00 20/03/2021 19:14
continuazione dal post precedente.


Le riflessioni della scienza contemporanea sul significato delle leggi naturali
Il dibattito sullo statuto delle leggi naturali è stato mantenuto, negli ultimi decenni, da autori direttamente impegnati nella ricerca scientifica. Gli scienziati vedono con una certa sorpresa la stabilità e la reciproca connessione delle leggi, si interrogano sul perché della loro intelligibilità e del successo riportato nell'esprimerle in forma matematica, cercano significati profondi circa i valori delle costanti di natura. Fra i motivi di questo interesse vi è l'odierna formulazione, in termini piuttosto soddisfacenti, di un quadro evolutivo globale e coerente, capace di legare la fisica del microcosmo con quella del macrocosmo. «Il concetto di legge di natura — afferma Paul Davies — è così ben stabilito nella scienza che fino a non molto tempo fa solo pochi scienziati si soffermavano a riflettere sulla natura e sull'origine di queste leggi; si accontentavano di accettarle come “date”. Ora che fisici e cosmologi hanno compiuto rapidi progressi verso la scoperta di quelle che considerano le “leggi ultime” dell'universo, riemergono molti vecchi interrogativi. Perché le leggi hanno la forma che hanno? Avrebbero potuto essere diverse? Da dove hanno origine? Esistono indipendentemente dall'universo fisico?» (Davies, 1993, p. 81).

1. Che natura hanno le leggi di natura? Una certa irriducibilità delle leggi di natura al genere dei princìpi, e quindi la rivendicazione di un loro statuto epistemologico proprio, era stata già avanzata da Henri Poincaré (1854-1912), sebbene con una visione ancora in parte convenzionalista. Ma saranno Clerk Maxwell (1831-1879), Max Planck ed Albert Einstein (1879-1955) ad offrire una visione decisamente realista delle leggi naturali, insistendo sulla necessaria fiducia verso il «principio di legalità» come presupposto di ogni sapere scientifico. «Nella fiducia che il mondo reale sia governato da leggi — notava il padre della teoria dei quanti — il fisico si forma un sistema di concetti e di princìpi, la cosiddetta immagine fisica del mondo, che egli correda come meglio può e sa, in modo che, collocata al posto del mondo reale, essa gli mandi possibilmente i medesimi messaggi che questo gli invierebbe» (Planck, 1993, p. 246). La corretta conoscenza di questa “immagine del mondo” richiede per Einstein l'inseparabilità fra approccio induttivo e deduttivo: «La missione più alta del fisico è dunque la ricerca di queste leggi elementari, le più generali, dalle quali si parte per raggiungere, attraverso semplici deduzioni, l'immagine del mondo. Nessun cammino logico conduce a queste leggi elementari: l'intuizione sola, fondata sull'esperienza, ci può condurre ad esse» (Come io vedo il mondo, Roma 1993, p. 35). Dal punto di vista della logica, esse sono «libere creazioni dell'intelletto umano che non si possono giustificare a priori», ma dal punto di vista dell'esperienza, le nostre intuizioni risultano da questa normate: la nostra libera creatività è limitata dalla “libertà” della natura.

A questi autori potrebbero oggi affiancarsene altri come Carl von Weizsäcker, Richard Feynman, Paul Davies o John Barrow, tutti interessati a sottolineare, sebbene secondo prospettive non sempre coincidenti, il carattere “dato”, oggettivo, ed in certo modo fondante, delle leggi di natura, di cui si può comprendere sensatamente l'azione solo concependole su scala cosmica, cioè in un quadro di validità universale. Nella sua Introduzione alle Lezioni di Elettrodinamica Quantistica, Feynman segnalava ai suoi studenti che «un motivo per cui potreste pensare di non comprendere quello che racconterò è che, mentre descriverò “come” funziona la Natura, voi non capirete “perché” funziona così. Ma questo, vedete, non lo capisce nessuno. Io non vi posso spiegare perché la Natura si comporta in questo modo particolare» (QED. The Strange Theory of Light and Matter, Princeton 1985, p. 10). Buona parte degli scienziati, consapevoli del carattere rivedibile ed impreciso delle leggi che utilizzano, sono portati, come Feynman, a sottolineare la loro capacità “descrittiva” piuttosto che “esplicativa”, il loro legame preferenziale con la categoria della “relazione” e non con quella della “essenza”, quasi a segnalare che il «principio di legalità o di regolarità» sembri appartenere di più alla natura di quanto non appartenga alle sue leggi. La natura si manifesta infatti continuamente con i caratteri della novità e dell'imprevedibilità, ma secondo modalità che non rimandano né al caos né all'indeterminismo, bensì a nuovi e più generali livelli di comprensione e di legalità.

Difendendo il loro status epistemologico oggettivo, per Paul Davies «è importante comprendere che queste regolarità della natura sono reali. Talvolta si sostiene che le leggi naturali, che sono tentativi di cogliere in modo sistematico queste regolarità, sono imposte al mondo dalla nostra mente, allo scopo di dargli un senso. È senza dubbio vero che la mente umana ha la tendenza a individuare gli schemi, e persino a immaginarseli dove non ce n'è. I nostri antenati vedevano animali e divinità fra le stelle e inventarono le costellazioni. E noi tutti cerchiamo di vedere facce nelle nuvole, nelle rocce e nel fuoco. Tuttavia, ritengo assurdo suggerire che le leggi naturali costituiscano analoghe proiezioni della mente umana. L'esistenza di regolarità nella natura è un fatto matematico oggettivo. D'altro canto, gli enunciati che vengono chiamati leggi e che sono contenuti nei libri di testo sono chiaramente invenzioni umane, ma invenzioni destinate a riflettere, anche se in maniera imperfetta, proprietà effettivamente esistenti nella natura. Senza questo assunto che le regolarità sono reali, la scienza si riduce ad una sciarada senza senso» (Davies, 1993, pp. 91-92). Fra le ragioni fornite in appoggio a questa prospettiva si cita il fatto che la predicibilità delle leggi ha una capacità esplicativa che va al di là del fenomeno originariamente studiato, consentendo spesso di interpretare con successo anche altre fenomenologie; dalle leggi proposte si possono poi dedurre conseguenze controllabili in nuovi contesti, che conducono a nuove scoperte, con le quali non ci si aspettava a priori alcun collegamento.

