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4. CRISTIANESIMO PRIMITIVO E SCHIAVITU’


 


Dopo Gesù, la schiavitù non è certo cessata di colpo. Non sarebbe nemmeno stato possibile: gran parte del sistema economico romano, come abbiamo visto, si basava sullo schiavismo, ed anche dal punto di vista strettamente psicosociale la sua eliminazione avrebbe causato una ribellione violenta.


Tuttavia, gran parte degli storici è ormai concorde nel sostenere che la divulgazione del messaggio cristiano contribuì notevolmente alla sparizione di tale pratica. L’Enciclopedia Treccani, ad esempio, afferma: «A determinare la decadenza della schiavitù contribuirono le idee morali dello stoicismo e del cristianesimo, diffondendo il concetto che anche lo schiavo è un uomo», anche se «accettarono tuttavia pienamente la schiavitù come istituto sociale e come elemento indispensabile dell’economia del lavoro». Ed è effettivamente stato così: i primi cristiani nonostante predicassero e vivessero l’uguaglianza tra gli uomini imparata da Gesù, non avevano ancora il potere di stravolgere l’ordine sociale vigente e poterono limitarsi solo a raccomandare il buon trattamento degli schiavi.


Il Cristianesimo, pur non mettendo subito in discussione la struttura della società, pose lentamente e gradualmente dentro di essa una società diversa. Fu in particolare la dottrina del libero arbitrio insegnata da Gesù (ma anche dall’Antico Testamento, come Dt 30,19-20) a produrre un cambiamento di mentalità nei primi cristiani: ognuno è libero e responsabile delle proprie azioni ed in base ad esse sarà giudicato, il Dio cristiano (al contrario degli dèi greci) premia la virtù e punisce il peccato. L’ammonizione di Gesù: “Và e non peccare più”, sarebbe impossibile se l’uomo fosse prigioniero del fato, come ritenevano esserlo gli antichi greci. Il libero arbitrio fu al centro del pensiero di Sant’Agostino (354-430 d.C.): «Chiunque desidera vivere con giustizia e onorabilità, può farlo» (De libero arbitrio, libro III, cap. 1), il quale lo spiegò in termini di compatibilità con l’onniscenza divina in pieno contrasto con la filosofia greca: «Sia che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano, sia che facciamo con il nostro libero arbitrio quello che sappiamo e sentiamo debba essere da noi fatto soltanto perché lo vogliamo. Ma che tutte le cose provengano dal fato noi non lo diciamo; al contrario affermiamo che nulla accade per via del fato» (La città di Dio, libro V, cap. 9). Così il principio di libertà alla base del pensiero cristiano chiamò in causa la legittimità di tutte le strutture e usanze sociali che la limitavano, in particolar modo la schiavitù.


L’insegnamento del libero arbitrio e di un Dio cristiano che salva tutti, schiavi compresi, portò all’opera di conversione degli schiavi e spinse la Chiesa primitiva, quando possibile, ad acquistare la loro libertà (papa Callisto, morto nel 223, fu uno schiavo). Lo storico francese Pierre Bonnassie espose così la questione: «Uno schiavo veniva battezzato e aveva un’anima. Era dunque indiscutibilmente un uomo» (P. Bonnassie, From Slavery to Feudalism in South-Western Europe, Cambridge University Press 1991, p. 30). Una volta battezzati, il clero cominciò a fare pressioni sui padroni perché dessero la libertà ai loro schiavi in quanto «azione estremamente lodevole» (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p. 14). Ha spiegato lo scrittore cattolico Vittorio Messori: «Il concetto di “persona” fu il grimaldello evangelico che pian piano scardinò la tranquilla sicurezza del mondo classico che fosse “naturale” la distinzione tra uomini “veri” (i cittadini liberi) e quelli che chiamavano “strumenti parlanti” (gli schiavi)» (V. Messori, Qualche ragione per credere, Ares 2008, pag. 101). Lo storico francese Marc Bloch ha confermato: «Non era poco l’avere detto allo “strumento provvisorio di voce” (instrumentum vocale) dei vecchi agronomi romani: “Tu sei un uomo” e “Tu sei un cristiano”». Questo principio ispirò anche «la legislazione filantropica» di alcuni imperatori (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p. 19).



