00 07/07/2010 10:05
Gesù buon Pastore
(Gv 10, 1-21)

Nel Libro di Enoc, un testo apocrifo composto in epoca anteriore al 164 a.C., la seconda visione quivi descritta racconta la storia del popolo ebreo sotto il velo delle vicissitudini di un gregge di montoni alle prese con dei lupi. Uno dei temi ricorrenti è che i montoni sono ciechi ma, per intervento del Padrone, essi cominciano a vedere; il testo congiunge, quindi, il tema della cecità a quello del gregge condotto dal vero pastore (cf. Apocrifi dell’Antico Testamento a cura di P. Sacchi, I, pp. 612-630). L’associazione tra l’immagine della luce e quella del buon pastore non è, come si può ben vedere, nuova nel panorama letterario religioso di Israele e ciò è abbastanza comprensibile se si tiene conto del fatto che l’evangelista conosceva bene il retroterra culturale e religioso del suo popolo. È ovvio, pertanto, l’aggancio tematico tra la guarigione del cieco nato per opera di Colui che si manifesta come Luce che illumina il mondo ed il discorso di auto-rilevazione di chi si propone, autorevolmente, come l’unica vera Guida di tutti gli uomini.
La metafora del pastore, che protegge e conduce al pascolo il proprio gregge, difendendolo dai lupi, esprimeva bene il rapporto tra il sovrano, umano o divino, ed i suoi sudditi e tale immagine era frequentemente usata negli scritti dell’antico Vicino Oriente (cf. l’Inno a Shamash in Testi sumerici ed accadici, UTET, Torino1987, pp. 385-386. L’autore dell’inno si rivolge al dio sole definendolo luce che illumina la terra, giudice dei cieli e pastore di tutte le creature).
Limitandoci ai testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, la metafora del pastore alla guida del proprio gregge veniva spesso utilizzata dagli autori ispirati del testo sacro per esprimere lo stretto legame esistente tra il popolo di Israele e YHWH (cf. Gen 49,24; Ger 13,17; 23,1.3; Ez 34,31; Sal 74,1; 79,13; 80,2; Mi 7,14), la cui premura nei confronti dei suoi fedeli adoratori non era mai venuta meno, sia durante l’esodo dall’Egitto (Sal 78,52s; 77,21; 95,7; Am 3,12), sia in occasione delle pur tristi vicende storiche successive. Nella fedeltà di Dio a favore del suo popolo, i sacri autori della Bibbia ravvisavano un progetto di salvezza proiettato in un futuro lontano ma certo (Is 49,95). Persino la relazione personale del pio israelita con il suo Dio era sovente espressa dall’immagine del buon pastore (Sal 23), che garantisce sicurezza e pascoli sempre verdeggianti alle sue pecore, nonostante le aggressioni che provengono dall’esterno del gregge (cf. Is 40,11; Sir 18,13). Nel corso della storia Dio ha, di volta in volta, affidato il suo popolo ad alcuni suoi servi, fedeli esecutori della sua suprema volontà, affinché il popolo da Lui prescelto fra molti popoli della terra non rimanesse privo di guida “come un gregge senza pastore” (Nm 27,17; 1Re 22,17; Ger 50,6; Mt 9,36; Mc 6,34). In questo senso erano considerati “pastori” Mosè, Giosuè, i Giudici e persino il re persiano Ciro il Grande (Sal 77,21; Nm 27,17; 2Sam 7,7s; Sal 78,79s; Is 44,28). Nel testo sacro non mancano le invettive contro i pastori infedeli, che sfruttano le pecore e lasciano andare in rovina il gregge per calcolo o per tornaconto personale; contro questi cattivi pastori si infiamma la collera divina, dalla quale essi saranno spazzati via dalla faccia della terra con grande ira e furore (Ger 22,22; cfr. 2,8; 10,21; Zac 11,15-17).
La triste esperienza dell’abuso di potere, di cui si sono resi colpevoli i capi religiosi e politici del popolo di Israele nel corso della sua storia tribolata e ricca di contraddizioni, ha suscitato l’attesa che il Signore stesso stia per tornare ad occuparsi di persona delle pecore del suo gregge, poiché esse appartengono a Lui solo (Ger 22,2-3). L’intervento di Dio, contenuto come promessa nelle parole del profeta (“Voi avete lasciato… che le mie pecore si sbandassero! Ma io stesso radunerò il resto delle mie pecore!”), si concreta nell’annuncio messianico di un misterioso pastore che Dio susciterà, secondo i desideri del suo cuore, come un nuovo Davide. Grazie al Messia-Pastore, il popolo di Israele “sarà salvato ed abiterà nella sicurezza” (Ger 23,5s). Il testo profetico di Ez 34 sintetizza, nel suo linguaggio pastorale, il tema della salvezza di Israele sotto la guida sicura e rassicurante di YHWH, il Pastore supremo che giudica e salva, o condanna, non solo le pecore del suo gregge ma anche gli stessi pastori, inviati come suoi rappresentanti per prendersi cura del suo gregge.
Sembra evidente che l’evangelista abbia radicato il suo testo nel terreno biblico (cf. anche Mt 2,6; 9,36; 25,32; 26,31; Mc 6,34; Lc 15,4-6; At 20,28; Ef 4,11; Eb 13,20; 1Pt 5,2.4; Ap 2,27; 7,17; 12,5; 19,15), ma la sua opera rimane originale poiché il Pastore di cui parla è unico (non si fa cenno ad altri pastori cui siano rivolti dei rimproveri) e si tratta di un Pastore che dona la vita per le sue pecore, fatto del tutto inverosimile o assai poco verosimile nell’abituale comportamento degli uomini, che pensano a salvare se stessi ed a lasciare le pecore al loro destino di fronte ad un grave pericolo.
