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    00 19/10/2010 19:17

    Massimo Introvigne:

    Il Congresso mondiale degli "evangelical" a Città del Capo

    «Evangelical». Cristiani d’assalto dagli USA al mondo

     Dal 16 al 25 ottobre a Città del Capo si tiene il terzo Congresso di Losanna per l’Evangelizzazione Mondiale, organizzato in collaborazione con la World Evangelical Alliance. Vi parteciperanno 4.000 leader protestanti di duecento Paesi. Il riferimento a Losanna sembra strano per un congresso che si tiene in Sudafrica, ma vuole sottolineare la continuità con un’iniziativa del grande predicatore americano Billy Graham, il quale nel 1974 radunò appunto a Losanna 2.700 leader protestanti in quella che molti considerano la più importante riunione protestante della storia. Lo scopo era quello di coordinare l’attività missionaria nel mondo di quanti condividono il «Patto di Losanna», un documento che definisce il protestantesimo detto in inglese evangelical e lo contrappone a quello liberal delle denominazioni protestanti storiche riunite nel Consiglio Ecumenico delle Chiese, il quale ha la sua sede principale non troppo lontano da Losanna, a Ginevra.

    Ma che cosa significa evangelical? La terminologia non è chiara, tanto più in Italia, dove infatti spesso s’insiste che evangelical non va assolutamente tradotto con «evangelico». Chi fa parte di questa corrente preferirebbe il neologismo «evangelicale». Molti studiosi mantengono la parola evangelical in inglese, senza tradurla.

     Se infatti usiamo in lingua italiana l’espressione «evangelico» dobbiamo distinguere fra quattro diversi significati. In un primo significato, «evangelico» è semplicemente sinonimo di protestante, contrapposto a «cattolico», in quanto il protestante farebbe riferimento al solo Vangelo, alla sola Scriptura, senza aggiungervi il Magistero dei Pontefici romani. Non sorprende pertanto vedere anche chiese valdesi o luterane presentate al pubblico o sui cartelli stradali semplicemente come «chiese evangeliche».

      In un secondo significato – oggi per la verità un po’ in disuso – erano chiamate «evangeliche» – nel senso, qui, di più vicine all’entusiasmo nei tempi evangelici – le denominazioni, più «popolari» del cosiddetto secondo protestantesimo, come i battisti o i metodisti, le quali reagivano contro la freddezza delle denominazioni della prima generazione protestante: luterani e calvinisti.

     Nel secolo XX si è affermato inua inglese l’uso di evangelical come sinonimo di «conservatore», contrapposto a liberal o anche a «ecumenico», con riferimento alla polemica dei conservatori contro il Consiglio Mondiale delle Chiese. In questo senso «evangelico» è stato usato a lungo come sinonimo di «fondamentalista». Ma – soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale – almeno negli Stati Uniti – è diventata scontata la distinzione all’interno del protestantesimo conservatore fra un campo «evangelico», più moderato, e uno «fondamentalista», più estremista.

     Infine – mentre fino ad anni recenti i protestanti «evangelici» nel terzo significato del termine erano critici nei confronti dei pentecostali – oggi le associazioni e le parachiese che promuovono la collaborazione interevangelica accolgono alcune delle denominazioni pentecostali e, particolarmente in America Latina e in Africa, «evangelico» viene usato anche come sinonimo di «pentecostale».

     In un Paese come l’Italia. quando ci si trova di fronte a un edificio o a un gruppo denominato «chiesa evangelica» ci si deve sempre chiedere in quale senso l’aggettivo èe usato: può trattarsi di qualunque forma del protestantesimo, da antiche comunità protestanti di prima generazione fino ai più recenti movimenti del filone pentecostale. Nella sociologia del protestantesimo, evangelical ha però un significato preciso: significa «conservatore moderato», contrapposto da una parte a liberal  (o «ecumenico», nel senso non dell’apertura al dialogo ma d’identificazione con le posizioni «progressiste» del Consiglio Ecumenico delle Chiese), dall’altra a «fondamentalista». Decisivo per essere evangelical non è il modo di pregare – le stesse associazioni fra evangelical, anche in Italia, accolgono insieme pentecostali e critici del pentecostalismo – ma una teologia conservatrice che crede fermamente nella Trinità, nella divinità di Gesù Cristo, nell’infallibilità della Scrittura, nell’interpretazione tradizionale dei dieci comandamenti – con una ferma opposizione all’aborto e alla pratica dell’omosessualità – e nel buon diritto di Martin Lutero a rompere con la Chiesa di Roma. Il grande movimento evangelical crede anche che per salvarsi è necessario – almeno in via ordinaria – essere cristiani, e quindi impegna gran parte delle sue risorse in uno sforzo missionario che privilegia l’evangelizzazione rispetto alla promozione umana, pur senza trascurare la seconda, con uno zelo per le conversioni che costituisce il suo tratto più distintivo e più distante dal protestantesimo liberal. E con grande successo: da anni il protestantesimo evangelical ha superato per numero di aderenti quello liberal, e costituisce più del cinquanta per cento del protestantesimo mondiale. Anche in Italia le denominazioni evangelical, molte delle quali pentecostali, rappresentano ormai il 75% della galassia protestante.

     Questa evoluzione pone molti problemi ai cattolici. Gli operatori cattolici dell’ecumenismo sono abituati a dialogare con le denominazioni che fanno parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Alcuni non sanno neppure che esse sono ormai minoritarie – ancorché storicamente rimangano importantissime – all’interno del mondo protestante. Altri diffidano degli evangelical considerandoli il braccio armato di un certo mondo politico statunitense, il che non è più vero da molti anni. Alle elezioni del 2008 gli evangelical si sono divisi come gli altri americani, e secondo alcuni studi una buona metà di loro avrebbe votato per Obama. Conservatorismo teologico non  significa necessariamente conservatorismo politico, anche se è vero che gli evangelical si mobilitano volentieri per cause come la lotta all’aborto o al riconoscimento delle unioni omosessuali.

     Se è vero che i cattolici diffidano degli evangelical, è anche – o più – vero che gli evangelical diffidano dei cattolici. Spesso nelle loro statistiche includono i membri della Chiesa Cattolica fra i «non salvati» da convertire o addirittura fra i non cristiani, il che ovviamente offende i cattolici. I due gruppi non si conoscono bene. Alcune iniziative statunitensi come Evangelicals and Catholics Together (ECT), lanciata nel 1994 e cui hanno partecipato da parte cattolica diversi cardinali, cercano di colmare questo iato. Ma è anche vero che alcuni partecipanti protestanti a ECT sono stati censurati dalle loro denominazioni di origine. Anche in Italia non mancano iniziative di dialogo.

     Nel corso del suo viaggio in Gran Bretagna Benedetto XVI ha distinto tre cerchi di dialogo. Il primo, il «dialogo della vita», non è una conversazione teologica ma mira semplicemente alla coesistenza pacifica e rispettosa attraverso la reciproca conoscenza. Già questo è un risultato non scontato fra cattolici ed evangelical, specie in aree dell’America Latina dove il proselitismo evangelical talora non rinuncia alla calunnia e alla diffamazione nei confronti della Chiesa Cattolica. Il secondo, il «dialogo dell’azione», mira alla collaborazione concreta su singoli problemi morali e sociali. Lo stesso Benedetto XVI ha citato come esempio in Gran Bretagna la difesa della vita. Su questo terreno – per esempio contro l’aborto – cattolici ed evangelical, almeno negli Stati Uniti, in effetti collaborano da anni in progetti comuni. Questo favorisce la conoscenza e il rispetto e può preparare il terreno al terzo dialogo, quello più propriamente ecumenico e teologico, su cui iniziative come ECT hanno permesso significativi primi passi. Ma non bisogna neppure nascondersi le difficoltà. Un certo pregiudizio anticattolico sussiste tra molti evangelical. E l’idea della continuità della Chiesa nella storia e della Tradizione rimane una pietra d’inciampo.

    [Modificato da Coordin. 29/11/2010 22:41]
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    AmarDio
    00 21/10/2010 21:58
    “La vera causa dell’attuale crisi economica non è derivante dall’avidità del sistema bancario, né dalla corruzione dei governi o da altre cause esterne, ma dipende quasi esclusivamente dal crollo demografico che ha colpito i Paesi avanzati fin dall’inizio degli anni settanta”. Lo ha detto Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto Opere Religiose (IOR), intervenendo a Roma sabato 16 ottobre ad un seminario su “Il libero mercato e la cultura del bene comune” organizzato dal Progetto Markets, Culture and Ethics della Pontificia Università della Santa Croce.  Secondo il presidente dello IOR, il crollo demografico determinato da politiche che hanno favorito aborti, divorzi, contraccezione, ha manifestato una cultura nichilista in cui l’umanità si è persa. Senza crescita demografica non c’è crescita economica, così le istituzioni finanziarie e politiche hanno operato dei trucchi sulla realtà per continuare a far crescere il Prodotto Interno Lordo (PIL) favorendo un processo di indebitamento che ha colpito soprattutto le famiglie.

    Gotti Tedeschi ha raccontato di come la cultura nichilista abbia diffuso fin dal 1968 le teorie neomalthusiane, indicando nella crescita demografica il peggiore dei mali. Teorie e paure che hanno condizionato pesantemente le istituzioni internazionali e le politiche dei governi, con risultati che sono all’origine della crisi economica e che si sono rivelati devastanti per l’economia e per lo sviluppo dell’umanità.

    “La crescita dell’umanità non ha mai minacciato lo sviluppo, al contrario lo ha favorito”, ha affermato Gotti Tedeschi, ricordando che anche le Nazioni Unite in un rapporto del 2002 hanno spiegato che la popolazione mondiale tra il 1900 ed il 2000 era cresciuta di quattro volte, ma che il PIL mondiale era cresciuto nello stesso periodo di 40 volte.

    Il noto economista ha spiegato che con il verificarsi del crollo delle nascite, il PIL mondiale è cominciato a decrescere ed i costi fissi ad aumentare. La mancanza di giovani e la crescita percentuale di anziani e pensionati ha fatto crescere le spese sanitarie e quelle dei sistemi pensionistici. Per sopperire alla mancata crescita demografica, le economie avanzate hanno aumentato le tasse e incrementato i costi, praticando politiche di credito facile e a basso interesse e indebitando le famiglie in maniera vertiginosa.

    La riduzione del risparmio e la crescita del debito delle famiglie è più o meno simile in tutti i Paesi avanzati che hanno adottato politiche di decrescita demografica.

    In questo contesto il noto banchiere si è chiesto se si può vivere senza crescita demografica ed ha risposto: “Forse sì, ma si deve tirare la cinghia, prepararsi a pensioni da fame e stare molto attenti alla proposizione del testamento biologico e a coloro che parlano di vita non degna di essere vissuta”.

    “Senza crescita demografica, - ha spiegato - si produce meno PIL e si investe meno in tecnologie e ricerca, crescono le tasse e si riducono gli investimenti. Crollano gli asset finanziari disponibili per il mercato. Si rinuncia all’aiuto ai Paesi Poveri. Ci sarà meno budget per problemi contingenti. Altri Paesi con una visione molto differente del valore delle persona umana cresceranno e domineranno il mondo, avremo una vera invasione di immigrati in tempi brevi”.

    Per questi motivi l’unica via realistica di uscire dalla crisi è quella di tornare ad una sostenuta crescita demografica e ad un aumento reale del PIL.

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    Coordin.
    00 28/10/2010 17:05
    GLI ORIENTAMENTI PASTORALI DELLA CHIESA ITALIANA

    Educare, compito di tutti

    Con la pubblicazione, oggi, degli Orientamenti pastorali "Educare alla vita buona del Vangelo" per il decennio 2010-2020, la Chiesa italiana compie la scelta di un tema quantomai attuale e urgente che spinge le comunità e i cattolici a un rinnovato impegno. Ma chiama anche in causa tutta la società su una questione decisiva.

    Il documento
    "Educare alla vita buona del Vangelo" è un documento in cinque capitoli più un’introduzione e una preghiera conclusiva di affidamento a Maria. Gli "Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020" si aprono con la presentazione del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei; in appendice il discorso di Benedetto XVI alla 61ª assemblea generale della Cei (27 maggio 2010). In totale 56 paragrafi, i primi sei per l’introduzione. La prima parte, Educare in un mondo che cambia, fa riferimento all’«opera educativa della Chiesa strettamente legata al momento e al contesto in cui essa si trova a vivere, alle dinamiche culturali di cui è parte e che vuole contribuire a orientare», e invita al discernimento credente circa la situazione dell’educazione segnalando criticità e attese.
    Il secondo capitolo – Gesù, il Maestro – presenta lo sfondo teologico-biblico della visione cristiana dell’educazione, centrata sull’esempio e l’insegnamento di Gesù, non un ma il Maestro: «La sua autorità, grazie alla presenza dinamica dello Spirito, raggiunge il cuore e ci forma interiormente, aiutandoci a gestire, nei modi e nelle forme più idonee, anche i problemi educativi» (n. 16). La terza parte – Educare, cammino di relazione e di fiducia – spiega come il compito educativo debba generare persone mature attraverso un percorso centrato sui formatori e la relazione educativa: «Siamo coinvolti nell’opera educatrice del Padre e siamo generati come uomini nuovi, capaci di stabilire relazioni vere con ogni persona. È questo il punto di partenza e il cuore di ogni azione educativa» (n. 25).
    Il quarto capitolo – La Chiesa, comunità educante – fornisce indicazioni pastorali che sottolineano il ruolo di famiglia, parrocchia e scuola, senza dimenticare l’influsso educativo dell’ambiente sociale e, in particolare, della comunicazione nella cultura digitale. «L’impegno educativo sul versante della nuova cultura mediatica – si legge al paragrafo 51 – dovrà costituire negli anni a venire un ambito privilegiato per la missione della Chiesa».
    Il quinto capitolo – Indicazioni per la progettazione pastorale – suggerisce «alcune linee di fondo, perché ogni Chiesa particolare possa progettare il proprio cammino pastorale in sintonia con gli orientamenti nazionali. La condivisione di queste prospettive, accolte e sviluppate a livello locale, favorirà l’azione concorde delle comunità ecclesiali».

    Dagli anni Settanta un percorso lineare
    Gli Orientamenti 2010-2020 «Educare alla vita buona del Vangelo» intendono offrire alcune linee di fondo per la pastorale di tutta la Chiesa italiana. La pubblicazione di un documento che sia espressione dell’intero episcopato ha fornito negli ultimi quarant’anni alla comunità ecclesiale italiana uno spunto unitario di riflessione e di azione. È negli anni Settanta col documento dal titolo «Evangelizzazione e sacramenti» che si dà avvio a questo percorso comune. La scelta di adottare un testo di riferimento unitario dà avvio alla stagione dei convegni ecclesiali nazionali, anch’essi a cadenza decennale: il primo si apre a Roma nell’ottobre del ’76. Successivamente è la volta di «Comunione e comunità» varato per gli anni ’80, sulla scia del quale viene organizzato il convegno ecclesiale di Loreto (9-13 aprile 1985). Gli anni ’90 sono segnati da «Evangelizzazione e testimonianza della carità», bussola per il convegno ecclesiale di Palermo (20-24 novembre 1995). Gli anni Duemila si aprono con gli Orientamenti dal titolo «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», intrecciati con il convegno ecclesiale nazionale di Verona (16-20 ottobre 2006). La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affonda le radici proprio in quel 4° convegno ecclesiale.

    Con la pubblicazione, oggi, degli Orientamenti pastorali "Educare alla vita buona del Vangelo" per il decennio 2010-2020, la Chiesa italiana compie la scelta di un tema urgente e attuale. E spinge le comunità e i cattolici a un rinnovato impegno. Qui il testo integrale del documento
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    Credente
    00 08/11/2010 12:40

    Allora parliamo davvero di sesso. E Paradiso.

    Posted: 07 Nov 2010 02:22 AM PST

    “Che bello! E’ il teletrasporto!”. Così esclamò mio figlio, dodicenne, appassionato di tecnologie, fantascienza, computer, effetti speciali (va matto per il 3D).

    Ma espresse quella sua meraviglia dopo avermi sentito parlare non di tecnologia, bensì di San Tommaso d’Aquino che stavo leggendo per un mio libro su Giovanni Paolo II.

    Precisamente stavo chiacchierando con amici delle pagine in cui Tommaso illustra come saremo dopo la resurrezione dei corpi. Dicevo che avranno “sottilità e agilità”, cioè, pur essendo effettivamente di carne, non saranno più sottoposti ai limiti di tempo e di spazio come oggi, ma saranno sotto il perfetto dominio dallo spirito, dell’anima, della mente (e per questo saranno immortali).

    Quindi – fra l’altro –potremo spostarci semplicemente col pensiero, superando qualsiasi barriera fisica o distanza (come riferiscono i vangeli di Gesù dopo la sua resurrezione).

    Che la nostra futura “agilità” sia la realizzazione dell’odierno sogno (scientifico e fantascientifico) del teletrasporto – come dice mio figlio – non ci avevo pensato, ma è divertente da considerare.

    In fondo i fenomeni di bilocazione che sono testimoniati nella vita di alcuni santi, come padre Pio, sono albori del giorno della gloria.

    Rivelazione

    La questione dei “corpi gloriosi” è in effetti assai poco conosciuta e anche assai poco spiegata dalla Chiesa. Sembra quasi “un tema teologico congelato” come ha scritto il filosofo Giorgio Agamben.

    Invece è straordinariamente affascinante e opportunamente il numero appena uscito di “Civiltà Cattolica” gli dedica un saggio di padre Mario Imperatori, il quale critica l’unilaterale predicazione della sola salvezza dell’anima, da parte dei cristiani, sottolineando la necessità di annunciare (più giustamente e completamente) la resurrezione dei corpi.

    La mentalità dei credenti è ancora molto gravata e inquinata dall’antico dualismo platonico che contrappone anima e corpo. Ma questo è l’opposto del cristianesimo, ha spiegato il grande Tommaso d’Aquino, che “in senso espressamente antispiritualista” fonda la teologia sulla Scrittura anziché su Platone. Il cristianesimo infatti non annuncia che esiste Dio, ma che Dio si è fatto carne, che è per noi morto e risorto nella sua stessa carne. 

    Ecco perché in queste pagine di Tommaso, riproposte dalla rivista dei gesuiti, non c’è nulla della paura del corpo e della sessualità che a volte ha connotato certi ambienti religiosi, più platonici che cristiani. C’è invece in Tommaso la straordinaria esaltazione del corpo e della sessualità umana.

    Il senso del sesso

    Visto il gran parlare (ossessivo e malato) che si fa di sesso e di corpi, su giornali e tv, vista la tracimazione della questione sessuale nel dibattito pubblico e anche nelle vite private, è veramente interessante leggere queste pagine per sondare fino in fondo che senso abbia il misterioso intrico dei nostri corpi, questa oscura sete di infinito che rende febbrile la carne, questo spasmodico desiderio del piacere che è al tempo stesso un modo per esorcizzare l’invecchiamento e la morte e una ricerca inconsapevole dell’estasi.

    Come lo è la droga, che fornisce un’illusione di estasi “liberando” dai limiti e i dolori del corpo.