Come è noto, la problematicità di una visione realista delle leggi di natura (di cui ricordiamo la differenza da una visione “determinista”) è stata richiamata nell'ambito della meccanica quantistica. Va però ricordato che accanto ad interpretazioni tendenzialmente idealiste (interpretazione di Copenhagen, principalmente con Bohr e Heisenberg), non ne sono mancate altre maggiormente realiste, dovute ad autori come David Bohm, John Bell, Richard Feynman e, più recentemente, John Cramer (per una visione di insieme, cfr. J. Gribbin, Schrödinger's Kittens and the Search for Reality, Boston-New York 1995). Come sobriamente riepilogato da Polkinghorne (1988), nella fisica quantistica «ci imbattiamo con un'immagine del mondo che non è né meccanicistica, né caotica, che possiede allo stesso tempo i caratteri dell'apertura e dell'ordine» (p. 341).

2. L'intelligibilità delle leggi di natura e la ricerca di una loro unificazione. Il dibattito interno alla scienza sulle leggi di natura viene spesso associato all'interrogativo sulla loro “intelligibilità”: ci si chiede perché sono esprimibili con un formalismo matematico relativamente semplice, e non di rado elegante, e per qual motivo debba esistere una corrispondenza fra il nostro intelletto e la logica con cui la natura pare comportarsi. Tale sintonia è insieme una fede (accettazione dell'induzione) ed una constatazione (predicibilità della deduzione). In prospettiva filosofica, i canoni del dibattito riproducono quello, prima evidenziato, fra visione realista ed idealista delle leggi naturali. In prospettiva religioso-teologica, il possibile Legislatore assume qui le vesti di un Architetto progettista. Non mancheranno, nei testi di divulgazione scientifica, concetti come «codice cosmico» o «progetto cosmico» (cosmic blueprint). Accanto alle conseguenze dell'intelligibilità del reale fisico sul piano della religiosità naturale e sul piano della teologia del Logos cristiano, già affrontate in altre voci di questo Dizionario, riassumeremo qui alcune motivazioni che ne rendono significativo l’interrogativo anche sul piano delle scienze.

La questione non può essere rivolta direttamente alle leggi perché, di tale intelligibilità, esse sono appunto una concrezione intenzionale, voluta allo scopo di rendere comprensibile e predicibile il comportamento del reale. Essa va piuttosto rivolta alla matematica e al nostro intelletto. Molte delle proprietà matematiche osservate in natura sono meno ovvie di quanto sembri. Non poche leggi sarebbero potute essere tutt'altro che semplici, simmetriche, dotate di integrali convergenti, facilmente approssimabili con modelli ideali. Molte fenomenologie a simmetria radiale o sferica sono descritte da equazioni le cui variabili hanno per esponenti dei “semplici” numeri naturali, lasciando quasi confluire tutta la “problematicità” della rappresentazione matematica nel valore “trascendente” (cioè transfinito) di p. Cosa accadrebbe se tali esponenti fossero dei complicati numeri razionali o perfino irrazionali?

Se la matematica è in buona misura una proiezione della mente umana sul reale fisico, quest'ultimo ha però la singolare proprietà di permettere che una simile proiezione “funzioni”, mostrandosi adatto ad ospitare una rete di relazioni logico-matematiche che consentono di interpretare e predire molti fenomeni. Il legame fra matematica e natura pare spingersi ben più in profondità di quanto possa suggerire la semplice costruzione di tutto il corpo dei numeri reali a partire dall'insieme dei numeri naturali. «Ciò che ci dovremmo aspettare, a priori — affermava ancora Einstein — è proprio un mondo caotico del tutto inaccessibile al pensiero. Ci si potrebbe (di più, ci si dovrebbe) aspettare che il mondo sia governato da leggi soltanto nella misura in cui interveniamo con la nostra intelligenza ordinatrice: sarebbe un ordine simile a quello alfabetico, del dizionario, laddove il tipo d’ordine creato ad esempio dalla teoria della gravitazione di Newton ha tutt’altro carattere. Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall'uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado d’ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che, a priori, non si è per nulla autorizzati ad attendersi» (A. Einstein, Lettera a M. Solovine, 30.3.1952, in Opere scelte, Torino 1988, pp. 740-741).

Uno dei modi per ridimensionare drasticamente il problema sarebbe quello di obiettare che le leggi che reggono il cosmo fino a consentire di ospitarvi la vita intelligente sono in fondo le stesse che governano il funzionamento della nostra mente. La concordanza fra intelletto umano e leggi naturali dipenderebbe solo dal fatto che il cervello opera secondo le leggi della fisica, e queste gli risultano perciò completamente compatibili. In realtà una simile obiezione pare poco convincente. Il funzionamento bio-chimico o anche fisico del cervello da una parte, le cui leggi sono certamente in sintonia con quelle del cosmo cui apparteniamo, e l'attività razionale di astrazione della mente dall'altra, con la sua capacità di trovare la forma matematica della fisica, individuano in realtà due livelli distinti, fra loro irriducibili. Giustificare poi di trovarci in un universo “matematico” solo perché il nostro sarebbe “antropicamente selezionato” fra infiniti possibili universi “non matematici”, è una risposta filosofica a priori e non una soluzione scientifica in senso stretto. L'intelligibilità delle leggi di natura non può neanche considerarsi una conseguenza della selezione naturale nella nostra evoluzione biologica, essendo difficile sostenere che la capacità di risolvere equazioni differenziali sia stato un fattore storico di sopravvivenza per la nostra specie. Senza per questo sciogliere, al livello dell'analisi delle scienze, l'enigma dell'intelligibilità, la cui soluzione compiuta non pare praticabile dall'interno del loro metodo, parrebbe più logico argomentare che tanto la struttura quanto la comprensibilità dell'universo siano due aspetti intimamente collegati: se la scienza deve ricevere come “data” la prima, cioè la ragione ultima del perché l'universo è così come è, essa si vede obbligata a ricevere come data anche la ragione profonda della seconda. In linea di principio, sarebbe stato possibile che la specie umana si fosse adattata ed organizzata nel mondo solo biologicamente, cioè senza comprenderlo anche intellettualmente: ma di fatto non è stato così.

