CREDENTI

MEDITIAMO LE SCRITTURE (Vol.1)

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    Credente
    00 12/10/2010 11:59
    "Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede."

    Secondo Paolo, il vangelo non può essere messo a confronto con altre religioni o visioni della vita e del mondo, anzi tutte queste le mette in discussione! Sì, perché il vangelo di cui Paolo non si vergogna è Cristo stesso: Cristo crocifisso e risorto.
    È questa la potenza di Dio, che diventa salvezza per chi crede. Sì, poiché il ‘totalmente altrò, Dio che viveva in una luce inaccessibile, l'infinitamente Santo, il Creatore, si è rivelato in Gesù. La sua onnipotenza è onnipotenza per la salvezza. Credere, è vivere questa certezza. Ed è nella forza dello Spirito Santo che noi rispondiamo alla fedeltà di Dio che in Cristo Gesù ci libera dalla più grossa schiavitù: il peccato.
    È così che, in forza della fede, vivendo di essa, diveniamo ‘giusti', cioè buoni, in armonia con Dio, con noi stessi, con tutti, con tutto: santi.
    Fuori di questo vangelo vi è solo stoltezza: chi non crede che il Dio inaccessibile si è reso presente e prossimo in Gesù Cristo vaneggia nei suoi ragionamenti, dice Paolo, fino a scambiare "la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile…", fino a cambiare "la verità di Dio con la menzogna…" venerando e adorando la creatura al posto del Creatore. Quanto è vera oggi questa realtà! Quanto corriamo il rischio di assuefarci a questa tendenza socioculturale del superman, della moda atea e gnostica.

    Oggi nel rientro al cuore, cerco un posticino tranquillo e silenzioso, scendo dalla mente al cuore e mi situo davanti a Dio: egli è il Creatore io la creatura, la sua onnipotenza è onnipotenza d'amore!
    Gloria a te, Signore, per la potenza del tuo vangelo.
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    00 13/10/2010 15:40
    Monaci Benedettini Silvestrini
    La «decima» da dare a Dio

    Gesù ritorna ancora sugli adempimenti esteriori che vengono visti come esaustivi della nostra fede e come espressione unica della nostra adesione a Dio. Essere ligi alle leggi decretate dagli uomini è certamente espressione di giustizia, ma non possiamo limitare a tali adempimenti il nostro rapporto con il Signore. La giustizia e l'amore di Dio debbono avere il primato assoluto nella nostra vita perché hanno una dimensione e una profondità diversa; non si fermano alle apparenze, ma ci coinvolgono nella sincerità della vita. È ancor peggio poi trarre un futile vanto da un'appartenenza solo esteriore traendo in inganno il nostro prossimo. Non sono certo i titoli e le onorificenze che veramente ci qualificano agli occhi di Dio. Potremmo anche occupare i primi posti, strappare una certa stima dalla gente, che intimorita, ci saluta e ci onora, ma poi l'ipocrisia emerge e la menzogna, prima o dopo, riemerge e allora gli stessi che prima ci tributavano saluti e onori, ci «passano sopra», ci calpestano e ci allontanano. La predica senza la pratica è una menzogna conclamata, che genera scandalo e rende non credibile quanto proclamiamo solo con la voce. Sono ancora numerosi coloro che in nome di Dio tuonano sentenze e condanne dai pulpiti delle nostre chiese, mentre essi stessi si auto assolvono da ogni iniquità. È così che anche noi carichiamo di pesi insopportabili gli altri mentre noi ci dispensiamo dal toccarli. La «decina» da dare a Dio deve essere sempre adorna di sincerità e turgida di amore.
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    00 13/10/2010 21:37

    Commento di Padre Giulio Maria Scozzaro

    Gesù condanna l’egoismo di quanti ignorano completamente i bisogni degli altri, e vivono nella piena indifferenza. È facile l’osservanza di una legge statale, più difficile è amare chi non ci è simpatico o chi ci ha fatto del male.

    I farisei pagavano le tasse e per questo erano convinti di essere apprezzati da Dio, confondendo un dovere nei riguardi dello Stato con l’osservanza dei Comandamenti. Una confusione tragica, che manifesta una fede immatura, esteriore, interessata.

    Gesù è pienamente infastidito dall’ipocrisia dei farisei.

    Riferito a noi, l’insegnamento di Gesù ci dice che dobbiamo osservare le sue Leggi per amore, non per abitudini o per precetto. La Messa festiva non deve essere la giustificazione di una vita dissipata e non virtuosa. La Messa festiva è l’incontro con Gesù, si tratta di partecipare al suo Sacrificio in cui misticamente Egli muore in Croce senza versare Sangue. Questo incontro con Gesù deve avvenire in un clima di raccoglimento, di adorazione, di ascolto.

    Osservare gli insegnamenti del Vangelo è impegnativo, l’ho già scritto, ma sono le uniche verità che ci divinizzano, ci rendono forti nella lotta contro le nostre debolezze e le tentazioni del diavolo. È questa osservanza impegnativa che lascia cadere le miserie che abbiamo addosso, pesi insopportabili che ci schiacciano e non ci permettono di elevarci con il cuore verso l’alto.

    Chi rimane schiacciato dal suo amor proprio, è destinatario dei guai che oggi Gesù invia, non per condannare ma per ammonire. Gesù lancia l’avviso, avverte che una vita trascorsa nell’ipocrisia, nell’indolenza, nella cattiveria, non potrà portare che guai.

    L’Amore è l’essenza della vera vita, ciò che trasforma ogni cosa in gioia.

    Nel Cuore di Gesù dobbiamo cercare questo Amore, soave e quiete.

    E dobbiamo evitare di caricare pesi sulle spalle degli altri, questo avviene anche in famiglia, quando non si rispetta il familiare e si condanna ad una tortura morale. Siamo responsabili delle loro sofferenze, diventiamo ingrati e non meritiamo le Grazie di Gesù.

    Liberiamo gli altri dai loro pesi con l’Amore e la pazienza.

    La verità dimori nel nostro cuore e sulla nostra bocca.

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    00 14/10/2010 15:02
    Monaci Benedettini Silvestrini
    I sepolcri...


    Quando qualcuno stigmatizza i nostri vizi e li mette in luce il nostro orgoglio divampa e chi ha osato ergersi contro di noi lo trattiamo da nemico. Se poi siamo anche posti in autorità lo sdegno quasi sicuramente cresce e la possibilità della vendetta affiora con prepotenza. I capi religiosi al tempo di Gesù costruivano monumentali sepolcri ai loro profeti dimenticando però che molti di loro erano stati perseguitati ed uccisi dai loro padri. Gesù sa che la stessa sorte toccherà anche a Lui e molto presto le trame che gli tendono in continuazione, sfoceranno nella condanna a morte e nell'orrendo delitto della croce. Ecco perché Gesù afferma: sarà chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti. La morte di Cristo sarà come il coronamento e la sintesi storica di tutte le infedeltà perpetrate dal popolo d'Israele e anche l'ultimo rifiuto del più grande di tutti i profeti, la condanna del Figlio di Dio. Tutto questo accade perché per l'ennesima volta, coloro che ritenevano di essere i primi custodi, interpreti e testimoni della legge avevano tolto la chiave della scienza. Essi non vi sono entrati, e l'hanno impedito a quelli che volevano entrare. Per la stessa ragione usano la loro scienza per tendere insidie al Signore, per farlo parlare su molti argomenti e sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca. La condanna per loro invece viene dalla sapienza di Dio.
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    00 17/10/2010 16:22
    don Elio Dotto
    Contro la tentazione della fuga


    Ci sono giorni in cui la nostra vita ci va davvero stretta. Accade quando ci accorgiamo che la realtà quotidiana non corrisponde ai desideri del cuore; soprattutto non corrisponde a quei desideri per i quali abbiamo giocato la nostra esistenza. Pensiamo - ad esempio - alla vita matrimoniale, che per molti costituisce il coronamento di desideri a lungo coltivati: ben presto essa diventa ripetitiva e scontata. Certo, magari ci sono momenti in cui si rinnovano l'ardore e le promesse degli inizi: e tuttavia la maggior parte del tempo non sfugge al logoramento dell'abitudine.
    Appunto davanti a questa prospettiva si insinua la tentazione della fuga: che non è semplicemente la voglia di cambiare vita - cosa molte volte impossibile - ma è più spesso la tendenza a vivere il quotidiano avendo la testa altrove. Un po' come accade al monaco descritto nel quarto secolo da Evagrio Pontico in un suo trattato: il quale dovrebbe stare nella sua cella a studiare; e invece «tiene gli occhi continuamente fissi sulle finestre, esce fuori per osservare se il sole è ancora lontano dalla nona ora, e guarda da una parte all'altra per vedere se per caso viene qualche fratello». Insomma, fa tutto fuorché quello che dovrebbe.
    Così succede anche al giudice della parabola che leggiamo nel Vangelo di questa domenica (Lc 18,1-8): pure lui infatti faceva tutto fuorché quello che avrebbe dovuto. «Non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno», dice di lui Gesù iniziando il racconto. E in tal modo mette subito in luce l'incoerenza di questo giudice, che per definizione avrebbe dovuto fare giustizia - nel rispetto della legge di Dio - e che invece non si cura di nessuno. Egli - di conseguenza - è sempre altrove con la testa, lontano dalla sua missione di giudice, in fuga dalle sue responsabilità quotidiane.
    Diverso è invece l'atteggiamento della vedova che chiede giustizia: perché essa persevera nella sua richiesta, e continuamente va ad importunare il giudice inadempiente. Quella donna magari avrebbe potuto cercare una scorciatoia, ad esempio una qualche raccomandazione o un qualche compromesso... Essa però non ci sta, e si ostina, preferendo continuare la sua battaglia con perseveranza.
    Non si tratta però soltanto di ostinazione: c'è qualcosa di più dietro il comportamento di questa vedova. Dietro la sua perseveranza, infatti, sta la fede semplice di chi conosce la giustizia di Dio: perché davvero Dio «farà giustizia prontamente». In fondo già così aveva creduto Mosè, quando vide dalla cima di un colle la battaglia di Israele contro gli amaleciti (prima lettura: Es 17,8-13): il confronto pareva insostenibile per il suo popolo; eppure anche in quel momento Mosè credette nella promessa del Signore, e la sua fede fu davvero grande, al punto che «quando alzava le mani Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere era più forte Amalek».
    Dunque è proprio questa fede perseverante che può dare salvezza, oggi come allora. È vero, a volte capita che prevalga la stanchezza, e che non sia proprio possibile tenere le mani alzate verso il cielo: perché la nostra vita ci pare davvero stretta, tanto che vorremmo fuggire lontano per trovare un riparo tranquillo (cfr Sal 54,7-9). E tuttavia non deve essere questo l'ostacolo insormontabile: anche Gesù infatti ha sentito la stanchezza, ma ha pure continuato a credere, nonostante tutto. Perché è la fede perseverante nel Padre che salva. «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà questa fede sulla terra?».
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    00 18/10/2010 15:43
    padre Tino Treccani Dio ama il peccatore pentito e lo perdona

    La parabola del "fariseo e del pubblicano" può essere divisa così: introduzione di Luca (v. 9); la parabola (vv.10-13); la conclusione di Gesù (v. 14).

    1. Gesù smaschera la falsa religione (v.9)

    Due sono le finalità della parabola: da un lato, smascherare la falsa religione di alcuni che, convinti di essere giusti, disprezzano gli altri (v.9); dall'altro, insegnare ai discepoli l'autentico rapporto con Dio. I convinti di essere giusti, si identificano con i farisei, il cui comportamento fu spesso condannato da Gesù. In Luca, e solo in lui (cfr. 16,14), i farisei (parola che significa "separati") sono chiamati "amici del denaro". Ossia, sono coloro che mantengono e difendono, con l'ideologia e con le parole, con rapporti di interesse (14,12-14) e con la religione del puro e dell'impuro (11,41) il sistema disuguale e escludente delle città, fondato sulla concentrazione dei beni. I farisei si oppongono a Gesù ed alla sua pratica. Al contrario, Gesù è favorevole alla condivisione e all'eliminazione della religione del puro-impuro (cfr. 15,1-2).