    Noi infatti come sentiamo il corpo? Oscilliamo tra due estremi: da un lato è percepito come una fonte di piacere che diventa perfino ossessiva, totalizzante.

    Dall’altra come un limite doloroso, una prigione da cui sfuggire e – in fondo – la fuga rappresentata dalle droghe o dall’alcol, pur diversissima, persegue lo stesso obiettivo cercato dalle religioni orientali.

    Invece san Tommaso indica nella rivelazione cristiana la via (l’unica via) della felicità del corpo e dell’anima. Contemporaneamente. Quella felicità piena che sembrerebbe impossibile, quel piacere – anche dei sensi – che non finirà mai.

    Ma andiamo con ordine, seguendo le interessanti pagine della rivista dei gesuiti.

    Tommaso d’Aquino anzitutto mostra che nello stato originario, la sessualità di Adamo ed Eva – diversamente dalla nostra – era sottoposta alla ragione “il cui ruolo non era affatto quello di reprimere il piacere dei sensi che, al contrario, ne sarebbe risultato addirittura maggiorato”.

    Si può fare un paragone per capirci: una persona in condizioni normali, di sobrietà, può gustare e godere di un ottimo vino molto più di un ubriaco che neanche si accorge più della qualità di ciò che beve.

    Nel primo caso il piacere è maggiorato, nel secondo caso il consumo è compulsivo, malato e fa star male. E’ questa la conseguenza del peccato originale che ha sottratto il corpo al dominio dell’anima (e l’ha esposto fra l’altro alla malattia e alla morte).

    Tommaso afferma peraltro che nell’uomo “l’anima è l’unica forma del corpo” e ciò significa che niente di quel che l’uomo fa è puramente animale, puramente biologico.

    Né il mangiare e bere, né l’accoppiamento sessuale. Diversamente dall’animale, che semplicemente esaudisce un bisogno fisico, l’uomo ha dentro una domanda, una mancanza esistenziale, un desiderio di infinito che spiega perché è sempre insoddisfatto e perché nessun “consumo”, nessun possesso, lo appaghi.

    La sua è una “fame” assai superiore al bisogno biologico. Infatti nasce dalla testa.

    Tommaso trae un’ulteriore conseguenza dalla sua affermazione: la separazione di corpo e anima è “contro natura”. E la loro riunione, con la resurrezione finale, farà sì che godremo molto di più il piacere del Paradiso o soffriremo molto di più le pene dell’inferno, perché percepiremo il piacere o la sofferenza con tutti i nostri cinque sensi.

    Il Sommo Piacere

    Per questo – come scrive san Paolo – il nostro stesso corpo geme nell’attesa della piena redenzione, o del “sommo piacere”, come dice Dante. Infatti parteciperemo con il corpo stesso alla vita di Dio. E’ quello che la teologia ortodossa chiama “divinizzazione”. I padri della Chiesa ripetono: “Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio”. Un destino dunque che – per grazia – è superiore addirittura a quello degli angeli.

    I risorti saranno sempre fisicamente maschi e femmine, infatti Tommaso nega la presunta supremazia del maschio e – diversamente da quanto crede Aristotele – afferma che la donna non è affatto un uomo mancato, ma è opera di Dio pari all’uomo e la diversità dei loro corpi appartiene al disegno della creazione.

    Anzi è un riflesso di quell’unità nella distinzione che connota le persone divine della Trinità.

    Quindi la bellezza femminile, come pure la bellezza maschile, saranno parte della beatitudine eterna. Nei beati ci sarà un vero e proprio “splendore corporale”. Una bellezza tanto maggiore quanto più luminosa è l’anima.

    Essi potranno vedere la divinità, cioè godere del “Sommo bene”, nei suoi effetti corporali “soprattutto nel corpo di Cristo, poi nel corpo dei beati e finalmente in tutti gli altri corpi”.

    Questa “profonda associazione del corpo umano all’eterna beatitudine” è la sua inimmaginabile esaltazione. I risorti, maschi o femmine – dice Tommaso – “si serviranno dei sensi per godere di quelle cose che non ripugnano allo stato di in corruzione”.

    Inimmaginabile beatitudine

    Se qualcuno si poneva la domanda sul Paradiso e sul piacere sessuale, come lo conosciamo quaggiù sulla terra, avrà già trovato la risposta.

    Ma – per chiarire meglio – la rivista gesuita riporta una fulminante pagina del filosofo ebreo-francese (e convertito) Hadjadj: “Tramite il sesso vogliamo essere sconvolti dall’anima. I genitali erano soltanto il mezzo difettoso di questa penetrazione dell’altro fino all’impenetrabile.

    Con la risurrezione, a partire da un’anima che la visione beatifica di Dio fa ricadere sul corpo, è l’intera carne che possiede la penetrabilità fisica dell’altro sesso e l’impenetrabilità spirituale dello sguardo (…).

    Inutile quindi unire le parti basse. L’intensità dell’amplesso e l’altezza della parola si sposeranno con questi corpi profondi all’infinito.

    Le carni potranno unirsi senza riserve in un bacio di pace, che sarà altresì un inno lacerante al Salvatore”.

    E’ il Paradiso.

     

    Antonio Socci

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    Credente
    00 13/11/2010 23:18

    Riflessioni sul tema dell’accoglienza

    1.      Il vostro gesto di accoglienza ha le sue radici ed il suo fondamento in un gesto di accoglienza compiuta da Dio stesso in Cristo. Lo dice S. Paolo in due passaggi della lettera ai Romani. Il primo dice: «Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché  Dio lo ha accolto» [14,3]. Dal momento che Dio ha accolto sia chi è debole sia chi è forte nella fede, nessuno ha il diritto di disprezzare alcuno.
             Il secondo testo dice: «accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio» [Rom 15,7]. Sottolineo una differenza dal primo testo. Il soggetto attivo dell’accoglienza, colui che accoglie è Cristo. Ma l’attribuzione della stessa opera a Dio il Padre o a Cristo intende dirci che il Padre ha compiuto il suo grande gesto di accoglienza per mezzo di Cristo ed in Cristo. Ancora, come nel primo passo, il gesto di Cristo è la ragione, la radice del gesto di accoglienza reciproca.
             Cerchiamo ora di avere una qualche intelligenza di questi testi della Scrittura. Essi dunque in sostanza dicono; poiché e come Dio in Cristo ha accolto in comunione piena con Sé ogni fedele, così questi devono reciprocamente accogliersi senza alcuna riserva interiore.
             Partiamo ora dal gesto di Dio in Cristo. L’uomo, ogni uomo, nasce in una condizione di estraneità nei confronti di Dio. Anzi di più: in una condizione di inimicizia, nel senso che è partecipe di un’originaria decisione, presa dall’uomo, di realizzarsi contro la Legge di Dio.
             Questa condizione originaria viene confermata dalle personali scelte che giorno dopo giorno configurano il nostro volto spirituale e danno origine ad una società, ad una città dominata dal male.
             Ma Dio ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato, perché se avesse odiato qualcosa, non l’avrebbe neppure creata. Il Signore risparmia e ha cura di tutte le cose perché tutte sono sue, ed Egli è amante della vita [cfr. Sap 11,24-26]. L’appartenenza di ogni uomo al Signore rimane al di sotto e contro ogni scelta contraria dell’uomo.
             È questo che spinge il Padre ad inviare il suo Unigenito, a donarlo e a consegnarlo alla morte, perché l’uomo “ritornasse a casa”, cessasse di essere un estraneo ma diventasse uno della famiglia di Dio [cfr. Ef 2,19]. L’avere parte [cfr. Gv 13,8] di cui parla Gesù a Pietro quando cerca di convincerlo di lasciarsi lavare i spiedi, significa in fondo che l’uomo diventa a tutti gli effetti membro della famiglia di Dio. Paolo arriverà a dire che l’uomo diventa «erede di Dio e coerede di Cristo» [Rom 8,17]. I “beni di Dio” … il suo patrimonio ci appartiene perché siamo stati accolti nella sua famiglia.
             Pietro deve lasciarsi lavare i piedi, deve accettare l’atto con cui Dio lo costituisce membro della sua famiglia. L’atto è “lavare i piedi all’uomo”. Cioè il servizio della suprema umiliazione di Dio.
             Quando dunque l’Apostolo motiva, radica e fonda l’accoglienza reciproca dei cristiani sull’atto di accoglienza che Dio ha compiuto in Cristo nei nostri confronti, in sostanza  è a tutta l’opera salvifica che pensa. Egli pensa l’opera redentiva di Cristo sotto il profilo di un gesto di accoglienza dell’uomo da parte di Dio.

    2.      In che modo ed in che senso l’atto divino dell’accoglienza causa ed ispira l’atto umano? «Come Cristo accolse voi», dice l’Apostolo. Che cosa significa quel come?
             Partiamo da una riflessione di carattere più generale. Pensare tutta l’opera redentiva di Cristo sotto il profilo dell’accoglienza dell’altro ci conduce ad una conclusione. Secondo il progetto divino l’altro in quanto denota l’estraneità dell’uno all’altro, è una categoria esclusa dal progetto divino. L’amore di Dio quale si è pienamente rivelato in Cristo, è un amore senza esclusioni. È un amore che realizzandosi non crea steccati, ma li distrugge [cfr. Ef 4,16-18]. Più Dio è il  “mio Dio” e più ogni uomo è “mio fratello”.
             La S. Scrittura, la Tradizione della Chiesa ed il suo Magistero, insegnano che la persona umana, accolta nella famiglia di Dio, diventa partecipe della logica che governa questa divina famiglia. L’uomo diventa capace di amare come Dio stesso: nei nostri cuori viene effuso lo stesso amore di Dio [cfr. Rom 5,5].
             È questo il fatto cristiano: uomini e donne che introducono dentro la tribolata vicenda umana una energia divina - di cui sono partecipi - che la trasforma progressivamente. È una forza che costruisce, insegna Agostino, una città, la città di Dio.
             Dunque, attraverso il gesto dell’accoglienza che le vostre famiglie hanno compiuto, l’atto redentivo di Cristo [«Cristo accolse voi»] diventa visibile e si impianta dentro alla storia.

    3.      Vorrei ora riflettere un poco su questo “impianto”, chiedendomi che cosa significa per la Chiesa e per la società civile. Inizio dalla Chiesa.
             Partiamo da una costatazione. Nella Chiesa noi vediamo molteplici realtà, molteplici attività, organizzazioni di vario genere. A quale scopo tutto questo? A che cosa ultimamente mira? Alla comunione della carità. Questo è il fine che resterà per sempre, mentre tutti gli altri mezzi scompariranno alla fine dei tempi. Tutto passa; nell’eternità resta solo l’Amore. È per questo che formalmente ed essenzialmente la Chiesa è costituita, è fatta dall’Eucarestia. È l’Eucarestia infatti che “produce” in noi la stessa carità di Cristo. Dall’Eucarestia tutto proviene; ed ad essa tutto deve rifarsi come alla sua originaria sorgente.
             Da tutto questo deriva che un atto di carità vera fa essere, fa crescere la Chiesa più che tutto il resto della sua attività. «Difatti è più prezioso agli occhi di Dio ed è più utile alla Chiesa un briciolo di questo amore che tutte le altre opere messe insieme» [S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale B 29,2; Opere complete, San Paolo ed., Milano 2001, 646].
             L’atto di accoglienza che compite dunque arricchisce il vero tesoro della Chiesa: la fa crescere in ciò che essa è e resterà per sempre.
             Ma c’è anche un altro aspetto su cui voglio attirare la vostra attenzione, e più legato alle circostanze attuali.
             Il vostro atto di carità è normalmente nei confronti del bambino. La Chiesa deve fare penitenza nei confronti di coloro con cui Gesù si è identificato, a causa del comportamento scandaloso di alcuni suoi ministri.
             Anche attraverso di voi, la Chiesa copre agli occhi del suo Signore un peccato fra i più abominevoli.

    4.      Vorrei ora riflettere brevemente sulla rilevanza che il vostro atto di accoglienza ha per la società civile. Mi limito a due ordini di riflessione.
             Il primo. È ben noto a tutti come la presenza dell’altro, diciamo dello straniero, è uno dei problemi più gravi delle società occidentali, oggi. Esse hanno, se non sbaglio, proposto fino ad oggi due soluzioni: la soluzione multiculturalista, e la soluzione integrazionista. La prima propone una coesistenza orizzontale di identità in sé chiuse, incommensurabili. La seconda propone una convivenza che organizza i rapporti fra i diversi mediante la loro riduzione ad un denominatore comune.
             Ambedue stanno clamorosamente fallendo perché partono da un presupposto antropologico falso: solo un universale astratto può unificare, il singolare concreto divide.
             Il vostro gesto indica la via giusta: è nella relazione che riconosce l’altro come chiamato ad una reciproca appartenenza, che la società si costruisce.
             Il secondo. Una delle cause principali del grave malessere in cui versano le società occidentali è la loro incapacità di uscire dalla riduzione della persona ad individuo. Questa riduzione costruisce il sociale umano non come un fatto relazionale, ma come un fatto contrattuale. Tutto fondato sul dare-avere.
             «La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione» [Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate 6,2]. È questo il vostro apporto alla costruzione della città dell’uomo.

             Concludo con un testo di T.S. Eliot. «Tutti gli uomini sono pronti ad investire il proprio denaro, ma la maggior parte se ne aspetta dei guadagni … Io dico: non pensate al raccolto, ma solo a seminare bene» [La Roccia, BvS, Milano s.d., 31].
             Avete seminato bene, perché seminate gratuità ed amore: nella Chiesa e nella società. Il raccolto che ne seguirà è segreto di Dio.

     

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    Coordin.
    00 14/11/2010 15:22
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    00 22/11/2010 13:04

    Il Papa, il preservativo e gli imbecilli

    pubblicata da Massimo Introvigne il giorno lunedì 22 novembre 2010 alle ore 2.34

     Massimo Introvigne

     

    In settimana, quando esce il libro-intervista del Papa, ne parleremo come merita. Oggi invece parliamo di imbecilli. Dalle associazioni gay a qualche cosiddetto tradizionalista, tutti a dire che il Papa ha cambiato la tradizionale dottrina cattolica sugli anticoncezionali. Titoli a nove colonne sulle prime pagine. Esultanza dell’ONU. Commentatori che ci spiegano come il Papa abbia ammesso che è meglio che le prostitute si proteggano con il preservativo da gravidanze indesiderate: e però, se si comincia con le prostitute, come non estendere il principio ad altre donne povere e non in grado di allevare figli, e poi via via a tutti?

    Peccato, però, che – come spesso capita – i commentatori si siano lasciati andare a commentare sulla base di lanci d’agenzia, senza leggere la pagina integrale sul tema dell’intervista di Benedetto XVI, che pure fa parte delle anticipazioni trasmesse ai giornalisti. Il Papa, in tema di lotta all’AIDS,  afferma che la «fissazione assoluta sul preservativo implica una banalizzazione della sessualità», e che «la lotta contro la banalizzazione della sessualità è anche parte della lotta per garantire che la sessualità sia considerata come un valore positivo». Nel paragrafo successivo – traducendo correttamente dall’originale tedesco – Benedetto XVI continua: «Ci può essere un fondamento nel caso di alcuni individui, come quando un prostituto usi il preservativo (wenn etwa ein Prostituierter ein Kondom verwendet), e questo può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità, sulla strada del recupero della consapevolezza che non tutto è consentito e che non si può fare ciò che si vuole. Ma non è davvero il modo di affrontare il male dell'infezione da HIV. Questo può basarsi solo su di una umanizzazione della sessualità».

    Non so se il testo italiano che uscirà tradurrà correttamente «un prostituto», come da originale tedesco, o riporterà – come in alcune anticipazioni giornalistiche italiane - «una prostituta». «Prostituto», al maschile, è cattivo italiano ma è l’unica tradizione di «Prostituierter», e se si mette la parola al femminile l’intera frase del Papa non ha più senso. Infatti le prostitute donne ovviamente non «usano» il preservativo: al massimo lo fanno usare ai loro clienti.  Il Papa ha in mente proprio la prostituzione maschile, dove spesso – come riporta la letteratura scientifica in materia – i clienti insistono perché i «prostituti» non usino il preservativo, e dove molti «prostituti» - clamoroso il caso di Haiti, a lungo un paradiso del turismo omosessuale – soffrono di AIDS e infettano centinaia di clienti, molti dei quali muoiono.  Qualcuno potrebbe dire che «prostituto» si applica anche al gigolò eterosessuale che si accompagna a pagamento con donne: ma l’argomento sarebbe capzioso perché è tra i «prostituti» omosessuali che l’AIDS è notoriamente epidemico.

    Stabilito dunque che le gravidanze non c’entrano, perché dalla prostituzione omosessuale è un po’ difficile che nascano bambini, il Papa non dice nulla di rivoluzionario. Un «prostituto» che ha un rapporto mercenario con un omosessuale – per la verità, chiunque abbia un rapporto sessuale con una persona dello stesso sesso – commette dal punto di vista cattolico un peccato mortale. Se però, consapevole di avere l’AIDS, infetta il suo cliente sapendo d’infettarlo, oltre al peccato mortale contro il sesto comandamento ne commette anche uno contro il quinto, perché si tratta di omicidio, almeno tentato. Commettere un peccato mortale o due non è la stessa cosa, e anche nei peccati mortali. c’è una gradazione. L’immoralità è un peccato grave, ma l’immoralità unita all’omicidio lo è di più.

    Un «prostituto» omosessuale affetto da AIDS che infetta sistematicamente i suoi clienti è un peccatore insieme immorale e omicida. Se colto da scrupoli decide di fare quello che – a torto o a ragione (il problema dell’efficacia del preservativo nel rapporto omosessuale non è più morale ma scientifico) – gli sembra possa ridurre il rischio di commettere un omicidio non è improvvisamente diventato una brava persona, ma ha compiuto «un primo passo» - certo insufficiente e parzialissimo – verso la resipicenza. Di Barbablù (Gilles de Rais, 1404-1440) si dice che attirasse i bambini, avesse rapporti sessuali con loro e poi li uccidesse. Se a un certo punto avesse deciso di continuare a fare brutte cose con i bambini ma poi, anziché ucciderli, li avesse lasciati andare, questo «primo passo» non sarebbe stato assolutamente sufficiente a farlo diventare una persona morale. Ma possiamo dire che sarebbe stato assolutamente irrilevante? Certamente i genitori di quei bambini avrebbero preferito riaverli indietro vivi.

    Dunque se un  «prostituto» assassino a un certo punto, restando «prostituto», decide di non essere più assassino,  questo «può essere un primo passo».  «Ma – come dice il Papa - questo non è davvero il modo di affrontare il male dell'infezione da HIV». Bisognerebbe piuttosto smettere di fare i «prostituti», e di trovare clienti. Dove stanno la novità e lo scandalo se non nella malizia di qualche commentatore? Al proposito, vince il premio per il titolo più imbecille il primo lancio della Associated Press, versione in lingua inglese (poi per fortuna corretto, ma lo trovate ancora indicizzato su Yahoo con questo titolo): «Il Papa: la prostituzione maschile è ammissibile, purché si usi il preservativo».

     

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    Coordin.
    00 28/11/2010 21:52

    Creazione senza Dio? Gli scienziati rispondono a Stephen Hawking.