Il discorso si articola in due parti tra loro disuguali, separate da un’annotazione dell’evangelista sull’incomprensione degli ascoltatori (10,6). La prima parte (10,1-5) presenta un quadro pastorale nello stile impersonale (egli, il pastore), mentre la seconda parte applica a Gesù e sviluppa in stile personale (io) due temi ripresi dal quadro iniziale (10,7-10; 11-18). La pericope si conclude con un’osservazione dell’evangelista circa la divisione provocata nell’uditorio dalle parole di Gesù (10, 19-21).

10,1 “In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro ed un brigante. 2 Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. 4 E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5 Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. 6 Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.
Per esprimere il conflitto aspro e molto polemico esistente fra Lui ed i farisei, Gesù ricorre ad una paroimìa (corrispondente all’ebraico mashàl), vale a dire una similitudine espressa per enigmi, un quadro simbolico desunto da una normale scena di vita pastorale, di cui però gli astanti non comprendono il significato (10,6).
All’epoca di Gesù esistevano due tipi di “ovile” (aulé): lo stabbio eretto all’aperto, fuori del villaggio ed utilizzato durante il periodo del pascolo e l’ovile vero e proprio, una sorta di “cortile” che si trovava in posizione adiacente ad una casa ed era protetto da un muro di cinta. In questo secondo tipo di ovile, o cortile stabile, venivano spesso custodite le pecore di piccoli greggi appartenenti a padroni diversi, i quali stipendiavano un guardiano fisso che vigilava sulle greggi durante il periodo di riposo dei pastori. Nel suo breve racconto, Gesù farebbe riferimento proprio ad una struttura di questo genere. Di primo mattino, ogni pastore si presentava all’ingresso dell’ovile (la porta) e, dopo l’avvenuto riconoscimento della sua identità, veniva fatto entrare dal guardiano all’interno del cortile, dove non aveva alcuna difficoltà a riconoscere le proprie pecore ed a radunarle chiamandole anche per nome. Una volta radunato il proprio gregge, il pastore lo conduceva al pascolo mettendosi alla testa delle pecore, che lo seguivano senza troppe difficoltà poiché ne “conoscevano la voce” (10,4).
L’ambientazione pastorale del breve racconto dà modo a Gesù di alludere alle intenzioni malvagie dei suoi oppositori farisei, da Lui definiti ladri, briganti, estranei e, per contrasto, gli offre l’occasione per porre Se stesso al centro di questo ideale accerchiamento ostile presentandosi e rivelandosi come il Pastore in reciproco rapporto di conoscenza con le “sue” pecore. Chi è estraneo al gregge, non sempre è ben intenzionato nei confronti delle pecore!
Il duplice “amen” (tradotto con l’espressione “in verità, in verità”), con cui Gesù introduce la similitudine o racconto simbolico, ha lo scopo di rafforzare lo stridente contrasto tra la figura positiva e centrale del pastore e quella negativa dei nemici del gregge, di cui sono definite le dinamiche conflittuali attraverso azioni tra loro opposte: il pastore “entra” per la porta, mentre i ladri e briganti “salgono” da un’altra parte del recinto; le pecore “seguono” il vero pastore perché ne “conoscono” la voce, ma “fuggono” dall’estraneo di cui “non conoscono” la voce. Al contempo, il duplice “amen” iniziale anticipa e rafforza il valore di quello successivo (10,7), che introduce una duplice formula di auto-rivelazione divina: “Io sono la porta… Io sono il buon pastore” (10,7.11).
Il vero pastore si presenta alla porta dell’ovile, che sta a simboleggiare il diritto e la legittimità del pastore, avallati l’uno e l’altra dalla presenza del portinaio. Entrato nel recinto dell’ovile, il vero pastore si fa riconoscere dalle sue pecore chiamandole per nome “una per una” poiché con ciascuna di esse ha stabilito un rapporto personale di reciproca conoscenza e fiducia, al punto che le pecore seguono spontaneamente lui solo, di cui riconoscono la voce anche senza vederlo. Nella cultura semitica, il “nome” era l’equivalente dell’essere e, secondo la prospettiva biblica, il legame tra il nome e la persona che lo portava era assai stretto e dinamico. Sia il nome in sé che l’imposizione del nome ad una persona implicavano un rapporto di relazione interpersonale pressoché unica ed irripetibile ed era impensabile intrattenere un vero rapporto dialettico con un essere umano di cui non si conosceva il nome. Chiamare per nome il proprio interlocutore aveva il significato di affermare il peculiare diritto ad un rapporto personale esclusivo, quasi possessivo ed è per questo motivo che gli ebrei evitavano di chiamare per nome il loro Dio, consapevoli di non poterlo “possedere” né di poter avere con Lui un rapporto di superiorità. Il sacro Nome proprio di Dio, YHWH, poteva essere pronunziato dal sommo sacerdote soltanto una volta l’anno, nel giorno dello yôm kippùr (o giorno dell’espiazione) ed a Lui ci si poteva rivolgere, direttamente od indirettamente, usando nomi alternativi, generici (El, Elohim, Adonai, Shaddaj) oppure definendolo semplicemente “il Nome” (Hashshèm). La bestemmia contro Dio era sanzionata con l’immediata pena di morte!
Il pastore, che chiama per nome ogni sua pecora (usanza attestata ancora oggi tra i pastori palestinesi), afferma dunque il proprio diritto ad un rapporto personale, privilegiato ed unico con ciascuna di esse e, al contempo, sancisce la loro appartenenza a lui soltanto. Appare ovvio ritenere che l’evangelista abbia inteso sottolineare lo stretto vincolo che lega Gesù a tutti coloro che credono in Lui (cf. anche Is 43,1) e ne “ascoltano la voce”, distinguendosi da coloro che “non sanno” riconoscere la sua parola e si tengono in disparte da un progetto di salvezza offerto a tutti.