 


SAN PAOLO. Leggendo le lettere di San Paolo, si capisce che egli dà precedenza alla libertà dal peccato piuttosto che alla libertà fisica. A che vale, infatti, essere uomini liberi, ma schiavi del peccato? Molto meglio essere schiavi, ma liberi dal peccato. Non era in suo potere il sovvertire fisicamente la società, non aveva la forza per una rivolta. La Chiesa ha sempre voluto appellarsi alle singole menti e i singoli cuori, come spiega lo scrittore Francesco Agnoli: «non si dovrebbe imputare a San Paolo la “colpa” di non essere stato un Marx, uno Lenin, uno Stalin, un Pol Pot, convinto che la società si ricrei con la “lotta di classe”, la “violenza levatrice della storia”, i gulag per chi non comprende e la dittatura di chi ha “ragione”. Gli uomini di Chiesa comprendevano bene che una società in cui una persona su tre è schiava, e senza diritti, non può mutare pelle completamente, in poco tempo, senza contraccolpi sociali devastanti. Instillare negli schiavi un senso di ribellione violenta e urgente avrebbe portato solo fiumi di sangue e forse al peggioramento della loro stessa condizione!» (F. Agnoli, Inchiesta sul cristianesimo, Piemme 2010, p.83). Il cristianesimo ha inizialmente accettato la società così com’era, determinando la sua trasformazione attraverso, e solo attraverso, le singole anime.


Per questo, San Paolo si rivolge direttamente agli schiavi stessi (già questa una cosa inedita), invitandoli a vivere con dignità la loro condizione, chiedendo di non odiare i loro padroni, di rispettarli, poiché anch’essi figli di Dio e in questo modo, praticando l’insegnamento cristiano, diventare più “liberi” dei padroni. Ecco un esempio:



«Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, non servendo per farvi vedere, come fa chi vuole piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, prestando servizio volentieri, come chi serve il Signore e non gli uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo che libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che il Signore, loro e vostro, è nei cieli e in lui non vi è preferenza di persone» (Ef 6, 5-7). E ancora: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato» (1Cor 7, 21-22).



Lo storico della Chiesa Norbert Brox ha osservato che questo continuo rivolgersi agli schiavi di San Paolo è per comunicare il messaggio che anch’essi «sono idonei per conformarsi all’ideale evangelico più puro, ma capaci inoltre di contribuire allo splendore della vita cristiana collettiva. Nessun cristiano è così spregevole che non possa in questa maniera onorare Dio» (N. Brox, Le Lettere Pastorali, Morcelliana 1970). L’Apostolo delle genti mostra loro il concetto cristiano di libertà: gli schiavi chiamati “nel Signore” sono liberti del Signore (1 Co 7, 22), così le distinzioni sociali esterne perdono la loro importanza. E infatti: «Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare» (1Tm 6,1). Il senso di questa affermazione è la richiesta al servo di non ribellarsi al padrone non cristiano perché questi non abbia un cattivo concetto della dottrina cristiana; chi poi ha padroni credenti li serva con più dedizione essendo essi fratelli e cari a Dio.


Allo stesso modo San Paolo si rivolge anche ai padroni:



«Voi, padroni, date ai vostri schiavi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Col 4,1). Così la fratellanza condivisa dai cristiani appare di fatto incompatibile con la schiavitù, lo si capisce nel caso dello schiavo fuggitivo Onesimo. Paolo si rivolge a Filemone, padrone dello schiavo, di riaccogliere Onesimo «non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 1,16). Non si occupa di stravolgere la società e non si propone, con coscienza moderna, la revisione critica dei rapporti sociali, ma si rivolge ai singoli uomini, ai padroni e agli schiavi perché ognuno si impegni ad essere un vero cristiano. Mentre la società del suo tempo ancora considerava gli schiavi alla stregua degli oggetti, la sua è una lenta pedagogia perché il cambiamento avvenga all’interno dell’uomo: solo così tutta la società saprà mutare capendo che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio. «Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1Cor 12,13). Ed infine: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 26-28).



