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Il Vangelo di Giovanni


Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. La messinscena si conclude con una annotazione temporale propria di Giovanni e sconosciuta ai Sinottici. C’è un’evidente incongruenza temporale fra la festività di Pasqua citata nel capitolo 6 e la festa delle Tende menzionata all’inizio del capitolo successivo (7,1), visto che la prima è una festa primaverile e la seconda una festa autunnale, a meno che la Pasqua citata nella pericope e definita “vicina” (o “prossima”), quindi non ancora presente, abbia solo un significato simbolico. Questa “pasqua” ha il significato di una forte allusione all’imminente morte e sepoltura di Cristo, la cui risurrezione dai morti inaugura una nuova “Pasqua”, diversa dalla “festa dei giudei”. La Pasqua di Cristo è, infatti, l’inizio della Vita che ha sconfitto definitivamente il tragico destino dell’uomo, segnato dal male e dalla morte; la dimensione della Pasqua cristiana è universale, avendo superato gli angusti confini dell’attesa messianica di un singolo popolo, seppur glorioso e scelto da Dio in maniera singolare, profetica. Questa specifica festività pasquale non va, quindi, intesa come l’ultima trascorsa da Cristo prima della sua passione e morte.


5 Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. 6 Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. 7 Gli rispose Filippo: “ Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”. 8 Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9 “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”. 10 Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini.

Gesù alza gli occhi e vede: Egli sta accingendosi a prendere l’iniziativa per compiere il “segno” coinvolgendo nell’azione, attraverso un dialogo serrato, alcuni dei suoi discepoli. “Alzati quindi gli occhi”. Alzare gli occhi è un’espressione ricorrente nella Bibbia (Gen 13,14; 1Cr 21,16; Is 60,4; Zac 2,1; Mt 17,8; Lc 6,20; 16,23) e quando non è seguita dalla direzione dello sguardo, es. “verso il cielo”, nel qual caso avrebbe il significato di introdurre ad una preghiera, vuole sottolineare un certo modo di “vedere”. Gesù siede sul monte e fissa lo sguardo sulla folla che sta venendo verso di Lui. Dopo l’incontro con la samaritana al pozzo di Sicàr, Gesù aveva invitato i suoi discepoli ad “alzare lo sguardo” per vedere i samaritani che venivano verso di Lui con la buona e retta intenzione di credere alla sua Parola (4,35); qui è Gesù stesso che contempla la folla che avanza e “legge” in ciascuno di quei cuori l’atteggiamento di fede di alcuni, oppure il dubbio o la semplice curiosità, se non l’ostilità di altri. Per tutti però, increduli o credenti, Gesù dimostra la sua sollecitudine: tutti hanno bisogno di “mangiare” e “sfamarsi”. A tutti Egli vuole donare la propria Persona. La volontà di sfamare tutta quella folla non scaturisce da una necessità contingente; è giorno e la gente non è ancora affaticata da una giornata trascorsa ad ascoltare il Maestro di Galilea od a portargli gli ammalati, nella speranza di vederlo compiere qualche miracolo. Se la folla è convenuta in quel luogo è perché è stata attratta dalla fama di taumaturgo di Gesù (“…una grande folla lo seguiva vedendo i segni che faceva sugli infermi”), ma Gesù sa “vedere”in profondità nell’animo dell’uomo, di cui conosce le esigenze interiori e le angosce esistenziali. Il dono gratuito di Gesù scaturisce da quello sguardo posato sulla folla che si sta avvicinando a Lui, portando ognuno il fardello della propria fatica di vivere. A questo punto l’evangelista introduce un momento di tensione, una pausa ad effetto ed è Gesù stesso a creare la suspense.