Una volta radunate le proprie (tà ìdia) pecore, il pastore le fa uscire dal recinto e le conduce fuori, verso nuovi pascoli, camminando davanti a loro e prendendosi la responsabilità di guidarle per sentieri sicuri; fiduciose, le pecore lo seguono perché lo riconoscono come colui che si prende veramente cura di loro (“conoscono la sua voce”). Nel discorso figurato, ciò che importa all’evangelista è che le pecore seguano obbedienti il loro pastore, non un altro. Esse conoscono la voce del loro pastore (cf. Sal 95,7) e stabiliscono con lui un rapporto di reciproca confidenza: al richiamo del pastore corrisponde l’ascolto delle pecore. Le espressioni “seguire” (che esprime la sequela nella fede) e “conoscere la sua voce” (che significa conoscere il Rivelatore e comprendere la sua rivelazione) sono familiari ai lettori credenti del Vangelo, i quali sanno bene a chi si riferisce l’evangelista quando contrappone alla “voce” del vero pastore quella minacciosa degli “estranei”. Poco prima (10,1) l’autore aveva definito “ladri e briganti” coloro che entrano nell’ovile scavalcando il recinto senza passare dalla porta, ora li chiama “estranei”; ma chi sono questi loschi figuri, che sembrano minacciare l’esistenza stessa delle pecore? Gesù si è presentato al popolo d’Israele (il gregge di Dio, secondo la definizione del Sal 99,3-4) per suscitare la sua fede nei propri confronti, poiché Egli è l’Inviato di Dio e, per condurre a termine tale missione, è entrato nel Tempio (l’ovile) al fine di ammaestrarlo. La maggior parte del popolo ebraico ha rifiutato di credere in Gesù (il vero pastore), non ha saputo riconoscere la sua voce e non lo ha seguito, ma quanti hanno creduto in Lui si sono posti alla sua sequela ed Egli li ha condotti verso il Padre, facendoli uscire da un ambiente divenuto ormai ostile ed oppressivo, dominato da ladri e briganti (i giudei, ossia i capi religiosi di Israele) che non hanno a cuore le sorti del popolo, ma tramano per condurlo alla rovina. L’immagine del pastore che cammina alla testa delle sue pecore è applicabile, nell’ottica dell’Antico Testamento, anche al popolo di Israele che viene condotto da Dio fuori dall’Egitto (Es 3,10; 6,26; 14,19; Dt 1,33; 4,37; 5,6; Sal 78 [77],52; Is 63,11.14).
Coloro che hanno creduto in Gesù e lo hanno seguito, hanno creato un netto distacco esistenziale con quanti si sono rifiutati di credere (“non seguono l’estraneo… ma fuggono da lui… perché non riconoscono la sua voce”) e tale distacco è reciproco. Come il vero pastore è unito alle sue pecore inseparabilmente, così altri uomini, estranei o lontani dalle pecore, sono separati da esse in modo definitivo e radicale. La similitudine può essere trasferita da un contesto storico-esistenziale ben preciso, caratterizzato dal rifiuto di Gesù da parte dei suoi contemporanei, ad un contesto escatologico nel quale il rifiuto della fede in Gesù da parte degli uomini assume i contorni di un dramma che si consumerà solo alla fine dei tempi, allorquando il giudizio finale sancirà la definitiva separazione delle pecore (i salvati) dai capri (i dannati).
Risulta facile equiparare i “ladri e briganti” ai tanti falsi messia che, nel corso della storia remota e recente, hanno tentato e tentano di spacciarsi per “veri” pastori del popolo di Dio. La storia della Chiesa, in particolare, così come la storia dell’uomo in generale, è piena zeppa di millantatori che, in buona o cattiva fede, hanno cercato di proporre se stessi come gli unici e veri interpreti del Vangelo e della morale evangelica o come i nuovi ed autentici “salvatori” del mondo trascinando con sé alla rovina tanti cristiani sprovveduti e creduloni alla ricerca della soluzione più facile ai propri problemi di carattere esistenziale, siano essi di ordine materiale, etico o religioso in senso stretto. Viene spontaneo pensare che molti di coloro che sono stati sviati dalla retta fede ed indotti a seguire i “falsi” pastori, non si siano nemmeno impegnati più di tanto a “riconoscere” la voce del pastore “vero” e che per calcolo o comodità abbiano preferito assecondare la voce più suadente ed ingannatrice di chi promette e garantisce scorciatoie più convenienti per raggiungere la felicità.
Essi non capirono. La rivelazione di Gesù cozza contro un’incredulità radicale, che sembra insuperabile e senza rimedio. Il resto del discorso di auto-rivelazione non farà che confermare l’oggettivo rifiuto di accogliere il Rivelatore da parte dei destinatari della salvezza.

7 Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. 8 Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10 Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Gesù riprende nuovamente il discorso, cercando di chiarire agli astanti perplessi ed increduli il significato della similitudine appena esposta. Il duplice “amen” introduttivo serve a ribadire l’importanza di quanto Gesù sta per affermare paragonando se stesso alla porta dell’ovile, attraverso la quale può transitare legittimamente solo il vero pastore delle pecore per condurle fuori del recinto verso pascoli sempre più ricchi ed appetibili o per riportarle dentro l’ovile, al sicuro dai lupi rapaci, dopo averle condotte al pascolo. La “porta” dell’ovile, cui si paragona Gesù, va assunta come simbolo della legittimità di colui che entra e come prova del diritto del pastore ad accostarsi alle proprie pecore. Poiché Gesù è la “porta” d’accesso dell’ovile, interdetta ai ladri ed ai briganti, ne consegue che Egli è anche il vero e legittimo proprietario delle pecore, il loro unico pastore. Poiché il pastore entra dalla porta, egli è indiscutibilmente il pastore delle pecore mentre gli altri sono solo dei malintenzionati che cercano di scavalcare il recinto solo “per rubare, uccidere, distruggere”. Nel momento in cui Gesù, vero pastore, è immesso nella funzione di “porta”, si infrange contro di lui qualsiasi illegittima pretesa di rivelazione, di guida e di salvezza. C’è un unico accesso alle pecore ed è “occupato” da Gesù; c’è un solo portatore di salvezza, una sola via che conduce al Padre: Gesù, la “porta”, il buon pastore (cf. 14,4-6). In quanto unica ed assoluta via alla salvezza, Gesù è la porta attraverso la quale le pecore possono uscire ed entrare nell’ovile in piena sicurezza (10,9); in quanto è l’unico rivelatore, capace di smascherare le cattive intenzioni di ladri e briganti, Egli è l’unica porta per accedere alle pecore con rette intenzioni. Con questa immagine, Gesù si contrappone senza mezzi termini ai tanti falsi messia, che pullulano sulla terra in ogni epoca della storia umana spacciandosi per salvatori dell’umanità.