    2. Nessuno si giustifica davanti a Dio (vv. 10-13)

    La parabola contrappone due modi di essere, un fariseo e un pubblicano, che vanno al tempio per pregare (v.10). Ambedue cercano la comunione con Dio mediante la preghiera. Tra i due ha un contrasto molto forte, sia per il comportamento, sia per l'idea di religione e di preghiera. Anche l'idea di Dio che ognuno dei due possiede, è differente. Una è falsa, l'altra è vera. A prima vista, si ha l'impressione che il fariseo sia giusto e il pubblicano sbagliato. Ma la decisione spetta a Gesù. É lui - che conosce l'intimo della persona - che deciderà. Il fariseo non può essere giudice del pubblicano. I farisei si consideravano giusti davanti a Dio. Si credevano autentici e puri. La propria parola "fariseo" (= separato) denota la coscienza che avevano ed il rigore usato nell'osservanza della Legge di Mosè. Disprezzavano coloro che non conoscevano la Legge e coloro che non fossero - come loro - scrupolosi nell'osservarla nelle minuzie. Si ritenevano come coloro che applicavano autenticamente la Legge.
    Il fariseo della parabola denota la coscienza e la scrupolosità del movimento a cui appartiene. Ha coscienza di non essere come il resto delle persone, e per questo si rivolge a Dio con un certo brio, orgoglio, pregando ad alta voce, in piedi, enumerando le sue qualità. Queste qualità si caratterizzano per il "non essere" come gli altri e per il "fare scrupolosamente" più di quanto la Legge esigeva. Lui "non è" come gli altri. E comincia a catalogare i peccati che evita: gli altri sono ladri, ingiusti e adulteri. Questi tre peccati sintetizzano la trasgressione del Decalogo in relazione al prossimo: non rubare, non commettere adulterio, ecc...
    In seguito enumera ciò che "fa" scrupolosamente: digiuna due volte alla settimana. La legge prescriveva un solo digiuno all'anno, nel giorno della riconciliazione. Lui è incredibilmente generoso, andando molto oltre il prescritto, probabilmente digiunando in rappresentazione-sostituzione per i peccati del popolo (é, come si diceva, un' "anima riparatrice"). Inoltre paga il decimo di tutti i suoi redditi, inclusi quelli esenti dalle tasse decimali. Si tratta dunque, di un fariseo esemplare, integro in relazione al prossimo a Dio. Tuttavia il suo sbaglio consiste nel giudicarsi, per causa di questo, meritore della benevolenza divina. Dio dovrebbe sentirsi obbligato a riconoscerlo giusto.
    Il pubblicano sta all'opposto del fariseo. Essendo esattori delle tasse, i pubblicani erano, e con ragione, accusati di estorsione e corruzione. Per questo diventarono impopolari, odiati come persone dalla morale perversa. Come esattori delle tasse, erano agenti del governo imperialista e bramoso dei romani. Collaborazionisti con gli oppressori, si vedeva in loro l'incarnazione del peccato. C'era per lo meno due classi di esattori delle imposte: i capi (come Zaccheo, cfr. 19,1-10) ed i subordinati. I capi praticavano l'estorsione sui loro subalterni, e questi sfruttavano il popolo. I capi erano ricchi; i loro subordinati, dei benestanti. Ambedue le classi erano malviste per essere collaboratrici dell'impero romano.
    L'atteggiamento del pubblicano davanti a Dio si scontra frontalmente con quella del fariseo. Si riconosce peccatore, non ha coraggio di alzare gli occhi, si batte il petto e chiede pietà (v.13).

    3. Il peccatore incontra la misericordia divina (v.14)

    La conclusione di Gesù - che conosce l'intimo delle persone - mostra che il peccatore ritornò a casa perdonato (giustificato), mentre il fariseo, che si proponeva come modello di pietà da imitare, no (v.14). I farisei si giudicavano i primi (ossia, gli unici, i "separati") ad essere ricompensati per la loro religiosità e scrupolosità nel compiere i minimi dettagli della Legge. E giudicavano i pubblicani gli ultimi (ossia, gli esclusi), per i quali non c'era né speranza, ne salvezza. La conclusione di Gesù sovverte questa mentalità: chi si esalta (il fariseo) sarà umiliato (da Dio). Come non riconoscere qui un'eco del Magnificat? (cfr. 1,52).

    La preghiera del fariseo non è autentica per i seguenti motivi:
    - Per causa del rigore nell'applicazione della Legge - andando molto oltre dal prescritto - crede che Dio senta un maggiore bisogno di ricompensarlo. Ma Dio non si sente obbligato, perché la preghiera del fariseo è una pura esaltazione delle proprie qualità. E, in fondo, "copriva" la sua bramosia di "amico del Denaro" (16,14).

    - Non è autentica perché crea classi tra le persone, dubitando che la preghiera del pubblicano possa cancellare il passato di ingiustizie. Con la sua preghiera, oltre ad esaltare se stesso, crea l'idea di un Dio fatto a sua immagine e somiglianza, incapace di trasformare totalmente la vita del peccatore.

    -Non è autentica, perché non lascia margine per la gratuità. Pregare è accogliere il dono di Dio, offerto gratuitamente in Gesù. Costui venne al mondo non per causa della bontà dei farisei, ma perché solo Dio è buono, e nessun altro (cfr. Mc 10,18). Pregare non è uno scambio di favori; al contrario, è mettersi in atteggiamento di chi è disposto ad entrare nel mistero di Dio. Il fariseo non ha niente da chiedere. Si giudica, perciò, perfetto (vediamo come dovrebbe pregare il cristiano, nel Padre Nostro di Lc 11,2-4).

    La preghiera del pubblicano è autentica, perché nasce dalla sua miseria e condizione di peccatore. Sa che è debitore a Dio ed alle persone. Riconosce che, se non ci fosse un Dio misericordioso, il suo caso non avrebbe soluzione, né salvezza.. Così, si affonda nel mistero di Dio, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 18,23; Lc 15,7; Gv 8,11).

    Per riflettere

    Il monologo delle benemerenze potrebbe essere uno dei tanti titoli che caratterizzano la nostra preghiera di cristiani. Oppure potrebbe essere quest'altro: la coscienza degli eletti di Dio. Aggiungiamoci che ci fa molto comodo, dipendendo dalla situazione, essere e fare i camaleonti del sacro. La parabola si esprime in forme individuali e nega l'individualismo come forma di speranza o di garanzia della salvezza; rivela due classi, due mondi antitetici, per evidenziare il mistero di Dio, ben superiore ai peggiori peccati o, all'elenco delle benemerenze dell'osservanza scrupolosa di ogni "iota" della Legge.

    Non giudicare! É tanto difficile non giudicare; è meno difficile perdersi nelle miriadi di "costruzioni umane", pensate, sofferte, per descrivere la preghiera. La preghiera è diventata un sillabario, un manuale enorme, quando si allontana dal nocciolo del Padre Nostro. La preghiera è un "dovuto", senza il quale, il patentino di buon cristiano o di buon religioso o ecclesiastico, resta senza valore. Immaginiamoci la preghiera dell'orgoglio, della pretesa, degli "hosanna" a noi stessi. É il self-service di chi crede di gestire il suo rapporto col divino. Per tanti, è proprio così. Gesù scuote la testa un'altra volta si questo modo di pensare e vivere la religione. D'altra parte, l' hanno ammazzato vivo, al suo tempo, perché ha avuto il coraggio di dare il colpo finale a quella religione del Tempio, piena di sacrifici e di lodi, ma senza anima. Nessun atto religioso, che passa sul corpo, la vita, la storia delle persone, possiede anima; perché questi corpi, queste vite, sono di Dio e non della religione! Il pur doveroso compito di osservare la Legge, non esime nessuno dal pur necessario dovere di vivere al giustizia. Religione che ammette qualcuno più santo dell'altro, pecca contro il Vangelo: uno solo è Santo, il Padre vostro che è nei cieli!
    Siamo farisei e non ce ne dispiace: "Ti ringrazio Signore, che non sono come gli altri... islamici, talebani, atei e blablabla, aguzzini delle donne e terroristi... Ti ringrazio perché appartengo alla cultura occidentale, superiore a tutte, da te voluta.... blablabla... Ti ringrazio perché non sono uno spretato... perché non ho una donna amante; perché non sono come Tizio e come Caio, attaccati al denaro ed alla fama... blablabla..."

    Ieri sera, lacrimoni grossi attanagliavano la mia gola, vedendo ancora bambini e innocenti colpiti dalle bombe: "Mio Dio, perché tanto sangue innocente, perché devono essere sempre gli stessi innocenti a pagare? Ci sei? O sei diventato sordo e cieco?" E prendevo tra le mani questa parabola di Luca. Una piccola luce si accende in questo buio pesto di vigliaccherie: qualcuno che comincia a battersi il petto ed osa dire che la vendetta si allontana da ciò che dovrebbe essere la giustizia; questa "guerra giusta" si sta rivelando come la guerra del "papavero". Ma che bello. Adesso faremo i poeti nei campi di papaveri: anche quelli sono rossi, come il sangue degli innocenti. Nella farsa dei raid notturni, i colori spariscono, tutto è filtrato dagli infrarossi che mostrano immagini verdi. É videogame... La guerra è solo nella fantasia... poesia pura.

    È anche comodo "giocare al pubblicano", tanto Dio perdona tutto e tutti. In ambedue i casi, pubblicani e farisei, la coscienza c'è, del bene e del male. La molla che aziona la coscienza, però, a volte si inceppa, laddove la coscienza diventa privilegio di benemerenze, di orgogliosi diritti snobbati davanti alla faccia del divino. Ricordavo ieri (23 ottobre) il 15 anniversario dell'assassinio del mio caro Vilmar. La cosa più spontanea è puntare il dito contro gli assassini, come se io, nel mio cuore, non odiassi mai nessuno, amassi sempre i fratelli con cui convivo, ecc. ecc..

    La giustificazione, spesso noi cristiani, l'abbiamo fatta diventare una teoria, e non un dono che riceviamo dalla misericordia di Dio. É vero, costruiamo il nostro piccolo Dio, su misura dei nostri interessi. La gratuità la lasciamo a qualche pazzo sognatore. Per noi, i conti devono tornare chiari e tondi, perché questo è il passaporto della nostra auto-reputazione. Eppure ci battiamo il petto ad ogni Eucaristia, paghiamo la nostra contribuzione, non andiamo a puttane. In convento, i "modelli" di santità sono ancora più vistosi: ognuno nel cubicolo del suo cuore chiuso, ammira la santità della scrupolosità nel compiere le pratiche di pietà; non importa, se il fratello accanto, muore dissanguato dal silenzio individualista; non ci tange il martirio interiore di chi, cosciente delle sue colpe, implora misericordia. Se uno sgarra dalla Regola, gli puntiamo il dito come fosse la personificazione del diavolo. L'importante è salvare la faccia!

    Per fortuna che Gesù ha distrutto la religione dell'ipocrisia: adesso possiamo adorare Iddio in spirito e verità; non lo rinchiuderemo nei parametri di una cultura o di mille pratiche oranti. Adesso ci troviamo di fronte al mistero puro, di un essere, fatto Uguale a noi, dalle mani enormi come le sue braccia e dal cuore che tutto accoglie. É per la sua Bontà che siamo giustificati; perché sente più gioia per un peccatore che si converte, che di cento giusti che già godono del mistero divino.
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    Coordin.
    00 23/10/2010 12:43
    padre Lino Pedron
    Commento su Luca 13, 1-9

    Il brano 13,1-5 ci presenta due fatti di cronaca: una uccisione e un incidente. Nel primo caso sono in gioco la libertà e la cattiveria dell'uomo; nel secondo la violenza del creato. Ma il problema è unico: quello della morte che l'uomo vive come un'indebita violenza.

