi ed a Dio piacendo, scontrarsi di brutto con la croce di Cristo e venire disarcionato dalle proprie convinzioni come successe a Saulo sulla via di Damasco (At 9,3-4). Proprio Pietro avrebbe sperimentato sulla propria pelle e nella propria coscienza il valore assai relativo del vocabolo “mai”, quando, proprio nel contesto dell’ultima cena, Gesù gli avrebbe predetto di lì a poco il suo rinnegamento, nonostante la sua professione di fedeltà assoluta al Maestro (cf. Mt 26,33-35; Gv 13,37-38). Sebbene da venti secoli viva, ormai, nella gloria eterna del Regno di Dio, dopo aver versato il proprio sangue per amore di Cristo, il triplice canto del gallo risuona probabilmente ancora nelle orecchie del primo papa della Chiesa!
La risposta di Gesù alle proteste di Pietro, che Egli ha scelto come capo della sua Chiesa, suona come una minaccia, forse solo sussurrata, ma decisa e tale da non ammettere repliche: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Il dono, che Gesù promette a chi gli è fedele, è la partecipazione alla sua gloria (17,22.24) nella casa del Padre (cf. 12,26; 14,3; 17,24), dove sarà completamente svelata la pienezza dell’amore di Dio e del Figlio suo, Gesù Cristo (14,21.23). Per poter accedere a tale immenso dono, è necessario approvare la logica di Gesù, che consiste nell’accettazione totale, libera e volontaria, del sacrificio di sé per amore dell’uomo, di cui la lavanda dei piedi è solo un’immagine simbolica. Se Pietro vuole salvarsi, deve accettare di farsi salvare da Cristo nel modo che Egli ha scelto come elemento essenziale del piano, stabilito dal Padre sin dall’eternità. Pietro, che ancora non ha compreso il significato reale e profondo della lavanda dei piedi (né lo hanno capito gli altri discepoli), recepisce comunque il senso dell’oscura minaccia pronunciata da Gesù e, probabilmente temendo di essere allontanato dal gruppo dei seguaci dell’amato Maestro, reagisce da par suo: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”. O tutto o niente; così Pietro non smentisce il proprio carattere deciso, irruente e senza mezze misure. Così, equivocando sul significato della lavanda dei piedi, da lui intesa in senso strettamente materiale, non esita a dichiararsi pronto a farsi lavare tutto intero. Gesù, che con tutta probabilità si aspettava una simile reazione da parte di Pietro, ribadisce, forse con un sorriso di compiacimento, che la purezza interiore è elemento essenziale per entrare nel regno di Dio e che ne sono segno e riferimento l’amore fraterno e la disponibilità al reciproco servizio, fino al dono totale di se stessi (cf. 15,2-3; 1Gv 1,7; Eb 10,22). I discepoli, scelti da Gesù, sembrano ben disposti ad accettare le condizioni da Lui imposte, eccetto uno: il traditore. “Voi siete mondi (puri), ma non tutti”. C’è sempre qualcuno che, purtroppo per lui, pensa di cavarsela da solo e di non aver bisogno di nessuno; anche il cielo può andare stretto per chi è pieno di sé. Qualche commentatore ha pensato di ravvisare nella lavanda dei piedi un riferimento al battesimo, ma se ci atteniamo al contesto narrativo possiamo cogliere, nei versetti testé commentati, non tanto un significato sacramentale quanto piuttosto una dimensione cristologica e soteriologica: la lavanda dei piedi è un’azione che ha il carattere del segno, mediante cui Gesù ha reso visibile ed efficace per i suoi discepoli la propria volontaria consegna alla morte, in virtù di un amore supremo di cui essi faranno esperienza fino all’estremo (13,1).