Il contesto più ambizioso in cui si esprimono l'intelligibilità e la trattabilità matematica delle leggi di natura è senza dubbio rappresentato dai progetti di unificazione delle quattro forze fondamentali di interazione. Da tempo capaci, con Maxwell, di esprimere all'interno di un medesimo formalismo il campo elettrico e quello magnetico, gli scienziati hanno potuto in tempi più recenti inglobarvi l'unificazione delle forze nucleari deboli, confermandone sperimentalmente l'esattezza con la scoperta delle corrispondenti particelle di scambio. Esistono oggi teorie soddisfacenti, usualmente denominate «modello standard» o anche GUT (Grand Unified Theories) in grado di unificare con le prime due, anche la terza forza fondamentale, quella nucleare forte, mentre la capacità di compiere l'ultimo passo che inglobi anche l'interazione gravitazionale offre problemi di portata assai maggiore. Il formalismo matematico impiegato non è univoco, come mostrato dalla presenza nelle equazioni di molti parametri liberi, ma l'immagine fisica del cosmo che ne emerge è fortemente suggestiva: il processo di unificazione matematica delle forze è sensato e progredisce perché l'universo “è suscettibile di essere unificato”. La formulazione di “gruppi di simmetria” sempre più generali nasce senza dubbio dalla creatività della mente del ricercatore, ma la natura deve contenere nei suoi fondamenti, a qualche livello, una intima realtà strutturale sulla quale tale razionalità possa poggiarsi.

Un ulteriore risvolto della ricerca di una teoria unificata è la seduzione di poter proporre una «teoria del tutto» (Theory of Everything, TOE). Pur non condivisa dalla maggior parte dei cosmologi, se ne sono fatti animati interpreti S. Hawking (A Brief History of Time, New York 1988) e S. Weinberg (Dreams of a Final Theory, New York 1992). La definitiva scoperta delle leggi fisico-matematiche che, nei primi istanti di vita dell'universo, regolarono il progressivo differenziarsi delle quattro forze fondamentali attraverso le «rotture di simmetria» verificatesi al decrescere della temperatura globale, conterrebbe anche la ragione ultima dell'esistenza di quelle forze, ovvero di quell'unica “superforza”, fornendo così una spiegazione ultima del tutto. Ma il tentativo di volersi servire di un simile formalismo unificato come descrizione esauriente di tutto il reale fisico conduce a palesi incongruenze, non solo sul piano filosofico, a motivo dell'indisponibilità per il metodo scientifico del «problema dell'intero», ma anche sul piano strettamente fisico (cfr. Ellis, 1991; Barrow, 1992 e 1999). Si finirebbe con l'andare necessariamente incontro ai classici “problemi di incompletezza”, sia di ordine logico che ontologico, oltre a riprodurre i classici canoni di un insostenibile riduzionismo.

3. Una visione evolutiva delle leggi di natura: dall'essere al divenire? La crescente importanza attribuita al concetto di evoluzione e la maggiore attenzione, specie a partire dalla termodinamica dei fenomeni irreversibili, rivolta alla freccia del tempo, hanno introdotto nelle ultime decadi importanti novità nel modo di vedere le leggi naturali, caratterizzandone la riflessione all'interno di un quadro fortemente filosofico. Tale novità è stata presentata da alcuni autori nei termini di una transizione dal cosmo ideale delle leggi naturali, ordinato ed immutabile, all'universo reale dei processi evolutivi, disordinato ed imprevedibile. Perdendo il «paradiso delle leggi» (cfr. Cini, 1994), l'interpretazione scientifica avrebbe perso con esso quella visione filosofica tradizionalmente edificata sulla nozione di legge e, di riflesso, anche il suo Legislatore. Non ci riferiamo qui alla scoperta dell'impredicibilità matematica dei fenomeni complessi — di cui abbiamo già segnalato la distinzione sia rispetto al principio di legalità che a quello di causalità — ma al fatto che all'origine dell'ordinamento, della strutturazione e della diversificazione del reale non vi sia più l'idea di «legge naturale», bensì quella di «processo». Quest'ultima nozione rappresenterebbe meglio fenomeni come l'auto-organizzazione, lo sviluppo funzionale, l'emergenza di strutture complesse, l'adattamento all'ambiente o l'interazione con esso, i quali sarebbero i veri responsabili delle proprietà e della morfologia osservate in natura. La nuova visione coinvolgerebbe tanto la fisica (ad esempio privilegiando la dimensione, o perfino l’origine, relazionale-globale delle proprietà elementari della materia) quanto, soprattutto, la chimica e la biologia, costitutivamente aperte alla categoria di “trasformazione”, di “sviluppo” o anche di “emergenza”.

Un forte influsso sul pensiero scientifico di fine secolo XX, all'interno di questa nuova visione, è quello avuto dai noti lavori del chimico ed epistemologo belga, di origine russa, Ilya Prigogine (n. 1917). Lo studio dell’evoluzione dei sistemi termodinamici lontano dalle soluzioni di equilibrio consente di descrivere l'emergenza di strutture organizzate, morfologicamente più ricche e complesse rispetto a quanto mostrato dal sistema di partenza (principalmente Prigogine e Stengers, La Nouvelle Alliance, 1979; poi, Nicolis e Prigogine, 1982; Prigogine, 1986). Le «soluzioni di non equilibrio», possibili attorno ai «punti di biforcazione» di un sistema, che sono anche quelli maggiormente “indecidibili” e dunque trattabili solo probabilisticamente (in un panorama orografico li si potrebbe paragonare al comportamento di una pallina sulle cime dei rilievi), descrivono proprio la dimensione “evolutiva” o di “sviluppo creativo” del sistema. Le soluzioni di equilibrio, invece, che si danno lontano dalle biforcazioni (rappresentate dal comportamento delle palline nelle valli), ricondurrebbero il sistema nella fenomenologia predicibile e deterministica rappresentata dalle sue leggi note. Tali comportamenti esistono di fatto in natura, ove si osserva una progressiva diversificazione delle strutture chimiche, bio-chimiche ed infine biologiche, ma anche la formazione di strutture fisiche assai ordinate (ad esempio la termodinamica di una stella) a partire da sistemi caotici (una nube di gas di idrogeno da cui essa si forma). Saremmo così di fronte all'emergenza di «ordine dal caso» (Order out of Chaos, sarà il titolo dato alla traduzione inglese de La Nouvelle Alliance). La termodinamica di non equilibrio riesce così a descrivere «isole di entropia descrescente», nelle quali si contengono le novità di un mondo in evoluzione, sullo sfondo di una legge globale di «entropia sempre crescente», che coinvolge invece l'universo nel suo insieme, spingendolo assai probabilmente verso uno stato di progressivo degrado termico ed energetico.