    Questi due avvenimenti richiamano in modo esemplare ciò che maggiormente scuote la fede del credente: perché Dio permette i soprusi e le violenze, i disastri e i terremoti?

    La storia con le sue ingiustizie, e la natura con la sua insensatezza sembrano dominate dal maligno (cfr Lc 4,6).Il male, continuamente presente nella nostra esistenza, è il problema più rilevante ed è inspiegabile alla ragione. Esso costituisce un problema anche per la fede: la può spegnere o ingigantire. Solo conoscendo i "segni del tempo" possiamo vedere nel male il Signore che viene a salvarci chiamandoci alla conversione.

    Il problema vero della storia non è l'alternanza al potere del male, ma l'alternativa ad esso. Non basta cambiare i protagonisti: bisogna cambiare il gioco.

    Gesù non condanna Pilato, ma non esalta neppure le sue vittime. Egli vuole portarci a un punto di vista superiore: Pilato e le sue vittime sono insieme vittime dello stesso peccato. Infatti hanno tentato lo stesso gioco: i galilei erano i più deboli e hanno perso.

    Gesù ha rifiutato come mezzi del Regno quelli del nemico: la ricchezza, il potere e l'orgoglio. La violenza genera sempre altra violenza. L'unica arma per vincere tutti i mali è l'amore.

    Lo stesso peccato, presente in Pilato e nelle sue vittime, è presente anche negli ascoltatori di Cristo. Al posto di Pilato si sarebbero comportati come Pilato, al posto dei guerriglieri galilei si sarebbero comportati come i guerriglieri galilei. Ma allora dove sta la verità? Essa sta solamente nel conformare i nostri comportamenti a quelli di Cristo che si fa carico del male di tutti.

    Le calamità naturali non sono una punizione, ma un richiamo alla conversione. Il peccato che ha guastato l'uomo ha sottoposto all'insensatezza anche la natura che aveva in lui il suo fine Si è rotta l'armonia uomo-mondo e ogni evento insensato ci richiama a cercare nella conversione il senso di una vita che il peccato ha esposto al vuoto, al non senso (cfr Rm 8,20).

    Discernere i segni del tempo presente significa leggere ogni fatto come appello a passare dal mondo vecchio al mondo nuovo portato da Cristo. In questo modo il male perde il suo carattere di fatalità e viene dominato dall'uomo che ne sa trarre un bene maggiore: la propria conversione.

    Il brano 13,6-9 ci presenta la parabola del fico sterile: Questa ci aiuta a leggere la nostra storia alla luce di quella di Gesù. La parabola è trasparente. Il Padre e il Figlio si prendono cura dell'uomo e si attendono che egli risponda al loro amore. Ma come il fico è sterile, così l'uomo non fa frutti di conversione (cfr Lc 3,8). Ma Dio accorda una proroga all'uomo e prodiga la sua cura perché fruttifichi e non venga tagliato.

    Il "quest'anno" del v. 8 indica tutti gli anni e i secoli delle generazioni che verranno. E' l'anno della pazienza e della misericordia di Dio: "Egli usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 2,9). Ma non dobbiamo fare come gli "empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia di Dio" (Gd 4). Non ci si deve prendere gioco della ricchezza della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, ma riconoscere che la bontà di Dio ci spinge alla conversione (cfr Rm 2,4).

    La parabola pone l'accento sulla bontà di Dio. La cattiveria dell'uomo non può impedire a Dio di essere buono.
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    Coordin.
    00 25/10/2010 14:52
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Donna, sei libera dalla tua infermita'

    Il miracolo del Vangelo di oggi, la guarigione di una donna incurvata dalla malattia da diciotto anni, è narrato solamente da Luca. Era giorno di sabato. Gesù vide la donna e la chiamò a sé, dicendole: "Donna, sei libera dalla tua infermità". Subito, come si poteva immaginare, il capo della sinagoga si sdegnò, perché Gesù aveva operato la guarigione proprio nel giorno di sabato, giorno di festa e di assoluto riposo. E Gesù replicò: "Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia per condurlo a bere? E questa figlia di Abramo, malata da diciotto anni, non doveva essere sciolta solo perché è sabato?" D'altro canto la guarigione operata di sabato - Gesù volutamente in questa circostanza parte di sua iniziativa - offre l'occasione per affermare l'aspetto centrale del suo messaggio. Non è una opposizione al sabato in quanto tale - il regno di Dio c'è già ed è all'opera nel mondo - ma è una asserzione della gloria e del culto di Dio per la liberazione dell'uomo da ogni schiavitù. Se prima l'evangelista aveva riferito che la donna appena guarita da Gesù glorificava Dio, adesso conclude dicendo: "La folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute. Da quello che si può notare a prima vista, il popolo, grazie al suo istinto religioso, avverte una viva presenza di Dio più degli esperti, strettamente formalizzati sul legalismo. Questa pagina del Vangelo non è soltanto una pagina che ci permette di ammirare Cristo nella sua missione di liberazione da ogni schiavitù, e di donare a tutti la libertà dei figli di Dio, ma è soprattutto un invito ad assumere le nostre responsabilità. Siamone coscienti di quella libertà donataci per non ricadere nella propria schiavitù. Il Padre, offrendo suo Figlio, è tutto incurvato sull'uomo, e ogni uomo incurvato, per sua grazia si può raddrizzare e così riflettere la gloria del Figlio.
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    Coordin.
    00 26/10/2010 09:20
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Il granellino e il lievito

    Immagini di grandezza, di potenza e di gloria ci accompagnano quando pensiamo ai regni umani e ai grandi della terra. Gesù viene ancora una volta a sconvolgere i nostri pensieri dicendoci che il Regno di Dio, infinito nella sua grandezza e in tutte le sue perfezioni e simile a un granellino di senapa gettato nell'orto. L'infinitamente grande diventa infinitamente piccolo! È un monito per noi che siamo caduti nel peccato a causa della superbia per le nostre manie di grandezza. Ci dice chiaramente che se volgiamo far parte di quel Regno di redenti e di salvati da Cristo dobbiamo sprofondarci negli abissi dell'umiltà vera, diventare come bambini, puri e semplici come colombe. Ci stupisce che poi questa ci venga indicata come la via certa per conseguire la vera grandezza agli occhi del Signore. Quel piccolo seme, quasi invisibile, diventerà un albero fecondo. È la grandezza che s'identifica con la santità. Questo è un discorso che nel nostro mondo risuona arduo e perfino assurdo agli orecchi di molti. È troppo intensa e senza tregua la sfida che abbiamo ingaggiato da tempo per primeggiare l'uno sull'altro. Pare che la virtù dell'umiltà oggi sia quasi improponibile anche perché, tra l'atro, viene spesso confusa con la debolezza o la pusillanimità. La seconda immagine del Regno è il lievito nella massa. Qui il linguaggio di Cristo diventa estremamente impegnativo per noi perché il lievito siamo noi, piccola porzione di eletti in una massa che attende di fermentare nel bene sotto gli impulsi convincenti del buon esempio. Per far questo non possiamo e non dobbiamo far affidamento nelle nostre forze, che risulterebbero inevitabilmente inefficaci, ma solo nella grazia divina che ci fortifica e faconda. Una grande responsabilità e un grande impegno, ma anche un innegabile privilegio ci ha dato Cristo. i primi dodici hanno cambiato la storia del mondo e noi?

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    Coordin.
    00 28/10/2010 16:49
    Dalla Parola del giorno
    "Chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota".

    Come vivere questa Parola?
    Un arido elenco di nomi? No! Il segno che per Dio non siamo numeri. Egli chiama ciascuno per nome, fa emergere dal nulla, dando un volto ben definito. Ognuno è se stesso: unico, irrepetibile. Da sempre Dio lo ha sognato così. E in quel nome una chiamata, che è la mia, solo mia. "Ne scelse dodici ai quali diede il nome di apostoli". Dodici. Eppure la vocazione di Simone non è quella di Andrea, perché Simone dall'eternità era nel cuore di Dio come Simone, quel Simone lì impulsivo pieno di slanci eppure tanto fragile, quel Simone che rinnegherà ma poi verserà il sangue per il Maestro. Quel Simone che avrà il compito di confermare gli altri e a cui saranno affidate le chiavi del Regno... Così per ogni uomo... per me. Chiamato da sempre, perché da sempre sognato così, con questo volto, questo compito da svolgere nella vita, che non può essere distinto da me. Io non ho una vocazione: io sono la mia vocazione. Quella voce che mi ha tratto dal nulla, che mi ha dato un volto nel momento stesso un cui in un atto di infinita tenerezza pronunciava il mio nome, quella voce mi chiamava ad "essere per". VOLUTO DA DIO PERCHÉ AMATO DA DIO COSÌ COME SONO. Come posso non amarmi, non accettarmi anche nei miei limiti, non amare la mia vocazione? Come posso non esplodere di gioia? Sì, quella voce di cui serbo in cuore l'eco con nostalgia profonda, quella voce continua a chiamarmi alla gioia..

    Oggi, nella mia pausa contemplativa, lascerò emergere nel mio cuore la gioia profonda di sapermi desiderato da sempre. Cercherò di guardarmi con quello sguardo carico di compiacenza con cui Dio mi ha accolto quando sbocciavo alla vita. Lentamente, sentendole pronunciate per me, mi ripeterò le parole della Genesi: "Dio vide che era cosa molto buona!".

    Dio della mia gioia, dammi di percepire sempre nel mio cuore quel richiamo carico di tenerezza che mi ha dato di essere. Che io scopra giorno dopo giorno il mio "nome", in un alone di stupore e di riconoscenza. Che io lo viva in pienezza, condividendo il tuo sogno, rispondendo all'Amore con l'amore. Grazie, grazie Dio della mia gioia.
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    Coordin.
    00 30/10/2010 08:25
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Chi si esalta sara' umiliato, e chi si umilia sara' esaltato

    Il Vangelo di oggi ci riferisce di un certo lavoro che questa volta Gesù proibisce egli stesso a tutti non solo nel giorno di sabato, ma sempre. Entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare, stava a vedere come la gente si sistemava, e vide appunto che tutti miravano ai primi posti. Questo è un lavoro che tutti sappiamo fare molto bene, ed è un lavoro che rende e piace, perché i primi posti significano esaltazione, proprio prestigio, onorificenze. Di fronte a questa gara individuale nei confronti degli altri, Gesù propose loro con la parabola degli invitati a nozze di scegliere gli ultimi posti; così che "venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato". La proposta di Gesù non è una semplice regola d'educazione, né stratagemma per migliorare la propria posizione. E' invece la rivelazione del giudizio di Dio, che valuta in modo opposto al nostro. E' quanto Gesù ci ha manifestato e ciascuno di noi è chiamato a vivere. Egli ha scelto l'ultimo posto, si è fatto servo di tutti e si è umiliato. Suoi amici sono quanti fanno altrettanto. Questa umiltà è un atteggiamento religioso che ha a che vedere con il posto nel banchetto del regno di Dio, che umilia il superbo e innalza l'umile, come cantò la Vergine Maria nel suo Magnificat. Solo l'umile dà gloria a Dio e riceve da lui gloria. Il superbo invece dà gloria al proprio io e resiste a Dio. L'ultimo è il posto di Dio: lì troveremo Gesù, nostro Maestro. E questo è il motivo per cui Dio ama gli ultimi. Solo questi partecipano al banchetto del Regno, che la misericordia del Padre imbandisce per il figlio perduto e ora ritrovato.