Dove possiamo comprare il pane…?”. Gesù sembra fare il verso a Mosè, che si lamentava con YHWH (Nm 11,13) non sapendo come accontentare il suo popolo, eternamente insoddisfatto ed incontentabile, che in pieno deserto pretendeva di mangiare carne a sazietà, rimpiangendo il periodo in cui, pur ridotto a dura schiavitù, poteva ogni tanto cibarsi di carne. La domanda retorica rivolta da Gesù a Filippo vuole sottolineare l’incapacità, da parte dell’uomo, di procurarsi il “pane vero”, che solo Dio può dare; in realtà Egli si rifà alla Scrittura (Is 55,1), in cui si legge: “Anche se non avete denaro, venite (a me)! Comprate il grano e mangiate, gratuitamente”. Filippo, che pure dovrebbe conoscere la Scrittura, viene tratto in inganno dal modo di parlare di Gesù, dal quale viene messo alla prova. Gesù sa bene cosa sta per fare, ma Filippo casca nel tranello tesogli da Gesù e si limita ad una lettura superficiale e molto terrena della situazione. Non bastano duecento denari per dare a ciascun uomo un piccolo pezzo di pane, come se il dono della vita possa essere quantizzabile (un piccolo pezzo) e commerciabile. Fa capolino l’ironia di Giovanni: nemmeno una cifra spropositata di denaro può “comprare” un piccolo frammento di vita eterna, simboleggiata dal pane dato da Gesù. Il nutrimento che YHWH offre gratuitamente al suo popolo, come sottinteso dal passo di Isaia succitato (55,1-3), è la sua Parola il cui ascolto fa vivere e la cui accoglienza inserisce l’uomo nell’Alleanza eterna con Dio. Ciò che è sfuggito a Filippo non sfuggirà a Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna! ” (6,68). L’evangelista colloca Gesù su un piano molto diverso da quello occupato da Mosè: mentre questi era inquieto e quasi angosciato di fronte alla difficoltà di accontentare una folla sempre in rivolta (Nm 11ss), Gesù era tranquillo e sereno perché “sapeva bene quello che stava per fare”; Gesù aveva la piena consapevolezza che non sarebbe bastata la prodigiosa moltiplicazione dei pani per donare la vita a quella folla, ma che ci sarebbe voluto molto, molto di più: il dono libero e totalmente gratuito della propria vita sulla croce!

Prima Filippo e poi Andrea fanno risaltare, con le loro osservazioni cariche di buon senso e di sano realismo, la grandezza del miracolo; il primo fa notare che nemmeno duecento denari (cifra consistente e corrispondente al valore di sei mesi di lavoro di un bracciante agricolo, il cui salario giornaliero era di circa un denaro), sarebbero sufficienti a dare un piccolo pezzo di pane per ciascun uomo accorso da Gesù, mentre il secondo è in imbarazzo di fronte a soli cinque pani d’orzo e a due pesci (pescati probabilmente nel lago lì vicino) che un ragazzo ha con sé in una sporta e che si trova forse lì per caso. Giovanni è l’unico degli evangelisti a riferire i particolari relativi ai pani di “orzo” ed al “ragazzo”; qualche commentatore ritiene che vi sia un riferimento biblico in questi due dettagli narrativi e pensano a 2Re 4,38-42: il profeta Eliseo aveva compiuto un prodigio analogo moltiplicando venti pani d’orzo portati dal suo servo, un “ragazzo” (in greco, paidàrion), a favore degli abitanti di Galgala in difficoltà a causa della carestia.

Il pane d’orzo era il cibo dei poveri perché meno caro del pane di frumento (cf. 2Re 7,1.16; Ap 6,16); l’orzo, che era più precoce e maturava prima del frumento, cioè verso aprile, costituiva la prima messe offerta come primizia (Lv 23,9-14). Nel racconto di Eliseo, infatti, i pani d’orzo appaiono come “pani di primizia”, vale a dire preparati con il nuovo raccolto d’orzo per servire da offerta liturgica, come gesto di riconoscenza per la liberalità divina (Lv 23,17; cf. Es 23,19). Gesù, quindi, avrebbe operato un prodigio sul pane prodotto dalla terra (Gb 28,5), che è anche un pane rituale. Alle nozze di Cana, l’acqua della fontana serviva alla purificazione dei giudei prima di diventare il vino dell’alleanza donato da Gesù; similmente, il pane con cui Gesù nutre la folla potrebbe essere messo in relazione con la creazione originaria e con la liturgia di Israele.