    L’astrofisico di fama mondiale (e membro della Pontificia Accademia delle Scienze), Stephen Hawking, ha cambiato idea: l’universo ora non lo ha creato Dio ma è nato grazie al nulla. Vuoi per fare pubblicità al suo nuovo libro, vuoi per rimanere nel giro dopo il pensionamento, vuoi per creare scandalo a pochi giorni dalla visita del Santo Padre, ha rispolverato la vecchissima e confutatissima teoria della generazione spontanea, avventurandosi in una serie di contraddizioni, saltellando dalla scienza alla filosofia fino ad improvvisarsi teologo: «C’è una legge che si chiama gravità che porterebbe alla formazione continua dell’universo e che può e continuerà a crearsi da sé, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui qualcosa esiste piuttosto che il nulla, per cui l’universo esiste, e noi stessi esistiamo». Lui sostiene che: 1) Dio non è necessario perché le nuove scoperte della Fisica hanno dimostrato che la creazione dell’Universo è una conseguenza inevitabile di queste leggi e che può essere stato creato dal nulla. 2) E’ molto probabile che esistano non solo altri pianeti simili alla terra ma addirittura altri Universi. Se Dio avesse voluto creare l’Universo al fine di creare il genere umano non avrebbe alcun senso aggiungere tutto il resto.



    Ecco come molti suoi colleghi e non, hanno risposto all’azzardatissima teoria (la pagina sarà in continuo aggiornamento).

    [Modificato da Coordin. 29/11/2010 22:43]
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    00 29/11/2010 09:24

    Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci

     

    E il lupo disse all’agnello: “Intollerante!”

    “Intolleranti!”. Così – testualmente – giovedì scorso il regime comunista cinese ha definito la Chiesa cattolica che protestava per l’ennesimo abuso di Pechino: il regime ha nominato vescovo un suo burocrate pretendendo di imporlo ai cattolici.

    Avete capito bene: i persecutori definiscono “intolleranti” i perseguitati. Non solo. I carnefici comunisti addirittura aggiungono che la vittima, cioè la Chiesa, “limita la libertà religiosa”. Testuale. In queste surreali e sfacciate dichiarazioni c’è tutta l’assurdità del nostro tempo.  

    I comunisti cinesi hanno massacrato i cattolici costringendoli alle catacombe, hanno rinchiuso nei loro bestiali lager sacerdoti e vescovi, facendoli crepare, hanno torturato in ogni modo i credenti, pure imponendo loro dei burocrati di regime come vescovi, ma quando le vittime protestano i carnefici li definiscono “intolleranti”.

    Invece di farsi massacrare e perseguitare in silenzio questi odiosi cattolici osano perfino lamentarsi. Che pretese.

    I compagni cinesi fanno come il lupo di Fedro che accusava l’agnello di prepotenza. Ma il lupo di Fedro ha molti emuli anche in Italia, fra i compagni italiani e nella sinistra tv che fa “Vieni via con me”.

    L’altroieri per esempio sull’Unità Gianni Cuperlo, braccio destro di D’Alema e già leader dei giovani comunisti, occupandosi della richiesta del Cda della Rai di far parlare anche i malati che lottano per la vita a “Vieni via con me” (come hanno potuto farlo la Welby ed Englaro) ha testualmente scritto: “considero questo atto un grave errore di metodo e di principio”, addirittura “un precedente inquietante”.

    Cuperlo ha bollato questa richiesta di pluralismo e di libertà di parola come una minaccia alla “concezione aperta e laica del servizio pubblico”, una “violazione” di principio con un fondo “autoritario”.

    Sì, avete letto bene: autoritario non è chi usa servizio pubblico, pagato da tutti, infischiandosene perfino del consiglio di amministrazione, del presidente e del direttore generale, per imporre il proprio punto di vista come “pensiero unico”, senza tollerare storie e vite diverse.

    No, “autoritario” – secondo il comunista Cuperlo – sarebbe la dirigenza della Tv che invita far parlare anche i malati silenziati e soli (sono tremila famiglie che lottano per la vita), che chiedono una volta tanto di poter far sentire il proprio inno alla vita.

    Il prepotente sarebbe l’agnello.

    Un rovesciamento della frittata analogo a quello di Michele Serra anche lui proveniente dalla storia comunista (si è iscritto al Pci nel 1974, quando c’era Breznev, immaginate che scuola di sensibilità umana ha avuto…).

    Serra, uno degli autori del programma “Vieni via con me”, l’altro giorno sulla Repubblica è arrivato a scrivere – con tono che parrebbe ironico – che i malati che lottano per vivere, contro gravi malattie, sarebbero coloro che desiderano “rimanere in vita a oltranza” e, insieme ai cattolici che se ne fanno portavoce, li ha bollati come “forti che protestano contro deboli”.

    I forti sarebbero quelli oppressi dalla malattia e silenziati dalla Tv.

    Fra i “deboli” di cui parla Serra ci sarebbe la signora Welby, il cui caso in tv ha avuto da solo più spazio di tutte le tremila famiglie di ammalati che lottano “a oltranza” per la vita.

    Ebbene, la signora Welby è intervenuta sulla polemica relativa al pluralismo stabilendo che “non c’è bisogno di alcun contraddittorio” (Corriere della sera, 29/11).

    Ha parlato lei. Gli altri devono contentarsi di ascoltarla, ma “non c’è bisogno”, afferma la signora, che dicano la loro e raccontino a loro volta la loro storia, diversa dalla sua (che bell’esempio di tolleranza).

    Naturalmente anche “la coppia milionaria Fazio-Saviano”, come li chiama Luca Volonté, fa sapere al consiglio di amministrazione e ai vertici della Rai che loro se ne infischiano della richiesta di pluralismo arrivata appunto dal Cda, perché loro fanno come gli pare e piace e, usando la tv pubblica, si ritengono in diritto di discriminare chi vogliono, a partire dai più deboli e poveri, i malati.

    “Concedere” – dicono proprio così: concedere, come se la televisione fosse roba loro – il diritto di parola agli altri ammalati che incitano a lottare per la vita, è – a loro avviso – “inaccettabile”.

    Ne fanno addirittura “una ragione di principio”. Sì, perché è noto che loro amano i principi. Hanno perfino chiamato il (post) comunista e il (post) fascista a declamarli: infatti è da comunisti e fascisti che dobbiamo imparare…

    Il principio che Fazio e Saviano amano di più è quello per cui parlano solo loro e decidono loro chi ha diritto di parlare. Insieme ai principi amano le regole, ma per gli altri.

    Di quelle che richiedono pluralismo nel servizio pubblico televisivo non si danno pensiero.

    L’idea che le loro opinioni e i loro proclami senza contraddittorio siano sottoposti a un diritto di replica – affermano testualmente – “ci pare lesiva della libertà autorale, della libertà di scelta del Pubblico, e soprattutto della libertà di espressione”. 

    Firmato: Fabio Fazio, Roberto Saviano e gli autori di “Vieniviaconme” 

    Cioè, traduciamo: voi italiani pagate il canone e noi vi facciamo i nostri comizi a senso unico e se pretendete di dire la vostra o di sentire anche un punto di vista diverso ledete la nostra libertà di espressione. E addirittura “la libertà di scelta del Pubblico”.

    In realtà tutti i programmi del servizio pubblico sono tenuti a rispettare sempre il pluralismo, non solo politico, ma culturale. Dopo questi precedenti c’è il rischio che in Rai ognuno cominci a fare come gli pare e piace e ognuno si appropri di un pezzo di palinsesto. Fregandosene dei vertici aziendali.

    Pensate cosa accadrebbe se Rai 1 decidesse di portare al festival di Sanremo – davanti a dieci milioni di persone – un rappresentante del Movimento per la vita a fare un discorso in difesa della vita umana nascente…

    Dopo il precedente di “Vieni via con me” potrebbe benissimo farlo. E il Pd? E i radicali? E la sinistra tv? E i finiani? Scatenerebbero il finimondo. Perché solo loro possono pontificare  e declamare i loro valori senza alcun contraddittorio e senza voci alternative.

    Una lettrice mi ha inviato questa divertente lettera:

    “Ieri per curiosità sono andata sul sito di ‘Vieni via con me’ ed ho cliccato sulla rubrica ‘i vostri elenchi’.

    Ho dato un’occhiata  ai messaggi postati e c’era di tutto: elenco delle proprietà benefiche del peperoncino, elenco di quante puzzette in media fa una famiglia italiana all’anno e così via.

    Allora ho voluto lasciare anche io il mio contributo ed ho elencato gli otto motivi per cui non val la pena guardare la loro trasmissione.

    Alla sera sono andata a riguardarmi gli elenchi (io lo avevo inviato alle 17): c’era persino l’elenco postato due minuti prima ( 21.30), ma del mio nemmeno l’ombra… Eppure non c’era nemmeno una parolaccia! Perché allora censurare?”.

    La cosa tragicomica è che questi radical-chic ogni volta si fanno belli con la famosa frase che attribuiscono a Voltaire: “non condivido quello che dici, ma sono pronto a dare la vita perché tu possa continuare a dirlo”.

    A parole – per autocertificarsi tolleranti e di ampie vedute – fanno questa dichiarazione d’intenti. Dopodiché si fanno in quattro per occupare tutta la scena e silenziare o squalificare chi è diverso da loro.

    Post scriptum: vorrei informare questi signori (e anche il Corriere della sera che recentemente ha usato la citazione in una campagna pubblicitaria) che quella frase, in realtà, Voltaire non l’ha mai pronunciata.

    In effetti risale alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, che la scrisse nel 1906 in “The Friends of Voltaire”.

    In compenso Voltaire ne disse un’altra: “écrasez l’infame!”. Che vuol dire “schiacciate l’infame”, laddove “infame” sarebbe il credente. Ecco, citino questa, che è davvero di Voltaire e che esprime decisamente meglio la cultura radical-chic.

     

    Antonio Socci

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    Coordin.
    00 12/01/2011 08:35
    Un cristiano è stato ucciso con colpi d'arma da fuoco e almeno altri cinque sono rimasti feriti su un treno nell'Egitto meridionale. Il nuovo atto di violenza – l'autore sarebbe un poliziotto musulmano anche se le ricostruzioni risultano ancora incomplete e c'è incertezza sul movente - si innesta nella spirale che colpisce i cristiani, e che ha visto il suo culmine nella strage alla Chiesa dei Santi ad Alessandria la notte di Capodanno.
    Preghiamo per questi fratelli in Cristo che muoiono per la loro fede e per quanti rischiano la vita ogni giorno per le persecuzioni in corso in molte regioni della terra.
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    00 16/01/2011 14:25
    Un documento ufficiale della Chiesa che pur essendo datato 1966 resta sempre di straordinaria attualità:

    SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

     

    Lettera circolare ai Presidenti delle Conferenze Episcopali
    circa alcune sentenze ed errori insorgenti
    sull’interpretazione dei decreti
    del Concilio Vaticano II

     

     

    Giacché il Concilio Ecumenico Vaticano II, da poco felicemente concluso, ha promulgato sapientissimi Documenti, sia in materia dottrinale sia in materia disciplinare, allo scopo di promuovere efficacemente la vita della chiesa, a rutto il popolo di Dio incombe il grave dovere di impegnarsi con ogni sforzò alla attuazione di quanto, sotto l'influsso dello Spirito Santo, è stato solennemente proposto o decretato da quella universale assemblea di vescovi presieduta dal sommo pontefice.

    Spetta alla Gerarchia il diritto e il dovere di vigilare, guidare e promuovere il movimento di rinnovamento iniziato dal Concilio, in maniera che i Documenti e i Decreti conciliari siano rettamente interpretati e vengano attuati con la più assoluta fedeltà al loro valore ed al loro spirito. Questa dottrina, infatti, deve essere difesa dai Vescovi, giacché essi, con a Capo Pietro, hanno il mandato di insegnare con autorità. Lodevolmente molti Pastori hanno già cominciato a spiegare come si conviene la dottrina del Concilio.

    Tuttavia bisogna confessare con dolore che da varie parti son pervenute notizie infauste circa abusi che vanno prendendo piede nell'interpretare la dottrina conciliare, come pure di alcune opinioni peregrine ed audaci qua e là insorgenti, con non piccolo turbamento di molti fedeli. Sono degni di lode gli studi e gli sforzi per investigare più profondamente la verità, distinguendo onestamente tra ciò che è materia di fede e ciò che è opinabile; ma dai documenti esaminati da questa Sacra Congregazione risulta trattarsi di non poche affermazioni, le quali oltrepassando facilmente i limiti dell’ipotesi o della semplice opinione, sembrano toccare in certa misura lo stesso dogma ed i fondamenti della fede.

    Conviene, a titolo di esempio, accennare ad alcune di tali opinioni ed errori, così come risultano dai rapporti di persone competenti e da scritti pubblicati.



    1) In primo luogo circa la stessa Sacra Rivelazione: ci sono alcuni, infatti, che ricorrono alla Sacra Scrittura lasciando deliberatamene da parte la Tradizione, ma poi restringono l’ambito e la forza della ispirazione biblica e dell’inerranza, né hanno una giusta nozione del valore dei testi storici.

    2) Per quanto riguarda la dottrina della fede, viene affermato che le formule dogmatiche sono soggette all’evoluzione storica al punto che anche lo stesso loro significato oggettivo è suscettibile di mutazione.

    3) Il Magistero ordinario della Chiesa, particolarmente quello del Romano Pontefice, è talvolta così negletto e sminuito, fino a venir relegato quasi nella sfera delle libere opinioni.

    4) Alcuni quasi non riconoscono una verità oggettiva assoluta, stabile ed immutabile, e tutto sottopongono ad un certo relativismo, col pretesto che ogni verità segue necessariamente il ritmo evolutivo della coscienza e della storia.

    5) La stessa Persona adorabile di Nostro Signore Gesù Cristo è chiamata in causa, quando, nell’elaborazione della dottrina cristologia, si adoperano, circa la natura e la persona, concetti difficilmente conciliabili con le definizioni dogmatiche. Serpeggia un certo umanesimo cristologico che riduce Cristo alla condizione di un semplice uomo, il quale un po’ per volta acquistò la consapevolezza della sua filiazione divina. Il suo concepimento verginale, i miracoli, la stessa Risurrezione vengono ammessi solo a parale, ma vengono ridotti al puro ordine naturale.

    6) Similmente nella teologia sacramentaria alcuni elementi o vengono ignorati o non sono tenuti nel debito conto, specialmente per quanto riguarda l’Eucaristia. Circa la presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino non mancano alcuni che ne parlano inclinando ad un esagerato simbolismo, quasi che, in forza della transustanziazione, il pane e il vino non si mutassero in Corpo e Sangue di N.S. Gesù Cristo, ma fossero semplicemente trasferiti ad una determinata significazione. Ci sono alcuni che, a proposito della Messa, insistono troppo sul concetto di agape a scapito del concetto di Sacrificio.

    7) Alcuni vorrebbero spiegare il Sacramento della Penitenza come un mezzo di riconciliazione con la Chiesa, non esprimendo sufficientemente il concetto di riconciliazione con Dio offeso. Affermano pure che nella celebrazione di questo Sacramento non è necessaria l'accusa personale dei peccati, sforzandosi di esprimere unicamente la funzione sociale della riconciliazione con la Chiesa.

    8) Né mancano alcuni che o non tengono in debito conto la dottrina del Concilio Tridentino circa il peccato originale, o la spiegano in modo che la colpa originale di Adamo e la trasmissione del suo peccato ne restano perlomeno offuscate.

    9) Né minori sono gli errori che si vanno propagando nel campo della teologia morale. Non pochi, infatti, osano rigettare il criterio oggettivo di moralità; altri non ammettono la legge naturale, affermando invece la legittimità della cosiddetta etica della situazione. Opinioni deleterie vanno propagandosi circa la moralità e la responsabilità in materia sessuale e matrimoniale.

    10) A quanto s'è detto bisogna aggiungere alcune parole circa l'ecumenismo. La Sede Apostolica loda, indubbiamente, coloro che nello spirito del Decreto conciliare sull'ecumenismo promuovono iniziative destinate a favorire la carità verso i fratelli separati e ad attirarli all'unità della Chiesa; ma si duole del fatto che non mancano alcuni i quali, interpretando a modo proprio il Decreto conciliare, propugnano un'azione ecumenica tale da offendere la verità circa l'unità della fede e della Chiesa, favorendo un pernicioso irenismo e un indifferentismo del tutto alieno dalla mente del Concilio.

    Questi pericolosi errori, diffusi quale in un luogo quale in un altro, sono stati sommariamente raccolti in sintesi in questa Lettera agli Ordinari di luogo, affinché ciascuno, secondo la sua funzione ed il suo ufficio, si sforzi di sradicarli o di prevenirli.

    Questo Sacro Dicastero prega vivamente i medesimi Ordinari, riuniti in Conferenze Episcopali, di farne oggetto di trattazione e di riferirne opportunamente alla Santa Sede inviando i propri pareri prima del Natale dell'anno in corso.

    Gli Ordinari e quanti altri ai quali per giusta causa essi riterranno opportuno mostrare questa Lettera, la custodiscano sotto stretto segreto, giacché una evidente ragione di prudenza ne sconsiglia la pubblicazione.

     

    Roma, 24 luglio 1966.

    A. Card. Ottaviani

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    00 19/01/2011 21:58

    LE RADICI CRISTIANE DELL'EUROPA A RISCHIO
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    00 22/01/2011 23:39

    Un segno una speranza

    Dopo tanti appelli e sollecitazioni l’Europa finalmente batte un colpo. Nella riunione plenaria di ieri il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in difesa dei cristiani e della libertà religiosa nel mondo. È significativo che l’abbia fatto a larghissima maggioranza, accogliendo la proposta avanzata in modo bipartisan dai popolari e dai socialisti europei su iniziativa degli italiani Mario Mauro (Pdl) e di Gianni Pittella (Pd).

    Non è la prima volta che l’assemblea di Strasburgo alza la sua voce in difesa dei cristiani perseguitati. Era già successo nel 2007, ma in quell’occasione ci si era limitati alla condanna di alcuni episodi di violenza avvenuti nelle settimane precedenti in Iraq e in Pakistan. La risoluzione votata ieri fa seguito agli eccidi compiuti ad inizio anno in Nigeria ed Egitto, ma allarga lo sguardo, riconoscendo l’esistenza di una strategia anti-cristiana a livello globale, un’emergenza che non può più essere sottaciuta e che viene documentata in base ai dati forniti non solo dalle istituzioni internazionali come l’Onu e l’Osce ma, per la prima volta, anche da un’organizzazione religiosa come "Aiuto alla Chiesa che soffre".

    La novità politica più rilevante contenuta nella risoluzione di Strasburgo è la richiesta che la Ue vincoli i propri accordi di cooperazione con i Paesi extra-europei al rispetto della libertà religiosa e alla protezione delle comunità cristiane.

    D’ora in avanti l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, la baronessa Catherine Ashton, non avrà più alibi e non potrà giustificare timidezze, avendo ricevuto un chiaro mandato per intervenire in difesa dei cristiani minacciati e vessati in tante parti del mondo.

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    Coordin.
    00 20/02/2011 18:30

    Ma ci voleva un comico per farci sentire un popolo?