La scelta della porta, come simbolo del portatore della vera ed unica salvezza, potrebbe stare in rapporto con l’interpretazione in chiave messianica del Sal 118,20: “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti” (cf. anche Gv 12,13; Mc 12,10; Mt 23,39). In tal caso, l’evangelista avrebbe inteso sottolineare, caso mai ve ne fosse ancora bisogno, l’unicità di Gesù Cristo come mediatore e portatore di salvezza in contrapposizione stridente con qualsivoglia altro pseudo-messia.
L’assolutezza della pretesa di Gesù esclude, pertanto, tutti i concorrenti: ma chi sono quelli venuti prima di Lui ed etichettati come ladri e briganti? Probabilmente l’evangelista aveva nel mirino i farisei, che guidavano il giudaismo a lui contemporaneo e che si opponevano con tutte le loro forze alla fede in Gesù (cf. Mt 23,1-36; Lc 11,39-52; Mc 6,34). Per loro fortuna, le pecore (cioè i credenti in Cristo) non “hanno ascoltato” le false promesse di salvezza formulate dai nemici di Gesù.
Io sono la porta. Gesù ribadisce questa formula di auto-rivelazione, ripetendola una seconda volta dopo il duplice “amen” di apertura, per rafforzare la sua funzione salvifica esclusiva: “se uno entra attraverso di me, sarà salvo”. La salvezza, acquisita mediante la fede in Cristo, viene resa da una sequenza di azioni (entrare, uscire, trovare pascolo) tipicamente semitica e di derivazione vetero-testamentaria (cf. Dt 28,6; 31,2; 1Sam 29,6; 2Sam 3,25); i termini contrari (entrare, uscire), infatti, esprimono in ebraico il concetto di totalità (cf. Dt 6,7) che, in questo caso, ha come fine il raggiungimento della pienezza di vita (trovare pascolo). Pascolando, le pecore si mantengono in vita ed i pingui pascoli sono un’immagine dell’assistenza divina (Sal 23,2), che viene applicata sia alla salvezza di Israele (Ez 34, 12-15) che alla benedizione escatologica (Is 49,9ss). L’evangelista riprende, così, un’immagine antica per far comprendere ai suoi lettori che la vita divina viene comunicata ai credenti attraverso Gesù (10,10).
Per descrivere l’azione malefica dei ladri, dei predoni e degli estranei, l’autore precisa le tipiche azioni del ladro assassino, che “ruba, uccide, distrugge”. Al contrario di costui, Gesù (porta e pastore delle pecore) mantiene in vita le pecore, anzi, vuole accrescere la loro vita oltre misura. La rovina, causata dal ladro assassino e distruttore, è la morte eterna, ossia la perdita della vera vita che solo i credenti possono ricevere grazie a Gesù (cf. Gv 3,16.36; 5,40; 6,33.35.48.51; 14,6; 20,31; Ap 7,17; Mt 25,29; Lc 6,38). L’eccezionale pienezza di vita che viene da Dio è, in altri passi, illustrata con le immagini della sorgente zampillante (4,14; 7,38) o del pane che estingue per sempre la fame (6,35.50.58) ed è qualificata dalla dimensione atemporale dell’eternità. La vita eterna, di cui parla l’evangelista per bocca di Gesù, non è tanto, o non solo, la vita post-mortale presso Dio distinta dalla vita presente, ma è la vita indistruttibile che sopravvive alla morte del corpo, è la vita escatologica che partecipa, con pienezza e sovrabbondanza, della vita stessa di Dio.

11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. 12 Il mercenario, invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; 13 egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 come il Padre conosce me ed io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore.
Gesù riprende l’immagine del pastore con una nuova formula di auto-rivelazione (“Io sono il buon pastore”) per spiegare la sua particolare relazione col Padre e con gli uomini che credono in Lui ed alla sua missione di redenzione. Non si tratta di una nuova parabola, ma dello sviluppo della rivelazione avvenuta poco prima e centrata sulla formula “IO SONO”, tipicamente giovannea. Se in precedenza la figura del “vero” pastore era posta in antitesi coi “ladri e briganti”, ora viene messa in aperto conflitto con la negativa figura del “mercenario”. Il vero pastore non è più tale soltanto perché le pecore di sua proprietà (tà ìdia) ne riconoscono la voce, ma perché si è sviluppata una reciproca conoscenza basata sulla fiducia più totale, garantita dalla disponibilità del pastore a sacrificare la propria stessa vita pur di tutelare quella delle pecore. Tale disponibilità a privarsi di ciò che è più prezioso per un uomo, vale a dire la vita, sottolinea la radicale differenza tra bontà e malvagità, tra verità e menzogna ed un pastore disposto a tanto non può che essere “buono” (in greco suona letteralmente come “bello”, cioè kalòs) e “vero”.