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    Coordin.
    00 31/10/2010 09:39

    Commento di Padre Giulio Maria Scozzaro

    La figura di Zaccheo non viene valutata con attenzione nella catechesi cattolica, eppure ci spiega alcune verità molto importante. Innanzitutto, ci mostra come la Misericordia di Gesù è inesauribile, immensa, senza fine. Non dobbiamo considerare mai nessun peccatore perduto ed irrecuperabile. Anche i più grandi peccatori possono convertirsi in qualsiasi momento della vita, nessuno deve disperare, nessun familiare deve smettere di pregare per la conversione dei propri cari. Gesù aspetta una piccola apertura nel cuore dei peccatori, anche una fessura, per entrare e portare la Grazia e l’Amore.

    Zaccheo era un grande peccatore, era capo dei pubblicani e ricco, famoso a Gerico per la sua carica, odiato come lo erano tutti i pubblicani. Lavoravano per conto dei Romani nel riscuotere le tasse, erano esattori e versavano a Roma i soldi trattenendo le percentuali. Gli ebrei accusavano Zaccheo e i pubblicani di spogliare il popolo eletto con la riscossione delle tasse arricchendo i pagani.

    Nessuno avrebbe scommesso sulla riabilitazione di Zaccheo, la sua conversione non era neanche immaginata dai paesani, non tanto perché cattivo, era odiato per l’oppressione economica, ma nel suo cuore era sgorgato un desiderio imbarazzante per la sua professione: voleva vedere il Cristo. Questo desiderio lo covava nel suo cuore da tempo, sentiva parlare di Gesù da tutti e si avvicinava dove c’era gente per ascoltare e fare domande. Il suo amore per Gesù cresceva con il passare dei giorni.

    Si facevano spazio nei pensieri umani e viscerali di Zaccheo, pensieri buoni che gli procuravano una pace interiore che non aveva mai provato nella vita. Il desiderio di incontrare Gesù era sincero e spesso riaffiorava alla mente. Ma ritornava subito ad interessarsi del denaro e delle tasse da imporre alla popolazione.

    Quando seppe che Gesù si trovava a Gerico e attraversava la città, corse per vedere chi fosse Gesù ma non trovava posto tra le prime file perché i paesani lo disprezzavano. Non c’era posto per Zaccheo tra la gente di Gerico. Ma lui voleva vedere Gesù.

    Non pensava più ai giudizi della gente, a quello che avrebbero detto sulla sua presenza in mezzo a loro, era pronto a sfidare le calunnie pur di vedere Gesù.

    È questo desiderio di vedere Gesù da parte di un grande peccatore che ci sorprende e ci commuove. Tutti i peccatori possono improvvisamente trovarsi nella mente pensieri benevoli verso Gesù e la Madonna, che spingono a pregare e ad andare a Messa, a confessarsi, che illuminano sul vero senso della vita e fanno provare disgusto e vergogna verso la vita immorale e dissoluta.

    Zaccheo non si cura più del rispetto umano, cioè, di quello che dirà la gente di lui.

    Chiediamoci se noi abbiamo lo stesso desiderio di vedere misticamente Gesù quando andiamo a Messa la domenica oppure se le distrazioni invadono la mente, senza preoccuparci di trovare il raccoglimento e di adorare il Signore durante il Sacrificio eucaristico.

    L’indifferenza verso la Messa distrae molti cattolici, non pensano che sull’altare c’è Gesù Crocifisso e fanno di tutto per non farsi vedere da Lui, si mimetizzano tra i banchi come se si trovassero ad un noioso comizio aziendale. Non salgono sull’albero per vedere meglio Gesù.

    Al contrario di Zaccheo che cercava di vedere Gesù e di incrociare il suo sguardo, molti cattolici non pensano mai che Gesù è vivo, che è l’Eucaristia, che si immola misticamente nella Messa, sull’altare che diventa il nuovo Calvario. Sono quei fedeli che non fanno mai un passo avanti nella vita spirituale, rimangono sempre con gli stessi problemi e non se ne preoccupano.

    Vediamo che il piccolo sforzo di Zaccheo è immediatamente ricompensato da Gesù, infatti, non appena lo vede gli dice che vuole andare a casa sua. Si invita da sé, Zaccheo è sorpreso ma felice, mai il denaro lo aveva così rallegrato. E per festeggiare Gesù, promette quello che non avrebbe mai fatto nella vita, neanche sotto tortura: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”.

    In alcuni istanti Zaccheo cambia il disegno esistenziale, da accanito estorsore di tasse a benefattore di tutti. Zaccheo aveva fatto un piccolo sforzo per vedere Gesù, viene ricompensato con una abbondante Grazia, che lo trasforma in pochi minuti. Zaccheo ci insegna che tutto è possibile a Gesù. Non si deve mai disperare, ma nutrire una sicura speranza

    Zaccheo ha trovato Gesù e non Lo ha lasciato più, la sua vita è iniziata adesso.

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    Credente
    00 02/11/2010 07:22
    Suor Giuseppina Pisano o.p.
    Commento Matteo 25,31-46


    Una liturgia, quella di oggi, carica di speranza, e che, senza nulla togliere alla drammaticità della morte, ci parla di pienezza di vita, a partire dal passo del profeta Isaia, per concludersi col Vangelo, che è un invito a preparare, già nel tempo, l'ingresso nella vita eterna: l'indistruttibile, felice comunione con Dio, in Cristo.
    La commemorazione solenne di tutti i defunti è una festa antica, nata nel lontano medioevo in ambiente monastico, là, dove il ricordo di chi ci ha preceduto è tenuto vivo, ogni giorno, con la preghiera di suffragio, che, in alcuni periodi si fa più intensa e prolungata.
    Questa di oggi, è anche una giornata di preghiera molto sentita da molti, che la solennizzano, in modo particolare, con la visita ai cimiteri, quei giardini che accolgono il dolore e la speranza di tutti: speranza di una vita oltre il silenzio di quelle tombe, che conservano la memoria di chi, un giorno, è stato tra noi, ed ora è altrove, e noi crediamo, appunto, con Dio nella pienezza della gioia, liberi, ormai, da ogni dolore e paura.
    Già nel passo del profeta Isaia, possiamo cogliere il senso profondo di quella che sarà la speranza portataci, nella pienezza dei tempi, dal Figlio di Dio, il Cristo Redentore.
    "Preparerà il Signore degli eserciti, per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. "; così recita il testo del Profeta, introducendo accanto al simbolo del monte, che richiama le altezze cui Dio ci chiama, anche quello del banchetto, che evoca gioia condivisa e comunione, come troveremo poi nelle parabole di Gesù, attraverso le quali, ci vien rivelato l'amore del Padre ricco di misericordia, che chiama a sé tutti gli uomini (Mt. 22), anche i più lontani e distratti.
    Il monte, di cui Isaia parla, è il segno altissimo della visione di Dio, che darà piena felicità, al termine del lungo travaglio della vita, ad ogni uomo che desideri incontrarlo: " Dio, continua il Profeta, strapperà, su questo monte, il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre, che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore, Dio asciugherà le lacrime su ogni volto…".
    E' la speranza più bella, l'unica consolazione, che aiuti a superare il freddo silenzio della morte, la separazione inesorabile dalle persone più care, che non dobbiamo ricordare nella loro tragica immobilità, ma vive, in Dio, e circondante dal suo amore.
    Ed è, in vista di una tale speranza, che il Salmista ci esorta a pregare con queste parole:
    " Ricordati, Signore, del tuo amore,
    della tua fedeltà, che è da sempre.
    Ricordati di me nella tua misericordia,
    per la tua bontà, Signore.
    Allevia le angosce del mio cuore,
    liberami dagli affanni.
    perdona tutti i miei peccati.
    Proteggimi, dammi salvezza;
    perché in te ho sperato." (sl. 24)
    E', dunque, la speranza l'unico sostegno nel tormentato cammino della vita, la luce che dà senso anche all'esistenza più difficile ed amara, che dà senso e respiro, non solo al singolo, ma all'intera storia umana, pur se essa attraversa periodi di buio, e le forze del male sembrano prevalere con violenza inesorabile; neppure in questo caso la Storia è, di fatto, abbandonata al caos della irrazionalità, che sembra solo distruggere e seminare dolore, perché, sempre, misteriosamente, ma realmente essa procede, attratta dal suo fine, che è l'amore sapiente di Dio, il quale, pazientemente attende ed opera salvezza, anche quando i nostri occhi non vedono e la mente stenta a comprendere.
    Tutto il travaglio della Storia, col suo carico di dolore e di angoscia ha una sua logica profonda che, giustamente, Paolo assomiglia ad un parto cui tutta la creazione partecipa, animata dalla speranza imbattibile della definitiva liberazione per i meriti di Cristo il Figlio di Dio Redentore: " La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; scrive l'Apostolo, essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l' ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma, anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo".
    L'attesa della liberazione definitiva e del godimento di ciò che, " occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato in cuore d'uomo", come scrive, ancora, Paolo ( I Cor.2,9), non può, tuttavia, essere inerte e inoperosa, e il passo del vangelo di oggi lo ricorda a tutti, anche, a quanti ancora non credono esplicitamente in Cristo, ma, tuttavia, vivono una vita moralmente ed eticamente buona, operando il bene in favore dei più deboli e poveri.
    " Venite, benedetti del Padre mio, dirà il Signore, quando verrà come giudice della Storia, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo."
    E benedetti, sono quanti si sono piegati sul bisogno, fisico o morale, del prossimo, chiunque esso sia, e a qualunque cultura, fede, o popolo appartenga, saziando la fame di chi è privo del necessario nutrimento, o la sete, di chi è privo di risorse d'acqua, vestendo il povero, o consolando chi soffre, nella malattia o nella vergogna del carcere.
    Ed è bello leggere lo stupore di quei " benedetti", che non si sono accorti, nella loro semplicità e generosità, di aver incontrato, negli emarginati della vita, Cristo Gesù, il quale non disdegna di identificarsi anche nel delinquente, che sconta la sua pena:" ero carcerato, e siete venuti a visitarmi", afferma il Signore.
    E lo stupore, di cui il Vangelo parla, dà nuovo slancio alla certezza, che là, dove opera l'amore, è presente il Cristo Redentore, che si rivelerà, forse, solo alla fine, ma, sempre, trasformerà il freddo della morte nello splendore della vita eterna.
    Un' autentica festa, dunque, questa della Commemorazione di tutti i defunti, che ci conduce alla contemplazione del Mistero stesso della vita, che è, sì, attraversata dal dolore e dall'angoscia della morte fisica, ma che, proprio attraverso questa esperienza drammatica, ci assimila al Figlio di Dio
    " fatto obbediente fino alla morte", la quale non è la realtà ultima, ma solo il penultimo traguardo dell'esistenza umana, destinata a vivere in eterno nella comunione di quell'Amore che è Dio stesso.(I Gv. 4,16)
    L'amore, principio e fine dell'esistenza è, dunque, la scelta fondamentale che l'uomo è chiamato a compiere, per esser " benedetto" per sempre; ed è scelta tra la vita e la morte, scelta che si compie nel tempo, con intelligenza e libertà, scelta, che ci qualifica, e che determina il nostro destino: di felicità o disperazione eterna.


    Sr Maria Giuseppina Pisano o.p.
    mrita.pisano@virgilio.it
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    Coordin.
    00 03/11/2010 08:39
    Eremo San Biagio


    Dalla Parola del giorno
    Siccome molta gente andava con lui, Gesù si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».

