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NESHAMÀ

Il neshamàh come contrassegno dell’uomo vivo a differenza di quello morto viene stabilito in Gb 27:3: “Il mio alito è ancora tutto dentro di me, e lo spirito di Dio è nelle mie narici”. Quando si racconta del figlio malato della vedova di Sarepta, in 1Re 17:17, si dice che la sua malattia lo aveva talmente spossato che alla fine nessun neshamàh restava in lui, e così subentrò la morte. “Dopo queste cose avvenne che il figlio della donna, la padrona della casa, si ammalò, e la sua infermità fu così grave che non gli restò respiro (neshamàh)”. È evidente che qui la parola neshamàh sta ad indicare la vita. Quando non gli resta più respiro, muore. Questo significato di “vita” è chiaro in Gs 11:11: “Colpivano tutte le anime [kol-hanèfesh] che erano in essa col taglio della spada, votandole alla distruzione. Non si lasciò nessuna cosa che respirava” “Cosa che respirava” è un giro lungo per tradurre neshamàh. “Non vi restò anima viva” rende l’idea ma non è letterale. Una buona traduzione potrebbe essere: “Nessuna vita fu risparmiata”, in cui neshamàh assume il significato di “vita”. Neshamàh corrisponde anche alla nostra ricerca e necessità di significato. Abbiamo bisogno di un contesto in cui la nostra identità, conquistata faticosamente, acquisti senso nella scoperta della sua vocazione peculiare. Questo è il livello che deve portarci a considerare le nostre vite come “una realtà superiore”, anche se questa viene sviata e ritardata quando viviamo in un ambiente che fa di tutto per costringerci a continuare a cercare al di fuori di noi stessi.center of my heart