00 04/08/2022 19:05

8.1 Obiezione: l’evangelista Marco non parla delle apparizioni di Gesù.


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Questa è obiezione è vera, il vangelo di Marco (il più antico) non parla delle apparizioni di Gesù dopo la morte ed il ritrovamento del sepolcro vuoto. Lo abbiamo sottolineato anche nel paragrafo dedicato alle contraddizioni tra gli evangelisti.


Gli studiosi sono infatti convinti che l’autentico testo di Marco si concluda con il versetto 16,9 ed i brani successivi, in cui si riferiscono le apparizioni di Gesù risorto, siano un’aggiunta posteriore (da ciò si evince che gli specialisti sanno perfettamente individuare e scindere il testo autentico dalle interpolazioni successive!).


Tuttavia, nessuno afferma che Marco non fosse a conoscenza delle apparizioni, piuttosto l’opinione comune è che l’evangelista non aveva intenzione di terminare così bruscamente il suo racconto ma non fu in grado di portarlo a compimento, forse a causa di una malattia, della prigionia o della morte. Un’altra ipotesi molto accreditata è che il finale di Marco sia andato perduto.


Nelle note della Bibbia di Gerusalemme, infatti, si legge:




«Tra il versetto 8 ed il versetto 9 c’è nel racconto una soluzione di continuità. D’altronde, si fatica ad accettare che il secondo Vangelo nella prima redazione si arrestasse bruscamente al versetto 8. Da qui la supposizione che la fine originaria sia scomparsa per una causa a noi sconosciuta e che la fine attuale sia stata redatta per colmare la lacuna. Essa si presenta come un riassunto sommario delle apparizioni del Cristo risorto, la cui redazione è sensibilmente diversa dallo stile abituale di Marco, concreto e pittoresco. Tuttavia, l’attuale fine è stata conosciuta fin dal II secolo da Taziano e da Ireneo e ha trovato posto nella stragrande maggioranza dei manoscritti greci e traduzioni dei primi secoli. Se non si può provare che ha avuto Marco per autore, resta sempre, secondo l’espressione di Henry Barclay Swete, un’autentica reliquia della prima comunità cristiana».




Nel suo noto studio, N. Clayton Croy, docente di Nuovo Testamento al Trinity Lutheran Seminary, ha addirittura sostenuto che anche l’inizio, oltre che la fine, sia andato perduto del Vangelo originale di Marco187.


Michael R. Licona, docente di Teologia presso la Houston Baptist University, ha comunque osservato188 che nel testo sicuramente attribuibile all’evangelista Marco compare un accenno a quelle che saranno le successive apparizioni di Gesù, in particolare quando lo stesso Gesù risorto, nelle sembianze di un giovane, annuncia alle donne recatesi al sepolcro la resurrezione e le invita ad andare a riferirlo ai discepoli, perché «Là lo vedrete, come vi ha detto» (Mc. 16,7).


Anche se Marco non parla delle apparizioni, interrompendo bruscamente il racconto per qualche motivo, la fonte pre-paolina (1Cor 15,3-7) a lui antecedente già le riferisce a solo 2 anni di distanza dagli eventi.


Per questo lo studioso statunitense Michael R. Licona ha concluso:




«Le tradizioni sulle apparizioni compaiono molto presto nelle lettere di Paolo, e possono essere ricondotte ai discepoli i Gesù con un buon grado di certezza. Paolo probabilmente scrisse prima di Marco e se gli Atti degli Apostoli sono affidabili (cfr. capitoli 12 e 15)», e la maggior parte degli studiosi li considera affidabili189, «Marco conosceva Paolo e aveva viaggiato con lui durante uno dei suoi viaggi missionari. E’ molto probabile quindi che avesse abbastanza familiarità con le tradizioni che Paolo menziona. Allora, perché non Marco non ne parla? E’ difficile dare una risposta, anche se ho il sospetto che la fine del suo vangelo sia andata persa. Non lo possiamo sapere. Ma affermare che Marco non fosse a conoscenza delle apparizioni è del tutto speculativo e, a mio parere, un’idea sbagliata»190.





 


 


8.2 Obiezione: i discepoli ebbero delle allucinazioni.


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Se gli storici contemporanei ritengono storicamente affidabili i racconti sulle apparizioni di Gesù, quindi che il gruppo dei seguaci di Gesù realmente ne proclamò la resurrezione a partire dal 30 d.C., quale fu la natura di queste apparizioni?


Molti studiosi dicono: “Si, è vero che i racconti dei discepoli sulla apparizioni di Gesù sono autenticamente storici, ma questo non significa che ebbero realmente delle visioni soprannaturali”, nonostante essi furono convinti del contrario. Le ipotesi degli studiosi scettici, «i cui tentativi raggiunsero l’apice nel pensiero del XIX secolo»191 vertono su una serie di teorie naturalistiche.


Prima accettano l’indubitabile storicità dei racconti delle apparizioni di Gesù e poi virano in una direzione naturale per spiegarne la natura, in alternativa alla resurrezione192.