I piccoli pesci (in greco, opsària) suggeriscono che Gesù ha offerto ai cinquemila uomini un vero e proprio pasto, fatto di pane e companatico (cf. Tb 2,2; Gv 21; 21,9-13); i pesci non appartengono al sovrappiù fatto raccogliere da Gesù ai suoi discepoli e non vengono neppure menzionati quando il “segno” sarà identificato col pane su cui Gesù “aveva reso grazie” (6,23). Gli antichi commentatori della pericope avevano identificato nei cinque pani e nei due pesci i sette sacramenti, ma, con tutta probabilità, l’evangelista intendeva solo sottolineare la pochezza a partire dalla quale Gesù aveva sfamato una folla di cinquemila uomini (“senza contare donne e bambini”, precisa Mt 14,21).

Esaurito il dialogo coi discepoli, Gesù ordina loro di far “sedere” la folla, quasi un invito a farli mettere a tavola. Secondo l’usanza dei pasti in comune, gli uomini si distendono sull’erba, segno evidente che è primavera, ma l’accenno all’erba potrebbe avere anche un altro significato; l’evangelista potrebbe aver presente il riferimento biblico (Is 40,7) all’erba che inaridisce ed alla Parola che rimane in eterno. Gesù non si accontenta di distribuire del cibo ma presiede ad un pasto comunitario, che ha tutte le caratteristiche del banchetto escatologico al quale tutta l’umanità viene invitata (Mt,22,1-14; Lc14,16,24; Pr 9,1-6).


11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero.

Come alle nozze di Cana, il prodigio si compie senza che sia pronunciata alcuna parola di potenza e senza che sia descritto il processo di trasformazione; l’evangelista annota molto sobriamente il risultato del miracolo, rilevando che tutti mangiarono “finché ne vollero”, a sazietà. L’azione di Gesù non differisce dal gesto abituale con cui ogni padre di famiglia israelita soleva porre il cibo dei suoi all’interno del rapporto che unisce l’uomo a Dio: “dopo aver reso grazie”, Gesù provvede personalmente alla distribuzione dei pani e dei pesci. Il rito inaugurale del pasto, espresso dal verbo “rendere grazie” (in greco eukharistéō), evoca al lettore cristiano l’azione eucaristica della Cena. Il gesto dello spezzare il pane, ricordato dai Sinottici, viene qua solo sottinteso dall’azione compiuta da Gesù, che distribuisce personalmente il cibo ai presenti, i quali aderiscono al dono stando “seduti” a mensa. Giuda invece, che nella notte del tradimento respingerà questo dono, si alzerà da mensa ed uscirà nelle tenebre incontro al suo destino di morte (13,30; cf. Mt 22,13).

A differenza di quanto riferito dai Sinottici, nel testo giovanneo non viene precisato che Gesù alzò gli occhi al cielo al momento del rendimento di grazie, come per domandare al Padre il pane miracoloso. Il dono viene fatto da Gesù certamente in comunione col Padre, ma esso esprime e significa l’amore di Gesù stesso per i suoi (13,1) e nel discorso presso la sinagoga di Cafàrnao Egli dirà: “…il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (6,51). La dimensione ecclesiale del dono eucaristico non viene espressa, come nei Sinottici, dalla partecipazione dei discepoli alla distribuzione dei pani e dei pesci, ma viene resa da Giovanni con l’immagine di quella moltitudine di uomini che si radunano per diventare commensali attorno ad un banchetto, di cui Gesù è l’unico donatore (di Se stesso come “pane di vita”).