    Posted: 19 Feb 2011 02:10 AM PST

    Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.

    Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.

    Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.

    Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.

    Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”. 

    Ma chissà se ascolteranno.

    Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.

    In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).

    Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.

    E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.

    E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.

    Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.

    Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.

    Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.

    Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).

    In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).

    Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.

    Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.

    Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto  il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).

    C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.

    Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.

    Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.

    Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).

    Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).

    Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.

    Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.

    Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.

     

     

    Antonio Socci

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    00 26/02/2011 22:21

    la Chiesa anglo-luterana: "annulliamo la Riforma e ritorniamo con Roma"

    venerdì 25 febbraio 2011

    Il reverendo Gladfelter, metropolita e massima autorità della chiesa anglo-luterana cattolica americana ha scritto in questi giorni a Mons.Edward J.Steele, vescovo anglo-cattolico della della Florida, riportando queste parole: «La Chiesa Anglo-Luterana cattolica (ALCC) ha inviato una lettera al Cardinal Kasper, Presidente del Pontificio Concilio per la Promozione dell’Unità dei cristiani, scrivendo: “desideriamo annullare gli errori di Martin Lutero e ritornare all’Unica, Sola e Vera Chiesa Cattolica stabilita da Nostro Signore Gesù Cristo attraverso il benedetto San Pietro”».

    Tuttavia, continua la lettera, quando «il Santo Padre, Papa Benedetto XVI ha gentilmente creato l’Anglicanorum coetibus nel novembre dello stesso anno, la ALCC non ha immediatamente risposto come hanno fatto altri». Ma oggi conclude il metropolita, «è con grande gioia e profonda gratitudine che la Chiesa anglo-luterana annuncia la sua intenzione di entrare dell’Ordinariato cattolico americano, secondo le disposizioni dell’Anglicanorum coetibus, ed è pronta ad agire con tutti i nostri fratelli e sorelle in Cristo per annullare la Riforma e ripristinare il visibile, la corporativa unità di Cristo nella santa, cattolica e apostolica Chiesa»

     

    Notizie riguardo al lavoro ecumenico svolto  da Benedetto XVI:

     

    Australia, gli anglo-cattolici vogliono la comunione con Roma: 

     http://www.facebook.com/notes/papa-benedetto-xvi/australia-gli-anglo-cattolici-vogliono-la-comunione-con-roma/190502094305192

     

    50 sacerdoti, 5 vescovi e migliaia di fedeli anglicani ritornano alla Chiesa Cattolica: 

     http://www.facebook.com/note.php?note_id=192436247445110

     

    La Chiesa Ortodossa: "Il Papa è il primo patriarca". Si apre la strada per la riunificazione:

     http://www.facebook.com/note.php?saved&&note_id=192437087445026&id=119327864746668

     

     Gesù ha pregato per l'unità dei suoi seguaci proprio nel momento cruciale della sua esistenza terrena e ancora non si è pervenuti a una realizzazione completa del suo desiderio. Continuiamo a pregare anche noi perchè i CREDENTI siano tutti accomunati da una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio.

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    00 28/02/2011 21:14

    Gianfranco Ravasi: nel cortile dei gentili

    Il cardinale, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, terrà una serie di incontri voluti dal Papa con intellettuali atei. Per far cadere i muri tra fede e scienza.

    07/02/2011
    Il cardinale Gianfranco Ravasi.
    Il cardinale Gianfranco Ravasi.

    Credere è difficile, ma essere atei non lo è da meno. C’è qualche motivo perché atei e credenti si confrontino sulle loro reciproche difficoltà, sui loro pensieri, parole, opere e scelte, in modo che forse possano trovare armonia di argomentazioni senza rinunciare ognuno alla propria identità? Oppure devono continuare a vivere su sponde differenti, ignorandosi o peggio lanciandosi anatemi? La sfida è davvero straordinaria e i risultati lo possono essere altrettanto. La sfida l’ha lanciata Benedetto XVI poco più di un anno fa nel discorso alla Curia romana: «Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea. Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di cortile dei gentili».

    Adesso quel cortile apre le porte a Parigi alla fine di marzo, quando intellettuali agnostici e credenti daranno vita al confronto. Ma altri “cortili” si costruiranno in Europa, nelle Americhe, forse anche in Africa e in Asia per iniziativa del Pontificio consiglio della cultura, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, uno che di dialogo con intellettuali fieramente laici se ne intende.

    Eminenza, cos’è questo cortile?
    «Il luogo di un incontro, ma anche una metafora. Credenti e non credenti abitano la stessa terra e vivono nelle stesse aule delle università. Ma c’è il rischio che si isolino nel proprio recinto sacrale o laico, ignorandosi se va bene, o prendendosi a sberleffi nella maggior parte dei casi. Allora bisogna trovare uno spazio comune, abbattere muri di separazione nella cultura e negli atteggiamenti. Noi ci vogliamo provare».

    Volete convertire gli atei?
    «Assolutamente no. Non c’è alcuna attesa di conversioni, né di inversioni di cammini esistenziali di alcuno. Vogliamo solo proporre un dialogo che eviti il vuoto, gli stereotipi, la banalità. Le voci possono essere anche agli antipodi, ma devono saper creare armonia e migliorare la qualità del dibattito culturale, cioè la vita di tutti».

    Lei ci ha già provato a Milano quando era a capo della Biblioteca Ambrosiana. L’ha suggerita lei l’idea al Papa?
    «No. Il Papa viene da una cultura, quella tedesca, dove la teologia è considerata scienza a tutti gli effetti e in Germania un cortile è stato sempre aperto. Ma ha visto che purtroppo, in Europa soprattutto, tra laici e cattolici il linguaggio è sempre più autoreferenziale. Se manca il dialogo non si va da nessuna parte».

    Però lei ci aveva provato?
    «Sì e devo ammettere che a Milano negli anni passati si è fatta qualche prova di cortile dei gentili. Metà dei miei amici non sono credenti. Continuo a discutere anche a Roma al Pontificio consiglio con laici come Giulio Giorello e Umberto Eco».

    Perché la Chiesa fatica a discutere, nonostante il Concilio?
    «Dobbiamo ammettere che anche la Chiesa ha contribuito a erigere muri, o almeno siepi, di separazione. Credo per unmalinteso senso di autoprotezione o di autodifesa».

    Ma anche i laici hanno concimato siepi...
    «Sì. La teologia non èmai stata considerata un pensiero rigoroso, come filosofia o scienza. La cultura cattolica è ritenuta più fluida e meno consistente dal punto di vista del metodo e dei paradigmi rispetto a quella laica».

    Davvero gli intellettuali laici sono tutti fieramente anticlericali?
    «No. È una convinzione sbagliata che nasce dal radicarsi di quello che io chiamo “ateismo nazional-popolare”, rappresentato da associazioni e personaggi pittoreschi, intellettuali da salotto televisivo. Lì volano gli schiaffi e gli sberleffi e tutto fa la gioia dei fondamentalisti in entrambi gli schieramenti».

    Scienza e teologia possono incontrarsi?
    «Vedremo. Io dico che scienza e teologia non hanno statuti conflittuali, ma sono incomparabili, procedono su due binari, magari paralleli, perché usano metodi differenti. Qualcuno sostiene che i binari non si incontreranno mai, qualche altro che è inutile procedere. Io dico che gli scambi sono possibili».

    Anche se la Chiesa propone valori non negoziabili e viene accusata di imporre visioni etiche blindate?
    «La fede deve sempre saper dare ragione di sé stessa, deve depurarsi di ogni rigidità, deve conoscere in modo puntuale e preciso il livello scientifico del dibattito, soprattutto su questioni delicate come quelle bioetiche. Non si può più far finta di sapere qualcosa e poi imporre un proprio sistema etico punto e basta. La stessa cosa deve fare la scienza, accettando l’orizzonte della trascendenza».

    E chi non crede?
    «Va rispettato. Ma il vero ateo non è mai sprezzante, sarcastico o dissacratorio. Così come il vero credente evita la scorciatoia del devozionalismo».

    Non c’è il rischio che nel cortile si rinunci alla propria identità per quieto vivere? «L’obiezione è diffusa e seria. Per un autentico dialogo vanno esclusi gli estremismi e gli integralismi, ma va evitato anche il sincretismo ideologico che porta alla definizione di un minimo comune denominatore, che non serve a nessuno. Si possono scoprire consonanze anche in contributi differenti che rimarranno sempre tali. La cosa importante è suscitare la ricerca attorno, in definitiva, alla questione di Dio, che potrà anche rimanere sconosciuto e ignoto alla fine per molti, ma sul quale nessuno è autorizzato a negare che ci si debbano porre domande».

    Alberto Bobbio
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    Credente
    00 03/03/2011 23:53

    Pakistan, ucciso il ministro cattolico
    che ha sfidato i fondamentalisti

    Shahbaz Bhatti è stato ucciso da un commando di 4 uomini

    Bhatti freddato da un commando
    era in auto, lasciato senza scorta
    Il Vaticano: «Violenza terribile»
    Frattini: ora si muova l'Europa

    L’hanno freddato in pieno giorno, appena uscito di casa. Erano in quattro: un commando. L’hanno affiancato, hanno scaricatato una valanga di proiettili. Shahbaz Bhatti, cattolico, ministro per le Minoranze religiose in Pakistan, è morto così, di fianco all’autista. Inutile la corsa in ospedale. Nel mirino da tempo, Bhatti, 42 anni, era stato appena confermato dopo un rimpasto come unico ministro cristiano del governo, nonostante le pressioni dei gruppi fondamentalisti islamici.

    È la seconda vittima in due mesi della battaglia per riformare la legge sulla blasfemia che attualmente prevede la pena di morte. Il 4 gennaio era stato ucciso da un uomo della sua scorta il governatore del Punjab, Salmaan Taseer, battutosi anche lui per la modifica di una legge che pur non avendo portato ad esecuzioni capitali è usata come arma di pressione sulle minoranze religiose.  L'omicidio è stato rivendicato dai talebani pachistani. Per telefono un loro portavoce, Ihsanullah Ihsan, ha spiegato che «l’uccisione è un messaggio per tutti coloro che
    sono contro le leggi sulla blasfemia in vigore in Pakistan».

    Gli assassini indossavano degli scialli. Il capo della polizia di Islamabad, Wajid Durrani, ha assicurato che a Bhatti era stata fornita una protezione adeguata ma ha ammesso che non viaggiava con la scorta, perchè il ministro avrebbe comunicato agli agenti di raggiungerlo in ufficio.

    Negli ultimi mesi Bhatti era stato minacciato di morte anche per essersi battuto per la grazia ad Asia Bibi, la donna cristiana del Punjab condannata a morte nel giugno 2009 proprio in base a quella legge. Asia Bibi, madre di due figli, ribattezzata la «Sakineh cristiana», è in attesa del processo d’appello davanti alla Corte di Lahore. È accusata di aver insultato Maometto durante una discussione con le colleghe.

    L'assassinio di Shabbaz Bhatti «è un nuovo fatto di violenza di terribile gravità che dimostra quanto siano giusti gli interventi insistenti del Papa a proposito della violenza contro i cristiani e contro la libertà religiosa in generale» ha detto il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi.

    In Pakistan sono 750mila i cristiani su una popolazione di 162 milioni di abitanti a netta maggioranza musulmana. «So che potrei essere assassinato se continuerò la mia battaglia, ma non ho paura», aveva detto il ministro dopo il rimpasto di governo. E’ stato così. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha espresso «la più ferma condanna» per l’assassinio e ha chiesto che ora l’Ue dia «concreta e immediata attuazione al piano d’azione» per la difesa dei cristiani.

     

    IL VIDEOTESTAMENTO DEL MINISTRO BATTHI PRIMA DI MORIRE PER AMORE DI CRISTO E DELLA GIUSTIZIA

    http://www.rainews24.rai.it/it/video.php?id=22430

     

     

    [Modificato da Credente 04/03/2011 12:09]
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    Credente
    00 14/03/2011 23:03

    Giuliano Ferrara e… Gesù (lettera aperta a un amico)

    Di Antonio Socci

    Caro Giuliano,

    cosa sta succedendo? Ieri sulla terza pagina del Foglio è uscito un lungo articolo firmato, per esteso, “Giuliano Ferrara”, fatto insolito, che evidentemente voleva sottolineare un tuo personale coinvolgimento.

    In effetti si trattava di una tua polemica – come sempre rispettosa e intelligente, ma pur sempre polemica – con la Chiesa per la “rimozione del vescovo di Orvieto” che veniva dopo una serie di altri articoli su quella vicenda, dolorosa per la Chiesa e anche tragica per alcuni suoi figli, che il tuo giornale ha pubblicato in bella evidenza in questi giorni.

    Nessun altro giornale ha ritenuto di dare tanto spazio a questo caso. E’ evidente dunque la tua volontà di tenere il punto e i riflettori accesi su Orvieto.

    Io credo che il motivo travalichi di molto il caso di Orvieto.

    A proposito del quale, con tutta la simpatia che ho per monsignor Scanavino e pur con tutta la comprensione per le sue ragioni e la sua buona fede, mi riesce difficile capire come un vescovo che professa obbedienza al Papa e che in nome di questa obbedienza rassegna le dimissioni, possa un minuto dopo convocare una conferenza stampa e dare il via alle polemiche pubbliche.

    Egualmente non capisco come tu, Giuliano, possa pensare di discutere pubblicamente su un giornale questioni così delicate e anche intime (nella parte relativa alle ordinazioni sacerdotali) che la Chiesa ha cura di valutare e giudicare con estrema discrezione e riservatezza, proprio per rispetto alle persone e consapevole che il bene delle anime è la sua legge suprema.

    Naturalmente errori di decisione sui casi particolari, da parte ecclesiastica, possono essere sempre possibili. Ma lasciami dire che ritengo la Chiesa più esperta sull’umano di te e di me. E anche molto più informata di noi sull’estrema complessità di queste vicende particolari.

    Da duemila anni fa il suo mestiere di madre e di maestra e una madre sa essere più materna – anche nella correzione di un vescovo – di quanto lo siamo noi (esterni) nell’accondiscendenza.

    D’altra parte mi pare curioso che – mentre il mondo sta letteralmente esplodendo, sia socialmente che fisicamente – il migliore dei nostri intellettuali, firmi un lungo articolo per discutere le dimissioni del vescovo di Orvieto o le regole di ammissione al sacerdozio della Chiesa cattolica.

    Le quali richiederebbero oltretutto una competenza approfondita del diritto canonico e un’esperienza pastorale consolidata, che – per quanto ne so – tu, come me, non hai.

    E’ vero però che le tue riflessioni, Giuliano, sono sempre molto belle e acute e anche stavolta il tuo affettuoso invito alla Chiesa a non subire la pressione e il ricatto psicologico del mondo fa seriamente riflettere.

    Non è un caso se il papa in persona, nella sede ufficiale del convegno ecclesiale della Chiesa italiana, ha avuto per te parole di così grande stima e considerazione.

    Evidentemente ti ritiene una voce preziosa – oltreché per il mondo – per la Chiesa e lo sei anche quando hai accenti critici che ci fanno giustamente riflettere autocriticamente.

    Lasciami dire però che non credo che il sistema di selezione degli ecclesiastici sia davvero in cima alle tue preoccupazioni.

    E se ne hai fatto un caso su cui scendere in campo è perché, da tempo, c’è qualche sofferenza nel tuo rapporto con la Chiesa Cattolica, c’è come una ferita da parte tua, che ti rende inquieto e – rispettosamente e intelligentemente – polemico.

    Lo dimostrano diverse altre cose che hai pubblicato sul Foglio.

    Per esempio una paginata di alcuni giovani intellettuali cattolici (antiprogressisti) che ritengono sbagliata la presenza del Papa ad Assisi, nell’anniversario della preghiera di Giovanni Paolo II per la pace (si appellavano al Pontefice perché ci ripensasse).

    E più ancora lo dimostra il tuo schierarti contro la cosiddetta legge sul fine vita. Proprio tu che hai fatto battaglie memorabili sul caso di Terry Schiavo e su altri che sono seguiti e che ponevano drammaticamente il problema.

    Non mi convince la tua posizione attuale sulla legge in discussione alla Camera, perché tu – che sei così contrario alla cultura eutanasica – sai benissimo che c’è oggi un vuoto normativo che va colmato da una legge, per non lasciare che siano i magistrati, con le sentenze, a fare giurisprudenza,

    Se dunque tu lo sai trovo irrazionale e contraddittoria la tua preferenza per il vuoto legislativo.

    Così come mi sembra sbagliata (lo dico con amicizia) la polemica dei firmatari dell’appello al Papa su Assisi perché non coglie il senso dei tempi che viviamo, né la grandezza di un Papa che – non va dimenticato – è il papa del discorso di Ratisbona.

    Insomma, tutti i casi sopra elencati di polemica – a mio parere – non hanno in sé ragioni convincenti. Si ha la sensazione che ci sia dell’altro.

    Il dissenso fra te e la Chiesa italiana cominciò forse con la tua scelta di presentare una lista tematica contro l’aborto, alle ultime elezioni.

    Tutti apprezzammo il coraggio della sfida, la tua generosità e la nobiltà dell’idea – condividendo in toto i tuoi contenuti – ma sull’opportunità concreta della lista disancorata da qualsiasi coalizione dissentimmo.

    E penso che ne avevamo i titoli venendo da una trentennale lotta alla cultura abortista.

    C’è chi ritiene che la tua “ruggine” con i vescovi inizi da lì e sia causata da quel fatto. Io ritengo che non sia affatto così. Non sei proprio tu il tipo che fa derivare uno scandalo e una rottura da una diversità di giudizio sia pur dolorosa.

    Piuttosto anche quella vicenda fu il segno di una questione ben più grande e decisiva con cui eri alle prese. Io provo a decifrarla.

    La tua ammirazione per la Chiesa, per la solidità della sua dottrina e della sua morale, mi ricorda un altro romano, come te, che duemila anni fa restò egualmente folgorato: Seneca.

    Per lui fu decisivo l’incontro e l’amicizia con Paolo. Ne restò affascinato. Tutto il suo pensiero morale ne fu profondamente segnato.

    Trovò in Paolo una filosofia che finalmente realizzava nella vita ciò che aveva sempre voluto. Ma non capì o non si aprì mai al “segreto” di Paolo, al cuore di quella filosofia, a ciò che rendeva Paolo un uomo straordinario: ovvero Gesù Cristo.

    Il nostro amato Gilbert K. Chesterton, un grande convertito, ha scritto:

    “Il cristianesimo è venuto nel mondo prima di tutto per affermare con violenza che l’uomo doveva guardare non solamente dentro di sé, ma anche fuori, doveva ammirare con stupore ed entusiasmo un divino drappello e un divino capitano.

    Il solo piacere che si prova a essere cristiani è quello di non sentirsi soli con la Luce interiore, è quello di riconoscere nettamente un’altra Luce, splendida come il sole, chiara come la luna”.

    Si può ammirare il cristianesimo come filosofia di vita e come dottrina morale, ma dire “tu” a quel “divino capitano” è il passo decisivo ed esaltante.

    Certo, è anche quello più drammatico perché ognuno di noi è “fugitivus cordis sui”.