Io sono il buon pastore. All’inizio della parabola, Gesù si era presentato come il legittimo proprietario delle pecore, ma ora si definisce “buon” pastore volendo accentuare il carattere sacrificale della propria relazione con le pecore. Nell’Antico Testamento l’immagine del pastore era applicata, in senso traslato, all’idea dell’assistenza di Dio, il quale guida il suo popolo, proteggendolo, raccogliendolo e circondandolo di cure amorose. Talvolta venivano definiti pastori i capi politici e militari di Israele, mai però il re in carica, poiché costui governava il popolo in nome e per conto di Dio, l’unico vero Pastore di Israele. Nel linguaggio profetico, il titolo di “pastore” in senso proprio era ritenuto legittimamente applicabile, oltre che a Dio medesimo, soltanto al futuro Messia-Re, che sarebbe sorto dalla casa di Davide per guidare il popolo eletto in virtù di un incarico ricevuto da Dio in persona (cf. Ez 34,23ss; Mi 5,1-3). Il profeta noto come Deutero-Zaccaria profetizza di un pastore di Dio che viene ucciso e la cui morte conduce ad una svolta della storia (Zc 13,7-9); egli lo identifica con un misterioso “trafitto” pianto dal popolo (Zc 12,10). Nel Nuovo Testamento tale profezia pastorale viene applicata a Gesù (cf. Mc 14,27 pp; Gv 19,37), che è al tempo stesso pastore e salvatore delle pecore, per assistere le quali è disposto a sacrificare se stesso.
La figura del mercenario, che come salariato conduce al pascolo le greggi, viene disegnata da Gesù in modo totalmente negativo, poiché nel momento del pericolo costui abbandona il gregge al suo destino e se la dà a gambe per salvare la propria pelle. Anche dai pastori salariati ci si aspettava che facessero tutto il possibile per salvare le greggi dagli attacchi degli animali feroci o dei briganti e, secondo il diritto della Mishnà, in caso di evidente negligenza il mercenario era tenuto ad indennizzare il proprietario del gregge per le pecore andate perdute per opera dei predatori (a due od a quattro zampe!). In fin dei conti, lascia capire Gesù, il mercenario non ha alcun vero rapporto con le pecore, poiché a lui interessano soltanto il salario e la propria sicurezza, ma il vero bersaglio di Gesù sono i farisei ed i capi politici del popolo ebraico. Tutti costoro si comportano non come veri o “buoni” pastori di Israele, ma come mercenari, poiché gli uni si limitano a maledire il popolo che ignora la Legge (7,49) e ad espellere dalla sinagoga i malcapitati trasgressori dei numerosi precetti legali (9,22.34; 12,42), mentre gli altri pensano solo a conservare od a migliorare la propria posizione sociale ed economica (11,48). Niente di nuovo sotto il sole, come lamentava a suo tempo il saggio e disincantato Qoélet (Qo 1,9); chi possiede un frammento di potere fa di tutto per non perderlo e nulla lascia di intentato pur di rafforzarlo, allora come oggi!
Quanto alla figura del lupo, c’è chi vi ha ravvisato la strisciante e subdola presenza del diavolo nelle vicende umane, ma, più probabilmente, l’evangelista aveva in mente i tanti falsi profeti e propagatori di false idee circa la salvezza che si stavano profilando all’orizzonte già ai suoi tempi (cf. anche Mt 7,15; At 20,29ss). In senso più generale, il lupo (al singolare, gr. lýcos) andrebbe inteso come simbolo di un grave pericolo, che illustra e definisce il comportamento egoista del mercenario.
La figura negativa del mercenario ha lo scopo precipuo di porre in rilievo il comportamento del “buon” pastore, che si preoccupa delle sue pecore, non le abbandona, non fugge ma, anzi, dà la sua vita per esse. Sullo sfondo oscuro e minaccioso del mercenario, che non ha alcun legame con le pecore né sul piano affettivo né su quello puramente economico, visto e considerato che non gli appartengono, si staglia luminosa la figura del buon pastore, che con le sue pecore ha sviluppato, invece, un reciproco rapporto di amore e di conoscenza, di fiducia e di rispetto. Dopo aver ripetuto nuovamente la formula di auto-rivelazione (“Io sono il buon pastore”), Gesù parla in termini positivi della comunione intima che ha sviluppato con i suoi. Egli li conosce singolarmente nel profondo del loro essere così come il pastore conosce le sue pecore e le chiama per nome; si tratta di un rapporto di confidenza amichevole o, meglio ancora, di tipo familiare. La conoscenza reciproca tra Gesù ed i suoi non è puramente speculativa, razionale ma, secondo il tipico modo di concepire la conoscenza nel linguaggio semitico in generale e biblico in particolare, essa consiste in una personale unione molto intima che sfocia in una sorta di fusione del cuore e della mente di due persone in un unico essere, di cui la conoscenza esistente tra due coniugi è un’immagine assai calzante. Come Gesù “conosce” i suoi, così i suoi “conoscono” Lui e tale relazione scaturisce da un dono che Dio Padre ha fatto al Figlio suo unigenito, avendogli “consegnato” ed “affidato” come suo gregge molti uomini, letteralmente strappati dai lacci di un “mondo” malvagio e dominato dal male. Dietro l’immagine del buon pastore, che ama le sue pecore ed è ricambiato d’altrettanto amore da parte loro, si cela il concetto dell’elezione divina, che non va confusa con una predestinazione arbitraria da parte di Dio, giacché ci sono altre pecore da ricondurre all’ovile e che non appartengono al gregge del buon pastore (cf. 10,16). L’amore di Dio non raggiunge pregiudizievolmente alcuni uomini a scapito di altri, ma abbraccia l’intera umanità. La scelta (o elezione) di alcuni uomini come membri del gregge di Cristo rientra nell’ambito della provvidenza divina, misteriosa ed imperscrutabile ma sempre provvidente. Da tale scelta, compiuta dal Padre (e da Gesù), scaturisce l’amore che crea comunione; Gesù ha amato i suoi nel mondo e li ha amati fino all’ultimo sacrificando la propria vita (cf. 13,1) ed ha voluto che l’amore, col quale il Padre ha amato Lui, fosse presente e vivo anche in loro (17,26) e li attirasse sempre più nella comunione con Dio (16,27). Come Gesù riconosce nei credenti coloro che gli sono stati dati dal Padre e li abbraccia con amore, poiché li “conosce” e si rivela ad essi (15,15), così i credenti divengono capaci di “conoscere” Gesù e di crescere nella comunione con Lui. Il modello della “conoscenza” e dell’amore reciproco tra Gesù e coloro che credono in Lui è la “conoscenza amorosa” tra il Padre ed il Figlio ed a questo modello devono ispirarsi tutti i seguaci di Cristo, invitati ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste (Mt 5,48), termine ultimo ed unico di ogni perfezione. Il dono supremo di se stesso è il sigillo, che garantisce la “bontà” del pastore e del suo rapporto d’intima e reciproca “conoscenza” con il proprio gregge.