12 E quando furono saziati, disse ai discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Il numero dei cesti, colmi d’avanzi, evidenzia la portata straordinaria del miracolo ed enfatizza la sazietà di coloro che hanno mangiato il pane, frutto della Parola di Gesù. Non è la folla, ormai sazia, a raccogliere gli avanzi, ma i discepoli su ordine di Gesù il quale, in modo sorprendente ed imprevisto, si preoccupa che nulla vada perduto del dono fatto alla folla. Non si tratta di rispettare una norma giudaica, la quale prescrive di non sprecare il cibo, ma di far comprendere ai discepoli ed alla gente il significato del dono dato in sovrappiù (cf. 2Re 4,43ss). Ad una realtà già completa di per sé, visto che la folla ha mangiato a sazietà, se ne aggiunge un’altra, il sovrappiù, pure essa pienamente completa come suggerisce il numero 12 dei canestri, pieni di avanzi. Grazie alla parola di Gesù, non si tratta solo di rimarcare l’abbondanza del dono, ma di suggerirne il senso.

Vi sono almeno due interpretazioni del segno dei pani:

  1. “…perché nulla vada perduto”: questa sottolineatura, fatta dall’evangelista, rimanda ad una frase del discorso in cui Gesù contrappone due tipi di nutrimento, quello che perisce e quello che dura per la vita eterna e che viene dato dal Figlio dell’Uomo (6,27). Attraverso il segno dei pani Gesù non mira alla sazietà fisica, ma alla vita divina, che Egli è venuto ad offrire. Il sovrappiù, simboleggiato dai 12 cesti contenenti gli avanzi del pane, rimanda all’aspetto incorruttibile del nutrimento donato generosamente ed in sovrabbondanza da Gesù. Egli fa spostare l’attenzione della folla e dei discepoli da ciò che è effimero e transitorio a ciò che è sorgente perenne di vita: l’uomo si preoccupa del benessere materiale ed è ovviamente giusto che si impegni a migliorare la qualità psico-fisica della propria esistenza, ma non basta. Infatti, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; Dt 8,3); l’uomo non può dimenticare il benessere della propria dimensione spirituale, grazie alla quale egli viene inserito nell’eternità al termine della sua esperienza terrena.

  2. La seconda interpretazione si fonda sul tema della manna, sviluppato nel discorso presso la sinagoga di Cafàrnao, ma già implicito nel racconto del miracolo. Il sovrappiù suggerisce e rimarca il contrasto fra il pane donato da Gesù e la manna ricevuta dai padri nel deserto del Sinai. Anche costoro avevano mangiato a sazietà (Es 16,3), ma la manna, raccolta in eccesso rispetto alle esigenze di ciascuno, si corrompeva e deperiva rapidamente; il pane di Gesù, invece, è destinato a durare, a non corrompersi in quanto simbolo dell’Eucaristia o della Parola di Dio, che è parola di rivelazione. Nello stesso capitolo 16 dell’Esodo vi sono due eccezioni al carattere deperibile della manna: il sovrappiù raccolto alla vigilia del sabato dura fino al mattino (16,23) affinché il popolo non violi il precetto del riposo sabbatico; la manna, raccolta in un vaso e conservata nell’arca, non deperisce in segno di testimonianza alle generazioni future che il Signore Dio ha nutrito gratuitamente il suo popolo nel deserto (16,32-34). In questa prospettiva cultuale, Gesù potrebbe aver ordinato di raccogliere gli avanzi quasi a voler sottolineare la dimensione cultuale del suo dono.

Nel dono sovrabbondante fatto da Gesù alla folla si potrebbe, in verità, cogliere anche una dimensione escatologica, desumibile da una tradizione rabbinica (Talmud di Babilonia, Shab. 113b) secondo la quale Rut, antenata di Gesù, dopo la mietitura dell’orzo aveva raccolto una parte della sua spigolatura “per il tempo a venire”: Rut ha mangiato (per questo mondo), si è saziata (per i giorni del Messia) e ne ha avuto in sovrappiù (per il tempo a venire).