    Infatti il faccia a faccia con Gesù ci fa scoprire noi stessi ed è un dolore finché non ci sentiamo abbracciati e perdonati.

    D’altra parte – te lo dico dal di dentro della mia battaglia drammatica accanto a Caterina – è solo lui il senso della nostra vita, è per lui che siamo fatti, lui è la nostra gioia.

    Come sapeva il grande Agostino: “ci hai fatti per Te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”.

    Tu, Giuliano, credi di stare a polemizzare con la Chiesa e così credono anche gli altri. Ma in realtà, come Giacobbe che lottò con l’angelo tutta la notte, è con Dio, con l’Uomo-Dio che stai lottando.

    E come Giacobbe e come tutti noi che l’abbiamo visto in faccia, porterai il segno di questa lotta (la bellezza di quel volto) nella carne per tutta la vita.

    C’è un solo modo per vincere: assecondare quel fascino che avvertiamo, far vincere il nostro cuore, lasciarsi salvare.

     

    Antonio Socci

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    Credente
    00 19/03/2011 18:20
    La Corte Europea dice sì al Crocifisso nelle scuole


       
     
      
    sabato 19 marzo 2011

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    Dopo un anno e mezzo dal fatidico 3 novembre 2009, allorquando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva ideologicamente ritenuto che l’esposizione del Crocifisso potesse essere fonte di lesione dei diritti alla libertà di coscienza e di educazione dei cittadini che in esso non si riconoscevano, il 18 marzo 2011, la Grande Chambre, cioè il secondo grado del predetto organo giurisdizionale, ha ribaltato, con un’ampia maggioranza di 15 a 2, la precedente decisione, riconoscendo, giustamente, che l’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche non è di per sé lesiva dei diritti dei cittadini. L’esposizione è dunque legittima, in quanto non può essere intesa, arguisce il giudice, come fonte di indottrinamento, in quanto il Crocifisso è un simbolo sostanzialmente passivo la cui influenza non può essere paragonata né ad un discorso didattico, né ad una forma di insegnamento obbligatorio del Cristianesimo.
    Sulla prima decisione erronea molto si è scritto, ma questo non esime dall’occasione di riflessione offerta dalla seconda, corretta, pronuncia.In primo luogo: nonostante le deviazioni ideologiche e negazioniste di tanti esponenti dell’intellighenzia post-comunista e filo-radicale (come Zagrebelsky, Rodotà, Flores D’Arcais, Scalfari ) inducano a reputare il contrario, la laicità è un concetto tipicamente cristiano: risulta sempre più bizzarro ritenere, dunque, che l’esposizione del simbolo di ciò (il Cristianesimo) che ha inventato (nel senso etimologico di inventio, cioè di scoperta, ritrovamento) l’idea stessa di laicità possa essere contrario alla laicità medesima; sarebbe come pensare che il cartello pubblicitario leda gli interessi economici della stessa impresa i prodotti della quale sono oggetto di pubblicità.In secondo luogo: si deduce che il principio di eguaglianza, base delle moderne legislazioni nazionali e delle carte internazionali dei diritti dell’uomo, e di cui, purtroppo, molti si riempiono la bocca pur essendo quasi totalmente sprovvisti della reale essenza d’un tale principio, non subisce lesioni dall’esposizione del Crocifisso. Anche in questo caso, del resto, l’uguaglianza, intesa come parità ontologica degli esseri umani che determina l’incoercibile rispetto della loro dignità prescindendo da ogni differenziazione politica o da ogni contingenza biologica ( colore della pelle, disabilità, grado dello sviluppo ), è una scoperta del tutto cristiana.
    Si ricordino le parole di Bobbio, non certo un clericale, che citava a sua volta Mazzini:« Pur preconizzando una nuova epoca che chiamò sociale, Mazzini riconobbe che nella Dichiarazione dei diritti dell’89 erano stati riassunti “ i risultati dell’Epoca cristiana, ponendo fuor d’ogni dubbio e innalzando a dogma politico, la libertà conquistata nella sfera dell’idea del mondo greco-romano, l’eguaglianza conquistata dal mondo cristiano e la fratellanza, ch’è conseguenza immediata dei due termini”»; in altre parole, i principi cardine dell’illuminismo, libertà, eguaglianza e fratellanza (libertè, egalitè, fraternitè), altro non sono che una rielaborazione-riproposizione di principi geneticamente e genuinamente cristiani.Da ciò si potrebbe ritenere che non vi è nulla di più cristiano dell’illuminismo, ma questa sarebbe una visione parziale e parzialmente erronea che necessiterebbe d’una opportuna correzione apportata dalla consapevolezza che, alla luce di quanto detto, non v’è nulla di più illuministico del Cristianesimo.In terzo luogo: a seguito della predetta decisione della Grande Chambre si evince che il Crocifisso non è incompatibile con la libertà di coscienza. Anzi, tutt’altro: per ragioni storiche (i cristiani furono i primi a rivendicare la libertà di coscienza nei confronti dell’impero romano che pretendeva l’adorazione divinizzante dei propri sovrani ); per ragioni filosofiche ( come tra i tanti già Bobbio e Mazzini hanno egregiamente espresso); per ragioni teologiche (in quanto solo il Cristianesimo, soprattutto il cattolicesimo, ha posto le condizioni per il riconoscimento del libero arbitrio quale dimensione costitutiva dell’esistenza umana e del rapporto di questa con Dio).
    La Grande Chambre, ripristina, dunque, i principi di legittimità e giustizia che il giudice di primo grado aveva stravolto disancorando la propria decisione dalla trama storica, filosofico-giuridica e teologica della simbologia cristiana. La libertà europea, volenti o nolenti, resta inderogabilmente legata, dunque, al Crocifisso che incarna, oltre il significato strettamente religioso che ad esso è proprio, anche e soprattutto il simbolo stesso della libertà, tale per cui pensare la libertà senza di esso o addirittura contro di esso, significa porsi in un’ottica non libera e perfino di non-pensiero. Rebus sic stantibus, non è un caso, allora, che uno dei padri del liberalismo, Alexis de Tocqueville, ebbe così a scrivere:«Non ho mai visto dei popoli liberi la cui libertà non affondasse più o meno profondamente le sue radici nella fede religiosa», così come si spera per la libertà europea, cioè non solo quella dell’Europa, ma soprattutto quella degli europei.

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    Coordin.
    00 01/05/2011 08:43

    Il cardinale Sodano: il Papa che ha costruito la pace

     

    Ha guidato la diplomazia della Santa Sede in un periodo di grandi trasformazioni negli assetti internazionali: la fine della guerra fredda con la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’impero sovietico e la nascita di nuovi Stati. Grandi scenari che hanno visto in primissimo piano la Chiesa di Papa Wojtyla e la sua opera di evangelizzazione a tutto campo: Segretario di Stato dopo gli anni di Agostino Casaroli – il cardinale Angelo Sodano è stato il primo e più diretto collaboratore di Giovanni Paolo II.
     
    Eminenza, in questi giorni d’attesa del­la beatificazione del Papa Giovanni Paolo II sono apparsi molti scritti in merito ai suoi 27 anni di pontificato. C’è qualche aspetto che merita ancora di essere sottolineato?
    Di fronte alla personalità eccezionale del grande Pontefice ognuno ha preferito soffermarsi su qualche suo aspetto specifico, come quando un artista contempla la faccia di un prisma multicolore. Da parte mia credo che si dovrà far conoscere meglio il servizio che Giovanni Paolo II ha reso alla libertà dei popoli e alla loro pacifica convivenza. Nelle più note biografie del compianto Pontefice tale tema è già stato in parte affrontato. Penso, ad esempio, alle opere di Weigel negli Stati Uniti, di Raimond in Francia e in Italia del professor Andrea Riccardi con la sua recente biografia del prossimo beato. Penso però che con il tempo il contributo sociale di questo grande Papa dovrà essere meglio approfondito. Da parte mia cercherò di contribuirvi.

    Lei è stato per 15 anni collaboratore di Papa Wojtyla in tale sua missione al servizio dei popoli. Quali saranno le i­niziative più ricordate?
    Penso che sarà molto ricordato il suo impegno per la libertà dei popoli dell’Europa centro-orientale. In realtà egli ha contribuito in modo decisivo al sorgere di una nuova Europa, un’Europa che respira a due polmoni, dall’Atlantico agli Urali, un’Europa della libertà e della solidarietà. Con la caduta del Muro di Berlino, in quella storica data del 9 novembre 1989, si apriva una nuova era non solo per i cristiani che potevano ormai professare liberamente la loro fede, ma anche per tutte le Nazioni dell’Est europeo, come per quelle dei Balcani. L’apporto dato da Papa Giovanni Paolo II alla caduta del comunismo e al conseguente avvio di una nuova era di libertà in Europa è stato pubblicamente riconosciuto, in varie occasioni, dallo stesso ultimo presidente dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov. In tal senso, parlò anche esplicitamente con me, prima e dopo lo storico incontro con Giovanni Paolo II, qui in Vaticano, il 1° dicembre 1989. Egli affermava che tutto ciò che è successo in Urss e in Europa centro­orientale non sarebbe stato possibile senza il ruolo decisivo del grande Papa slavo.

    Qual era, a suo giudizio, la visione che muoveva il Papa nel suo straordinario im­pegno per la libertà e la pace dei popoli?
    Era un impegno che partiva dalla sua profonda fede nel piano di Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, dandogli una dignità che nessuno Stato e nessuna istituzione umana può violare. Già nella prima enciclica del suo pontificato, la Redemptor hominis , il Papa indicava nel rispetto dei diritti umani il cammino fondamentale per assicurare un’ordinata convivenza dei popoli. Per il Papa il nesso fra giustizia e pace era fondamentale, come fra causa ed effetto. Dinanzi a sé Giovanni Paolo II aveva poi l’esempio dato dei suoi predecessori sulla Cattedra di Pietro e il magistero ribadito dal Concilio ecumenico Vaticano II nella celebre Costituzione pastorale Gaudium et Spes. Anche per tale suo contributo alla pace fra i popoli Giovanni Paolo II sarà domenica prossima dichiarato beato dal Papa Benedetto XVI. Il Pontefice attuale ha ora raccolto la bandiera del suo predecessore e continua a tenerla alta sul mondo intero.
     
    Oltre all’area europea, quali furono gli scenari su cui si concentrò maggior­mente l’intervento pacificatore di Gio­vanni Paolo II?
    È difficile in questo momento fare un elenco di tutti gli interventi del compianto Pontefice. Ma è a tutti noto che le aree tipiche in cui ha dovuto operare sono state, durante il suo pontificato, l’area dei Balcani, la Terra Santa, l’Iraq e l’Africa Centrale. So bene che vi sono stati molti altri casi in cui si è dispiegata la sua opera, in Asia come in America Latina. A tale riguardo vorrei ricordare il pericolo di guerra che alla fine del 1978 era scoppiato fra Argentina e Cile, a causa di un’annosa controversia relativa al Canale del Beagle, all’estremità australe dei due Paesi. La mediazione di Giovanni Paolo II riuscì a evitare un conflitto fra quelle due Nazioni sorelle. Fu una mediazione lunga e paziente, ma dopo quattro anni di trattative, si poté firmare a Roma, il 29 novembre 1984, un vero e proprio Trattato di pace e di amicizia fra Argentina e Cile. Fra quelle popolazioni il nome del Papa Giovanni Paolo II vive in benedizione.

    Lei fu testimone di molti interventi in campo internazionale del compianto Pontefice. Qual era lo spirito che lo guidava?
    Era uno spirito di grande equilibrio fra le parti, in fondo di grande prudenza. Non per nulla è beato: egli, infatti, dimostrò in modo eminente tale virtù della prudenza, pur cercando di dare a ognuno ciò che gli competeva, in base alla virtù della giustizia. Tipica al riguardo è la sua posizione nell’annoso conflitto esistente in Terra Santa. Al riguardo, sempre riconobbe i diritti sia degli israeliani che dei palestinesi ad avere un proprio Stato, nel rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Nel grande Giubileo del 2000, il compianto Pontefice volle pure compiere un viaggio in Terra Santa, richiamando le parti a trovare un cammino di riconciliazione fra di loro, nel nome di quell’unico Dio verso il quale convergono le tre grandi religioni monoteistiche professate in quel Paese. In questo momento l’opera di pace di Giovanni Paolo II è particolarmente ricordata nei vicini Paesi della Slovenia e della Croazia, che celebrano il ventennio della loro indipendenza.

    Cosa ricorda di quel 1991?
    Ricordo che sin dall’inizio della crisi nell’ex-Jugoslavia il Papa Giovanni Paolo non cessò di richiamare con vigore i princìpi etici della legge naturale e i principi giuridici del diritto internazionale, che regolano i rapporti fra i popoli. Da una parte, la Croazia e la Slovenia avevano il diritto di scegliere il loro destino, in base alla stessa Costituzione della Repubblica federale di Jugoslavia e, d’altra parte, il governo di Belgrado aveva il diritto di seguire tale situazione, senza però ricorrere all’uso delle armi contro le proprie popolazioni. La guerra – insisteva sempre il Papa – non poteva essere mai considerata come un mezzo per risolvere le controversie fra i popoli. Nei suoi numerosi interventi in quegli anni difficili Giovanni Paolo II si ispirò poi sempre ai valori evangelici del perdono reciproco e della riconciliazione. Grazie anche al compianto Pontefice si è poi sviluppata un’ordinata vita sociale nelle Repubbliche sorte dopo la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia. Anche per quest’opera di pace Giovanni Paolo II sarà domenica prossima proclamato beato. Egli si è ben meritato la beatitudine promessa da Cristo agli artefici di pace.
    Angelo Scelzo

    Roma invasa da pellegrini di tutto il mondo per la "festa della fede", come l'ha chiamata Papa Benedetto XVI. Sabato sera la Veglia al Circo Massimo, con le testimonianze di chi ha conosciuto più da vicino Giovanni Paolo II, poi la "notte bianca" di preghiera in otto chiese e domenica la grande cerimonia della beatificazione
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    00 10/05/2011 14:47

    Come difendersi dal deserto che avanza


    Uno tsunami di chiacchiere, un’alluvione di sciocchezze e pure idiozie, una tracimazione di banali o ridicoli “secondo me” che pretenziosi sentenziano su tutto e tutti…

    Come difendersi da questo assordante assedio di tv, internet e altri media che ci fanno perdere di vista la realtà e perfino la cognizione di noi stessi (e che forse proprio per far perdere la cognizione del dolore vengono fatti dilagare)?

    Queste formidabili armi di “distrazione” di massa riescono a far credere ad alcuni miliardi di abitanti del pianeta, per giorni, che il matrimonio di due bamboccioni di buona famiglia a Londra sia “la” notizia da diffondere in mondovisione per ore e che debba elettrizzare l’umanità, che sia la notizia importante per la nostra vita.

    Assai più delle tragedie del mondo (perlopiù oscurate) e pure della nostra esistenza concreta, delle nostre difficoltà, delle nostre intime e brucianti domande, della nostra personale ricerca del senso della vita.

    “Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta,/ forse po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).

    Tutto cospira a cancellare la domanda “per cosa vale la pena vivere?” o “chi sono io?”, tutti si rassegnano al pensiero dominante, a ripetere quel che “si dice”, a vivere all’esterno di se stessi.

    E così “tutti quelli che mi hanno incontrato è come se non m’avessero veduto” (Rimbaud).

    Così ci lasciamo convincere addirittura che è bene non essere se stessi, che l’inautentico è un’opportunità, che tante maschere possano sostituire un volto assente.

    Lo proclama un personaggio di Philip Roth nel romanzo ‘La controvita’:

    “Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io.

    Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio.

    Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro”.

     

    Così siamo divenuti una dimora disabitata, estranea a noi stessi. Per questo la nostra generazione trova così arduo accompagnare i propri figli in quella fondamentale avventura che è la conoscenza di sé e l’esplorazione del mistero dell’esistenza.

    E siccome però esplode da ogni fibra del nostro essere il bisogno di ritrovarci, di scoprire la nostra anima, siccome non possiamo sfuggire alla “nostalgia del totalmente altro”, allora l’industria delle parole ci rifila sui suoi scaffali i “prodotti spirituali”, i Mancuso, i Galimberti e perfino gli Scalfari…

    Come se si potesse mai placare l’atavica sete di acqua fresca di un morente nel deserto, con un diluvio di confuse chiacchiere sull’acqua.

    Converrebbe piuttosto scoprire guide autentiche, per farci accompagnare alla decifrazione della nostra condizione umana e verso sorgenti di acqua zampillante…

    Ci sono due testimoni, due grandi anime, apparentemente molto diverse e lontane: Franz Kafka e santa Teresa d’Avila. Cos’hanno in comune lo scrittore praghese e la mistica spagnola?

    Intanto nascono entrambi nella storia e nella sensibilità ebraica e poi hanno scritto due libri – a distanza di tre secoli e mezzo – con un titolo quasi identico: “Il Castello”, nel caso di Kafka e “Il castello interiore” nel caso di Teresa d’Avila.

    Per entrambi il “castello” è la metafora della misteriosa fortezza dell’anima, dell’autenticità. E’ stato Antonio Sicari ad accostare, in un suo piccolo volume – “Fortezze accessibili” (edizioni Ocd) – questi due grandi e i loro due libri.

    Il “Castello” di Kafka racconta – secondo la sintesi di Sicari – di “un impiegato che giunge nel villaggio situato ai piedi del Castello da cui è stato ufficialmente convocato per assumervi il posto di agrimensore (geometra)”.

    Quella “convocazione” del protagonista, identificato come “K.”, è la chiamata ad esistere (dal nulla) e al grande compito della vita.

    “Ma nel Castello egli non riesce ad entrare a causa di mille difficoltà e mille intralci burocratici.. Il suo contratto d’assunzione è regolare e non può essere sciolto, ma è stato fatto nell’epoca in cui al Castello c’era veramente bisogno di un geometra, poi la pratica è andata smarrita per anni, quando finalmente è stata ritrovata e spedita già non c’era più bisogno di lui”.

    Lo “spaesamento” del protagonista, ci avverte Sicari, è quello dell’uomo moderno: “gettato in un mondo dove non è atteso, dove è di troppo, dove nessuno ha bisogno di lui”.

    Infatti l’ostessa del villaggio dice a K. : “lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla”.

    A dire il vero c’è stata un’occasione in cui K. poteva entrare finalmente nel Castello: “di fatto c’è un istante notturno in cui sembra che gli venga offerta una qualche possibilità, ma, proprio in quel momento, K. è intontito dal sonno e non ha la forza di rendersene conto”.

    Quante volte un avvenimento, un incontro, un fatto, un volto ti fa intuire o ti spalanca la possibilità di ritrovare te stesso, ma poi quella possibilità di una vita diversa non fiorisce, non diventa una storia, viene perduta nella distrazione, a causa del nostro torpore, sprecata dalla nostra mancata adesione, dalle nebbie della sonnolenta esistenza “fuori” di noi.

    Cosa ci sia dentro il Castello, cioè cosa si perde a starne fuori, lo racconta Il Castello interiore: “Anche Teresa” spiega Sicari “parla di un uomo ‘estraneo’ al Castello e ne parla in termini ancora più radicali (dato che, nella sua opera, l’uomo esiliato diventa sempre più simile alle bestie), ma ella ha anche insegnato la possibilità, e perfino il dovere, di ‘entrare’ nel Castello, di ‘abbellire e abitare’ progressivamente tutte le sue dimore e perfino di raggiungere l’appartamento regale dove si è amorevolmente attesi”.