    Come vivere questa Parola?
    Sono parole affilate come lama, dure più dell'acciaio. Non si può, a un primo approccio, non esserne sconcertati. Ci sembra anzi di cogliere una contraddizione di fondo. Nello stesso Nuovo Testamento si dice che solo chi ama conosce Dio e dimora in Dio; che chi ama è generato da Dio e Dio abita in lui, che chi ama i "fratelli" è passato dalla morte alla vita. Bellissimo! Ma che senso dunque ha proclamare poi l'odio, per di più per i parenti più stretti e per la propria vita? Non bisogna edulcorare la traduzione, il linguaggio. Invece è il caso di penetrarne il senso vero, profondo. Molta gente seguiva Gesù ma con la stessa religiosità esteriore con cui anche oggi molti sono cristiani. Accogliere i messaggi consolatori del Signore, dichiararsi dalla sua parte per ottenere grazie a tutto spiano e accomodarsi dentro una pratica che ti assicura certi beni, soprattutto riguardanti il "qua e ora". No, Gesù "si voltò" e proferì queste parole che contraddicono quel modo di seguirlo. E propone l'esempio di chi, dovendo costruire o far guerra, deve prima fare i conti per vedere se quanto ha gli basta per portare a termine l'edificio, o nel caso della guerra, se ha truppe e armamenti sufficienti per combattere fino alla vittoria. Qual è dunque il capitale necessario, l'equipaggiamento indispensabile? Gesù lo dice subito dopo: "Chiunque non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo". La chiave di volta è il distacco. E proprio il distacco da ogni egoico possesso assicura la veracità, la libertà, lo splendore dell'amore.

    Oggi, nella mia pausa contemplativa, chiedo allo Spirito Santo di vedere se in me c'è questo tendere deciso al distacco da ogni possesso. Cerco forse ogni comfort? Quello affettivo, quello dell'appoggio gratificante oppure come Gesù, amo quelli che mi sono cari senza cedere a volerli "possedere"? Li amo dunque veramente? Per Dio e per loro stessi?

    La voce di un autentico pastore
    Signore, donaci il coraggio di entrare nella logica della nudità. Vorrei tanto spiegarla anche alle comunità cristiane, al cui interno ci si frantuma spesso per problemi di prestigio, ed è più facile rinunciare alla ricchezza dei beni che a quella del proprio punto di vista.
    Antonio Bello

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    Credente
    00 04/11/2010 08:55
    a cura dei Carmelitani


    1) Preghiera

    Dio onnipotente e misericordioso,
    tu solo puoi dare ai tuoi fedeli
    il dono di servirti in modo lodevole e degno;
    fa’ che camminiamo senza ostacoli
    verso i beni da te promessi.
    Per il nostro Signore Gesù Cristo...



    2) Lettura

    Dal Vangelo secondo Luca 15,1-10
    In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”.
    Allora egli disse loro questa parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.
    Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
    O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.
    Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.


    3) Riflessione

    • Il vangelo di oggi riporta la prima delle tre parabole che hanno in comune la stessa parola. Si tratta di tre cose perdute: la pecora perduta (Lc 15,3-7), la moneta perduta (Lc 15,8-10), il figlio perduto (Lc 15.11-32). Le tre parabole sono dirette ai farisei ed ai dottori della legge che criticavano Gesù (Lc 15,1-3). Cioè sono dirette al fariseo e al dottore della legge che c’è in ognuno di noi.
    • Luca 15,1-3: I destinatari delle parabole. Questi tre primi versi descrivono il contesto in cui furono pronunciate le tre parabole: “In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano”. Da un lato, si trovavano i pubblicani e i peccatori; dall’altro i farisei e i dottori della legge. Luca dice con un po’ di enfasi: “Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo”. Qualcosa di Gesù li attirava. E’ la sua parola che li attira (cf Is 50,4). Vogliono ascoltarlo. Segno questo che non si sentono condannati, bensì accolti da lui. La critica dei farisei e degli scribi è questa: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro!" Nell’invio dei settanta e due discepoli (Lc 10,1-9), Gesù aveva comandato di accogliere gli esclusi, i malati ed i posseduti (Mt 10,8; Lc 10,9) e di riunirli per il banchetto (Lc 10,8).
    • Luca 15,4: Parabola della pecora perduta. La parabola della pecora perduta inizia con una domanda: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?” Prima di dare una risposta, Gesù deve aver guardato chi lo ascoltava per vedere come avrebbero risposto. La domanda è formulata in modo che la risposta non può essere che positiva: “Sì, va dietro la pecora perduta!” E tu, come risponderesti? Lasceresti le novanta nove nel campo per andare dietro l’unica che si è persa? Chi farebbe questo? Probabilmente la maggior parte avrebbe risposto: “Gesù, qui tra noi, nessuno farebbe una cosa così assurda. Dice il proverbio: “Meglio un passero in mano che cento che volano!”
    • Luca 15,5-7: Gesù interpreta la parabola della pecorella perduta. Ora, nella parabola il padrone delle pecore fa ciò che nessuno farebbe: lascia tutto e va dietro la pecora perduta. Solo Dio può assumere un tale atteggiamento! Gesù vuole che il fariseo o lo scriba che c’è in noi, ne prenda coscienza. I farisei e gli scribi abbandonavano i peccatori e li escludevano. Loro non sarebbero mai andati dietro la pecora perduta. L’avrebbero lasciata perdere nel deserto. Preferivano le novantanove. Ma Gesù si mette nella pelle della pecora che si è perduta e che, in quel contesto della religione ufficiale, cadrebbe nella disperazione, senza speranza di essere accolta. Gesù fa sapere a loro e a noi: “Se ti senti peccatore, perduto, ricorda che per Dio tu vali più delle altre novanta nove pecore. E nel caso in cui ti converta, sappi che “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.
    • Luca 15,8-10: Parabola della moneta perduta. La seconda parabola: "O quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dracma che avevo perduta. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Dio si rallegra con noi. Gli angeli si rallegrano con noi. La parabola serve per comunicare speranza a chi era minacciato dalla disperazione della religione ufficiale. Questo messaggio evoca ciò che Dio ci dice nel libro del profeta Isaia: "Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani!” (Is 49,16). “Tu sei prezioso ai miei occhi, e io ti amo!” (Is 43,4)


    4) Per un confronto personale

    • Tu andresti dietro la pecora perduta?
    • Pensi che oggi la Chiesa è fedele a questa parabola di Gesù?



    5) Preghiera finale

    Cercate il Signore e la sua potenza,
    cercate sempre il suo volto.
    Ricordate le meraviglie che ha compiute,
    i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca.
    (Sal 104)

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    Coordin.
    00 05/11/2010 17:38
    Eremo San Biagio

    Dalla Parola del giorno
    I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

    Come vivere questa Parola?
    Come ogni parabola, se letta superficialmente, questa di oggi può apparire sconcertante. Si tratta di penetrarne il senso. Gesù non loda affatto l'amministratore per la sua disonestà, ma per il modo con cui, in una situazione difficile, ha saputo realizzare quel che si era proposto: una vita comoda e del tutto egoista. Ciò che sta a cuore a Gesù è che noi ci lasciamo stimolare da un contesto narrativo che, pur fatto di tenebra, evidenzia nel protagonista interesse, impegno, sagacia. E' questo modo di essere che Gesù c'invita a trasferire in tutt'altro contesto: quello del Regno a cui apparteniamo come "figli della luce" (figli del giorno e della resurrezione, dice altrove). Più che mai oggi da parte di molti cosiddetti "credenti" e "praticanti", ricorre l'obiezione: "Ma è difficile, è addirittura impossibile fare il bene con questo parroco, con questi confratelli o consorelle, con questi parenti; con questa gente della nostra società c'è solo da rassegnarsi..." Eppure i santi (autentici credenti in ogni tempo e in ogni tipo di società) proprio dalle difficoltà si sono sentiti spronati ad essere creativi, sagaci, tempestivi nelle scelte coraggiose e sagge, fuori da ogni opportunismo, pigrizia o paura. Sono stati tutt'altro che dei "rassegnati"!

    Oggi, nel mio rientro al cuore, chiederò a Gesù di scuotermi di dosso pessimismo stanchezza negatività di ogni sorta, e d'infondermi il coraggio, e l'intraprendenza del bene. Verbalizzerò:

    Gesù, mia Luce e mia Salvezza, salvami da tenebre di ignavia e paure. Rendimi vero "figlio della luce".

    La voce di un'artista rivoluzionaria, monaca russa morta nel Lager
    Essere "figli della luce" comporta il più aperto, esplicito e consapevole distacco da se stessi, pronti ad essere sempre nella volontà di Dio, desiderosi di partecipare alla realizzazione del progetto di Dio sul mondo, con una certa mobilitazione spirituale di tutte le proprie facoltà e forze.
    Mat' Marija
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    Coordin.
    00 07/11/2010 15:27


    Nei giorni scorsi, la Chiesa ha inviato i fedeli tutti a riflettere sui cosiddetti Novissimi, ovvero, le realtà ultime per la vita dell'uomo che approdano alla vita eterna. L'occasione è stata data dalla festa di Tutti i Santi e della Commemorazione dei Defunti. Il brano del Vangelo di Luca della penultima domenica del tempo ordinario è, in un certo senso, il prolungamento e la spiegazione del senso della vita e della morte di ogni persona.

    Le relazioni divine, con Dio, prendono vita e forma nelle relazioni terrene, dell'uomo con il suo simile. Il dire di Gesù - "i figli di Dio sono tali essendo figli della risurrezione" - sta ad indicare che la fede in Cristo è fede in Dio. Che cosa sarebbe la fede cristiana se Cristo non fosse risorto si chiede Paolo? Vana, vuota, senza senso e pienezza è la risposta. L'uomo crede in Dio in quanto il suo figlio Gesù è risorto: la grande differenza con le altre religioni. Il tema della risurrezione, e in generale dei Novissimi, trova poca aderenza nella catechesi ordinaria e predicazione pastorale. Perché tutto ciò? Come mai fatica, a volte, a trovare spazio di argomentazione nel dialogo tra parroco e fedeli, educatori e giovani, genitori e figli? Se non si indica costantemente in modo chiaro e deciso la meta del nostro peregrinare anche i passi più piccoli risulteranno incerti. Porre a tema di un anno pastorale l'espressione "Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi" significherebbe ripensare ogni scelta comunitaria e personale alla luce della risurrezione.

    Aiutare a risorgere è uno di quei ministeri sempre più urgenti nell'attuale contesto storico; di certo lo era anche in passato, ma oggi è più evidente e tangibile. Aiutare a risorgere significa servire l'uomo, ogni uomo, nel saper ritrovare senso e motivo dell'esistere, rimetterlo in piedi prima ancora di aiutarlo a camminare, aiutarlo a sentire la spina dorsale della propria personalità viva dentro di sé. Si pensi alle tantissime situazioni in cui una famiglia, un insegnante, un sacerdote, un educatore (per citare alcuni dei tanti ruoli sociali) si trova a dover stare in piedi e nel contempo aiutare a non cadere. È nella fede in Cristo, nella forza dello Spirito Santo, nel credere l'impossibile nel possibile senza elaborare troppi schemi razionali e mentali che si permette a Dio di operare cose grandi senza dover troppo insistere.

    La vedovanza oggi, è anche sinonimo di rimanere soli nel credere, nell'amare, nello scegliere, nel vivere. Trovare lo sposo e la sposa vuol dire dare valore e spessore alle relazioni quotidiane che sigillano una forte amicizia in quanto proveniente da Dio. Si pensi all'amicizia tra sacerdoti, quell'amicizia bella, segnata da reciproca stima e sostegno vicendevole, parlandosi cuore a cuore e lasciandosi aiutare senza remore e false umiltà. È su questa terra che siamo o meno "giudicati degni dell'altro mondo" partendo dalle scelte compiute. Pertanto nella prassi ecclesiale, e in special modo nella catechesi dei fanciulli e degli adolescenti, si affermi costantemente e in modo chiaro l'importanza della risurrezione del proprio corpo in Cristo; la morte chiamata da San Francesco "sorella" ci deve spronare a chiamare anche noi la vita "sorella". In tal modo si riuscirà a vedere e vivere in una diversa prospettiva le singole vicende umane quotidiane, dalle più belle a quelle più tristi e cariche di dolore. Se ognuno vive per Cristo egli diviene, a sua volta, faro che indica la meta, segnale che guarda al fine, passo che procede con fiducia filiale in Dio.