La storica Marta Sordi ha osservato: «Se la libertà e la vera nobiltà sono solo quelle dell’anima, ogni distinzione tra gli uomini è destinata a cadere […]. E’ questa la profonda distinzione tra il pensiero paolino e quello stoico […]. La vera novità, giova ripeterlo, è nel rapporto nuovo che schiavo e padrone hanno con Dio, e che trasforma la comune schiavitù della condizione umana davanti alla Fortuna nel razionale ossequio ad un Dio che libera chi lo serve per amore» (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, pp.51-55)



 


SAN GREGORIO DI NISSA (335-395 d.C.). San Gregorio è uno dei Padri della Chiesa che denuncia apertamente la schiavitù come contraria alla legge di Dio:



«”Ebbi in dominio schiavi e schiave, con molta famiglia”, dice. Vedi l’ostentazione arrogante! Quelle parole sono una ribellione a Dio; noi sappiamo, infatti, dalla Scrittura che tutte le cose servono unicamente a quel potere che è al di sopra di tutto. Pertanto, colui che si arroga ciò che appartiene a Dio, e attribuisce a creature della propria specie il potere di credersi padroni di uomini e di donne, che cosa fa se non insolentire contro la natura, considerandosi creatura diversa da quelle che gli sono soggette? “Ebbi in dominio schiavi e schiave”. Così tu condanni alla schiavitù l’uomo che è dotato di natura libera e indipendente, e fai una legge contraria a Dio, perché sconvolgi la legge di natura che procede da lui. Perché tu sottoponi al giogo della schiavitù chi è stato plasmato dal suo creatore per signoreggiare la terra e per esercitare il comando; in questo modo tu resisti e contraddici all’ordinamento divino […]. Ebbi in dominio schiavi e schiave!”. Ma dimmi, ti prego, a quale prezzo li hai comprati? Dove hai potuto trovare nelle cose un valore corrispondente al prezzo dell’umana natura? Quanto hai speso per l’acquisto di una creatura che è immagine di Dio? Con quali bilance hai pesato una natura che fu creata da Dio? Poiché Dio disse: “Facciamo l’uomo ad immagine e similitudine nostra”. L’uomo che è fatto a somiglianza di Dio e che ha ricevuta da Dio il dominio su tutta la terra e su tutte le cose che sono sopra la terra, chi è che lo vende, e chi è che lo compra? Soltanto Dio potrebbe fare questo, anzi, sarei per dire, non lo potrebbe neppure Dio, perché “Dio non si pente dei suoi doni”. Dio dunque non ridurrebbe mai in schiavitù la natura umana, egli che, spontaneamente, quando eravamo già caduti in schiavitù, ci rivendicò alla libertà. E se Dio non riduce in schiavitù chi è libero, chi sarà mai che pretende un potere superiore a quello di Dio? [ …]. Ti inganni, se credi che un libello e una convenzione scritta ti facciano padrone di una creatura che è immagine di Dio. O stoltezza! Se il contratto perirà, se lo scritto sarà corroso dai tarli o cancellato dall’umidità, donde trarrai le prove del tuo dominio? Da quanto è sotto la natura umana non vedo aggiungersi a te altro che il nome di padrone. Infatti, il tuo potere che cosa ha aggiunto alla tua persona? Non il potere sul tempo, né alcun altro privilegio. Tu e lo schiavo siete nati ugualmente da una natura umana, vivete allo stesso modo, siete dominati dalle stesse passioni dell’anima e del corpo, come la mestizia e l’allegrezza, la gioia e la tristezza, il piacere e il dolore, l’ira e lo sdegno, l’infermità e la morte. In tutte queste cose c’è forse qualche differenza fra schiavo e padrone? Non traggono essi il respiro alla stessa maniera? Non guardano il sole ad un modo? Non si conservano parimenti in vita alla condizione di nutrirsi? Non è simile in entrambi la struttura dei visceri? Dopo la morte, non diventano cenere entrambi? Non è ad essi comune il giudizio, il premio, la pena? E poiché sei in tutto simile agli altri uomini, dove poggi, di grazia, la tua superiorità, ti che, essendo uomo, presumi di avere dominio sull’uomo?» (Gregorio di Nissa, In Eccl. homil IV, citato in G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torinese 1962, pp. 351-352).