14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: “Questi è davvero il Profeta che deve venire nel mondo!”. 15 Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

La gente si rende conto di aver assistito ad un miracolo d’enorme portata e la sua reazione è del tutto comprensibile: un uomo capace di fare così grandi prodigi non può che essere un personaggio straordinario e d’eccezione, come dovrebbe essere il Profeta promesso dallo stesso Mosè (cf. Dt 18,15; At 3,22; 7,37) ed il cui carattere escatologico è messo in risalto dall’inciso “che deve venire nel mondo”. Secondo l’annuncio di Dt 18,15 questa figura di Profeta doveva riallacciarsi a Mosè, come legislatore ed interprete ultimo della Legge, ma al tempo di Gesù la Palestina era percorsa da fremiti d’attesa di un Messia forte ed autorevole, capace di scacciare dal sacro suolo della Terra promessa la blasfema presenza del dominatore romano. Vari personaggi pittoreschi si erano spacciati per messia ed avevano fatto tutti quanti una tragica fine; i romani non andavano tanto per il sottile coi rivoltosi che volevano sottrarsi al loro dominio, ma erano abbastanza tolleranti con coloro che accettavano le loro leggi. Persino un ebreo come Paolo poteva godere dell’ambita cittadinanza romana, purché sapesse stare alle regole del dominatore. L’attesa di un Messia politico era così forte che ogniqualvolta veniva alla ribalta qualche personaggio carismatico, come Giovanni Battista e, in questo caso, come Gesù, era del tutto normale che l’interrogativo serpeggiasse tra la gente: che sia lui il messia?

Il segno dei pani compiuto da Gesù, però, rievoca in qualche modo il miracolo della manna e per questo la folla coglie nel taumaturgo Gesù la missione “profetica”, ma Egli si sottrae all’entusiasmo della folla perché sa d’essere l’oggetto di un tragico equivoco; la gente cerca una guida politica, non un messia religioso. Mentre al momento del suo arresto Gesù si “lascerà condurre” davanti ai suoi giudici per essere condannato a morte (18,12), qui si sottrae all’entusiasmo delirante di una folla che, volendo farlo re, lo distoglierebbe dalla sua missione. Solo attraverso la propria morte in croce Gesù diverrà “pane” per quella moltitudine affamata, senza saperlo, di Verità e di Vita. Per ora, Gesù prende le distanze dalla folla e dal suo ambiguo entusiasmo e “si ritira”, tutto solo, sulla montagna. Davanti alla tentazione del potere (che, secondo i Sinottici, Gesù ha affrontato e superato all’inizio del suo ministero, nel deserto) Gesù compie la sua scelta di obbedienza totale e filiale al volere del Padre. Lassù sul monte Gesù non è realmente solo, perché il Padre è con Lui ed Egli è col Padre in un tutt’uno di amore e di volontà (17,21). Biblicamente la montagna è sempre associata alla presenza divina (Es 24,1.15) e, secondo la prospettiva giovannea, Gesù non è mai solo perché il Padre è sempre con Lui (8,16; 16,32). Stando almeno alla teologia di Giovanni, per Gesù essere “solo” o essere “presso il Padre” è la stessa cosa; sul monte Egli non riceve la gloria dagli uomini ma la riceve direttamente dal Padre, col quale la condivide da prima che il mondo “fosse” (1,1-3.18). Ben presto Gesù manifesterà questa “gloria” ai suoi discepoli, che lo vedranno camminare sulle acque minacciose ed infide (simbolo delle avverse potenze del male) del lago di Galilea.