    Commento a cura di don Giacomo Ruggeri
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    00 08/11/2010 08:21
    Eremo San Biagio


    Dalla Parola del giorno
    Se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai.

    Come vivere questa Parola?
    Nella vita quotidiana i conflitti sono inevitabili! Che lo vogliamo o no, consapevolmente e inconsapevolmente, ognuno di noi porta nelle relazioni interpersonali ciò che è, in positivo e in negativo, e interagisce col positivo e negativo degli altri. Il conflitto è inerente alle relazioni umane!
    È una conseguenza della identità di ciascuno che è anche diversità, la quale quando non è valorizzata ma temuta e osteggiata conduce al sospetto all'aggressione al delirio di onnipotenza e... al peccato!
    Nella maggior parte dei casi i conflitti possono essere sanati e addirittura far fiorire aspetti nuovi e inediti in una relazione. A volte basta parlarsi con sincerità per superare gli equivoci, basta chiedere spiegazioni o anche tacere e lasciar cadere e sorridere. Ciò che importa è non lasciar 'calare la notte' sulle incomprensioni, cioè non chiudersi nel proprio "ora basta, con me ha chiuso!" Questa 'notte' conduce lentamente e inevitabilmente all'odio e chiude all'amore.
    Chiedere scusa, riparare i torti, sorridere sono azioni che declinano il 'saper perdonare' che è l'unica via per vivere in pace da figli di Dio, il quale perdona settanta volte sette, cioè sempre.

    Oggi nella mia pausa contemplativa mi immergerò nel mare della benevolenza e magnanimità del Padre e gli chiederò la grazia di una 'ostinata benevolenza' verso tutti: vicini e lontani.

    Padre mio perdona i miei peccati come io perdono ai miei fratelli e sorelle. Fa' che quel 'come' sia sempre più dilatato dal dolce abbandono al Tuo Amore.

    La voce di un grande Santo
    Dove è odio, fa' ch'io porti l'Amore, / Dove è offesa, ch'io porti il Perdono, /Dove è discordia, ch'io porti l'Unione, [... ]
    Poiché, è /Dando, che si riceve; /Perdonando, che si è perdonati; /Morendo, che si risuscita a Vita Eterna.
    San Francesco d'Assisi

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    00 10/11/2010 08:05
    Omelia (11-11-2009)
    Eremo San Biagio
    Commento su Sap 6,2-12

    Dalla Parola del giorno
    "Ascoltate, o re, e cercate di comprendere; imparate, governanti di tutta la terra… La vostra sovranità proviene dal Signore. Desiderate pertanto le mie parole; bramatele e ne riceverete istruzione".

    Come vivere questa Parola?
    "Ascoltate, cercate di comprendere, imparate": con ritmo incalzante la Parola del Signore oggi si rivolge a ‘coloro che stanno in alto' perché ‘bamino e desiderino' e Sue parole per riceverne istruzione e governare secondo il Suo volere, lasciandosi ammaestrare con umiltà dalla divina sapienza.
    Ai grandi della terra, ma anche ad ognuno di noi investito di responsabilità sugli altri, Dio dice: "la vostra sovranità viene dal Signore". Ossia, non è un diritto da esercitare arbitrariamente, spadroneggiando, né un potere da gestire con orgoglio, gloriandosene, ma un dono e una missione. E come tale esige accoglienza gratuita e limpida rettitudine. Non ci sono sconti per chi abusa del proprio ruolo con arroganza e superbia, insiste l'autore sacro sottolineando al contempo come Dio sia imparziale nel giudicare e non si lasci influenzare dalla dignità dei potenti: "un giudizio severo" attende infatti tutti coloro che prevaricano sugli altri.
    Nostro impegno e risposta d'amore sia dunque porgere docilmente l'orecchio all'ascolto quotidiano della Parola di Dio, da cui attingere quella sapienza che ci abilita all'esercizio dell'autentico amore, fondamento di ogni autorità, lontano da domini e da manipolazioni di parte.

    Oggi nella mia pausa contemplativa orienterò alla Sapienza mente e cuore, coltivando interiormente la certezza che quanti l'amano "la contemplano senza difficoltà" poiché la Sapienza "si lascia scoprire da quanti la cercano", addirittura previene chi la desidera, facendosi incontro "come una madre" (cf Qo 15,2). Prego con umile amore:

    Che io cerchi, Signore, la sapienza. Le Tue parole di brace scaldino il mio cuore perché ogni mio gesto sia una delicatissima espressione d'amore accogliente.

    Le parole di un Padre
    Oh, come corriamo da stolti, ignorando che la prima di tute le virtù è l'umiltà, come la prima di tutte le passioni è la golosità e la concupiscienza delle cose della vita.
    Antonio

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    00 13/11/2010 08:20
    a cura dei Carmelitani


    1) Preghiera

    Dio grande e misericordioso,
    allontana ogni ostacolo nel nostro cammino verso di te,
    perché, nella serenità del corpo e dello spirito,
    possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio.
    Per il nostro Signore Gesù Cristo...



    2) Lettura

    Dal Vangelo secondo Luca 18,1-8
    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: "C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé. Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi".
    E il Signore soggiunse: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente.
    Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?"


    3) Riflessione

    - Il vangelo di oggi riporta un elemento molto caro a Luca: la preghiera. E' la seconda volta che Luca riporta le parole di Gesù per insegnarci a pregare. La prima volta (Lc 11,1-13), ci insegnò il Padre Nostro e, per mezzo di paragoni e parabole, insegnò che dobbiamo pregare con insistenza, senza stancarci. Ora, questa seconda volta (Lc 18,1-8), ricorre di nuovo ad una parabola tratta dalla vita per insegnare la costanza nella preghiera. E' la parabola della vedova che scomoda il giudice senza morale. Il modo di presentare la parabola è molto didattico. In primo luogo, Luca presenta una breve introduzione che serve da chiave di lettura. Poi racconta la parabola. Alla fine, Gesù stesso la spiega:
    - Luca 18,1: L'introduzione. Luca presenta la parabola con la frase seguente: "In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi ". La raccomandazione di "pregare senza stancarsi" appare molte volte nel Nuovo Testamento (1 Tes 5,17; Rom 12,12; Ef 6,18; ecc). Ed è una caratteristica della spiritualità delle prime comunità cristiane.
    - Luca 18,2-5: La parabola. Poi Gesù presenta due personaggi della vita reale: un giudice senza considerazione per Dio e senza considerazione per gli altri, ed una vedova che lotta per i suoi diritti presso il giudice. Il semplice fatto di indicare questi due personaggi rivela la coscienza critica che aveva della società del suo tempo. La parabola presenta la gente povera che lotta nel tribunale per ottenere i suoi diritti. Il giudice decide di prestare attenzione alla vedova e di farle giustizia. Il motivo è questo: per liberarsi dalla vedova molesta e non essere più importunato da lei. Motivo di interesse personale. Ma la vedova ottiene ciò che vuole! Ecco un fatto di vita quotidiana, di cui Gesù si serve per insegnare a pregare.
    - Luca 18,6-8: L'applicazione. Gesù applica la parabola: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente". Se non fosse Gesù, noi non avremmo avuto il coraggio di paragonare Gesù ad un giudice disonesto! Ed alla fine Gesù esprime un dubbio: "Ma il Figlio dell'Uomo quando viene, troverà fede sulla terra?" Ossia, avremo il coraggio di sperare, di avere pazienza, anche se Dio tarda nel fare ciò che gli chiediamo?
    - Gesù in preghiera. I primi cristiani avevano un'immagine di Gesù in preghiera, in contatto permanente con il Padre. Infatti, la respirazione della vita di Gesù era fare la volontà del Padre (Gv 5,19). Gesù pregava molto ed insisteva, affinché la gente e i suoi discepoli pregassero. Poiché è confrontandosi con Dio che emerge la verità e che la persona ritrova se stessa in tutta la sua realtà ed umiltà. Luca è l'evangelista che più ci informa sulla vita di preghiera di Gesù. Presenta Gesù in costante preghiera. Ecco alcuni momenti in cui Gesù appare in preghiera. Tu, voi potete completare l'elenco:
    - A dodici anni va al Tempio, alla Casa del Padre (Lc 2,46-50).
    - Prega quando è battezzato e nell'assumere la missione (Lc 3,21).
    - All'inizio della missione, trascorre quaranta giorni nel deserto (Lc 4,1-2).
    - Nell'ora della tentazione, affronta il diavolo con testi della Scrittura (Lc 4,3-12).
    - Gesù ha l'abitudine di partecipare il sabato a celebrazioni nelle sinagoghe (Lc 4,16)
    - Cerca la solitudine del deserto per pregare ( Lc 5,16; 9,18).
    - Prima di scegliere i dodici Apostoli, trascorre la notte in preghiera (Lc 6,12).
    - Prega prima dei pasti (Lc 9,16; 24,30).
    - Prega prima della sua passione e nell'affrontare la realtà (Lc 9,18).
    - Nella crisi, sale sulla Montagna ed è trasfigurato quando prega (Lc 9,28).
    - Dinanzi alla rivelazione del vangelo ai piccoli, dice: "Padre io ti ringrazio!" (Lc 10,21)
    - Pregando, suscita negli apostoli la volontà di pregare (Lc 11,1).
    - Prega per Pietro affinché non perda la fede (Lc 22,32).
    - Celebra la Cena Pasquale con i suoi discepoli (Lc 22,7-14).
    - Nell'Orto degli Ulivi, prega, anche sudando sangue (Lc 22,41-42).
    - Nell'angoscia dell'agonia, chiede ai suoi amici di pregare con lui (Lc 22,40.46).
    - Nell'ora di essere inchiodato sulla croce, chiede perdono per i malfattori (Lc 23,34).
    - Nell'ora della morte dice: "Nelle tue mani consegno il mio spirito!" (Lc 23,46; Sal 31,6)
    - Gesù muore emettendo il grido del povero (Lc 23,46).
    - Questa lunga lista indica quanto segue. Per Gesù la preghiera è intimamente legata alla vita, ai fatti concreti, alle decisioni che doveva prendere. Per poter essere fedeli al progetto del Padre, cercava di rimanere da solo con Lui. Lo ascoltava. Nei momenti difficili e decisivi della sua vita, Gesù recitava i Salmi. Come qualsiasi giudeo pio, li conosceva a memoria. La recita dei Salmi non spense in lui la creatività. Anzi. Gesù creò lui stesso un Salmo che ci trasmise: il Padre Nostro. La sua vita è una preghiera permanente: "Cerco sempre la volontà di colui che mi ha mandato!" (Gv 5,19.30) A lui si applica ciò che dice il Salmo: "Io sono preghiera!" (Sal 109,4)


    4) Per un confronto personale

    - C'è gente che dice di non saper pregare, ma parla con Dio tutto il giorno? Tu conosci persone così? Racconta. Ci sono molti modi in cui oggi la gente esprime la sua devozione e prega. Quali sono?
    - Cosa ci insegnano queste due parabole sulla preghiera? Cosa mi insegnano sul mio modo di vedere la vita e le persone?



    5) Preghiera finale

    Beato l'uomo che teme il Signore
    e trova grande gioia nei suoi comandamenti.
    Potente sulla terra sarà la sua stirpe,
    la discendenza dei giusti sarà benedetta.
    (Sal 111)

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    Coordin.
    00 14/11/2010 15:32
    don Mario Campisi Un Regno che è dentro di noi

    La solennità di Cristo re conclude l'anno liturgico. L'affermazione di Cristo Re dell'universo, oltre che dell'umanità, è la giusta conclusione del nostro cammino annuale come è anche l'ultimo termine della storia di Cristo e del mondo. Cerchiamo di addentrarci riflettendo e pregando nel tempio di questa singolare regalità.