Gregorio di Nissa «non soltanto riteneva che, dinnanzi a Dio, gli schiavi fossero uguali agli uomini liberi, ma considerava il possesso di schiavi un peccato, e un peccato molto grave» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.177)



 


SANT’AMBROGIO (340-397 d.C.). Un altro Padre della Chiesa che, prendendo atto del diffuso uso della schiavitù, ne svuota il contenuto suggerendo ai credenti di realizzare il riscatto:



«Non ci dirà forse il Signore: “Perché hai permesso che tanti poveri morissero di fame? Certamente tu avevi dell’oro, dovevi quindi procurare gli alimenti. Perché tanti schiavi furono messi in vendita e, non riscattati, furono uccisi dal nemico? Sarebbe stato meglio per te conservare corpi di creature viventi piuttosto che vasi di metallo”. A questi argomenti non si può dare risposta. Che cosa potresti infatti obiettare? […]. Come è bello quando da parte della Chiesa si liberano moltitudini di schiavi e quando si può dire: “questi li ha redenti Cristo!”. Ecco l’oro che può essere oggetto di onore, ecco l’oro di Cristo che libera dalla morte, ecco l’oro che redime il pudore e conserva la castità! Io dunque preferirei consegnarvi degli uomini liberi piuttosto che consegnarvi l’oro» (Ambrogio, De officiis ministrorum II, 8, pp. 136-142, citato in G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torinese 1962, pp. 425-27).




 


SAN GIOVANNI CRISOSTOMO (344-407 d.C.). San Giovanni Crisostomo assume una posizione del tutto rivoluzionaria, negando la base economica della schiavitù e esortando i padroni a insegnare agli schiavi un mestiere, per renderli così economicamente autosufficiente e poi renderli liberi:



«Perché (i ricchi) hanno molti servi? Come bisogna guardare soltanto al bisogno per quanto si riferisce al vestire e al mangiare, così bisogna comportarsi anche per quanto concerne i servi. Quale bisogno ne abbiamo? Nessuno! Un solo padrone non dovrebbe avere più di un servo: o meglio, due o anche tre padroni, dovrebbero avere un solo servo. Se questo ti sembra pesante, guarda a coloro che non ne hanno alcuno, e tuttavia fruiscono di un servizio più facile e più spedito. Poiché Dio ci fece in modo che ciascuno bastasse a curare sé stesso, anzi, a prendersi cura anche del prossimo. Se tu non credi, ascolta le parole di Paolo: “Alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me hanno provveduto queste mie mani”. Egli, che fu maestro di tutte le genti e fu degno dei cieli, non arrossiva di provvedere a innumerevoli servizi; ma tu stimi indecoroso, se non ti muovi circondato da una turba di schiavi, e non pensi che proprio questo, massimamente, ti disonora. Dio ci ha dato mani e piedi affinché non avessimo bisogno di servi. E non è certo il bisogno che introdusse nel mondo gli schiavi, altrimenti insieme con Adamo sarebbe stato creato anche uno schiavo. La schiavitù è la pena del peccato e il presso della disobbedienza, ma la venuta di Cristo ha sciolto anche questo. Infatti in Cristo “non c’è né schiavo né libero. Perciò non è necessario avere uno schiavo: e, se fosse necessario, ne basterebbe uno solo, al massimo due. Che cosa vogliono significare questi sciami di servi? Giacché i ricchi procedono alle terme e nel foro a guisa di mercanti di pecore o di commercianti di schiavi. Ma io non intendo imbastire una discussione minuta. Tienti, se vuoi, anche un secondo servo. Se però ne aduni un gran numero, non venirmi a dire che tu fai questo per motivi di filantropia: tu lo fai per servire ai tuoi piaceri. Se tu agisci davvero per prenderti cura di loro, non occuparli al tuo servizio, ma, dopo averli comprati ed avere insegnato loro un mestiere, affinché possano bastare a se stessi, affrancali. Quando tu li fai battere con la verga, quando li fai mettere in carcere, non è certo un’opera di pietà la tua. So bene che io sono molesto ai miei uditori, ma che debbo fare? Questo è il compito che mi è stato affidato, e non cesserò di parlare, sia che le mie parole ottengano un qualche risultato, sia che non lo ottengano» (G. Crisostomo, Epist. I ad Cor. 40, 5 citato in G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torinese 1962, 514-515).