A motivo dell'esplicita risonanza filosofica datagli dallo stesso Prigogine, il precedente quadro scientifico è stato usato per porre in questione che il principale fattore di strutturazione (e di interpretazione) dell'universo fisico sia rappresentato dalle leggi di natura, assegnando piuttosto alla “emergenza dell'imprevedibile” il ruolo trainante. Più facilmente associate alla descrizione dei sistemi in equilibrio, alle soluzioni stabili, agli sviluppi predicibili, le leggi naturali rimanderebbero alla nozione di legame e di eterna ricorrenza, mentre l'idea di emergenza o di complessità rinvierebbe alla nozione di creatività o, perfino, di libertà. In sintonia con questo cambio di prospettiva — e riprendendo i termini di una tensione ormai classica — Prigogine sosterrà una supremazia del divenire sull'essere, del processo sulla sostanza, trascinando in tale confronto le grandi idee portanti della filosofia e delle religioni (cfr. Prigogine, 1986). Come cornici filosofiche maggiormente adeguate egli citerà l'opera di M. Heidegger, Essere e tempo (1927) e la filosofia del processo sviluppata da Whitehead. Ma c'è qualcosa di più. La visione di una scienza la cui importanza e successo interpretativo vengono spostati dalle equazioni reversibili rispetto al tempo, tipiche delle leggi naturali tradizionalmente (ma anche riduttivamente!) intese, alla termodinamica dei fenomeni irreversibili, responsabili della vera novità e ricchezza nell'universo, tipicamente più vicini alla biologia, consentirebbe finalmente «una nuova alleanza» con il mondo dell'uomo e della vita. Una scienza meno determinista e liberata da un eccesso di legalismo fisicalista può dialogare più facilmente con le discipline umanistiche, sensibili alla libertà e alla creatività.

Sebbene la portata scientifica, ma anche la novità epistemologica, della termodinamica di non equilibrio siano fuori discussione, non condividiamo la maggior parte delle conseguenze “filosofiche” che Prigogine vuole trarne. Come accennato, esse derivano da una visione inconsapevolmente riduttiva non solo delle leggi naturali (identificate con il determinismo) o del principio di legalità (identificato con un fissismo che precluderebbe ogni novità), ma anche della scienza stessa nel suo insieme. La capacità di dialogo delle scienze con l'umanesimo e la filosofia si sono certamente accresciute con l'abbandono del meccanicismo, ma tale dialogo dipende da fattori ben più profondi e filosoficamente più fondanti di quanto non dica la riscoperta, o semplicemente una migliore interpretazione scientifica, del comportamento aperto o “creativo” della natura.

La fenomenologia della termodinamica di non equilibrio non costituisce una negazione del valore delle leggi di natura e questo almeno per due motivi. In primo luogo perché qualunque sistema termodinamico, comunque rappresentato, non costituisce «la causa formale» dell'emergenza di una struttura ordinata e complessa, ma semplicemente il suo contesto materiale e cronologico previo: l'emergenza della novità è dovuta ad una “azione di natura”: se questa non ha la forma di una legge riproducibile (qual è infatti la legge con cui cade una pallina posta sulla sommità di una vetta?), ciò accade per la non-riproducibilità delle medesime condizioni al contorno (o condizioni iniziali) del sistema, non per l'assenza di un principio di legalità o di regolarità (la legge di gravità, che farà certamente cadere la pallina, anche se non sappiamo dove). In secondo luogo, in non pochi casi le fluttuazioni e le instabilità di un sistema, a partire dalle quali esso poi evolverà in modo imprevedibile, sono descrivibili da opportune leggi fisico-matematiche, come accade ad esempio per le instabilità della fluidodinamica. Come riprova, Prigogine continuerà inevitabilmente ad utilizzare anch'egli la nozione di legge, presentando il comportamento della natura come un sottile equilibrio fra caso e necessità, fra fluttuazioni e leggi deterministiche, fra rotture di simmetrie e leggi che propagano tali rotture.

4. Alcuni aspetti in ambito biologico. Per la biologia, a differenza di quanto può essere accaduto in fisica, pensare alle leggi di natura in termini di “processi”, piuttosto che di semplici regolarità, non rappresenta un cambio di visione. Sebbene in tale ambito si parli poco di «leggi», la loro esistenza pare a qualche livello evidente: il codice genetico contenuto nel DNA dei nuclei cellulari dà luogo a precisi sviluppi dell'individuo e non ad altri, i caratteri ereditari si trasmettono seguendo alcune regole del calcolo combinatorio, i viventi reagiscono anch'essi secondo un «principio di legalità» alle medesime interazioni con l'ambiente, ecc. Dal punto di vista storico, il dibattito circa la presenza di un eventuale “Legislatore” si è snodato lungo due tesi classiche, la cui opposizione ha dato e continua a dar luogo ad equivoci: da un lato l'utilizzo in chiave apologetica della forte organizzazione, complessità e finalismo mostrati dai viventi, dall'altro il tentativo di darne ragione in termini di casualità, selezione naturale, adattamento all'ambiente o altri fattori. Ci limiteremo qui a segnalare solo alcuni recenti sviluppi su come possa essere compresa la presenza di leggi in ambito biologico (per una recente rassegna sui principali aspetti interdisciplinari, cfr. R. Russell, W. Stoeger, F. Ayala, 1998)

Il contesto più frequente in cui si parlava in passato di legge biologica era la proposta darwiniana “classica” di un'evoluzione affidata alla «legge della selezione naturale», concepita come azione combinata di due fattori: mutazione genetica casuale, con relativa trasmissione ereditaria, e sopravvivenza delle speci le cui mutazioni causavano morfologie maggiormente idonee all'ambiente naturale del vivente. Conservando le nozioni di evoluzione di adattamento, la cui operatività è certamente fuori dubbio, tale visione è oggi fortemente discussa, sia perché la trasmissione ereditaria delle mutazioni subite non costituisce la regola, sia perché la principale origine delle mutazioni si è riconosciuta non più essere la “casualità”, bensì l'azione dell'ambiente sui viventi (cfr. Kauffmann, 1993).