    Dal tempo di Teresa all’epoca moderna cosa è accaduto? E’ diventato più difficile incontrare delle “guide” che aprano le porte del Castello e ti accompagnino a gustarne le delizie.

    Infatti K. non trova intermediari, non trova chi lo aiuti:  “è alla spasmodica ricerca di un qualche amico, anche miserabile” nota Sicari, ma “non c’è mediatore alcuno, non c’è Messia”.

    Il nostro è il tempo della povertà, quello in cui è più difficile incontrare i santi, gli amici del Salvatore, è più difficile riconoscerli e seguirli.

    Eppure Dio ci raggiunge comunque attraverso il “divino drappello” dei suoi santi che è la Chiesa.

    E’ proprio la “detestata” (dal mondo) Chiesa che può accompagnare l’uomo nel Castello in cui è stato chiamato a regnare.

    Un po’ come lo “stalker” dell’omonimo film di Tarkovskij (un ex detenuto del lager, uno che a un certo punto mette sulla testa una corona di spine) accompagna chi lo chiede nella “zona” dove si trova la misteriosa “stanza dei desideri”.

    Scrive Wittgenstein  “Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che ‘Dio’ non mi visiti”.

    Il Re dei Cieli ci visita e noi non ce ne accorgiamo, pieni di sonno, storditi dalle chiacchiere e dal frastuono della vita esteriore (fuori dal Castello) che non ci fa accorgere della sua voce che ci chiama.

    Cosicché Eliot poteva scrivere: “Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio/ Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo/…/ Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?/ Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”.

    Antonio Socci

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    00 23/05/2011 09:42

    In Cina 10mila conversioni cristiane al giorno, nonostante l’oppressione atea

    Il comune denominatore dei regimi è la guerra alla fede religiosa. Questo accade ancora oggi in Cina, guidata ufficialmente dall’ateismo governativo. L’articolista de " il Giornale " è chiara: «Sono anni che la religione torna a intralciare i piani della Repubblica Popolare cinese. Come una maledizione, come una iattura, continua a bussare alle porte della gente, nonostante le torture, al di là della paura, delle minacce, del terrore».

    Nonostante gli appelli di Benedetto XVI, Pechino gestisce il «suo» conclave, fatto di preti scelti direttamente dal regime. «Il governo ci prova da sempre, lotta contro i preti, le chiese, le processioni, le meditazioni. Mao voleva uno Stato ateo, senza traccia di credo religioso ma ha perso». E lo conferma l’ultima stima del professore Li Tianming, del dipartimento di teorie religiose dell’università di Renmin: «Ogni giorno sono dieci mila i cinesi che si convertono al cristianesimo». Un numero altissimo, nonostante i divieti e i campi di lavoro per «ripulire la mente». «La Cina ha due facce: quella ufficiale è atea, dall’altra parte c’è quella nascosta, che continua a crescere, che non si arresta, fatta da milioni di fedeli». Il prof. Li Tianming spiega che «oggi le religioni si stanno prendendo le loro rivincite. Si stima che ormai siano 200 milioni i credenti. A questo ritmo la Repubblica Popolare cinese diventerà il più grande Paese credente del mondo. Le persone vengono in chiesa perché si sentono felici, hanno bisogno di meditare».

    È dal 2010 -continua il quotidiano- che il governo cinese ha dichiarato guerra ai cattolici e protestanti, un centinaio di credenti erano stati arrestati nel mese di dicembre, e ancora oggi una trentina di loro si trovano in carcere. Sempre uguali le tecniche di persuasione, di tortura. 1600 cinesi torturati a morte, più di 100mila detenuti in carcere, più di 25mila costretti in campi di lavoro, più di 1000 rinchiusi in ospedali psichiatrici perché credenti in Dio.

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    Coordin.
    00 07/06/2011 10:22

    Da tre mesi siamo in guerra e tutti tacciono. Dove sono i paladini della pace? E Napolitano…..

    C’è una guerra in corso da tre mesi, i bombardieri della Nato tuonano giorno e notte, ma dove sono i giornalisti di denuncia, i Santoro, i Lerner, i Floris e dove sono l’Annunziata e la D’Amico?

    Dov’è la schiena diritta del giornalismo sedicente libero, quello che chiama “servi” tutti gli altri? Sarei curioso anche di sentire la saggia voce di spiriti liberali come Paolo Mieli o Ernesto Galli della Loggia. Invece sono diventati tutti muti. A cosa si deve questo improvviso silenzio collettivo?

    E’ vero che il 26 aprile scorso si poteva leggere sul “Corriere della sera” che “il Colle sostiene i bombardamenti” con l’opposizione di sinistra tutta allineata dietro Napolitano (il governo già si era dovuto adeguare).

    E che anche mercoledì scorso, al vicepresidente americano Biden, Napolitano ha ripetuto che l’Italia è “fianco a fianco” con gli Usa nella vicenda libica.

    Ed è vero che il compagno-presidente con tale entusiastica adesione ai bombardamenti “umanitari” è diventato il riferimento privilegiato della Casa Bianca, relegando di fatto l’indebolito e incerto Berlusconi (che ha dovuto seguirlo nell’impresa) a un ruolo di secondo piano.

    Ma la stampa avrebbe almeno il dovere di raccontare ciò che sta accadendo. Invece niente. Un autobavaglio così totale non si era mai visto. Eppure ogni notte i bombardieri Nato colpiscono duro.

    Il Vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli, implora instancabilmente di smetterla con le bombe. Ha dichiarato ad Asianews:

    “La Nato ha intensificato i bombardamenti e continua a fare vittime. I missili stanno cadendo ovunque e purtroppo non colpiscono solo zone militari, ma anche civili. La gente a Tripoli soffre, anche se nessuno ne parla”.

    Nell’ultima settimana il vescovo ha denunziato il bombardamento di un ospedale, di un quartiere popolare e di una chiesa cristiana copta.

    Ma non c’è traccia di tutto questo sui giornali e in tv. Nessuno fa una piega. Nessuno s’indigna. Nessun programma tv, nessun editoriale.

    Non si vede in giro neanche una bandiera arcobaleno alle finestre. E dire che solo qualche anno fa avevano riempito l’Italia. Ma a quel tempo si trattava di protestare contro Bush, mentre oggi a bombardare è il Premio nobel per la pace nonché democratico Obama.

    Dunque oggi niente manifestazioni e niente marce Perugia-Assisi. Tutte le anime belle dormono un sonno profondo.

    All’inizio di tutto, in marzo, della guerra parlò Lerner con “L’Infedele” e mi capitò di assistere incredulo al memorabile elogio della Francia dei bombardieri: ci fu addirittura chi – col plauso di Gad – ebbe la faccia tosta di affermare che il governo francese in questo modo testimoniava la sua imperitura volontà di affermare dovunque i valori umanitari della rivoluzione francese, di cui invece al governo italiano non importava niente.

    Curioso paradosso perché i francesi affermavano quei presunti ideali umanitari bombardando i libici, mentre le autorità italiane – accusate di insensibilità perché ancora restie a bombardare – si stavano prodigando a soccorrere migliaia di rifugiati arrivati disperatamente a Lampedusa anche per fuggire dalla guerra “umanitaria” dei francesi.

    Dunque dal buon progressista le bombe francesi furono giudicate umanitarie, mentre i soccorsi italiani erano disumanitari. Che grande esempio di giornalismo.

    Tutti sanno che in realtà gli ideali umanitari non c’entrano niente con la guerra, tanto è vero che nessuno si sogna di andare a bombardare Damasco dove il regime compie quasi ogni giorno stragi contro i manifestanti.

    Tanto meno si pensa di andare a bombardare Pechino perché il regime cinese stroncò nel sangue le manifestazioni di piazza Tien an men o perché continua a spedire nei lager gli oppositori.

    A proposito, neanche Napolitano si sogna di prospettare spedizioni militari contro quei due paesi, che egli peraltro visitò nel 2010 dando la mano a quei despoti (provate a rileggervi anche i discorsi molti amichevoli fatti in quella sede).

    Ma allora perché questa smania di francesi e inglesi (che hanno il colonialismo nella loro storia) e poi degli americani, di sostenere una sorta di colpo di stato interno alla nomenclatura libica e spedire bombardieri sulla Tripolitania?

    Secondo Angelo del Boca, storico ed esperto delle vicende libiche, “le vere ragioni di questa guerra sono il controllo dei pozzi di petrolio e i 200 miliardi di dollari dello Stato libico depositati nelle banche straniere”.

    Non so dire se queste sono “le vere ragioni”, ma di sicuro non si può continuare a gabellarci la favoletta dell’intervento umanitario. Sarebbe il caso che la stampa raccontasse quello che sta accadendo e scavasse alla ricerca delle “vere ragioni” della guerra.

    Invece da settimane non si legge un solo articolo sulla tragedia della Libia. E quando ne appare qualcuno è peggio che mai. E’ il caso del reportage da Tripoli pubblicato ieri a tutta pagina sul “Corriere della sera” a firma Lorenzo Cremonesi: spiace dirlo, ma sembrava quasi un inno ai bombardieri.

    Si riportavano queste testuali dichiarazioni (rigorosamente anonime): “Brava Nato. Continui così”.

    Possibile che l’inviato del Corriere sia riuscito a pescare proprio i pochi – guarda caso anonimi – che sono felici di venire bombardati ogni giorno e anzi chiedono di essere bombardati più intensamente?

    Chissà perché non ha parlato con monsignor Martinelli e chissà perché non è andato a vedere gli effetti di quei bombardamenti, ascoltando le vittime. In tv del resto la guerra proprio non esiste.

    C’è un colossale problema di informazione sulla vicenda libica. Gli Usa, i francesi e gli inglesi, con le autorità militari della Nato ormai fanno mera propaganda. Dice Del Boca: “Gli alti costi dell’operazione contro Gheddafi hanno trasformato un conflitto lampo in una guerra di fandonie fatta dai media”.

    Mi ha colpito quanto ha scritto su Asianews padre Piero Gheddo, il decano dei missionari italiani, un uomo di Dio per nulla incline al pacifismo ideologico e al settarismo di sinistra, basti dire che fu tra i primi, negli anni Settanta, a denunciare i crimini dei Khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, svergognando certi media e certa sinistra italiana ancora intrisa di antiamericanismo.

    Dunque l’altroieri padre Gheddo ha scritto:

    “Le anomalie di questa guerra di Libia sono infinite e dimostrano che anche in Occidente soffriamo di una disinformazione colossale.

    L’intervento umanitario iniziale sta assumendo i contorni di un crimine di stato. L’Onu aveva giustificato la ‘No fly zone’ per impedire che gli aerei libici bombardassero i ribelli della Cirenaica.

    Ma in pochi giorni le forze aeree della Libia vennero facilmente azzerate. Poi si è passati a bombardare i mezzi militari di terra che avanzavano verso Bengasi e si continua, da più di due mesi, a bombardare le città della Cirenaica, non per proteggere il popolo libico da Gheddafi, ma per la ‘caccia all’uomo’ Gheddafi, il che sta scavando un abisso di odio e di vendetta fra le due parti del paese, Tripolitania e Cirenaica, che erano e sono pro o contro il raìs”.

    Padre Gheddo ha poi citato il generale Anders Fogh Rasmussen segretario generale della Nato che “ha definito i bombardamenti come parte dell’intervento umanitario per proteggere il popolo libico! Ci vuole una bella faccia tosta, a mentire in modo così smaccato!”, ha tuonato il missionario.

    “Chi mai può credere che i quotidiani bombardamenti su Tripoli sono fatti per difendere il popolo libico? Ecco perché stampa e Tv occidentali non parlano più della guerra in Libia. Non sanno più come giustificare una così evidente violazione dei diritti umani”.

    L’assurdo poi è che la trattativa per far uscire di scena Gheddafi in modo incruento sarebbe stata possibile, ma proprio gli “umanitari” l’hanno uccisa sul nascere. Per quanto deve continuare questa guerra? E il nostro silenzio?

    Antonio Socci

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    Credente
    00 09/06/2011 21:45

     

    Se ne parla spesso ma evidentemente non abbastanza. Di cosa? Dei giovani e del futuro lavorativo e pensionistico. Nel corso del “Rapporto sullo Stato sociale 2011 – Questione giovanile, crisi e welfare state” presentato alla Sapienza di Roma e curato da Felice Roberto Pizzuti con il dipartimento di Economia e diritto dell’università e il Criss, sono emersi dati e previsioni piuttosto preoccupanti; i giovani di età compresa tra i 25 e i 30 anni si trovano in una condizione completamente diversa rispetto a quella in cui si erano trovati i loro padri negli anni ’50 e ’60 (che a differenza di questi che stiamo vivendo erano anni d’oro).

    Come CREDENTI non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza interiore di tanti giovani pieni di grandi talenti e capacità, ma costretti a dover rimanere inerti in una società che stenta ad offrire possibilità di lavoro adatti e forse neanche dei lavori inadatti.

    Preghiamo tutti affinchè essi possano trovare una collocazione lavorativa idonea alle loro aspettative e adoperiamoci per quanto ci è possibile, ciascuno nel proprio ambito, ad aiutarli

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    Credente
    00 20/06/2011 10:50

    BISOGNA USCIRE DALLA SACRESTIE. MA COME?

    Posted: 19 Jun 2011 09:51 AM PDT

    Qui lo spiego partendo da un pensiero di Dostoevskij e da uno di S. Agostino. Per arrivare al grande cardinale Newman che afferma: “La Chiesa E’ necessariamente un partito”. Se non capiamo questo …

     

    “I cattolici sono stati determinanti” nell’esito dei referendum, come dice orgogliosamente l’Azione cattolica?

    O così hanno tradito la dottrina sociale della Chiesa e vanno verso il suicidio come argomenta Luigi Amicone (con il suicidio aggiuntivo dell’ethos pubblico come aggiunge Pietro De Marco)?

    Alcune realtà del mondo cattolico sottolineano festosamente il “risveglio” dell’ impegno per il bene comune.

    Ma un volantino di Comunione e liberazione invita saggiamente “ad essere meno ingenui sul potere salvifico della politica”.

    Al tempo stesso bisogna rispondere all’appello del Papa e dei vescovi che chiamano i cattolici all’impegno politico.

    Come si vede una situazione in cui è difficilissimo orientarsi e capire, tanto per i semplici cristiani che per gli addetti ai lavori.

    Cosa sta succedendo nel mondo cattolico? E cosa accadrà con i nuovi scenari politici?

    CHE FARE?

    Si può parlare ancora di unità dei cattolici? E su cosa, come e dove? O si torna alla diaspora? C’è il rischio della subalternità culturale degli anni Settanta? C’è in vista una Dc di ricambio? O forse è meglio puntare su più partiti?

    O addirittura su un movimento cattolico che lavori nella società, dove sono nati tutti i movimenti che oggi condizionano i partiti?

    Negli ambienti della Cei si valorizza molto la relazione di Lorenzo Ornaghi, rettore della Cattolica, al X Forum del “Progetto culturale” dedicato ai 150 anni del’Unità d’Italia.

    Ornaghi invita i cattolici a “tornare ad essere con decisione ‘guelfi’ ”, spiegando: “abbiamo sempre più bisogno di una visione politica dalle radici e dalle qualità genuinamente e coerentemente ‘cattoliche’ ”.

    Quel tornare decisamente “guelfi” per Ornaghi significa che i cattolici devono rivendicare la radice cattolica dell’italianità e devono affermare che “rispetto ad altre ‘identità’ culturali che sono state protagoniste della storia unitaria (…) disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati”.

    Affermazioni importanti, ma che dovrebbero essere spiegate nel dettaglio, sostanziate e anche discusse. In ogni caso affermazioni di cui ancora non si vede la conseguenza pratica, fattuale. Così le domande aumentano.

    Solo che rispondere direttamente ad esse è impossibile perché – quando si parla della Chiesa – bisogna partire da altro, da una questione che sembra esterna ed è di natura teologica. Tutti la danno per scontata, ma non lo è.

    Riguarda la natura stessa del fatto cristiano e la concezione della Chiesa. E’ su questo che non c’è chiarezza dentro lo stesso mondo cattolico. E da qui deriva poi la confusione sulle scelte storiche.

    IL CUORE DI TUTTO

    Provo a riassumere con due citazioni quella che a me pare la strada giusta. La prima è di Dostoevskij:

    “Molti pensano che sia sufficiente credere nella morale di Cristo per essere cristiano. Non la morale di Cristo, né l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in ciò, che il Verbo si è fatto carne”.

    Il grande scrittore russo qui coglie il punto: i cristiani non portano nel mondo anzitutto un “supplemento d’anima”, un richiamo etico, una concezione della politica o del Paese o una cultura. Queste sono conseguenze.

    Portano anzitutto un fatto, un corpo misterioso, umano e divino, un popolo che è anche – di per sé – un soggetto politico che ha cambiato e cambia la storia.

    A conferma vorrei richiamare una pagina memorabile di sant’Agostino rivolto ai “pelagiani”, cioè coloro che degradavano il cristianesimo a una costruzione umana, a un proprio sforzo morale:

    “Questo è l’orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel suo esempio, e non nel dono della sua Persona”.

    Leggendo questi due grandi autori cristiani si capisce ciò che insegna la tradizione cristiana: il gesto più potente di cambiamento del mondo – per i cristiani – è la Messa.

    Più potente di eserciti, poteri finanziari, stati e rivoluzioni, perché è l’irrompere di Dio fatto uomo nella storia, l’atto con cui Dio prende su di sé tutto il Male e lo sconfigge, liberando gli uomini.

    Ma non capirebbe nulla di cristianesimo chi credesse che la messa sia solo quel famoso rito domenicale. No.

    Per il popolo cristiano la messa, da quel 7 aprile dell’anno 30 in cui il Salvatore fu crocifisso, non è mai finita: è una sinfonia la cui ultima nota coinciderà con la trasfigurazione dell’intero universo.

    Quell’evento abbraccia tutta la giornata e tutta la vita, tutta la realtà, tutta la storia e tutto il cosmo. E li cambia.

    “LA CHIESA E’ UN PARTITO”

    Non a caso uno dei più grandi pensatori cattolici moderni, il cardinal Newman afferma che la Chiesa stessa “è” un partito:

    “Strettamente parlando, la Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito.

    Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve sempre avere le caratteristiche di un partito che ha priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza ed influenza fino alla fine dei tempi.

    Fin dall’inizio fu concessa stabilità non solo alla mera dottrina del Vangelo, ma alla società stessa fondata su tale dottrina; fu predetta non solo l’indistruttibilità del cristianesimo, ma anche quella dell’organismo tramite cui esso doveva essere manifestato al mondo.

    Così il Corpo Ecclesiale è un mezzo divinamente stabilito per realizzare le grandi benedizioni evangeliche”.

    E’ tanto vero ciò che dice Newman che la Chiesa è stata la più grande forza di cambiamento della storia: ha letteralmente costruito civiltà (tutte le “istituzioni” del mondo moderno, dagli ospedali alle università, dalla democrazia al diritto internazionale, fino al progresso scientifico-tecnologico-commerciale, sono nate nell’alveo cattolico).