Gesù cammina sulle acque

(Gv 6,16-21)


Il racconto del cammino di Gesù sulle acque del lago di Galilea sembra interrompere la sequenza narrativa costituita dal “segno” dei pani (6,1-15) e dal discorso sul Pane di vita (6,22-71). In realtà, la pericope 6,16-21 è un racconto di “epifania” di Dio (o teofania) che ben s’inserisce tra il racconto del prodigio della moltiplicazione dei pani e la successiva spiegazione del significato del prodigio stesso: in Gesù è Dio che agisce (miracolo dei pani) e che si rivela come pane che dà la vita eterna (discorso di auto-rivelazione nella sinagoga di Cafàrnao).

Gesù si è ritirato “sul monte, tutto solo”, mentre i discepoli si trovano in mezzo al lago, anch’essi in piena solitudine e privi di guida in un ambiente a loro ostile. La separazione tra il Maestro ed i suoi discepoli è temporanea ed apparente; a differenza della tradizione sinottica, che riferisce l’episodio in questione in un’ottica di salvataggio dei discepoli, in difficoltà in mezzo alle acque agitate del lago, Giovanni interpreta l’accaduto come una sottolineatura del mistero presente in Cristo e significato da un evento straordinario. Il racconto di Giovanni rifletterebbe, secondo alcuni studiosi, l’esperienza della sua comunità cristiana, che è in difficoltà a causa delle persecuzioni e delle prime eresie ma che riesce, tuttavia, ad affermare la propria fede nella presenza rassicurante e reale di Cristo all’interno della propria realtà sociale e religiosa.

Ciò non significa che questo racconto sia frutto di un’invenzione pura e semplice, anche se destinata ad una precisa finalità teologica e cristologica, ma solo che un fatto realmente accaduto e testimoniato in maniera assolutamente attendibile da uomini abituati alla concretezza della dura vita di pescatori, quali sono la maggior parte dei discepoli, è stato interpretato dall’evangelista in chiave catechetica a vantaggio della fede della propria comunità.

Va detto, per inciso, che alcuni critici hanno tentato di eliminare l’aspetto “miracoloso” di quanto accadde sul lago di Galilea basandosi sull’espressione greca “epì tēs thalàssēs” (6,19); secondo questi autori, Gesù non ha camminato “sul mare”, ma “sulla spiaggia del mare”, senso che il testo greco potrebbe assumere. In verità, costoro applicano al testo giovanneo una problematica che è estranea alla sua reale prospettiva: infatti, il racconto di Giovanni narra un evento che mostra il superamento del limite invalicabile della natura, non tanto per suscitare meraviglia nel lettore ma per orientarlo verso il “mistero” di Gesù, l’Uomo-Dio in grado di dominare le forze malvagie che minacciano continuamente la vita umana e che sono simboleggiate dai fenomeni naturali, sui quali l’uomo non è in grado di esercitare il proprio controllo.


16 Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare 17 e, saliti in una barca, si avviarono verso l’altra riva in direzione di Cafàrnao. Era buio e Gesù non era ancora venuto da loro. 18 Il mare era agitato perché soffiava un forte vento. 19 Dopo aver remato circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. 20 Ma egli disse loro: “Sono io, non temete”. 21 Allora vollero prenderlo sulla barca e rapidamente la barca toccò la riva alla quale erano diretti.

Rispetto al racconto dei Sinottici, il testo di Giovanni presenta alcune differenze piuttosto evidenti. I discepoli non vengono obbligati da Gesù a precederlo sull’altra riva (cf. invece Mc 6, 45; Mt 14,22); il lago è spazzato da un forte vento contrario, ma non è in tempesta (cf. Mt 14,24); Giovanni non accenna al particolare dei discepoli che scambiano Gesù per un fantasma (cf. Mt 14,26; Mc 6,49) e non rileva l’improvvisa calma degli elementi della natura (vento forte, acque agitate) dopo che Gesù è salito sulla barca (cf. Mt 14,32; Mc 6,51); il prodigio del cammino di Gesù sulle acque del mare non conduce ad un’aperta professione di fede dei discepoli in Lui (cf. invece Mt 14,33) ed è propria di Giovanni l’annotazione che la barca tocca rapidamente la riva, senza specificare se Gesù vi sia salito sopra.