Vanno oggi acquistando peso crescente in biologia due nuovi contesti che fanno riferimento implicito a princìpi di legalità. Il primo di essi è l'idea che esistano processi di “canalizzazione” o di “confluenza”, mediante i quali dei princìpi di natura strutturale e termodinamica intrinseci nell'organizzazione molecolare o cellulare sembrano esplicitarsi lungo l'evoluzione dei viventi, non appena le circostanze lo rendano possibile (cfr. Webster e Goodwin, 1988). È come se l'evoluzione biologica non debba “aprirsi essa stessa una strada”, ma semplicemente “seguire le forme del paesaggio” che già individuano questo cammino. Il secondo è la rivalutazione della “formalità specifica individuale” del vivente, sia esso una cellula o un organismo complesso, come unità e soggetto di funzioni non riduttivamente interpretabili come semplice somma o combinazione delle proprietà delle parti componenti. Tale comportamento indica in fondo la capacità di un organismo di conservare e sviluppare in modo coerente delle caratteristiche invarianti, come possono essere ad esempio l'omeostasi, simmetrie funzionali, l'immunità verso agenti esterni, ecc. È stata avanzata anche l'idea, comunemente nota sotto il nome di «ipotesi Gaia», che un simile comportamento sia in qualche modo applicabile, su scala planetaria, a tutta la biosfera nel suo insieme (cfr. J.E. Lovelock, A New Look of Life on Earth, Oxford 1979; The Ages of Gaia. A Biography of our Living Earth, London 1988). Non è forse senza interesse segnalare che ambedue i contesti furono teorizzati nella prima metà del XX secolo da Teilhard de Chardin (cfr. L. Galleni, How does the Teilhardian Vision of Evolution compare with Contemporary Theories?, “Zygon” 30 (1995), pp. 23-43).

Da un punto di vista più tradizionale (cfr. G. Blandino, Vita, ordine, caso, Brescia 1967), il ricorso all’idea di legge e di regolarità ha sempre accompagnato la descrizione della fenomenologia della vita. Esiste una riconosciuta «regolarità funzionale dei viventi» grazie alla quale ogni parte è funzionale al bene del tutto ed il tutto difende la funzione della parte, secondo una logica che trascende l'individuo per aprirsi al bene della specie. Esiste una certa «costanza nell'esistenza», manifestata dalla riproduzione di medesime strutture, che provvedono ad una regolarità morfologica, funzionale, ma anche riproduttiva. Esiste anche, quasi in analogia con quanto accade con i princìpi variazionali della fisica-matematica, una sorta di «legge di semplicità», in base alla quale pare essere una legge, propria dei viventi, agire col minimo lavoro, con procedimenti semplici e sicuri, evitando inutile complicanze.



V. Verso un'analisi ontologica delle leggi di natura: leggi scientifiche, leggi naturali e nozione metafisica di natura
Riprendere le domande poste da Paul Davies, «da dove hanno avuto origine le leggi naturali?» o, anche, «avrebbero potuto essere diverse?», implica spostare l'attenzione dal loro statuto epistemologico a quello ontologico. La necessità di accedere, presto o tardi, a questo livello veniva così espressa con sguardo storico da Pierre Duhem: «La teoria fisica non ci dà mai la spiegazione delle leggi sperimentali, non ci rivela in nessun caso le realtà che si nascondono dietro le apparenze sensibili. Ma più si perfeziona, più avvertiamo che l’ordine logico nel quale essa dispone le leggi sperimentali è il riflesso di un ordine ontologico; più dubitiamo che i rapporti che essa stabilisce tra i dati dell’osservazione corrispondono a rapporti tra le cose, più scopriamo che essa tende ad essere una classificazione naturale. [...] Tuttavia, se il fisico è incapace di motivare tale convinzione, non lo è meno a sottrarle la sua ragion d’essere» (La teoria fisica, tr. it. Bologna 1978, p. 31-32). Un altro epistemologo e scienziato, Henri Poincaré, si chiedeva, pur riconoscendo la convenzionalità delle leggi scientifiche, se nell'insieme potessero aver qualcosa di indipendente da quelle convenzioni, qualcosa che potesse considerarsi “invariante”, per concludere poi che l'esistenza di invarianti era in fondo richiesta dal ruolo “traduttore” della scienza: le relazioni fra fatti scientifici — inevitabilmente espresse mediante convenzioni — esistono perché esistono delle leggi invarianti, che sono delle relazioni tra i fatti in sé e per sé, di cui le leggi scientifiche sono appunto una «traduzione» (cfr. Il valore della scienza, 1911, cap. X, § 4).

Siamo dunque condotti verso una necessaria distinzione fra «leggi naturali» e «leggi scientifiche». Le due espressioni non sono identiche (cfr. Artigas e Sanguineti, 1989, pp. 236-240). Noi possiamo maneggiare soltanto le seconde, ma non le prime. Le leggi scientifiche hanno una portata conoscitiva limitata e sono sempre soggette a revisione sperimentale; la loro conoscibilità ed intelligibilità rimanda ad un substrato “invariante”, di carattere squisitamente meta-fisico, che in prima approssimazione sarebbe rappresentativo, appunto, delle «leggi di natura»; in modo più preciso, come vedremo, esso andrebbe ancorato alla «natura metafisica di un ente», cioè a quel principio operativo che esprime le proprietà formali e le possibilità di interazione attiva e passiva di un ente fisico, manifestativo della sua essenza.

Richard Feynman amava associare alle leggi sperimentali l'immagine di un ritmo musicale che collega fra loro i fenomeni. Ricollegandoci alla precedente distinzione, le leggi di natura sarebbero ciò che rende possibile la regolarità e la cadenza di quel “ritmo”, e che permette alle leggi scientifiche di essere scoperte ed espresse con algoritmi matematici. Questi ultimi hanno un carattere necessariamente convenzionale, consentono una molteplicità di approcci e di formulazioni, la cui libertà è però limitata dalle risposte che si riceveranno «dalla natura», in base ad un metodo sperimentale aperto interattivamente sul reale. Così intese, le leggi di natura rappresentano, per le leggi scientifiche, una sorta di “asintoto”. Ma si tratta di un asintoto “filosofico” piuttosto che matematico. La scienza, infatti, non può “dare ragione” delle leggi di natura: esse hanno un carattere di gratuità (givenness), sono qualcosa di dato o di ricevuto. Il loro perché ultimo sfugge al dominio della scienza, ma è proprio grazie alle leggi di natura che la scienza diviene possibile. Le leggi scientifiche descrivono il mondo senza poterlo “spiegare”, mentre le leggi di natura danno ragione di come sia fatto il mondo, senza poterlo descrivere direttamente.

Un'epistemologia realista delle leggi naturali non implica che le espressioni matematiche che descrivono i processi fisici “siano lì, dentro le cose”, né tantomeno che le regolarità o le simmetrie, grazie alle quali possiamo raggiungere la formulazione di una legge, costituiscano la struttura “reale e concreta” di quel fenomeno. Una visione realista delle leggi naturali afferma soltanto che il «principio di legalità», punto di partenza della strutturazione della conoscenza scientifica, sarebbe un principio che risponde alla natura delle cose, la sua validità conoscitiva non risulterebbe geneticamente compromessa dal problema dell'induzione e la sua esistenza sarebbe conseguenza di proprietà naturali stabili ed intelligibili, la cui ragione ultima è ricevuta dalla scienza come “data”.