    Perfino quel sacro Romano Impero che ha generato l’Europa e poi partiti, dal partito guelfo del medioevo alle Democrazie cristiane del novecento (il nostro stesso Paese è stato letteralmente salvato dalla Dc che gli ha garantito libertà, unità e prosperità nell’Europa dei totalitarismi).

    C’è chi ha cercato e cerca di impedire in ogni modo ai cristiani di esprimersi e costruire. Lo hanno fatto i totalitarismi moderni e le ideologie degli anni Settanta che pure in Italia pretendevano di zittire violentemente i cattolici.

    Ma anche una certa cultura laica occidentale oggi prova a delegittimare la presenza dei cattolici.

    Ancora Newman scriveva:

    “Dal momento che è diffusa l’errata opinione che i cristiani, e specialmente il clero, in quanto tale, non abbiano nessuna relazione con gli affari temporali, è opportuno cogliere ogni occasione per negare formalmente tale posizione e per domandarne prove.

    E’ vero invece che la Chiesa è stata strutturata al fine specifico di occuparsi o (come direbbero i non credenti) di immischiarsi del mondo.

     I membri di essa non fanno altro che il proprio dovere quando si associano tra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, nelle corti dei re o tra le varie moltitudini.

    E se essi non possono ottenere di più, possono, almeno, soffrire per la Verità e tenerne desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di perseguitarli”.

    IL PROBLEMA 

    La cosa peggiore però è quando il sale diventa scipito, cioè quando sono i cattolici stessi a escludersi, a rinchiudersi nelle sacrestie o ad andare a ruota delle ideologie mondane più forti.  

    Dunque la Chiesa deve avere una sola preoccupazione: che (anche nei seminari e nelle facoltà teologiche) si annunci davvero il fatto cristiano nella sua verità e integralità, che nelle parrocchie, nelle associazioni, nei movimenti  lo si viva in tutte le sue dimensioni (la cultura, la carità e la missione) alla sequela del Papa.

    Che non si lasci solo Radio Maria a fornire ai semplici cristiani l’aiuto per un giudizio cristiano sulla realtà. Che il popolo cristiano si veda e illumini la vita pubblica.

    Antonio Socci

    Da “Libero”, 19 giugno 2011

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    00 04/07/2011 12:22

    Si può essere “cattolici democratici” senza essere più cattolici?

    Posted: 03 Jul 2011 03:43 AM PDT

    Vito Mancuso è un tipo minuto dall’aria dimessa e stropicciata. E’ uno dei figli spirituali del cardinal Martini e oggi è approdato a scrivere per Repubblica.

    Commentando la nomina del cardinale Scola a Milano, ha spiegato che “la questione è politica” (curioso modo di considerare la Chiesa): siccome la Curia di Milano è stata per trent’anni nell’orbita di Martini e della sua corrente, secondo Mancuso tale doveva restare.

    Invece con Scola il “cattolicesimo democratico” avrebbe subito – a suo dire – “un’umiliazione pesante” perché avrebbe perso “l’unico punto di riferimento nazionale”.

    Benedetto XVI – afferma l’intellettuale di Repubblica – scegliendo Scola ha scelto di “contrastare frontalmente” quella linea “cattolico democratica”.

    In pratica, se così stessero le cose, dovremmo concludere che il papa ha deciso di restituire a Milano il cattolicesimo tout court, senza aggettivi. E ci sarebbe solo da rallegrarsene.

    Ma la chicca dell’articolo di Mancuso è un’altra, quella dove si apprende che egli è il confidente segreto dello Spirito Santo. Scrive infatti: “non so se questo sia davvero il volere dello Spirito Santo che ha sempre amato il pluralismo”.

    Evidentemente lo Spirito Santo ha detto a Mancuso che preferiva Ravasi.

    La singolare idea del cattolicesimo che ha Mancuso è stata bocciata duramente, mesi fa, da Civiltà Cattolica e da Vincenzo Vitale nel libro “Volti dell’ateismo”.

    Quelle pagine mostrano che Mancuso sarà anche all’interno del “cattolicesimo democratico”, ma – visti tutti i dogmi di fede che nega – sta al di fuori del cattolicesimo.

    Me ne dispiace molto. Ho avuto occasione di incontrare Mancuso di recente e voglio raccontare l’episodio.

    Ho accettato l’invito al programma di Corrado Augias in onda su Rai 3 verso mezzogiorno per un’intervista sul mio libro appena uscito, “La guerra contro Gesù”.

    Sapevo che il salotto di Augias non è affatto neutro e che il conduttore, pure lui giornalista di Repubblica, è animato da forti sentimenti anticattolici (che scatenano ricorrenti proteste su “Avvenire”).

    Io stesso, nel mio libro, lo pizzicavo su alcune assurdità da lui scritte a proposito di cristianesimo (pure durante la trasmissione ho dovuto contestargli un’altra castroneria).

    Dunque non mi sono stupito quando i curatori del programma mi hanno informato che in studio era stato chiamato pure Vito Mancuso.

    Mi ha divertito che Augias avesse voluto “un rinforzo”. Sinceramente – lo dico senza protervia – la cosa non mi ha affatto impensierito.

    Ma non era finita. Augias – per sentirsi ancora più al sicuro – ha deciso di procedere così: lui poneva una domanda, solitamente molto dura con la Chiesa, spesso una requisitoria.

    Io ero chiamato a rispondere e Mancuso poi era invitato a replicare alla mia risposta. Cosicché avevano sempre la prima e l’ultima parola. Ha fatto sistematicamente così.  

    Così ho dovuto digerire delle assurdità che facevano veramente venire l’orticaria: sentir ripetere per l’ennesima volta, dopo il secolo dei genocidi perpetrati dalle ideologie atee, che “il monoteismo” (genericamente inteso) sarebbe fonte di intolleranza è veramente insopportabile.

    Certo, la prassi adottata da Augias non è un esempio di conduzione seria e ‘super partes’. Ma in fondo mi aspettavo cose del genere (quando non si hanno argomenti si ricorre ai mezzucci). Però le sorprese non erano finite.

    Ho infatti scoperto lì, direttamente in trasmissione, che – insieme al mio – il conduttore aveva deciso di parlare anche di un altro libro (di Matthew Fox, “In principio era la gioia”), pubblicato in una collana curata da Mancuso stesso. Ovviamente un libro contro la dottrina cattolica.

    Un’altra scorrettezza perché – non essendo stato informato, come era doveroso fare – mi sono trovato a dover discutere di un testo che non conoscevo, mentre Mancuso sapeva in anticipo che si sarebbe trattato del mio libro.

    Il volume di Fox peraltro serviva ad Augias solo ad alimentare la polemica anticattolica, perché – ho scoperto in seguito – era già stato presentato in quella trasmissione.

    Mi sono detto: ma quanto sono insicuri dei propri argomenti se devono ricorrere a questi miseri sistemi? Perché sono così impauriti da un confronto libero e paritario?

    Naturalmente io ho detto comunque alcune cose e – stando alla quantità di mail che ho ricevuto – credo di averlo fatto anche in maniera efficace.

    Ma adesso devo dirvi ciò che mi ha sconcertato.

    Il volume di Fox si scaglia contro la dottrina del peccato originale, come se questa realtà fosse stata torvamente inventata dalla Chiesa per colpevolizzare gli uomini.

    E Mancuso ha proclamato le stesse idee nei suoi libri e in quella trasmissione.

    Interpellato in proposito io ho osservato semplicemente che il peccato originale è un fatto così evidente, tangibile, che chiunque può constatarlo nella sua esperienza quotidiana, tanto è vero che poeti non credenti come Charles Baudelaire e Giacomo Leopardi hanno descritto benissimo questa condizione decaduta dell’uomo, desideroso di felicità, ma strutturalmente incapace di conquistarla.

    La nostra umanità è inquinata dal dolore, dal male e dalla morte. E’ un fatto, una realtà che tutti – in ogni istante – ci troviamo amaramente a constatare.

    Ciò dimostra – ho concluso – che non è per nulla la Chiesa ad aver “inventato” il peccato originale, ma – al contrario – è lei l’unica ad aver dato una spiegazione della nostra condizione: la sua dottrina del peccato originale infatti fornisce l’unica ragione esauriente del guazzabuglio disperante in cui l’uomo, dalla sua nascita, si trova “gettato”.

    Non solo. La Chiesa non si limita a rivelare all’uomo le cause di questa condizione, comunque misteriosa, ma annuncia e propone Gesù, il salvatore, l’unico che questa condizione può redimere, che può capovolgere il segno mortifero dell’esistenza e cambiare radicalmente il nostro destino infelice. Donando la felicità.

    A questo punto è intervenuto Mancuso che ha cominciato una sua requisitoria: il peccato originale – a suo dire – è stato inventato nel V secolo da S. Agostino e nel 418, al Concilio di Cartagine, la Chiesa ha reso dogma il pensiero di Agostino.

    Incredulo per questa assurdità ho obiettato che la dottrina del peccato originale c’è già in san Paolo, cioè all’origine del cristianesimo.

    Mancuso lo ha negato dicendo testualmente che in san Paolo vi sarebbe soltanto il parallelismo fra Adamo e Cristo. Non sapevo se mettermi a ridere o a piangere. Possibile che un semplice giornalista come me debba svelare a uno che si fa presentare come “teologo” (e addirittura “teologo cattolico”) che San Paolo ha scritto, all’incirca nell’anno 58, la fondamentale Epistola ai Romani e che nel capitolo quinto di tale Epistola si trova già espressa nel dettaglio la dottrina del peccato originale?

    Non contento di quella topica Mancuso negava che il peccato originale fosse una condizione dell’uomo e insisteva nel dire che la Chiesa imputava agli uomini un peccato non commesso.

    Mi è stato facile invitare Mancuso a leggere almeno il Catechismo della Chiesa Cattolica dove sta scritto a chiare lettere che il peccato originale è stato da noi “contratto”, ma non “commesso” e che è “condizione di nascita e non atto personale” (n. 76).

    Sapevo peraltro che Mancuso nega una quantità di altri dogmi della Chiesa. E’ capace di scrivere una cosa del genere: “non c’è alcuna esigenza di credere nella sua (di Gesù, nda) risurrezione dai morti per essere salvi”.

    Vitale, dopo un’accurata disamina di queste mancusate, conclude che egli, negando “diversi dogmi fondamentali per la fede” come “peccato originale, immacolata concezione, immortalità dell’anima, eternità dell’inferno, si colloca volontariamente non solo al di fuori della teologia, ma anche al di fuori della dottrina cattolica e della Chiesa”.

    Io, dopo l’articolo di Mancuso su Milano, mi limito a domandarmi solo se si possa essere “cattolici democratici” senza essere cattolici. Chissà che ne pensa il cardinal Martini.

    Antonio Socci

    Da “Libero”, 3 luglio 2011

    Post scriptum:

    Mancuso ha testualmente scritto:

    “Oggi non c’è più nessuno così tra i vescovi delle principali diocesi italiane, ai cattolici progressisti di questo paese è stata tolta anche l’ultima possibilità di avere un punto di riferimento nella gerarchia, e non so se questo sia davvero il volere dello Spirito Santo che ha sempre amato il pluralismo visto che di Vangeli ne ha ispirati quattro, e non uno solo”.

    Mi chiedo: esiste forse un vangelo “cattolico democratico” o “progressista”. E quale sarebbe dei quattro?

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    00 10/07/2011 17:36

    SUDAN, GLORIA DI UNA CHIESA CROCIFISSA E MISERIE DELL’IDEOLOGIA

    Posted: 09 Jul 2011 11:49 PM PDT

    Da oggi il sud del Sudan è finalmente uno stato libero e indipendente (se non verrà strozzato nella culla).

    Lì è stato perpetrato l’ultimo genocidio del Novecento, ma un genocidio ignorato dai media e dal “partito umanitario” nostrano. Forse perché le vittime non erano “politically correct”, trattandosi di neri cristiani e animisti.

    Autore di quell’orrore è stato il regime arabo- musulmano del nord che ospitò negli anni novanta anche Osama bin Laden  e che, da qualche anno, è in combutta con la Cina comunista interessata al petrolio sudanese.

    I media si sono occupati del Sudan solo di recente, quando è scoppiata l’emergenza Darfur, che derivava da un conflitto non religioso (erano tutti musulmani).

    Invece per la Jihad – la guerra santa islamica – che per decenni ha sterminato il Sud cristiano e animista non hanno avuto tempo.

    Eppure le cifre sono terrificanti: due milioni di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel Nord islamico del Paese.  

    Il regime di Karthoum ha fatto del Sudan – che sarebbe ricchissimo di petrolio e altre risorse – uno dei paesi più poveri della terra (è al 150° posto su 182), un paese dove si vive ancora in capanne di fango, seminudi e si muore come mosche per fame e malaria. Per questo molti fuggono, cercando di arrivare all’Italia e in Europa.

    Siccome scrivo e parlo del genocidio sudanese da quindici anni, su giornali e in tv (prendendomi anche qualche insulto), permettetemi di togliermi un po’ di sassolini dalle scarpe.

    Perché il “caso Sudan” è un’occasione preziosa per riflettere sulla famosa coscienza “umanitaria” a intermittenza che caratterizza questa sinistra che ci è toccata in sorte e i nostri media che in gran parte vengono culturalmente da lì.

    Di Antonio Socci

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    00 27/07/2011 13:41
    Un terrorista anticristiano

    Posted: 26 Jul 2011 03:48 AM PDT

    E’ insopportabile che, per superficialità o frettolosità, si sia fatto passare il folle assassino norvegese per un “cristiano”. Cristiane semmai sono le sue vittime (“non potevo nuotare, i vestiti mi trascinavano… ho pregato, pregato, pregato” ha riferito Roset, uno studente liceale).

    In odio all’Islam peraltro ha ucciso dei cristiani.

    Non si può e non si deve uccidere nessuno, chiunque esso sia. Questa è la base del cristianesimo. Non ci voleva tanto a capire che l’universo spirituale e morale di Anders Breivik è all’opposto del cristianesimo.

    Perché mai dunque definirlo “cristiano”? Perché lui si definiva “cristiano culturale”? Beivik si diceva anche “massone”, essendo affiliato – a quanto pare – a una loggia di Oslo (del resto ricava dalla letteratura esoterica i suoi deliranti riferimenti a templari e cose simili).

    Ma i mass media non l’hanno presentato come un massone e han fatto bene, perché sarebbe del tutto demenziale stabilire qualsiasi rapporto fra la foto vestito da massone e le sue gesta assassine. Non c’entra niente la massoneria, come non c’entra la Chiesa. Ne siamo tutti vittime.

    Nel suo delirante testo infatti ha inveito minacciosamente contro Benedetto XVI che – secondo costui – “dev’essere considerato un papa codardo, incompetente, corrotto e illegittimo”.

    Ci sono anche delle stranezze che incuriosiscono, riferite da Massimo Introvigne, un vero esperto, secondo cui il folle librone di Anders Breivik sarebbe stato “postato su Internet il 23 luglio” da persone che appartengono a gruppi che hanno Satana fra le loro simpatie.

    Non che c’entrino nulla costoro con i fatti norvegesi. Ma per dire che è tutto molto confuso, come le idee nella testa del folle. Basti dire che pur evocando i deliri nazistoidi, nei suoi scritti si presenta – dice Introvigne – come “sostenitore d’Israele”.

    Sedicente sostenitore, aggiungo io (ma con quali intenzioni doppie?). Così come sbandiera i templari medievali e il cristianesimo e poi attacca il Papa.

    Ce n’è abbastanza per capire che il terrorista ha assemblato confusamente riferimenti culturali e politici contraddittori senza alcun senso e alcuna serietà, per dare un rivestimento alle sue paranoie a alla sua follia omicida.

    Nella realtà esiste il mistero del Male che si agita nei meandri della psiche e questo caso – ha scritto Claudio Magris – ricorda piuttosto criminali alla Landru e come Jack lo squartatore “piuttosto che gli assassini dell’Italicus o di Piazza Fontana”. Magris conclude: “sarebbe infame usarlo per infangare l’uno o l’altro movimento politico”.

    Per tutto questo mi è apparso assai triste e ingiusto l’uso della parola “cristiano” fatto con superficialità dai media. Aggiungo un caso particolare.

    Mi spiace che domenica scorsa, in un quadro ancora così confuso, Michele Serra, nella sua rubrica sulla Repubblica, sia corso a ricamare frettolosamente sull’arbitraria qualifica di “cristiano” del criminale per dare addosso ai “fanatici di tutte le religioni”.

    In sostanza, per Serra, “il biondo nazi-cristiano di Oslo è uguale all’attentatore islamista che è uguale all’ultrà sionista assassino di Rabin”. Ognuno di costoro è malato della “paranoia di chi si sente chiamato da Dio a purificare il mondo, e vede nella morte degli altri lo strumento di questa purificazione”.

    Serra è un giornalista intelligente perciò è capace di accorgersi da solo della superficialità di questo fare un fascio di fenomeni così abissalmente diversi.

    E spero che voglia anche rendersi lealmente conto di quanto sia infondato e inaccettabile accreditare l’assassino norvegese come “cristiano”.

    Concordo ovviamente con la sua condanna di ogni “fanatismo religioso”, ma il caso di Oslo è di tutt’altra natura. Casomai è un fanatismo ideologico. All’antitesi dello spirito religioso.

    Guardiamoci dalle frettolose semplificazioni. Nel ricorso agli stereotipi e al rassicurante anatema del Nemico, identificato banalmente nel “fanatismo religioso”, si rischia di trasformare la religione tout court nel capro espiatorio.

    In realtà – come si è visto – l’assassino non sta per nulla dentro i granitici schemi ideologici che Serra si è costruito o ha ereditato dal suo passato. Certamente non in quello dell’ “uomo religioso”.

    Del resto le mitologie naziste sono l’esatta antitesi del cattolicesimo. Se Serra si fosse letto “Il mito del XX secolo” di Rosenberg – manifesto ideologico del nazismo – lo saprebbe.

    Coinvolgere la parola “cristiano” nel massacro del norvegese sarebbe come guardare con sospetto gli incolpevoli Stuart Mill o Kafka per il fatto che sono stati citati o letti o apprezzati dal criminale. O dare un qualche senso al fatto che prediligesse l’agricoltura e la campagna o i videogiochi.

    Mi pare evidente che la follia umana non stia dentro gli schemi delle ideologie. E la frettolosità con cui Serra, sabato scorso, ha comodamente sistemato i fatti norvegesi nei suoi scaffali ideologici preconfezionati mostra che una certa intelligentsia non è interessata a capire la complessità del mondo.

    Né il mistero del Male. Né il mistero della natura umana. E non si rende conto di quanto la scristianizzazione apra proprio il vaso di pandora dei demoni.

    Dovremmo tutti esigere da noi stessi apertura mentale, serietà, desiderio di capire. E dovremmo liberarci dei pregiudizi (a cominciare dal pregiudizio anticattolico) per denunciare i pregiudizi altrui.

    C’è poi un “dettaglio” che vorrei segnalare a Serra.