 


SANT’AGOSTINO (354-430 d.C.). Nella Lettera 10, promemoria di Agostino al Santo Fratello Alipio, egli si oppone fermamente alla schiavitù e alla tratta degli schiavi:



«Le autorità o i funzionari pubblici, con l’impegno dei quali potrebbe essere fatta osservare questa legge o qualunque altra promulgata su quest’argomento, hanno il dovere di provvedere che l’Africa non venga più oltre svuotata dei suoi abitanti indigeni e che una sì gran folla di gente d’ambo i sessi, trascinata via a truppe e a frotte come da un fiume che scorre senza tregua, non perda la propria libertà personale peggio che divenendo prigioniera dei barbari. In effetti dalla schiavitù, in cui sono tenuti dai barbari, viene riscattato un gran numero di prigionieri, mentre quelli che sono deportati nelle province d’oltremare non trovano nemmeno l’aiuto per venir riscattati; eppure si resiste ai barbari quando una spedizione militare romana è condotta valorosamente e con successo affinché i romani non restino prigionieri dei barbari. Chi mai, al contrario, resiste a codesti mercanti non di animali quali che siano ma di uomini, non di barbari di qualunque specie ma di cittadini romani delle province? A cotesti mercanti, sparsi dappertutto affinché nelle mani di coloro, che promettono ricompense in danaro, siano condotte, in ogni dove e da ogni dove, persone rapite con la forza o ingannate con tranelli, chi mai resiste in nome della libertà romana, non dico della libertà comune, ma della stessa libertà personale? Tocca ora alla tua santa Prudenza pensare a qual punto imperversi siffatta deportazione di sventurati lungo il restante litorale [dell’Africa], se così ardente l’avidità, così mostruosa è l’audacia dei Galati qui a Ippona ove, per la misericordia di Dio, sta in guardia, per quel poco che vale, la vigilanza della Chiesa, grazie alla quale vengono liberati degli sventurati da tale schiavitù e i mercanti di simili merci vengono puniti assai meno gravemente – è vero – che non dalla severità della suddetta legge, ma tuttavia vengono colpiti con la perdita dei soldi sborsati per acquistarli. In nome della carità cristiana ti supplico di far sì che io non abbia scritto invano alla Carità tua. I Galati infatti hanno i loro patroni, per mezzo dei quali reclamano come loro proprietà coloro che il Signore ha liberato per opera della Chiesa anche quando sono stati già restituiti ai loro familiari, che li ricercavano e a questo scopo erano venuti da noi con lettere dei loro vescovi. Al momento in cui dettiamo queste righe quei tali hanno cominciato a molestare alcuni fedeli, nostri figli, presso i quali erano rimasti alcuni di essi, dato che la Chiesa non è in grado di sostentare tutti coloro ch’essa libera; e sebbene sia giunta una lettera di un’autorità, di cui essi avrebbero potuto aver paura, non hanno cessato per nulla di reclamare».



Sempre Agostino, nel suo De Civitate Dei spiega che i padroni, in verità, «sono a servizio di coloro ai quali apparentemente comandano. Lo prescrive l’ordine naturale perché in questa forma ha Dio ha creato l’uomo: l’essere ragionevole, creato a Sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l’uomo dell’uomo, ma l’uomo del bestiame» (libro 19, parr. 14-15).


Gli storici francesi Jean Andreau e Raymond Descat scrivono: «La cura manifestata dal vescovo Agostino nel lottare contro simili abusi (la riduzione in schiavitù dei bambini rapiti, N.d.A.) che lo scandalizzano e nel far rispettare la legalità, è molto rappresentativa dell’intervento attivo della gerarchia ecclesiastica in tale ambito. Occorre tenerne conto quando ci si interroga sugli atteggiamenti della Chiesa di fronte alla schiavitù» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.216)