Venuta la sera” i discepoli sono soli, separati da Gesù che si trova in alto, “sulla montagna”, in compagnia del Padre. Loro invece sono in basso, “sull’acqua” e nella “oscurità” della notte. Già da questi particolari narrativi, carichi di simbolismo, si può percepire il senso di solitudine provato dai discepoli i quali, senza il loro Maestro, sono come spauriti e brancolanti nelle tenebre del dubbio e dell’incertezza. Lasciati a se stessi, i discepoli vivono in ansiosa attesa di Colui che li ha apparentemente abbandonati alle prese con le tenebre (skotìa) della notte. È forte il richiamo alle “tenebre” del Prologo (1,5) che sono incapaci di soffocare la Luce di Cristo, ma pur sempre in grado di soffocare quegli uomini (12,35) che non vogliono seguire Cristo e credere in Lui (8,12; 12,46). Prima di ritrovare la Luce e la sicurezza, i discepoli devono faticare, remando per almeno cinque o sei km su un lago sferzato da un forte vento contrario, fenomeno frequente sul lago di Galilea. Nel racconto di Giovanni la situazione notturna dei discepoli rievoca il senso di solitudine della comunità dopo la morte di Gesù e non tanto la situazione di pericolo vissuta dalla Chiesa nel corso dei secoli, come adombrato dai testi sinottici paralleli. La burrasca, non esplicitamente nominata da Giovanni ma sottintesa dal “forte vento”, sottolinea il carattere temibile che il “mare” ha sempre avuto nella cultura del popolo ebraico, poco incline alla navigazione in mare aperto. Anche se il Creatore ha fissato dei limiti invalicabili alle minacciose acque del mare (Gen 1,9-10), che è abitato da mostri terrificanti come il Leviatàn (Gb 3,8; 40,25), nel linguaggio biblico il mare rimane il dominio ed il simbolo delle potenze malvagie sulle quali solo Dio è in grado di trionfare. Sintesi di tutte le forze del male è la morte e l’Abisso, che raccoglie tutte le acque del mare, confina proprio con lo sheòl, il regno dei morti (Gn 2,6ss; Mc 5,13; Ap 20,13; 21,1). Per far riuscire il suo progetto di salvezza, Dio trionfa sul mare, sia al tempo della creazione (Is 51,9ss), sia nella liberazione del popolo eletto (Es 14,14-15) che nel combattimento escatologico (Dn 7,2-7); numerosi testi celebrano la potenza di YHWH che si rivela nel dominio delle grandi acque (Sal 29,3; 65,8; 89,10; 93,3ss).

L’Antico Testamento ignora analoghi episodi di uomini in grado di camminare sulle acque del mare, ma di YHWH si dice che “Lui solo ha calcato le profondità del mare” (Gb 9,8) e che nel mare “ha tracciato” le sue “orme” (Sal 77,20; Is 51,10). Come YHWH, così anche Gesù viene camminando sulle acque e non tanto perché ha visto i discepoli in affanno, dal momento che stanno remando contro vento con scarsi risultati, quanto piuttosto per manifestare la propria condizione sovrumana. Vedendolo avanzare sull’acqua, i discepoli “hanno paura” e non perché credono di vedere un fantasma (Mc 6,49; Mt 14,26), ma perché si rendono conto di trovarsi di fronte ad un’apparizione numinosa, come nelle teofanie bibliche.

Il timore dei discepoli viene subito fugato da Gesù con una dichiarazione tanto familiare quanto ricca di implicazioni teologiche: “SONO IO”. Fa seguito un invito perentorio e rassicurante a non aver paura.