Riveste in proposito un certo interesse ricordare che per la metafisica ogni ente possiede una sua «natura». Nel suo Commento al Libro II della Fisica di Aristotele, Tommaso d'Aquino definisce la «natura» come un principio operativo grazie al quale ogni ente, perché dotato di una specifica «essenza», agisce secondo cio che è. La natura è un'inclinazione naturale (valga la ridondanza) che regola le modalità con cui quel determinato ente può interagire con quanto lo circonda. La natura è un principio di moto ma anche di quiete: essa fa cioè riferimento non solo alla regolarità delle interazioni, ma anche alla stabilità delle proprietà intrinseche (cfr. In II Physicorum, lec. 1, nn. 145-146; lec. 14, n. 267; cfr. anche Summa theologiae, I-II, q. 6, a. 5, ad 2um). La «natura» risulta pertanto collegata alla «causalità formale» dell'ente, ma con interessanti collegamenti anche alla «causalità finale»: la Causa Prima, infatti, alla quale spetta l'essere e la progettualità di tutto ciò che esiste, è la ragione ultima del perché della specifica natura di ogni ente. Nel cosmo di Tommaso (che aggiungerà alla visione aristotelica la prospettiva teologica della creazione e l'importante intuizione filosofica dell'«atto di essere»), la finalità o il disegno globale dell'universo — e dunque indirettamente anche l'azione del Legislatore — non è qualcosa imposto al mondo fisico dall'esterno, ma il risultato dell'operare armonico di tutti gli enti creati secondo ciò che è loro proprio, operare che conduce ogni cosa verso il suo fine ultimo.

Alcuni autori hanno suggerito una certa convergenza fra la nozione metafisica di natura e le proprietà elementari o fondanti del reale fisico, nel senso che queste ultime, quando si accede ad un'analisi di maggiore profondità ontologica, dovranno a qualche livello poggiare sulla prima (cfr. R.J. Connell, Matter and Becoming, Chicago 1966; P. Durbin, Philosophy of Science. An Introduction, New York 1968; più recentemente, W.A. Wallace, The Modeling of Nature, Washington 1996). Noi stessi abbiamo proposto di estendere questa convergenza anche nei confronti delle «leggi di natura» (cfr. Tanzella-Nitti, 1997), cercando di mostrare il guadagno che ne deriverebbe, sia per dar ragione dell'intelligibilità delle leggi scientifiche, sia per comprendere in modo non conflittuale il rapporto fra azione divina (o progetto divino sul mondo) e fenomeni naturali. Quest’ultimo rapporto si può infatti ancorare a quello, assai stretto, fra causalità formale e causalità finale. Sebbene un certo finalismo abbia un valore regolativo nella formulazione delle scienze, il metodo scientifico guarda ordinariamente con sospetto l’idea di una causalità finale, mentre è invece costitutivamente aperto al riconoscimento di una causalità formale.

Riferendoci ai nuovi contesti sperimentali e teoretici sui quali le scienze contemporanee richiamano l’attenzione del filosofo (vedi supra, IV), si potrebbe anche facilmente notare che una distinzione fra leggi scientifiche e leggi naturali aiuta a comprendere perché la presenza di vere leggi di natura sia ancora compatibile con l’inconsueta fenomenologia della meccanica quantistica o con quella dei fenomeni complessi. Più problematico sembrerebbe invece armonizzare la nozione metafisica di natura con un quadro interpretativo, come quello di buona parte della scienza contemporanea, ove le proprietà sono sempre più comprese in termini di relazioni, di connessioni o di interazioni, e non come caratteristiche proprie degli enti in quanto tali. Ma, in realtà, la nozione metafisica di natura è nozione “aperta alla relazione” in quanto non denota solo un principio attivo di operazione, ma anche un principio passivo, la capacità specifica di ricevere nuove forme, di dare origine a specifiche interazioni (cfr. Summa theologiae, I-II, q. 6, a. 5, ad 2um; De spiritualibus creaturis, a. 2, ad 8um). Essa non si oppone pertanto alle nozioni di relazione, di emergenza o di processo, ma semplicemente ne regola le modalità operative, secondo un itinerario specifico e non casuale.

Il concetto di natura metafisica di un ente è nozione aperta alla molteplicità e alla ricchezza del mondo fenomenico, perché capace di indurre (e di ricevere) una quantità praticamente infinita di connessioni verso gli altri enti e nei confronti dell’ambiente nel suo insieme. È nozione relativa e non assoluta, principio di formalità operativa in un mondo di soggetti ove l’uno è funzione dell’altro: in natura est alterum propter alterum, sicut et in arte (In II Physicorum, lectio 13, n. 257). Nel “cosmo” ordinato che emerge dalla visione della metafisica tomista, i princìpi di legalità o di regolarità non indeboliscono il ruolo causale del tutto, né viene sottovalutata la valenza relazionale delle proprietà dei vari componenti, dovuta alla loro reciproca dipendenza. Ne viene soltanto sottolineata l’organicità e la sintonia con un progetto, il dirigersi verso un fine. In questo cosmo c’è posto non solo per la sostanza, ma anche per il processo: si richiede soltanto che i molteplici livelli di processo abbiano un soggetto ultimo di attribuzione, che non sia, a sua volta, ancora un processo.



VI. Per una teologia delle leggi naturali
1. Il cosmo, luogo dell'alleanza fra Dio e l’uomo. Il messaggio biblico presenta una natura governata da leggi. Queste sono volute dalla provvidenza di un’unico Creatore e ad esse obbediscono il mondo inanimato e quello dei viventi. La loro azione viene descritta con un linguaggio che non può considerarsi speculativo, ma narrativo, sapienziale, non di rado fortemente estetico, sebbene non manchino precise conseguenze metafisiche circa il rapporto fra Dio e la natura. Un mondo “creato” si manifesta con i caratteri della legalità, dell’ordine, della regolarità, perché effetto della Parola divina, una parola personale, intenzionale, intelligente, ma anche buona, provvidente e fedele: la parola sapiente di Dio ha creato e mantiene nell’essere ogni cosa, conducendo tutto l’universo verso il suo fine (cfr. Sap 8,1; 11,24-26; Sal 33,4-9; Sal 104,24-29). L’uomo, con l’assistenza della sapienza, divina può riconoscere le leggi di natura e comprenderne la verità che esse contengono (cfr. Sap 7,17-21). I principali contesti che richiamano la presenza di leggi sono quello dei fenomeni celesti, il comportamento dei viventi, anche in relazione al loro habitat, ed infine quello della persona umana e della sua vita morale. Le pagine bibliche in proposito sono molteplici. Fra le più note, i capitoli iniziali del Libro della Genesi, i Salmi 19 e 104, i capitoli 36-39 del Libro di Giobbe, il capitolo 43 del Siracide. Spunti sulla “razionalità” del progetto creatore e sulla “legalità” del comportamento della natura sono presenti un po’ ovunque nei Libri sapienziali (cfr. Prv 3,19-20 e 8,22-31; Sir 16,24-26; 42,15 – 43,33; Sal 119,89-91) e talvolta anche in quelli profetici (cfr. Ger 31,35-37).