16 E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. 17 Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio”. 19 Sorse di nuovo dissenso tra i giudei per queste parole. 20 Molti di essi dicevano: “Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?”. 21 Altri invece dicevano: “Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?”.
Le altre pecore, di cui parla Gesù, sarebbero gli uomini provenienti dal paganesimo, che avrebbero creduto in Lui attraverso le parole dei suoi discepoli (17,20), ovvero uomini scelti da Dio e destinati alla comunità di fede in Gesù ma, tuttora, dispersi nel mondo (11,52). Tutti costoro non appartengono all’ovile nel quale si trovano le pecore appartenenti al pastore, non fanno parte, in altri termini, del popolo eletto di Israele, ma sono altrettanto cari al pastore-Gesù, che li vorrebbe nel proprio gregge per condurli ai pascoli della vita eterna sottraendoli alle rapaci mani dei “ladri e briganti”, che sono sempre in agguato e pronti a sottrarre anime al Regno di Dio. Gesù deve condurre queste “altre” pecore in assoluta e perfetta aderenza alla volontà del Padre, che le vuole appartenenti ad un unico gregge sotto la guida di un unico e legittimo pastore, anche se non viene precisato se Gesù unirà queste pecore alle prime e neppure che le condurrà insieme con esse. L’appartenenza definitiva ad un unico gregge guidato da un unico pastore non comporta necessariamente la perdita della propria identità culturale né l’annullamento del sentimento religioso, che è specifico di ogni popolo. Si può essere un solo popolo di Dio anche conservando e rispettando la molteplice diversità delle lingue, dei costumi e delle capacità espressive proprie di ciascun gruppo etnico. È compito del pastore condurre le pecore al pascolo e dare la propria vita per esse, mentre è proprio delle pecore “ascoltare” e “riconoscere” la voce del pastore, compiendo il gesto volontario di seguirlo.
Diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Lo sguardo di Gesù si estende verso i tempi ultimi, allorquando saranno superati gli angusti confini che gli uomini sanno così ben delimitare anche quando si tratta di usare il linguaggio comune della fede. La perfetta unità della Chiesa come icona dell’unità del Padre col Figlio (cf. 17,21) appare sempre più come un dono preveniente e, al tempo stesso, come metà irraggiungibile su questa terra. La morte di Gesù (11,51) e la sua intercessione presso il Padre (17,20ss) sono pegno e garanzia del raggiungimento di tale unità da parte di tutti coloro che, nel tempo storico della Chiesa, costituiscono il nuovo Popolo di Dio scaturito dal Sangue versato da Cristo sulla croce. L’unità e l’unicità del gregge, formatosi sotto la guida dell’unico pastore, realizzano entrambe il contenuto della profezia di Ez 37,24 che prospetta la dimensione universale della Nuova Alleanza, in forza della quale, come dice Paolo, non esistono più né uomo né donna, né ebreo né greco, né schiavo né libero ma tutti sono una cosa sola in Cristo Gesù (Gal 3,28).
Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Dopo lo sguardo prospettico di Gesù sul futuro escatologico, il discorso ritorna al sacrificio volontario del pastore, che dona la propria vita per le pecore. Col dono totale di se stesso, il Figlio dimostra la propria obbedienza assoluta al Padre, il quale gli ha affidato il compito di guidare alla meta ultima e definitiva l’intera umanità simboleggiata dal gregge, formato da pecore di varia provenienza (“altre pecore.. non sono di questo ovile”). Al tempo stesso, però, il Figlio offre liberamente la propria vita ed altrettanto liberamente se la riprende poiché dopo l’auto-immolazione farà seguito la resurrezione, intesa come suggello della perfetta comunione d’amore che unisce il Padre ed il Figlio suo unigenito. L’obbedienza del Figlio verso il Padre, totale e radicale sino alla rinuncia volontaria della propria esistenza inchiodata al legno di una croce ed il potere del Figlio sulla vita stessa, liberamente riconquistata con la resurrezione dai morti, caratterizzano l’intenso reciproco amore delle Persone divine.
La sovranità del Figlio, coeterno e consustanziale al Padre, traspare dall’affermazione di Gesù che nessuno può togliergli la vita, per quanto alcuni uomini si diano tanto da fare per raggiungere tale scopo; al contrario, è Gesù stesso che spontaneamente e per decisione propria dona la propria vita “offrendola da se stesso”. Egli non fa nulla da sé (cf. 5,19) e neppure in questa occasione si arroga alcun potere personale di fronte al Padre, nei cui riguardi non prende decisioni autonome, ma conserva tuttavia la sua libertà di fronte agli uomini. L’agire del Figlio è in perfetta sintonia col volere del Padre, ma è sovranamente libero nei confronti degli uomini e l’evangelista Giovanni sottolinea la volontarietà di Gesù nel consegnarsi alla passione ed alla morte nel momento cruciale della cattura nel giardino del Getsèmani (18,4-8). Neppure Pilato ha il “potere” di annullare la libertà di Gesù pronunciando la condanna a morte, perché la croce rientra nei piani del Padre, sulla cui volontà si radica il potere umano di Pilato stesso (19,11). Da se stesso Gesù prende la croce portandola sino al Calvario (19,17) e, d’altro canto, la sua morte viene presentata dall’evangelista come un gesto sovrano (19,30).
