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LA FISICA E LA RICERCA DI DIO

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    00 01/11/2022 08:41
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    Tra Principio Antropico e Dio,
    le visioni “sintonizzate” di Aczel e Penrose

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    È possibile riportare scienza e fede nei loro rispettivi ambiti e porre fine alla confusione disseminata da coloro che mirano a distruggere la fede nel nome della scienza? (pur non privilegiando un punto di vista di una qualsiasi tradizione di fede, né cercando di difendere le nostre, così spesso imperfette, istituzioni religiose). Ed ancora: è possibile affermare che la scienza dei nostri tempi non abbia affatto confutato l’esistenza di Dio?

    Queste le domande fondamentali che si pose uno dei più grandi divulgatori scientifici di sempre – Amir D. Aczel – nel libro “Perchè la scienza non nega Dio“, pubblicato nel 2015 da Raffaello Cortina Editore.

    L’idea base del saggio è che, per quanti sforzi si siano fatti, le argomentazioni di tipo scientifico non siano riuscite fino ad oggi a dimostrare che Dio non esiste, a cominciare dalla teoria darwiniana dell’evoluzione.
    Tutto cominciò – spiega Aczel – da una domanda posta a Richard Dawkins durante una conferenza in Messico presso “La Ciudad de las Ideas”. Incuriosito da una frase di Dawkins, il quale affermò che la scienza è in grado di dimostrare che Dio non esiste, Aczel gli chiese: “Come puoi dire con certezza che Dio non esiste, senza avere prove? Non va contro il metodo scientifico? La risposta fu sbrigativa: “Beh, potresti anche credere negli unicorni” e se ne andò. Il libro – spiega Aczel – è stato scritto anche come risposta e come difesa del metodo scientifico generale. Con o senza Dio la scienza viene spesso trascinata e usata come prova, un malinteso quindi dell’applicazione dell’approccio scientifico stesso.

    Nel saggio l’autore presenta in maniera chiara e quasi solenne le più avanzate teorie fisiche come la meccanica quantistica e la relatività.
    Aczel, scomparso in Francia recentemente, si districa abilmente in labirinti concettuali come la teoria delle catastrofi, il caos, il nulla e l’infinito, il multiverso ma soprattutto il Principio Antropico. Proprio riguardo questo argomento l’autore coinvolge il lettore in serrate riflessioni prendendo come spunto gli studi di grandi menti della fisica, una su tutte quella di Roger Penrose: a mio avviso la parte migliore del saggio.

    Il principio antropico – racconta Aczel – afferma che l’universo è fatto così com’è perché, se fosse differente, noi esseri umani non saremmo qui. Il principio antropico è stato uno dei più importanti strumenti nelle mani degli atei nella loro battaglia contro il concetto di un mondo creato da un Dio. L’universo che vediamo intorno a noi è caratterizzato da costanti sintonizzate in modo estremamente preciso; stiamo parlando di valori come la massa dell’elettrone e l’intensità della forza di gravità, da cui dipende l’esistenza del nostro mondo. Tutto ciò ha indotto alcuni a ritenere che se noi siamo qui, allora il mondo non può essere che così com’è. Dobbiamo vivere nell’unico universo ospitale per noi, perciò, entro un multiverso infinito, noi ci ritroviamo in quell’universo nel quale possiamo esistere. Il principio antropico, più l’esistenza di una congeria infinita di universi viene visto da alcuni come un buon sostituto di un Dio che avrebbe fatto di proposito le costanti della natura in maniera tale che noi potessimo vivere.

    Amir D. Aczel (1950-2015), matematico e storico della scienza, ha scritto numerose opere di divulgazione scientifica.

    Quando la scienza ha fatto irruzione in nuovi campi, sono emerse stranezze come quelle di cui tratta la teoria quantistica – spiega l’autore – introducendo gradualmente il pensiero di Penrose. Roger Penrose – sottolinea Aczel – ha trascorso una vita a cercare di capire i meccanismi dell’universo. Ed è giunto ad una conclusione stupefacente: se l’entropia dello spazio fosse stata leggermente diversa da quella che è in realtà, anche per una minuscola frazione, l’universo non esisterebbe. Quindi l’universo deve essere stato “sintonizzato” a un livello di finezza che possiamo difficilmente concepire. Scrive Penrose: “Si può far ricorso al principio antropico per spiegare la natura molto speciale del Big Bang? Questo principio può essere incorporato come parte del quadro inflazionario, in modo che uno stato inizialmente caotico possa nonostante ciò condurre a un universo come quello in cui viviamo, in cui signoreggia la seconda legge della termodinamica”?.