    La crocifissione riferita dal Vangelo di Luca, riprende in sostanza quelli di Matteo e Marco. Luca tuttavia è il solo dei tre sinottici a riportare due parole di Gesù: quella del v. 34 relativa al perdono invocato sui carnefici, e quella del v. 43 con cui Gesù risponde alla richiesta del secondo malfattore crocifisso con lui.

    Nel testo lucano, Gesù in croce pronunzia tre parole. La prima si riallaccia al discorso programmatico di Nazaret: è una parola di grazia, di perdono (v. 34). Ma prima di passare alla seconda parola di Gesù, vediamo come il racconto lucano riprende, in quest'ora decisiva, le tre tentazioni nel deserto (4,1-13).

    Dopo la divisione delle vesti, con cui i carnefici riducono all'impotenza il condannato, Luca è il solo a notare la presenza del "popolo" che osserva, ma non in senso di curiosità quanto di profondo rispettoso silenzio. Di fronte a Gesù, tre categorie di spettatori svolgeranno il ruolo del tentatore, apostrofandolo non più sulla sua identità di Figlio, ma sulla sua missione e salvezza che è venuta a portare agli uomini.

    Abbiamo prima di tutto i "capi del popolo". Essi si fanno beffe di lui, schernendo il "Cristo di Dio" che Pietro aveva confessato. Poi intervengono i "soldati", che deridono il "re dei giudei" chiamandolo così in senso ironico. Infine "uno dei due malfattori" bestemmia contro "il Cristo".

    Sono chiaramente riconoscibili i tre capi di accusa del Sinedrio contro Gesù: l'autorità religiosa da lui assunta indebitamente; l'istigazione alla rivolta; la potenza messianica di dare la vita, che egli ha rivendicato per sé. Sono gli stessi argomenti delle tre polemiche nel tempio (20,2.22.27). Ma già all'inizio della vita pubblica, le tentazioni nel deserto, in ordine inverso, si riferivano anch'esse al dono della vita, al potere politico e all'autorità religiosa.

    Questi tre apostrofi al crocifisso sono alla fine un triplice invito a "salvare se stesso". Ma la salvezza è oggetto di grazia e avviene soltanto nel modo in cui Dio la realizza, attraverso il salvatore che egli ha inviato.

    Gesù dunque è tentato proprio da coloro a cui ha consegnato se stesso, e proprio sul punto della solidarietà con i fratelli. Il problema è allora inquietante: come può accettare di morire, quando sa per certo che tutti hanno bisogno di lui? Gesù tace, si consegna e si rimette a loro. Ed è uno di loro che risponde per lui.

    Mentre in Marco e Matteo i due ladroni si associano agli oltraggi degli spettatori, qui uno dei due malfattori proclama l'innocenza di Gesù: "noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". Di fronte alla morte occorre fare spazio al timore di Dio: il destino comune degli uomini ci invita a questo.

    La seconda parola di Gesù è provocata dal "buon ladrone". Egli apre il proprio cuore all'Innocente che si è posto per libera scelta nella categoria del malfattori. La preghiera del condannato viene esaudita prontamente: "...oggi sarai con me in paradiso". L' "oggi" di Luca esprime sempre l'attualità della venuta di Gesù come salvatore: la presenza nascosta del risorto nella nostra storia. Ma Gesù aggiunge: "con me", rivelando a quell'uomo, ormai ex malfattore, la sua condizione di discepolo. Questa risposta in termini personali annuncia al malfattore il suo ingresso nella nuova alleanza, alleanza eterna perché si riferisce alla realtà irreversibile che sta al di là della morte.

    Il Vangelo non è necessario che sia grandioso sulle piazze, ma occorre che fermenti nella intimità dell'uomo, appunto come quel pizzico di lievito che fermenta tutta la massa.

    E allora, "Non uscire da te. Entra in te stesso. Nell'uomo Interiore abita la Verità" (Sant' Agostino). E poi, è Gesù stesso che lo dice: "Il regno di Dio è dentro di voi..."
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    00 15/11/2010 16:19
    Eremo San Biagio


    Dalla Parola del giorno
    Un cieco cominciò a gridare: "Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!"... Gesù ordinò che glielo conducessero e quando gli fu vicino, gli domandò:"Che vuoi che io faccia per te?". Egli rispose: "Signore, che io riabbia la vista".

    Come vivere questa Parola?
    Puntando "decisamente verso Gerusalemme", in un viaggio di salvezza che coinvolgerà via via i discepoli e le folle, Gesù fa tappa a Gerico. Alle porte della città si ferma, richiamato dal grido insistente di un mendicante che se ne stava seduto sul ciglio della strada. Quest'uomo disgraziatamente aveva perduto la vista, e l'essere piombato nel buio si era tradotto anche in emarginazione ed immobilità. Raggomitolato su se stesso, incapace di autogestirsi, di lavorare, in una parola, di vivere dignitosamente, ora tende la mano e più ancora il cuore. Ecco: ha perduto tutto. Ma non ha mollato sul bene più grande: la fede. Una fede sofferta, che finalmente, dinanzi a "Gesù, Figlio di Davide" si esprime in grido fiducioso e tenace: "Abbi pietà di me!".
    Questo il messaggio della Parola di oggi: la fede gridata nel dolore, con insistenza, fa fermare Gesù sul ciglio della nostra povertà. Quali che siano i suoi sinonimi: peccato, cecità interiore, durezza di cuore, essi ce lo rendono paradossalmente "vicino", più vicino a noi di quanto non lo sia "a chi cammina avanti".

    Coraggio, dunque! Nel buio della nostra cecità, segnati nel corpo, nell'anima e nella psiche da malesseri che oggi, più che mai, disorientano sino a farci deragliare, Gesù, il Terapeuta per eccellenza, ci raggiunge con una domanda pregna di speranza, che incoraggia e consola: "Che vuoi che io faccia per te?". La percepirò diretta a me, oggi, nella mia pausa contemplativa. E pregando sussurrerò silenzioso nelle profondità del cuore pacificato:

    Gratuito Amore di Dio, che mi accarezzi misericordioso lenendo in me l'imbarazzo della colpa, fa' che possa "guardare in alto, levare gli occhi, recuperare la vista", per contemplare il tuo Volto, esultare nella lode e seguire Te fino a Gerusalemme, attratto dal tuo amore crocifisso, che è più forte del peccato e della morte.

    La voce di un monaco trappista contemporaneo
    E' fondamentale fare l'esperienza che da tutto noi siamo salvati in forza della resurrezione di Gesù...Al tornante di questo confronto con i nostri limiti saremo condotti, spesso nostro malgrado, alla Parola di Dio che è radicata nel punto più profondo del nostro cuore. Istante di grazia nel quale Dio ci genera ad una sovrabbondanza di vita.
    André Louf

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    Credente
    00 16/11/2010 08:33
      "Cosa vuoi che io faccia per te?". Questa è una domanda che Gesù rivolge
    molto spesso a chi lo incontra. Attraverso questa domanda Gesù invita, quasi
    costringe, il suo interlocutore a prendere coscienza del suo male, del suo
    bisogno di salvezza. La richiesta che ne sgorga non è generica, astratta, ma
    precisa e concreta:" Signore che io veda di nuovo". La salvezza è sempre una
    realtà concreta nella vita del credente; è la trasformazione radicale della
    profonda incapacità che intacca la qualità della vita. Qual è la mia ? Qual
    è la nostra? Gesù vuole che chiamiamo con nome questa incapacità, che ne
    prendiamo coscienza, chiara e netta...e che, per esserne liberati,
    riconosciamo di essere bisognosi del Suo aiuto.
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    Credente
    00 17/11/2010 07:52
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Dette queste cose, Gesu' prosegui' avanti... verso Gerusalemme

    Stiamo vicini a Gerusalemme. È l'occasione giusta per la parabola dei talenti. Un bell'insegnamento per noi; un invito per la nostra vita! Ma leggiamo con attenzione il brano evangelico, senza lasciarci sfuggire alcuni particolari importanti. È Gerusalemme, e il viaggio di Gesù si sta per concludere. Le indicazioni geografiche di San Luca indicano sempre un cammino che non è solo un itinerario ma un progetto. La vicenda storica di Gesù Cristo, significata nella sua ascesa a Gerusalemme, è il compimento della missione affidatagli dal Padre, è la realizzazione delle promesse antiche è la possibilità di una nuova nascita che trova in Gerusalemme il nuovo punto d'irradiazione. Ancora i personaggi: il principale è l'uomo nobile che vuol diventare re e poi i nemici che accettano questa regalità. È un modo preciso per indicare la Passione di Cristo che passa attraverso anche l'incomprensione. La parabola dei talenti è una della parabole del Regno di Dio, ma ne specifica la sua manifestazione nella regalità di Cristo; allora è ben comprensibile se la si rapporta proprio alla comprensione di cosa voglia dire la manifestazione completa del Regno nel Mistero Pasquale di Cristo. Il perno che segna questa svolta è proprio segnato dagli avvenimenti che stanno per succedere nella stessa Gerusalemme: la morte e resurrezione di Gesù Cristo nella manifestazione completa dell'opera di Dio; il Regno di Dio che prorompe definitivamente nella storia. I talenti allora sono la nostra opportunità per partecipare a questa manifestazione. Il Regno di Dio, entrato nella storia con il sacrificio di Cristo richiede la nostra volontà per renderlo manifesto; anche la scena dell'uccisine dei nemici rappresenta la vittoria definitiva del bene sul male. La parabola allora assume non solo un aspetto morale ma si innesta in un preciso progetto che chiama l'uomo a collaborare con Dio. I talenti sono i doni del Signore che non possono essere tenuti nascosti ma per fruttificare devono essere condivisi. La lampada che posta sul moggio da' luce, il sale che da' sapore alle vivande; il pizzico di lievito che fa crescere la massa sono altre forme che richiamano la stessa idea di manifestazione. Con i talenti Gesù ci invita a riflettere che tutto è dono di Dio.

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    00 19/11/2010 11:50
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Avete fatto della mia casa una spelonca di ladri

    Gesù entra in Gerusalemme e si reca nel tempio di Dio; non è solo un atto di rispetto ma qualifica subito che la sua missione, in Gerusalemme, è religiosa e non politica.. La scacciata dei venditori dal tempio non solo indica quanto Gesù ci tenga anche al decoro dei luoghi di culto ma assume quasi il valore di un rito di preparazione per tutto quello che sta per accadere a Gerusalemme. Assume quindi un aspetto di gesto di purificazione. Diventa quasi un rito. Gesù insegnerà ancora una volta che il tempio l'ha potuto di nuovo riconoscere come la sua casa. Tutto ciò però sappiamo bene che è solo un passaggio; Gesù è interessato a celebrare in un altro tempio, cercherà un altro altare. Dal tempio parte per arrivare sulla Croce; dalla celebrazione dell'Antica Alleanza si passa al luogo dove si celebrerà la Nuova Alleanza, che trova il suo altare sulla Croce. È il nuovo patto di amore già preannunciato dal profeta Geremia. La legge non sarà più scritta sulle tavole di pietra, il luogo era nel tabernacolo del tempio; ma nei nostri cuori. Il cuore è il tabernacolo del tempio della Nuova Alleanza è il sacrario più intimo del nostro incontro con il Signore dove possiamo sempre celebrare la nuova Alleanza e rinnovare quell'amore che ci è donato dalla morte e risurrezione di Cristo. Purifichiamo, allora i nostri cuori, rendiamoli degni di un così grande dono, facciamo che anche in noi Gesù possa trovare posto per porre il suo insegnamento, apriamoci al suo amore con fiducia.