Il potere di disporre a piacimento della propria vita traspare non tanto, o non solo, dall’accettazione volontaria della morte, bensì dal fatto che Gesù può “riprendersela” quando vuole e tale potere gli è stato conferito dal Padre come un “comando”, per cui la potestà vera e propria del Figlio sulla morte si manifesta nel suo potersi riprendere la vita nello stesso modo in cui l’ha donata. La morte e la resurrezione formano un tutt’uno indissolubile, un unico evento del quale il Figlio può disporre liberamente in assoluta consonanza con la sovrana libertà del Padre. Nella prospettiva teologica di Giovanni, Gesù è colui che, donando in piena libertà la propria vita e riprendendosela per proprio sovrano potere ed in perfetta sintonia col volere del Padre, rimane il soggetto attivo anche nel momento in cui muore poiché Egli è il Figlio in grado, come il Padre, di resuscitare i morti. Agendo in unità inseparabile col Padre, Gesù esegue fedelmente l’incarico che da Lui ha ricevuto e la sua resurrezione va vista nell’ottica di una e vera e propria “glorificazione” da parte del Padre medesimo (cfr. 12,16; 13,31s; 17,1).
Sorse… dissenso tra i giudei. Le parole enigmatiche ed incomprensibili di Gesù sono tali da suscitare dissensi profondi tra coloro che le ascoltano. Molti lo considerano un povero pazzo, se non un posseduto dal demonio (cf. anche 7,20; 8,48.52) e, per la mentalità del tempo, la differenza è davvero minima se non inesistente. Lo strano linguaggio di Gesù non merita nemmeno di essere ascoltato, secondo il parere dei più, ma ci sono alcuni che sanno percepire la profondità teologica delle sue parole e sanno cogliere i suoi miracoli come gesti o segni di salvezza: “può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?”. Il dibattito, sempre incombente, tra coloro che credono e coloro che rifiutano in modo radicale di credere in Gesù è un refrain storico ricorrente, che si concluderà solo con la fine del tempo dell’attesa del ritorno glorioso del Figlio dell’Uomo. Sino ad allora, Gesù sarà per gli uomini “segno di contraddizione” (Lc 2,34), venuto nel mondo “per la rovina e la resurrezione di molti “ (ibid.).
Il dibattito fra Gesù ed i giudei prosegue (10,22-42) e raggiunge il suo punto più drammatico nel tentativo da parte di questi ultimi di lapidare Gesù. Dopo averlo letteralmente “accerchiato” (10,24) mentre sta passeggiando nel Tempio, gli chiedono di dichiarare, senza tanti giri di parole, se è davvero Lui il Cristo, l’Unto di Dio, il Messia di Israele inviato da Dio per liberare il suo popolo. Come il suo solito, Gesù non dice “Sì, sono io il Messia” (solo con la samaritana al pozzo di Giacobbe si è espresso in questi termini così espliciti; cf. 4,26), ma avvalora la sua vera messianicità, che non ha alcun carattere politico come vorrebbero i giudei, con le “opere” compiute nel nome del Padre suo (10,25). Il vero problema, dal punto di vista di Gesù, non sono i miracoli già compiuti in abbondanza (uno più, uno meno, non farebbe molta differenza), ma l’atteggiamento negativo dei giudei, radicati nei loro pregiudizi e tenacemente ancorati ad una concezione puramente politica del messianismo; per questo motivo essi non fanno parte del gregge di Cristo (10,26) e sono destinati alla perdizione eterna. La connotazione messianica di Gesù, al contrario, è caratterizzata dall’intimità assoluta con il Dio di Israele (10,30): “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Per i giudei tale affermazione è una vera e propria bestemmia, motivo più che sufficiente per lapidare Gesù seduta stante (10,31-33), anche se Gesù si appella alle Scritture per giustificare e dare valore alla propria affermazione (10,34). Gesù è veramente il Figlio di Dio e non tanto per una sorta di adozione da parte di YHWH, il Santo di Israele, l’unico e vero Dio, ma in quanto è realmente consustanziale al Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. I prodigi compiuti da Gesù sono un’attestazione di quanto sta affermando, ma i giudei non riescono proprio ad accettare la pretesa divinità di un loro simile. Un estremo tentativo di catturare Gesù e di ucciderlo sommariamente e senza processo, fallisce d’un soffio (10,39): padrone del proprio destino, Gesù sfugge alle loro mani assassine perché non è ancora giunta l’ora della sua glorificazione sulla croce. Non tutti, però, si irrigidiscono nella loro incredulità e facendo il confronto tra Giovanni il Battista, figura carismatica che non ha mai compiuto prodigi e Gesù, taumaturgo di chiara fama, trovano più di un motivo per credere (10,42). Ritiratosi al di là del Giordano (10,40), Gesù si prepara ad affrontare l’ultima e decisiva prova proprio nei luoghi in cui Giovanni aveva battezzato e reso testimonianza proprio a Lui, l’Agnello di Dio (1,29-34).

Lazzaro, vieni fuori!
(Gv 11,1-44)

Dopo il duro scontro con i giudei, sempre più rigidamente bloccati nella loro posizione di rifiuto nei confronti della rivelazione di Gesù, questi compie un ultimo “segno” per dimostrare la propria origine “da Dio” (cf. 10,33) quasi a voler esaudire, questa volta in modo definitivo e senza appello, la loro richiesta di un prodigio incontrovertibile per poter credere in Lui senza più dubbio alcuno (cf. 6,30). Delle tre resurrezioni compiute da Gesù e riportate dagli evangelisti (quella del figlio della vedova di Nain in Lc 7,11-15 e quella della figlia di Giairo, capo della sinagoga, in Mt 9,18-25pp furono operate da Gesù a breve distanza dal decesso dei due sventurati ragazzi), certamente suscitò molto scalpore la resurrezione di un certo Lazzaro, fratello di Marta e di Maria e, come loro, molto amico di Gesù. Egli, infatti, era morto da ben quattro giorni, era ormai stato sepolto e dal sepolcro “già manda[va] cattivo odore” (11,39). Molto si è discusso circa l’attendibilità storica di un simile episodio, ma la sobrietà del racconto evangelico e le sfumature psicologiche che vi si possono cogliere depongono per la veridicità del fatto narrato dall’evangelista.