    L’orrore nel Novecento, il più terrificante della storia, è stato prodotto non dal cristianesimo (che anzi ha subito un bagno di sangue mostruoso, con milioni di martiri). Né da altre religioni. Ma è stato prodotto dalle ideologie atee e totalitarie.

    Dunque prima di puntare il dito sulle “religioni” e in particolare sul cristianesimo (e specialmente sul cattolicesimo) si dovrebbe sempre ricordare cosa è accaduto.

    E ci si dovrebbe sempre chiedere se si hanno i titoli per dare lezioni ai cristiani, se il passato politico o ideologico da cui si viene lo consente.

    Per esempio, credo che sarebbe decente per chi è stato comunista evitarlo. Visto quello che il comunismo ha fatto ai cristiani…

    Del resto tuttora ci sono regimi comunisti persecutori e carnefici dei cristiani (e di altri gruppi religiosi), vittime della bestiale violenza dell’ideologia. E’ un olocausto silenzioso che viene tranquillamente ignorato da media e intellettuali del pensiero unico.

    Un ultimo dettaglio. La pulsione alla “purificazione” del mondo – così ben descritta da Serra – è la cifra esatta delle ideologie del novecento, a cominciare da quella marxista, che sono di ascendenza gnostica (consiglierei di leggere Erich Voegelin, Il mito del mondo nuovo).

    Tempo fa su “Mondoperaio” uscì un bel saggio di Luciano Pellicani proprio sui tic verbali del comunismo e del nazismo votati alla “disinfestazione” del mondo, alla “profilassi sociale” e alla “bonifica”.

    C’è pure qualche pagina agghiacciante di “Arcipelago Gulag” che mostra appunto questo orizzonte “depuratore” del comunismo (che emerge nelle categorie usate per la repressione dei lager: la “purga”, il “pidocchio”, l’ “infezione”).

    E’ un istinto gnostico-settario e millenarista, quello della violenta “purificazione del mondo”, che il cattolicesimo non ha mai avuto (vedi “La città di Dio” di s. Agostino).

    Il cattolicesimo, che conosce bene la parabola della zizzania e del grano, predica la drammatica convivenza in tutti di male e di bene e annuncia l’amore per il nemico, il perdono, la continua possibilità di rialzarsi e l’indomita accoglienza del peccatore.

    Infatti il mondo intellettuale laico accusa spesso il cattolicesimo di tacita connivenza con l’impuro, con il corrotto, con il peccatore, mentre elogia il presunto rigorismo protestante.

    Ma è destino della Chiesa essere sempre accusata di una cosa e del suo opposto. Anche oggi è così.

    Antonio Socci
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    00 15/08/2011 16:20

    Fra gli squali della speculazione e il dragone rosso

    Contrordine, la storia si è voltata indietro: una inversione a u. Dal 1989-1991 si racconta questa favola: il comunismo è sparito dal mondo e trionfa la liberaldemocrazia in tutto il globo. Fine della storia, decretò un politologo americano facilone.

    Ebbene, venti anni dopo ci si sveglia bruscamente dal sonno: nella realtà la storia si è rimessa in moto e corre all’indietro.

    I sistemi liberaldemocratici sono alla frutta (in certi casi alla grappa) e trionfa invece la superpotenza cinese: un regime comunista che si appresta a diventare la prima potenza economica mondiale.

    Un Paese che col suo miliardo e 300 milioni di abitanti ha il 20 per cento della popolazione mondiale (un essere umano su cinque è cinese).

    Una superpotenza che già oggi detiene un pacchetto enorme del debito europeo e americano ed è in condizioni di prendere per le orecchie l’inquilino della Casa Bianca prescrivendogli – come ha fatto nei giorni scorsi – le misure economiche da assumere e intimandogli pure di fare in fretta.

    Un mese fa Obama, che si era preso la libertà di ricevere il Dalai Lama, è stato persino costretto ad accoglierlo in una sala secondaria e – se ho letto bene – a farlo poi sgattaiolare da un’uscita secondaria della Casa Bianca per non dispiacere ai “padroni” cinesi che non avevano gradito quell’incontro.

    Così come la Cina ha fatto sentire il suo ruggito alle paurose democrazie perfino nell’assegnazione del premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, tanto da indurre una ventina di “coraggiosi” Paesi a disertare la cerimonia per non dispiacere a Pechino.

    Tramonto dell’Occidente e ascesa del Dragone rosso d’oriente. Questo è il titolo del film che sta scorrendo davanti ai nostri occhi.

    Il peso politico di condizionamento del regime cinese che si dispiegherà da ora in poi (come già sta accadendo in Asia) è facile a immaginarsi.

    Comincia un’era durissima per le democrazie. Anche perché sono minacciate in casa da un altro nemico, che poi ha favorito e alimentato la crescita del dragone: un potere finanziario selvaggio, anonimo e privo di vere regole e vincoli, favorito da dispositivi finanziari e tecnologie informatiche devastanti, che è capace di puntare a colossali guadagni speculativi mettendo in ginocchio interi stati.

    Un potere al quale nemmeno la superpotenza americana sa far fronte. Anche perché le classi dirigenti occidentali appaiono prone o impotenti davanti a tali poteri.  

    La corsa ai guadagni speculativi illimitati – che arriva a scommettere sul fallimento di interi stati – ha messo in ginocchio le economie occidentali, anche grazie al cattivo governo o a errori di lunga durata delle classi politiche, ma soprattutto ha demolito l’autonomia e la sovranità degli stati e il primato stesso del sistema democratico.

    Siamo dunque stritolati da una tenaglia costituita da un lato dai poteri forti della finanza internazionale e della tecnocrazia anonima e dall’altra da un colosso economico e demografico cinese che ha fatto propria la cultura del profitto illimitato pur mantenendo la ferrea dittatura politica del partito comunista (del resto il primato assoluto del fattore economico era già alla base della filosofia marxista).

    Entrambe queste potenze manifestano un certo disprezzo per la sovranità popolare e per le procedure delle democrazie: lo si è visto con clamorosa evidenza nei giorni scorsi quando, sia le divinità dei “mercati” che il Dragone rosso, hanno espresso irritazione per le “lentezze” delle decisioni dei politici.

    E disappunto per l’incapacità delle democrazie di agire tempestivamente nel dissanguamento dei cittadini contribuenti.

    La democrazia insomma è diventato un inutile intralcio agli interessi di lorsignori, l’ “internazionale del denaro” e la nuova internazionale rossa con gli occhi a mandorla.

    Possiamo dormire sonni tranquilli? A me pare proprio di no.

    Del resto – come dicevo – il Dragone rosso è stato alimentato e cresciuto proprio dagli smisurati appetiti del “mercatismo” che ha nutrito e ha fatto ingigantire il colosso cinese con una serie incredibile di “regali” politici e commerciali, infischiandosene totalmente del problema dei diritti umani e sociali e travolgendo ciò che una volta era, per ogni Paese, l’ “interesse nazionale”.

    L’ingresso di botto (senza tappe e tempi intermedi) della Cina nel WTO, nell’organizzazione del commercio mondiale, l’11 dicembre 2001, è la data simbolo di questa politica.

    Che si è replicata mille altre volte (basti ricordare l’accettazione della sottovalutazione della moneta cinese o le clausole protettive della Cina nei trattati internazionali, come quello di Kyoto).

    La politica cinica e miope dei governi occidentali che, credendosi furbi, hanno chiamato “realpolitik” il cinismo (“pecunia non olet”), in realtà ha scavato la fossa ai propri paesi.

    Quante volte i Clinton e i Prodi hanno spiegato che la Cina “non è un pericolo, ma un’opportunità”. E quanti capitalisti si eccitavano alla vista di una immensa massa di manodopera a basso costo e senza protezioni sociali e senza problemi di politica ambientale (col miraggio di un mercato di un miliardo e mezzo di persone).

    Così al regime cinese – senza costose clausole relative ai diritti sociali e umani – è stato permesso di fare una colossale concorrenza sleale alle economie del mondo democratico.

    La supercrescita dell’economia cinese oltretutto è una delle cause del grande aumento dei prezzi delle materie prime che è fra le concause della crisi mondiale.

    I dragoni hanno messo in ginocchio l’industria dell’Occidente, appropriandosi enormi quote di mercato e addirittura comprando i titoli del debito Usa perché i dissennati americani consumassero cinese.

    Oggi non è l’Occidente che, a rimorchio degli affari, ha contagiato la Cina con la democrazia e i diritti sociali – come teorizzavano i progressisti dell’era Clinton e Prodi – ma al contrario è la Cina che porta l’occidente verso una restrizione della democrazia e delle garanzie sociali.

    Lenin previde che i capitalisti avrebbero fornito all’Urss la corda con cui impiccarli. In effetti così hanno fatto con la Cina. Ma gli impiccati siamo noi.

    Oggi vediamo se e quanto avevamo ragione a ostinarci a parlare di comunismo e diritti umani prendendoci per venti anni gli insulti di quei “progressisti” che – trattandoci da dementi – sdottoreggiavano che il comunismo è finito, che attardarsi a parlarne era da fissati, da paranoici, da gentaglia con secondi fini.

    E’ questa cultura “progressista” che ha permesso ai politici occidentali di non fare i conti con la questione della democrazia e dei diritti umani e sociali in Cina.

    Ora siamo serviti. Una dittatura comunista che per ferocia non è seconda a nessun totalitarismo del XX secolo espande la sua egemonia sul mondo e prende per le orecchie perfino il presidente americano.

    E’ bene sapere infatti che il regime comunista cinese è di gran lunga il più sanguinario della storia. Basta mettere in fila gli orrori dei suoi sessant’anni di storia. Le vittime si contano – letteralmente – a centinaia di milioni.

    Da quelle fatte per la presa del potere (e la repressione) da parte di Mao, nel 1949, a quelle dell’invasione del Tibet (qualcosa assai simile al genocidio), dal mare di vittime del folle “Grande balzo in avanti”, fino allo scatenamento da parte di Mao della farneticante “rivoluzione culturale”, che fu un immane bagno di sangue, fino dall’imposizione della legge sul figlio unico, con l’aborto obbligatorio di massa, dagli anni Ottanta, arrivando al massacro di Piazza Tien-an-men e alle moderne repressioni col sistema dei Laogai o con le condanne a morte di massa.

    Per non dire di una politica estera che ha appoggiato i regimi più sanguinari, da quello cambogiano di Pol Pot e coreano di Kim Il-Sung, fino all’appoggio, dato in questi anni, al feroce regime sudanese che ha permesso a Pechino di accedere al petrolio africano.

    Ora davvero la Cina è vicina. Auguri.

     Antonio Socci

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    Credente
    00 21/08/2011 21:55

    Cose che nessuno sa (sui nostri figli e… su noi). Scoperte parlando con Alessandro D’Avenia a proposito di Madrid e di Rimini

    Posted: 19 Aug 2011 11:53 PM PDT

    “La giovinezza è la scoperta del corpo e dello spirito… è lo stupore e il desiderio del proprio corpo e lo stupore e il desiderio della propria anima che arde di domande su di sé, sulla vita, la morte, l’amore e Dio. Ma è l’anima, lo spirito, che esplode verso l’infinito desiderio. Il corpo cerca solo, arrancando di stargli dietro”.

    Mi folgora così Alessandro D’Avenia. Invece la mentalità dominante vede, esalta e amplifica solo i desideri della carne fino a renderli ossessivi, alla fine malati perché non appagano.

    Perché anche il piacere più sublime, lascia alla fine insoddisfatti e soli. L’uomo è l’unica creatura sulla terra che non trovi in natura ciò che esaudisce totalmente il suo desiderio e la sua attesa.

    Così bisogna vedere le immagini di quel milione di giovani che sono andati a Madrid per ascoltare il papa, a ferragosto. O quelli che la settimana prossima andranno al Meeting di Rimini.

    Portati fin lì da “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, quell’amore misterioso che fa correre vertiginosamente le galassie, che fa ruotare i pianeti e fa vibrare l’infinitamente piccolo. E non ci fa star quieti.

    Il desiderio arde nelle fibre più intime di questi ragazzi arrivati a Madrid esattamente come nella carne dei loro coetanei di Ibiza.

    Loro, però – che magari stavano essi pure su qualche spiaggia – sono partiti per Madrid e se lo portano in quelle infuocate piazze spagnole, sotto il sole cocente, perché hanno intuito, più o meno confusamente, che ciò che infiamma la carne, che dà fame e sete anche di abbracci e di baci e di amore fisico, che sembra così forte, è solo una piccola scintilla del vero, infinito, Amore che tutti gli uomini cercano.  

    Quel “Sommo Piacere” (come Dante chiama Dio) che è finalmente appagante e ristoratore.

    Sono pazzi? Il dettaglio più impressionante delle cronache, per me, sono quei 40 gradi di temperatura, sommati alle altissime temperature della carne nella giovinezza.

    Cosa ci dicono?

    Che cercano davvero il dolce refrigerio, dell’unica sorgente inesauribile di acqua fresca: Gesù, “il più bello fra i figli degli uomini”, il cui volto hanno intravisto fra la folla.

    E lo stanno cercando soprattutto perché hanno saputo che Lui sta cercando loro, ciascuno di loro, chiamando ognuno per nome.

    Perché sono affascinati da questa notizia?

    Alessandro D’Avenia, autore di un romanzo bellissimo, “Bianca come il latte, rossa come il sangue” (Mondadori), che è il vero caso editoriale di questi anni, ama appunto raccontare gli adolescenti, i quali saranno al centro pure del suo prossimo romanzo, “Cose che nessuno sa”, in uscita a novembre: “quella è l’età nella quale le cose sono nude, senza sfumature. Dunque è una straordinaria lente di ingrandimento di ciò che veramente interessa a uomini e donne: la scoperta di sé come corpo e come anima”.

    Aggiunge: “ogni stagione della vita è un po’ come la nascita: in ogni stagione veniamo un po’ alla luce e ci facciamo un pianto. Ma mentre il primo pianto, quello della nascita, passa con l’abbraccio della madre, quando si diventa adolescenti si viene alla luce con un dolore ancor più vivo a lenire e confortare il quale non bastano più la mamma e il babbo”.

    E dunque?

    “Allora sei costretto a toccare con mano la tua solitudine, quindi scopri la bruciante necessità dell’altro, dell’amicizia, dell’amore”.

    Anche nella ricerca del corpo dell’altro, che è una scoperta che incanta, si cerca quell’abbraccio che fa sentire “a casa”, che fa ritrovare se stessi.

    Ma paradossalmente si trova in realtà un altro “io” che anche lui, brancolando nel buio, cerca di lenire il suo dolore e cerca la sua anima e così è una miscela esplosiva, perché può essere una grande avventura di verità, ma pure un’esperienza che provoca nuove ferite.

    O spesso tutte e due le cose insieme.

    D’Avenia però sottolinea il positivo: che in questa stagione della vita c’è la verità di noi, siamo allo stato creaturale, nudi, col nostro splendore e la nostra povertà.

    “Mi ha colpito” dice “un pensiero di Benedetto XVI che ha detto: la giovinezza è l’età in cui capire cosa mantenere quando la giovinezza finisce. E’ così, perché poi l’abitudine dissecca l’anima e si perde quell’antica freschezza”.

    A D’Avenia – che pur essendo un professore e uno scrittore è molto giovane (ha solo 34 anni) e che ha partecipato a due “Giornate mondiali della gioventù” – domando perché i media fanno così fatica a raccontare un evento come quello che porta un milione di giovani a Madrid a ferragosto.

    “Perché dall’esterno vedi solo un movimento di masse giovanili simile a quello dei concerti rock. Però dovrebbero almeno cogliere la diversità. Perché qui i ragazzi sono sorridenti e quieti?”

    E’ vero, non hanno bisogno di urlare o sballarsi, non lasciano sporcizia e non spaccano, non cercano di lenire il dolore della vita affogandosi nel gruppo.

    “Perché qui non si tratta di consumare un’emozione e stop. C’è qualcosa che sfugge al colpo d’occhio”.

    Forse perché è una domanda che si agita nella singolarità, unica e irripetibile, di ogni cuore?

    “Sì. Perché è un evento di massa, ma è tutto e solo personale. Pur fra un milione di coetanei ti sembra che Qualcuno ti stia dando del ‘tu’ e questo non accade con il cantante rock che urla sul palco. Qui, allo stesso tempo, siamo insieme, ma anche in un solitario faccia  a faccia col Mistero”.

    La mia sensazione è che sia proprio questa sincerità, questa nudità personale di fronte alla vita, alla morte, all’amore e a Dio, il materiale altamente infiammabile che i media non sono capaci di trattare.

    Li imbarazza. Non sono attrezzati. Fuggono spaventati.

    Perciò, come scriveva Rilke: “Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ forse un po’ come si tace/ una speranza ineffabile”.

    Dio e la propria infelicità personale sono l’unico argomento di fronte al quale l’intellettuale medio si ritrae scandalizzato come le signorine perbene facevano una volta se si parlava di sesso.

    Forse è per questo che anche il successo del romanzo di D’Avenia  – che ha colpito tanti giovani – è stato accolto da un certo imbarazzo dei media e dei salotti letterari. Omaggi frettolosi alla qualità della scrittura, ma poi via a gambe levate a chiacchierare dei soliti romanzetti conformisti su questi nostri anni tristi.

     D’Avenia mi spiega: “alcune persone, addetti ai lavori, molto attenti, mi hanno detto: lei ha scritto un romanzo trasgressivo. Ah, bene, ho detto. E perché? Mi hanno risposto: il libro parla di un professore che ama il suo lavoro, di dolore e di Dio. E’ vero, ho pensato, la vita ordinaria è diventata la vera trasgressione”.

    Io ho sentito parlare molto di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”. L’ho letto però quando mi è stato consigliato da mio figlio di 14 anni che mi ha detto: “leggilo. Mi ha cambiato la vita!”. E mi ha stupito che tutti i suoi amici lo avessero letto e ne fossero rimasti affascinati. Questi sono fenomeni importanti.

    “Anche a me” dice D’Avenia “colpiscono molto le lettere che ricevo dai ragazzi ed è bellissimo incontrarli quando mi invitano a parlare del libro nelle scuole”.

    Perché?

    “Sono straordinari. Loro si sentono autorizzati ad andare subito al cuore del problema e non si vergognano di chiedermi durante queste assemblee: ‘che rapporti hai con Dio?’, ‘perché mia mamma si è ammalata di tumore?’, ‘perché mio fratello si droga?’. Loro hanno il coraggio di tirar fuori questo. E tantissimi ragazzi dicono di volere un amore grande come quello di Leo per Beatrice”.

    Malgrado la rappresentazione mediatica della realtà che invita i giovani a prendere, consumare e buttare l’amore come una lattina di Coca Cola?

    “Malgrado questo quell’amore che è ‘per sempre’ lo desiderano tutti, è ciò che il cuore di tutti brama”.

    E siccome si ha paura di guardare dentro il proprio cuore si evita di fare i conti con chi ti parla di te, fino al punto di protestare  – come fanno gli “indignados”  in Spagna – contro i giovani venuti dal Papa.

    Con tutti i problemi che ha provocato Zapatero, vanno a protestare contro la giovinezza. L’ideologia è capace pure di scioperare contro la primavera.

      Antonio Socci

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