    La seconda legge della termodinamica afferma che l’entropia di un sistema isolato aumenta con il passare del tempo. Il modello di Penrose di un universo che consenta alla vita umana di scaturire presenta determinati requisiti, come il mantenimento della seconda legge e le condizioni di equilibrio delle temperature e di altre variabili che sono con essa coerenti.
    Abbiamo davvero bisogno dell’intero universo osservabile affinchè si abbia vita senziente?” – si chiede Aczel. Stando alla risposta di Penrose solo una parte minima dell’universo sarebbe costretta ad avere condizioni favorevoli per sostenere la vita e l’intelligenza.

    Una bella idea ha molte più probabilità di essere giusta di una brutta idea

    Penrose traccia un ritratto di un ipotetico “Creatore” che addita un punto infinitesimamente piccolo entro un universo, allo scopo di creare l’universo che abbiamo in realtà. Tutt’altro che religioso, Penrose nondimeno comprende che soltanto qualcosa di simile a un miracolo avrebbe potuto creare il nostro mondo con l’esatta quantità di entropia richiesta per la sua esistenza. Cercando ragioni alternative per questa straordinaria “coincidenza” cosmica dalla probabilità terribilmente piccola.

    fonte: www.fisicapop.it/2020/09/16/tra-principio-antropico-e-dio-le-visioni-sintonizzate-di-aczel-e-...


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    00 12/01/2023 19:54

    Il “grande disegno” di Hawking:
    quando il cosmologo perde il contatto con il mondo

    Nel suo ultimo libro, “Il grande disegno” (Mondadori, pag.192, euro 20)scritto insieme a Leonard Mlodinowil prof. Stephen Hawking afferma che Dio non è necessario per creare l’Universo, perché “le leggi della fisica lo possono fare da sole”. E la filosofia, che nacque dalla curiosità di rispondere alle domande sull’origine del mondo e sul posto dell’uomo in questa terra, “è morta, perché non ha tenuto il passo delle scienze, in particolare della fisica”. Il laicismo militante di tutto il mondo applaude, nel silenzio assordante di quei professori di filosofia delle accademie (per l’accesso alle quali non c’è più l’obbligo platonico di conoscere la geometria), i quali dopo essersi trasformati in cantori dell’onnipotenza della tecnica, sono ora scaricati nel cestino della storia.

    Hawking asserisce che “come recenti progressi della cosmologia dimostrano, le leggi della gravità e della meccanica quantistica ammettono la possibilità che molti universi appaiano spontaneamente dal nulla. L’auto-creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa piuttosto che niente, perché l’Universo esiste, perché noi esistiamo. Non è necessario scomodare Dio”. Vedremo più avanti in che cosa consistano questi “recenti progressi della cosmologia”. Osserviamo intanto che il “nulla” di Hawking, da cui sarebbe apparso spontaneamente l’Universo, non è il niente, ma una varietà di mondo platonico in cui da tutta l’eternità sono scolpite alcune equazioni matematiche: “le leggi della gravità e della meccanica quantistica”. Un mondo platonico che vive ab aeterno, perché per le leggi della relatività generale il tempo appartiene all’Universo e, come si sa, anche il tempo apparve insieme allo spazio, alla materia e all’energia, in coincidenza con la nascita spontanea di quello. In questa visione, però, il problema dell’origine è da Hawking solo spostato dalla macchina dell’Universo al suo progetto, e noi ci chiediamo: qual è l’origine delle “leggi della fisica che hanno fatto da sole” l’Universo? Ancora, ci chiediamo: può un’equazione matematica “fare da sola” qualcosa?