La principale idea che emerge dalla lettura di questi passi è che la stabilità delle leggi naturali è immagine ed espressione della fedeltà di Dio, della verità della sua alleanza con l’uomo, di cui la creazione partecipa come tappa primordiale. È fedeltà di Dio a se stesso, alla verità e bontà del suo progetto, ma anche fedeltà verso l’uomo, perché le leggi non vengono rimosse, ma sono costantemente attive come segno del favore e dell’amore divini. La stabilità dei cieli è immagine dell’amore fedele di Dio verso il popolo che Egli si è scelto: «Così dice il Signore che ha fissato il sole come luce del giorno, la luna e le stelle come luce della notte, che solleva il mare e ne fa mugghiare le onde e il cui nome è Signore degli eserciti: “Quando verranno meno queste leggi dinanzi a me — dice il Signore —allora anche la progenie di Israele cesserà di essere un popolo davanti a me”» (Ger 31,35-36).

Nel contesto delle leggi naturali sembra difficile separare quanto impresso nella natura, da quanto impresso nel cuore dell’uomo: la «legge» per antonomasia è la legge morale inscritta da Dio nella coscienza umana, vivere la quale è manifestazione di saggezza e fonte di felicità. Le leggi di natura giocano a riguardo il ruolo di “accompagnare” e “favorire” la comprensione della legge morale da parte dell’uomo, ma anche quello di offrirne una certa “garanzia” di veridicità e di bontà, legando la verità provvidente della legge morale alla verità delle leggi di un cosmo che è sotto gli occhi di tutti. Esemplare, al riguardo, il contenuto del Salmo 19.

Le leggi naturali hanno infine il compito di muovere l’uomo a dare gloria a Dio, di aiutarlo a riconoscere l’esistenza del Creatore attraverso l’ordine e la regolarità con cui è governato il creato. «Anche la luna, sempre puntuale nelle sue fasi, regola i mesi e determina il tempo […]. Bellezza del cielo la gloria degli astri, ornamento splendente nelle altezze del Signore. Si comportano secondo gli ordini del Santo, non si stancano al loro posto di sentinelle. Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto, è bellissimo nel suo splendore […]. Nel glorificare il Signore esaltatelo quanto potete, perché ancora più alto sarà. Nell’innalzarlo moltiplicate la vostra forza, non stancatevi, perché mai finirete» (Sir 43,6.9-11.30). Pur non costituendo un loro oggetto primario, la riflessione teologica e la tradizione cristiana hanno raccolto questa eredità biblica, associando spesso un riferimento alle leggi naturali con l’idea di un “governo del mondo”: «Chi si impegna nella ricerca scientifica e tecnica ammette, come presupposto del suo itinerario, che il mondo non è un cháos, ma un kósmos, ossia che c’è un ordine e delle leggi naturali, che si lasciano apprendere e pensare, e che hanno pertanto una certa affinità con lo spirito» (Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, Insegnamenti, XV,2 (1992), p. 465; di interesse storico anche Pio XII, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 21.2.1943, Discorsi e Radiomessaggi, IV, pp. 383-395).

2. Stabilità delle leggi di natura e fedeltà di Dio. Se dovessimo dire a quale immagine di Dio corrisponde il richiamo biblico ad un Legislatore, dovremmo rispondere che i suoi tratti più forti non sono quelli di un architetto, né tanto meno di un orologiaio o un musicista, bensì quelli di un Creatore fedele. La nozione di «legge naturale» diviene, nella Sacra Scrittura, sinonimo di «fedeltà» e di «verità» (questi due concetti derivano dal medesimo termine eb. ’emet) e, solo secondariamente, fa riferimento alle nozioni di razionalità o di ordine. Fedeltà non vuol dire determinismo, ma volontà e capacità di realizzare quanto si è promesso, ed attraverso vie che solo Dio conosce. Se il cristianesimo, sulla scorta della Rivelazione biblica, ha certamente favorito un clima di “fiducia” nell’esistenza di leggi di natura e nella razionalità del mondo, ciò non può tradursi, in termini epistemologici, in una piana affermazione di determinismo. La natura poggia sul carattere della stabilità, non sul cháos o sull’eterno cangiante divenire, perché Dio è «fedele», cioè «vero». Legalità e fedeltà, entrambe rivelano un ordinamento verso un fine. Dio “non riprende i suoi doni”: il mondo che ha messo nelle mani degli uomini non sfugge totalmente alla loro “prensione”, perché è mondo altrettanto vero, reale, e dunque conoscibile. In quanto Creatore, Dio conserva la piena trascendenza sul mondo e la piena separazione da esso (Egli è «santo», eb. qodes, cioè «separato»); ma pure in quanto Creatore, egli fonda in modo immanente la verità e l’autonomia di tutte le cose, ed inclina il suo sguardo provvidente su ciò che ha amato da sempre e da sempre ha voluto così come è. L'immagine biblica di Dio non è quella di un Legislatore che imponga dall'esterno le sue leggi ad una natura che plasma in modo demiurgico. Queste non sono “esterne” al mondo, nella mente di Dio (come avrebbe voluto il platonismo), ma sono “consegnate alla verità di ciò che è creato”, sebbene il progetto del mondo e della sua salvezza risieda certamente nella mente di Dio.