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    Credente
    00 22/11/2010 12:35
    Eremo San Biagio


    Dalla Parola del giorno
    Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo dei funzionari di non farlo contaminare.

    Come vivere questa Parola?
    Daniele, un nobile giovane israelita deportato a Babilonia, viene reclutato, insieme ad altri coetanei, per entrare al servizio del re. Verrà istruito nella lingua e nella cultura caldea e dovrà nutrirsi dei cibi provenienti dalla stessa mensa reale. Il giovane accoglie di buon grado l'apertura ad un'altra cultura, purché possa restare fedele a quanto di fondamentale la sua prescrive: è aperto al nuovo ma senza rinnegare ciò in cui crede, senza cercare facili compromessi. Un nobile esempio non solo per i suoi contemporanei, ma anche per noi, uomini e donne del ventunesimo secolo, immersi in una società pluralistica, in cui si affermano indiscutibili valori emergenti dal confronto tra le varie culture. Chiudersi in un nostalgico richiamo al passato è quanto di meno positivo si possa fare. Ma, attenzione! Non tutto ciò che si presenta come novità è automaticamente valido e obbligante, né quanto è patrimonio lasciatoci dalle generazioni passate è per ciò stesso obsoleto: I valori autentici non conoscono l'usura del tempo. È necessario saper discernere tra proposta e proposta, cogliere ciò che si nasconde dietro quanto viene propagandato, usando anche della pressione sociale di un massiccio, ma non sempre oculato consenso o in nome di una scienza resa miope dal suo chiudersi al trascendente. Daniele ci ricorda che la "Sapienza" è dono di Dio concessa a chi ha il coraggio di andare contro corrente, pur di non "contaminarsi con cibi profani".

    Oggi, nel mio rientro al cuore, verificherò se il mio atteggiamento nei riguardi delle proposte correnti è sanamente critico, nutrito non da ciò che va per la maggiore ma dal pane solido della Parola e dall'acqua viva dello Spirito.

    Spirito Santo, fuoco vivo d'amore, illumina la mia mente perché sappia discernere ciò che è valido e donami il coraggio anche di pagare di persona, se necessario, pur di non tradire la mia coscienza.

    La voce di un mistico del IV secolo
    Chi ha raggiunto la saggezza e ne ha gustato il dolce sapore, non crede più al demone della vanagloria, anche se gli offrisse le delizie mondane.
    Evagrio Pontico

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    00 23/11/2010 07:56
    Monaci Benedettini Silvestrini Viene il Signore a giudicare la terra

    La vita dei discepoli del Signore non sarà tranquilla: non mancheranno persecuzioni, tradimenti, tentazioni e inganni. Occorre la perseveranza. Allora si potrà essere salvi, nello sfacelo di tutte le cose. Colui che siede sulla nube, della prima lettura dall’Apocalisse, “simile a Figlio d’uomo”, - visione messianica già avuta da Daniele - è Cristo; la mietitura e la vendemmia indicano il giudizio compiuto da Gesù, Signore del mondo e della storia. Agli uomini che si gloriano delle loro grandiose strutture religiose la parola di Cristo viene a scrollare via ogni sicurezza, che non provenga dalla fede. Quanto al voler conoscere in anticipo i tempi, Gesù rimane molto incomprensibile: l’importante è non farsi ingannare da falsi avvenirismi. I segni della fine sono già operanti, ma essa non viene subito. Ogni cosa è valutata in relazione a lui. Un giudizio che è già ora intimo a ogni scelta che andiamo facendo.
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    Credente
    00 26/11/2010 13:33
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Quando... il regno di Dio è vicino

    Troviamo nella pagina del Vangelo di oggi un avvenimento del Signore sul quale è sempre utile riflettere. A proposito degli ultimi tempi, Gesù disse la parabola del fico e di tutte le piante: quando germogliano, guardandole si capisce che l'estate è vicina. Con questa parabola egli intese esortare i discepoli a saper cogliere i segni del Regno che viene. Questa verità è così certa da contrapporla a quanto solennemente afferma: "I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno". E' come se dicesse: i cieli e la terra, pur nella loro durata, avranno termine, quello che vi dico, no! "Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina". Il fico che germoglia è segno della salvezza portata dal regno di Dio. La venuta del Figlio dell'uomo è nel tessuto concreto delle vicende umane, proprio all'interno di questa nostra storia di male. Il discepolo vive la propria testimonianza in mezzo alla contraddizioni del mondo, perché solo qui trova il momento e il luogo della sua liberazione. Luca insegna al suo lettore a leggere con fede ciò che avviene. Alla luce della storia di Gesù, anche la nostra storia diviene trasparente, e lascia vedere in filigrana i lineamenti del Figlio dell'uomo nel suo mistero di morte e di risurrezione. Al di là delle apparenze, il credente scorge nel travaglio delle vicende umane il destino stesso del seme gettato che muore e porta frutto. Questo è il regno che viene, mentre "cielo e terra passeranno". Questa, più che una profezia sulla distruzione dell'intero universo, è un'affermazione della validità eterna del messaggio di Cristo. Sulla sua Parola eterna si basano l'attesa vigilante e la speranza fiduciosa per il nostro emigrare.

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    Coordin.
    00 27/11/2010 15:20
    Eremo San Biagio

    Dalla Parola del giorno
    State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso [...]. Vegliate e pregate in ogni momento perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo.

    Come vivere questa Parola?
    "Quel giorno"! Suona come una minaccia incombente da cui rifuggire. La tentazione è di ricacciarla indietro tuffandosi in un attivismo sfrenato che ci permetta di non pensare, o di esorcizzare la paura insorgente stordendosi in "dissipazioni e ubriachezze": inutile antidoto all'angoscia, vuoto surrogato della gioia.
    La via che Gesù ci addita va in tutt'altra direzione: "State bene attenti", "Vegliate", cioè tenete gli occhi ben aperti per cogliere i primi barlumi di luce che annunciano l'imminente arrivo di "quel giorno", l'esaltante incontro con il "Figlio dell'uomo". Non si nega la durezza del momento, anzi si invita a pregare per ricevere la forza di superare tutto, ma contemporaneamente si invita ad "alzare la testa, perché la liberazione è vicina" (v.28).
    Che "quel giorno" s'ammanti di tenebre o di luce, sia oggetto di paura o di gioiosa attesa dipende dal modo in cui ciascuno di noi percepisce ed assume responsabilmente la propria esistenza: una realtà in cui ci si è trovati catapultati 'per caso' e da cui spremere tutte le soddisfazioni possibili prima di venire nuovamente e fatalmente inghiottiti in quel 'nulla' che ci terrorizza, o un dono inestimabile che ci rimanda continuamente al Donatore, alimentando in noi la nostalgia del suo volto.
    "Quel giorno": è il richiamo che oggi Gesù rivolge a noi. Lasciamo che ci interpelli, che ci stimoli a prendere 'sul serio' il tempo che ci è dato, vivendo nella consapevole e gioiosa attesa del 'suo ritorno'.

    A questo esercizio dedicherò la pausa contemplativa di oggi, in modo da impostare la mia vita sull'onda di una gioiosa attesa e possa far mia, in tutta verità, l'invocazione: "Vieni Signore Gesù!"

    Sì, vieni Signore Gesù. Vieni nelle mie laboriose giornate. Vieni quando il dolore bussa alla mia porta. Vieni quando la gioia fa sussultare il mio cuore. Vieni, o Atteso dall'anima mia!

    La voce di una mistica
    Come sarà bello quando il velo cadrà, finalmente, e godremo l'eterno "faccia a faccia" con Colui che unicamente amiamo. Nell'attesa vivo nell'amore, mi ci getto dentro e mi ci perdo. E' l' Infinito, quell' Infinito di cui è affamata l'anima mia.
    Sr. Elisabetta della Trinità
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    Coordin.
    00 28/11/2010 20:38

    Commento di Padre Giulio Maria Scozzaro

    Oggi è la prima domenica di Avvento, un tempo forte, in cui si riflette e si prega in attesa del Natale del Signore, e la Messa ci presenta letture forti, che aprono orizzonti vasti, parlano di quello che avverrà alla fine. Tre letture intense e chiare nel significato messianico.

    Il Vangelo ci fa riflettere sulla condizione di vita di questa società, sulla monotona ripetizione di scelte opposte all’amore e al perdono. Nei cuori di miliardi di persone alberga l’odio e la vendetta, la preoccupazione riguarda solo la parte materiale, ci si arrovella fino allo sfinimento come se questa vita dovesse durare eternamente.

    La vita di chi non ha accettato Gesù, è una fonte di inquietudine e di affanno, prende sopravvento sempre l’aspetto pagano, la ricerca di soddisfare i sensi e le passioni disordinate.

    La mancanza di ordine interiore è la manifestazione del disordine morale.

    Le preoccupazioni di questa società sono tutte rivolte al denaro, al successo, al sesso, alla vita spensierata, a un benessere che spegne l’amore e la verità. Ma il benessere vissuto nell’equilibrio non è sbagliato. Il problema nasce quando il benessere diventa una divinità, quando si adora al posto di Gesù.

    La ricerca eccessiva delle comodità infiacchisce il corpo, rende superficiali verso i veri problemi della vita, non c’è alcun interesse riguardo la dimensione spirituale. La persona non è solo materia, è l’anima che dà vitalità al corpo.

    Senza l’anima il corpo non può sussistere.

    È necessario fermarsi a riflettere, a riprendere la propria vita oramai lanciata in avanti.

    Questo periodo dell’Avvento è propizio per prepararci all’incontro con Gesù Bambino la notte di Natale. Un periodo per rivedere la nostra vita, fare la verifica interiore. Durante l’anno risulta difficile fermarsi a meditare, per questo si accumulano preoccupazioni e si perde di vista il bene primario: Gesù Cristo.

    L’uomo si ferma a riflettere dinanzi un evento grave, solo lì capisce che la vita è un dono. Ma quante vite si sciupano inutilmente. Quanti vedono nel Natale esclusivamente una festa pagana, il periodo dei prolungati giorni solenni e dei dolci, delle grandi abbuffate e dello spreco. Forse non si fa più caso allo spreco dei cibi, quando ogni giorno muoiono di fame incalcolabili persone nel mondo.

    Intuisco il ragionamento di chi calcola che a casa sua e con i suoi soldi è libero di organizzare quello che preferisce. Nulla da eccepire, ma perché preparare abbondanti tavolate piene di cibi quando poi si sta male? Non è più intelligente spendere soldi per il cibo, anche costoso, che si consumerà in maniera equilibrata? Si pensa che l’abbondanza di cibi, sia beneaugurante, invece è vero il contrario: lo spreco è una grave offesa alla povertà del mondo.

    Si tratta di trovare la forza per vincere il vizio della gola, un vizio che porta molta confusione mentale e dissipazione. È giusto festeggiare e spendere i propri soldi come si vuole, ma perché sprecare?

    Dopo il Natale ho sempre visto le persone sconvolte, sovrappeso, meno spirituali. Dicono che a causa delle spese hanno meno soldi e più peccati. È questo il vero Natale per noi cristiani?

    La funzione dell’Avvento è di prepararci all’incontro con Gesù, dovremmo pensare a rendere buona e bella l’anima invece di pensare fissamente a cosa comprare e cosa mangiare per Natale. Le compere e il cibo sono obbligatori, ma ad ogni cosa bisogna dare la giusta importanza.

    L’uomo decide il suo futuro, ha nelle proprie mani la salvezza o la disperazione, anche il periodo di Natale è una prova da superare, perché il clima spinge fatalmente a fare pazzie per la presenza di tanti familiari ed amici. Proprio in queste circostanze si manifesta la vera spiritualità.
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