Ritenere, come fanno alcuni, che i discepoli avessero fatto un patto con Lazzaro affinché simulasse la sua morte, in modo che Gesù potesse resuscitarlo da una morte presunta e così diventare famoso, oppure che Gesù stesso fosse d’accordo con questa truffa o che l’avesse Egli stesso architettata per trarre in inganno i suoi connazionali e ottenerne un qualche vantaggio politico o religioso, è frutto della perversa fantasia degli scettici ad oltranza. La prima parte di Gv 11 si legge come il racconto proprio di un testimone oculare ed auricolare, trovatosi con Gesù nella regione situata a Est del fiume Giordano e meravigliato del fatto che il Maestro si fosse trattenuto per ben due giorni in quei luoghi, nonostante fosse stato avvisato delle gravi condizioni di salute dell’amico Lazzaro (11,6). Solo un testimone diretto poteva riferire i detti efficaci di Gesù riguardanti le ore della giornata (11,9) o l’apparente assurdità della sua pretesa di essere “la resurrezione e la vita” (11,25) e di poter garantire addirittura la vita eterna a chi crede in Lui (ibid.); ancora, solo un testimone diretto, che più volte aveva percorso quella strada, poteva sapere che la distanza che separava il villaggio di Betania da Gerusalemme era di “due miglia” scarse (11,18) e poteva riferire le ansie di Tommaso e degli altri discepoli, consapevoli che Gesù e loro stessi rischiavano la vita, una volta messo piede nella Città Santa (11,8.12-16).
Se l’evangelista si propone come scrittore e testimone attendibile nella prima parte del racconto, perché ritenerlo inattendibile e fantasioso quando narra l’accaduto della resurrezione di Lazzaro, riferendo per di più particolari poco adatti alla solennità del momento, come il pianto di Gesù, addolorato per la morte dell’amico (11,35)? Si può anche ragionevolmente affermare che ciò che la narrazione sottace è impressionante quanto ciò che dice. Non viene riportata alcuna parola di Lazzaro e nulla viene riferito della sua esperienza nell’altro mondo durante quei “quattro giorni”. Un narratore poco affidabile si sarebbe dilungato nell’amplificare a dismisura la portata di un miracolo di per sé straordinario ed inaudito. La sobrietà dell’evangelista è la migliore credenziale della sua affidabilità come testimone e narratore.
La resurrezione di Lazzaro rappresenta, per l’evangelista, il culmine dei “segni” operati da Gesù di Nazareth, del quale riporta una parola d’auto-rivelazione (11,25ss) che costituisce la chiave di lettura dell’intero episodio. L’importanza dell’accaduto, dal punto di vista cristologico e soteriologico, è brevemente trattata all’inizio e nel punto culminante del racconto (11,4.40). Insieme alla guarigione del cieco nato, questo miracolo esprime appieno l’idea cristologica che guida ed ispira il IV Vangelo: Gesù è la luce e la vita del mondo (cf. 1,4). L’evangelista ha inserito l’episodio della resurrezione di Lazzaro proprio al culmine del drammatico scontro tra la fede e l’incredulità ed il “segno” rappresenterebbe, per i giudei, la decisiva spinta a credere nel ruolo messianico di Gesù ed in effetti, dopo il miracolo, molti scelgono di avere fede in Lui (11,45). Preoccupati per la piega assunta dagli avvenimenti (cf. 11,48; 12, 9), i capi giudei decidono di passare al contrattacco e di prendere ufficialmente, durante una seduta del sinedrio, la decisione di mettere a morte Gesù: meglio la morte di un uomo solo che la rovina di un popolo intero (11,50)!
Non è un caso che, proprio nel momento in cui il Figlio di Dio manifesta la sua potenza vitale nel modo più sublime, gli uomini che rifiutano di credere in Lui siano ferocemente determinati a farlo scomparire dalla faccia della terra, prendendo tutte le misure necessarie per raggiungere il loro scopo omicida. Il cammino della croce è già tracciato, ma, contrariamente a quanto pensano gli uomini, esso rientra nei piani di Dio addirittura dall’eternità, perché l’esaltazione di Gesù sulla croce coincide misteriosamente con la glorificazione di Dio stesso nel Figlio suo unigenito. Il “segno” di Lazzaro richiamato alla vita dopo “quattro giorni”, quando ormai il suo spirito vitale ha abbandonato per sempre il corpo mortale ed è sceso nello sheòl, addita già questa glorificazione finale (11,4) e l’involontaria profezia del sommo sacerdote Caifa (11,51ss) dimostra che il complotto degli uomini è necessariamente al servizio dei piani di Dio.
Vari commentatori, in passato, si sono chiesti come mai l’episodio della resurrezione di Lazzaro, così straordinario ed unico nel suo genere, non sia stato riportato anche dai Sinottici. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che, all’epoca in cui furono scritti i Vangeli sinottici, Lazzaro fosse ancora vivente; da un lato, gli evangelisti non avevano voluto esporlo ad inutili pericoli da parte delle autorità giudaiche e romane narrando il prodigio di cui era stato il fortunato protagonista e, dall’altro, Lazzaro stesso poteva essere il testimone più autorevole e credibile del beneficio ricevuto, grazie al quale era assai noto presso le comunità cristiane di quel tempo. Seguendo la logica di questo ragionamento, all’epoca in cui fu composto il IV Vangelo Lazzaro era di nuovo deceduto, quindi erano venuti a mancare i presupposti per una possibile azione di ritorsione nei suoi confronti. Non è da escludere che tutti gli evangelisti abbiano selezionato solo alcuni tra i tanti miracoli attribuiti a Gesù con lo specifico intento di utilizzarli in funzione della personale interpretazione teologica dei fatti narrati.