Sono io”. Stando al contesto, quest’affermazione non sembra una proclamazione assoluta di divinità da parte di Gesù, anche se il testo greco, egò eimi, potrebbe far pensare il contrario, visto e considerato che la traduzione letterale dell’espressione greca suona come un solenne IO SONO, che inevitabilmente fa pensare alla rivelazione del nome divino di Es 3,14, ripresa integralmente da Gv 8,58. Certo è che la reazione dei discepoli ci autorizza a ritenere che Gesù abbia inteso farsi riconoscere semplicemente come il Maestro familiare e capace di rassicurare i fedeli amici con la sola sua presenza. Essi, infatti, dopo averlo riconosciuto, si dispongono ad accoglierlo “nella barca” senza manifestare alcuna professione di fede, come avviene invece in Mt 14,33. Fatta questa doverosa precisazione critico-esegetica, appare comunque alquanto evidente l’intenzione dell’evangelista di presentare la venuta di Gesù, che cammina sull’acqua, come una manifestazione o epifania della sua divinità e di assegnare all’espressione “sono io” un chiaro significato di auto-rivelazione della propria identità divina.

Vollero prenderlo sulla barca”. La decisione dei discepoli di accogliere Gesù “sulla barca” assume il significato di una vera e propria opzione di fede, espressa tacitamente, senza enfasi. L’evangelista non specifica nemmeno se Gesù sia effettivamente salito sulla barca o meno e si limita ad osservare che, quasi per effetto della “accoglienza” di Gesù da parte dei discepoli, la barca tocca la riva “rapidamente”. Il testo precisa che i discepoli si trovavano proprio nel bel mezzo del lago (avevano remato per circa 5 o 6 km ed in quel punto il lago è largo circa 12 km) allorquando si sono trovati in difficoltà ed hanno visto Gesù venire verso di loro camminando sull’acqua. Il fatto che la barca attracchi a riva in un baleno è da intendersi come “un prodigio nel prodigio” (che nei Sinottici corrisponde all’immediata cessazione del vento non appena Gesù mette piede sulla barca; cf. Mt 14,32; Mc 6,51), verificatosi in virtù della potenza divina di Gesù, senza che questi tocchi la barca. Nel suo commento esegetico a questa pericope, s. Giovanni Crisostomo mostrò particolare attenzione al particolare del rapido approdo della barca a riva, che a suo avviso “…ha reso il miracolo (del cammino sul mare) ancora più grande” (Homilia in Joannem, 43,1; cf. PG 59,246).

Si può trarre una conclusione dall’episodio narrato, seppure con sfumature diverse, da Giovanni e dai Sinottici: l’acqua del mare (così veniva chiamato il lago di Genesaret o di Tiberiade), sconvolto dal vento, simboleggia il male e le situazioni pericolose ed avverse della vita, specie quelle di natura spirituale, mentre la terraferma rappresenta la sicurezza. Nel momento in cui i discepoli manifestano la loro fede in Gesù (accogliendolo sulla loro barca), immediatamente passano dal dominio della morte al dominio della vita e vengono “guidati al porto sospirato” (Sal 107,30). Senza Gesù, l’uomo rimane in balia delle proprie passioni e delle tentazioni che gli vengono dal maligno; quando si lascia travolgere della malvagità, che si annida nel suo cuore come conseguenza della colpa originale, l’uomo rischia di affondare nell’abisso del proprio orgoglio e del proprio egoismo, distruggendo l’immagine di Dio che porta dentro di sé e, con essa, anche la propria identità e dignità umana. La salvezza proviene da Cristo, davanti al quale “ogni ginocchio si piega nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10) ed al quale sono sottomesse anche le forze del male, che non potranno mai prevalere sul progetto di vita voluto da Dio per l’intero genere umano. Spetta all’uomo la scelta libera e responsabile di “accogliere” nella propria vita l’amore salvifico e redentore di Cristo Signore.