    Nel Timeo, Platone racconta del demiurgo che, ispirandosi a leggi matematiche preesistenti, plasma la materia informe e forgia l’Universo ordinato (il cosmo). Ma questa teoria – in cui la matematica prescrive alla fisica come comportarsi – è una metafora poetica. La scienza moderna nacque quando Galileo, invertendo i ruoli tra matematica e fisica, mise come punto di partenza per l’indagine scientifica i fenomeni fisici osservati ed assegnò alla matematica il compito di descriverli, entro leggi e teorie che sarebbero state poi, di volta in volta, verificate o falsificate dalla sperimentazione delle loro predizioni. Nella visione scientifica moderna, nessuna equazione matematica può creare una sola particella! Avere il progetto, anche il più dettagliato, di un prodotto, non significa averne garantita la produzione, se mancano l’apparato costruttivo e le materie prime. Tale evidenza era stata ricordata alcuni anni fa proprio da Hawking (e senza per la verità che da allora sia intervenuto alcun “progresso” specifico della cosmologia) con la famosa frase che chiudeva un altro suo libro: “Che cosa ha spirato il fuoco nelle equazioni della fisica e ha dato loro un Universo da descrivere?”. Il cosmologo dei buchi neri dovrebbe rimeditare sul problema che egli stesso s’era posto: la differenza tra descrizioni matematiche e prescrizioni fattuali. Le prime ci dicono quali relazioni quantitative esistono tra fenomeni osservabili, le seconde perché sono stati effettivamente osservati i fenomeni descrivibili dalle prime. Così l’equazione di Pitagora a2 = b2 + c2 descrive la relazione intercorrente tra i tre lati di un triangolo rettangolo, ma non prescrive che oggi nel mio ufficio ci sia un tavolo a forma di triangolo rettangolo con i lati di 50, 120 e 130 cm. Se questo tavolo sia o meno fattualmente presente dipende da una prescrizione (una mia personale decisione) che non ha nulla di scientifico. Nel Timeo Platone era comunque cosciente dell’insufficienza della matematica, tanto da sentire il bisogno di prevedere per la creazione del cosmo anche la preesistenza di una materia informe e di un artigiano che la lavorasse. Hawking e Mlodinow, invece, sembrano trarre il loro discorrere da un’epoca pre-filosofica e pre-scientifica, quella delle magie in cui una formula pronunciata dallo stregone aveva la potenza di produrre un accadimento.

    Parmenide, il “maestro venerando e terribile” della filosofia greca, ammoniva i pensatori a maneggiare con estrema delicatezza il termine “nulla”. I neo filosofi Hawking e Mlodinow, però, non ne seguono il consiglio, perché, in un’altra pagina del loro libro, tornano a giocare in maniera allegra con questo termine, stavolta confondendolo col vuoto fisico. Il “nulla è instabile” – scrivono – e può così oscillare tra il non essere e l’essere e produrre casualmente l’Universo. Ma il “nulla” è ni-ente, non essere: niente materia, niente antimateria, niente energia, assenza di struttura spazio-temporale; in quanto tale, non ha senso assegnare al nulla alcun attributo, in particolare l’instabilità fisica, che richiederebbe all’oggetto di avere relazioni quantistiche con se stesso. Il vuoto fisico, invece, ovvero quello stato fisico di campo quantistico, presente nello spazio-tempo, in cui l’assenza di particelle materiali si accompagna all’autovalore minimo dello spettro energetico, è fisicamente instabile, nel senso che può dare luogo (a prezzo della sua energia) alla creazione di nuove particelle e antiparticelle. Vuoto fisico e zero/nulla sono in fisica due concetti tanto diversi da richiedere l’uso di due simboli distinti per rappresentarne i vettori di stato. E le diverse proprietà matematiche dei due vettori rispecchiano la distinzione fisica dei due stati.

    Veniamo ora alle ricerche cosmologiche più recenti. Secondo la teoria standard del Big Bang, l’Universo nacque 13.7 miliardi di anni fa da una singolarità. Certo, un evento di questo tipo – piuttosto che un universo che esiste da sempre – richiama la Genesi biblica e pone un serio problema agli scienziati antireligiosi. Un problema aggravato dall’osservazione dell’incredibile, a priori estremamente improbabile, sintonia di una ventina di costanti cosmologiche con le condizioni esattamente necessarie per l’emergenza della vita in almeno un pianeta: se anche uno solo di questi numeri – che essenzialmente stabiliscono i rapporti tra le diverse forze attrattive e repulsive che regolano il gioco della fisica, della chimica e della biologia – fosse minimamente diverso da quello che è, l’Universo sarebbe un singolo buco nero, oppure una collezione di buchi neri, o una polvere di particelle non interagenti, o sarebbe costituito di solo elio, o non si sarebbe sintetizzato il carbonio, e così via. In tutti i casi non ci sarebbero le condizioni per la nascita e la sopravvivenza della vita, né tanto meno dell’intelligenza umana.