Il corretto rapporto fra Dio e le leggi di natura è ancorato a quello fra la sua trascendenza ed immanenza rispetto ad un mondo creato. Dio opera attraverso le leggi, perché Egli è la ragione ultima della loro specificità ed esistenza, ma è anche al di là delle leggi, in quanto l’origine divina del loro piano progettuale non implica che il Creatore giunga ad identificarsi con esse. A questo riguardo, una corretta “teologia delle leggi di natura” deve chiarire esplicitamente la sua equidistanza sia dal deismo che dal panteismo. Non va dimenticato che il deismo sette e ottocentesco pretendeva di essere una sorta religione razionale e non era aperto, per definzione, alla nozione di Rivelazione; la nozione di Dio (o di Logos) alla quale le scienze, a partire dalla domanda sulle leggi di natura, paiono fare riferimento, per essere lecitamente utilizzata dalla teologia, deve essere riconosciuta “aperta” ad un’immagine rivelata di Dio. Analogamente, per evitare lo scoglio del pantesimo, occorre che il Logos percepito dalla riflessione filosofica delle scienze sia capace di rimandare “al di là delle leggi”: se le leggi sono esse stesse “il divino”, e la meraviglia dello scienziato si ferma ad uno stupore verso un “codice cosmico” fine a se stesso, la teologia cristiana non potrà che formulare un semplice giudizio di panteismo.

Infine, il chiarimento prima operato nei riguardi del determinismo può anche far comprendere l’ambiguità di quelle interpretazioni che ipotizzano un mondo senza leggi ed investigano il rapporto che intercorrerebbe fra Dio ed un mondo indeterminato (o indeterministico), sul piano filosofico quello fra Dio e il caso. Come la negazione di ogni legge in natura è stata utilizzata da alcuni come una mozione contro l’esistenza di Dio (Monod), così per altri il caso e l’indeterminazione rappresenterebbero lo spazio, o forse l’“azione”, che permetterebbe l’intervento originale e creativo di Dio nel mondo (Peacocke, Bartholomew). Riteniamo che all’origine di tali letture vi sia sempre la difficoltà a saper cogliere la simultanea trascendenza ed immamenza di Dio all’interno di una metafisica della creazione centrata sulle proprietà filosofiche dell’«atto di essere». Nei confronti della nozione di Dio, le riflessioni della scienza sulle leggi di natura desiderano da una parte prevenire, e giustamente, il pericolo di ingerenza di un Dio “controllore”, che programmi la natura o vi agisca con intromissione di piani. Dall’altra, la riflessione scientifica non manca di percepire positivamente, pena l’autoreferenzialità, il carattere incondizionato, indisponibile delle leggi di natura: «da dove vengono?» (Davies), «chi ha infuso la vita nelle equazioni, chi vi ha “soffiato il fuoco”?» (Hawking). Se esiste un Creatore, in un caso si esige la sua trascendenza dal mondo; nell’altro, si scorge la necessità che ne sostenga, come causa immanente, l’intima vita e la ragione ultima. La possibilità di una simultanea affermazione dei due poli, e la garanzia di poter comporre tale dialettica, verrà solo dall’immagine di Dio consegnata dalla Rivelazione giudeo-cristiana.

3. L’ineluttabilità delle leggi naturali ed il problema del male fisico. In prospettiva teologica, il tema delle leggi di natura coinvolge indirettamente il problema del male, quando la loro ineluttabilità diviene causa di danni, distruzione e morte. È il problema del «male fisico», così chiamato per distinguerlo dal male morale, termine che la teologia riserva al peccato. La possibilità di un’eventuale “sospensione” delle leggi di natura viene affrontata all’interno della teologia del miracolo. Qui ci si chiede perché un Dio, Autore delle leggi di natura, ne permetta l’azione anche quando i loro effetti sono distruttivi per l’ambiente e per l’uomo. In altri termini, ci si domanda come tale situazione sia riconducibile ad una visione biblica delle leggi naturali, manifestazione della fedeltà-amore del Creatore.

Svolta la necessaria premessa che tutto quanto nel mondo abbia attinenza con la sofferenza e con il dolore partecipa del mistero dell’umanità e della morte di Gesù Cristo e della Sua capitalità sia sulla prima che sulla nuova creazione, e dunque, in prospettiva teologica, sofferenza e dolore devono mantenere la disponibilità ad essere compresi compiutamente solo nell’orizzonte di quel mistero e non fuori si esso, si possono ugualmente suggerire alcune piste di riflessione. In primo luogo andrebbe ricordato che l’azione di leggi di natura che possono causare un male fisico (terremoti, inondazioni, crescita di cellule cancerose, patologie virali, ecc.) è la medesima che permette la stabilità e la conservazione del mondo, o la crescita e la riproduzione dei viventi. Senza queste fenomenologie fisiche (ad es. la gravità) o questi comportamenti biologici (ad es. processi chimici o biochimici), l’universo e la vita non potrebbero sussistere. Il fatto che tali cause, forze o processi non vengano rimossi da un Legislatore nella cui provvidenza si confida, può condurre a due conclusioni. Da una parte fa comprendere la “radicalità” del rapporto instaurato da Dio con la sua creazione; un rapporto in cui la fedeltà alle leggi create (che è, lo ricordiamo, fedeltà a Se stesso) ha un valore più grande, per il bene del mondo e dei suoi abitanti, di una loro eventuale e continua sospensione, trasformazione o alterazione. Dall’altra deve muovere a ritenere che il rapporto fra Dio e la natura creata, rapporto che “passa” attraverso l’umanità del Verbo incarnato, soggetta alla morte ma anche alla resurrezione, preveda il modo, proprio alla luce di quel mistero, di dare significato e valore al dolore, alla sofferenza, alla caducità, in ragione di una trasfigurazione futura.

In secondo luogo, è lo stesso ordine e stabilità delle leggi naturali, la cui azione può divenire fonte di angoscia e di disperazione, a suscitare nell’uomo quei sentimenti di abbandono e di fiducia verso un Creatore, che aiutano a sperare in una trasfigurazione ed in un superamento del dolore in termini di rinnovamento, di restaurazione e di giustizia. Non è senza interesse notare che proprio una delle pagine bibliche che trattano con maggior drammaticità e vivezza della sofferenza umana, quella del Libro di Giobbe, sia anche sede di uno dei richiami più belli alla fiducia, nonostante tutto, nella bontà del Creatore. Al protagonista che chiede ragione del perché del male fisico che lo ha duramente provato, fino a volerne sentenziare l’orribile ingiustizia, Dio chiede di uscire all’aperto e contemplare la bellezza della creazione, delle sue leggi, della sua armonia (cfr. i discorsi raccolti in Gb da 37,14 a 40,4): l’uomo non può “darsi ragione” del male fisico, ma la natura creata, retta da quelle stesse leggi che a volte possono causarlo, lo aiuta a comprendere che tale ragione esiste, nella volontà sapiente del suo Creatore.




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