    “I recenti progressi della cosmologia” richiamati da Hawking, che hanno occupato la ricerca teorica degli ultimi quarant’anni, hanno scandito i tentativi di risolvere le questioni della singolarità del Big Bang e della sintonia antropica delle costanti lungo due filoni speculativi: la teoria degli infiniti universi (il multiverso) e la teoria delle stringhe. Vediamone i risultati. Per quanto riguarda il superamento dell’unicità del Big Bang, ogni teoria orientaleggiante di scenari pre-Big Bang, ovvero di infiniti eoni in cui ad ogni ciclo di espansione succede un ciclo di contrazione in un’eterna fisarmonica di universi che nascono e muoiono, si scontra finora con il teorema di Borde, Guth e Vilenkin (2003), il quale sancisce, sotto condizioni molto estese, che ogni successione di universi di questo tipo deve avere comunque un inizio e non può allungarsi indietro nel tempo all’infinito. Ascoltiamo Vilenkin: “Si dice che un’argomentazione basta a convincere un uomo ragionevole, mentre una prova serve a convincere anche un uomo irragionevole. Con questo teorema, i cosmologi non possono più nascondersi dietro la possibilità di un universo eterno nel passato. Non c’è via di scampo, essi devono guardare in faccia il problema di un inizio cosmico”. Ancor più fallimentare si presenta la situazione della teoria delle stringhe (e della sua estensione, la teoria M) volta a spiegare la sintonia antropica delle costanti cosmologiche: tutte le proposte finiscono col poggiarsi su ipotesi matematiche ad hoc che contengono più assunzioni – campi scalari, proprietà topologiche, parametri appositi, ecc. – di quante questioni intendano risolvere. Per giunta, l’evidenza sperimentale di queste teorie è del tutto assente. Nel marzo scorso, ad un congresso scientifico a New York, il prof. Brian Greene, fisico alla Columbia University e uno dei massimi esperti di queste teorie, iniziò il suo intervento dicendo: “Non chiedetemi se credo alla teoria delle stringhe. La mia risposta sarebbe quella di 10 anni fa: no. E questo perché io credo solo a teorie che possono fare predizioni controllabili”.  L’ultima invenzione della teoria delle stringhe sta nel congiungere questi sport matematici estremi per affermare che viviamo in un megaverso di (10 elevato a 500?!) universi-bolla disgiunti, ognuno con differenti leggi e costanti: nel megaverso il numero degli universi è predeterminato al fine di far crescere un po’ la probabilità della presenza di almeno una bolla antropica come il nostro Universo, ma ciò avviene al prezzo di abbandonare la prima legge della razionalità scientifica, la parsimonia del rasoio di Occam. Dall’evidenza fisica dell’inizio assoluto di ogni universo (o multiverso) consegue logicamente che il nostro Universo è contingente. Qui finisce la fisica e comincia, se si vuole continuare a pensare, la metafisica.

    Ebbe a dire il premio Nobel per la Fisica Arno Penzias, scopritore della radiazione cosmica di fondo: “L’astronomia ci conduce ad un evento unico, un universo creato dal nulla e finemente progettato per fornire le esatte condizioni necessarie a supportare la vita. Si può dire che le osservazioni della scienza moderna appaiono suggerire l’esistenza di un sottostante piano soprannaturale”. È la logica, prof. Hawking! L’unica comprensione possibile di un Universo, che – secondo le attuali conoscenze dell’astronomia – ha l’evidenza fisica di avere avuto inizio col tempo e di essere antropico, è di far dipendere il mondo fisico dello spazio, del tempo, della materia e dell’energia da un’agenzia non fisica che trascende lo spazio, il tempo, la materia e l’energia. Questa agenzia trascendente non può essere una gazzetta platonica di leggi matematiche, perché ha esibito la capacità di agire sul mondo fisico creandolo, mentre le formule matematiche sono entità causalmente inerti che non lo toccano. Solo un’agenzia trascendente di questo tipo può “spirare il fuoco nelle equazioni della fisica e dare loro un universo da descrivere.”  Hawking parla di morte della filosofia, ma pensa piuttosto, con la teoria M, alla cosiddetta Teoria del Tutto che, presa alla lettera, coinciderebbe con la fine della fisica galileiana, sostituita da una metafisica matematizzata ed ipertrofica. È più probabile però che nuove e più accurate osservazioni sperimentali (come quelle in corso al Cern di Ginevra, che stanno già fornendo risultati del tutto inattesi) portino gli scienziati a sempre nuove teorie; e che queste, a loro volta, se non saranno esercizi matematici sterili ma capaci di predittività falsificabili, portino a nuove domande.

    Giorgio Masiero  Fonte UCCR


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