L’ipotesi naturale più citata è quella delle allucinazioni (singole o di gruppo) di cui sarebbero stati vittime i discepoli, una tesi popolare nel XIX secolo ma che si è progressivamente spenta nella prima metà del XX secolo. Oggi è un’opzione minoritaria in ambito accademico.


I più noti studiosi contemporanei a sostenere apertamente la strada naturalistica sono Gerd Ludemann193, Michael Goulder194 e Jack Kent195. Più agnosticamente B.D. Ehrman non ha preso una posizione netta, sostenendo genericamente l’improbabilità dei miracoli196.


Il teologo non credente Gerd Ludemann, pur non dubitando della storicità dei racconti delle apparizioni, ritiene che tutto sarebbe iniziato dall’apostolo Pietro che, consumato dalla colpa del rinnegamento di Gesù, avrebbe trovato sollievo psicologico nel proiettare una visione di Gesù credendolo risorto dai morti ed al quale avrebbe chiesto perdono197.


L’esperienza di Pietro avrebbe poi contagiato tutti gli altri discepoli i quali, pur non condividendo il suo trauma, ebbero a loro volta allucinazioni del Signore risorto. Solo quando le autorità ebraiche si opposero chiedendo dove fosse il corpo di Gesù «si sarebbe immediatamente riferito che le donne avevano trovato il sepolcro vuoto ed in seguito che Gesù era apparso anche a loro»198.


Nel frattempo, anche Paolo di Tarso avrebbe lottato interiormente con il rimorso del perseguitare i cristiani, che generò in lui una segreta attrazione per il messaggio cristiano. Secondo Lüdemann, «se si fosse stati in grado di visitare Paolo prima della sua apparizione vicino a Damasco, l’analista avrebbe probabilmente rilevato una forte inclinazione a Cristo nel suo subconscio; infatti, l’assunto che fosse inconsciamente cristiano non è così inverosimile»199.


Sulla strada verso Damasco la lotta repressa sarebbe così esplosa in un’allucinazione di Gesù, portandolo alla conversione di quella fede che un tempo perseguitava. «Il complesso di colpa sorto con la persecuzione è stato risolto attraverso la certezza di essere in Cristo»200.


Occorre sottolineare il coraggio e la determinazione di Gerd Ludemann nel sostenere orgogliosamente, in solitudine, tesi di questo tipo. Questa ricostruzione era già in voga negli anni ’20 con Emmanuel Hirsch, Klaus Berger ha infatti commentato l’opera di Lüdemann sostenendo che contiene quasi esclusivamente antiche teorie riesumate e riscaldate, le stesse che dominarono la scuola di Bultmann per oltre 50 anni201.


Analizzando questa obiezione, si osserva che non soddisfa i criteri usati dagli storici per valutare la credibilità di un’ipotesi. Non ha un sufficiente criterio esplicativo, in quanto obbliga a moltiplicare la formulazione di altre ipotesi, cercando un collegamento acritico tra esse, per giustificare l’assunto iniziale dell’allucinazione di Pietro. Una teoria è tanto più artificiosa in proporzione al numero di ipotesi aggiuntive che richiede di adottare. Inoltre non offre alcuna spiegazione per il ritrovamento del sepolcro vuoto.


La tesi non ha nemmeno potere esplicativo: sceglie arbitrariamente che Pietro sia stato il primo a vedere l’apparizione di Gesù (mentre per le fonti cristiane la cronologia inizia dalle donne). Assume che l’allucinazione di Pietro (e quella di Paolo) derivi da un complesso di colpa, ma non spiega come poterono “contagiarsi a catena” tutti gli altri discepoli (singoli, gruppi, in vari luoghi e circostanze diverse), privi di complessi di colpa. Tra essi anche lo scettico Giacomo, del quale ritiene comunque «certo»202 che sperimentò un’apparizione.


L’ipotesi non soddisfa nemmeno il criterio della plausibilità. Pur in assenza di dati sufficienti, Lüdemann si improvvisa psicoanalista (ma gli storici rifiutano la scrittura di psico-biografie!) e teorizza il presunto complesso di colpa di Pietro e Paolo. Se Paolo concede solo pochissimi passaggi autobiografici nelle sue lettere, le informazioni sulla psiche di Pietro sono, per ammissione dello stesso Lüdemann, «incomparabilmente peggiori».


Si tratta quindi di congetture fantasiose sulla loro psiche, criticate anche dallo storico del cristianesimo primitivo, Martin Hengel: «Lüdemann […] non riconosce i limiti dello storico»203.


Un altro limite della tesi del complesso di colpa è che, stando ai testi, Pietro non sentiva di aver deluso il Signore, ma di essere stato deluso da lui! Ludemann fatica ad entrare nella mentalità di un ebreo del I secolo che ha visto fallire la pretesa messianica del suo leader, morto ignobilmente sulla croce e quindi maledetto da Dio.


Come ha scritto Hans Grass, teologo dell’Università di Marburg, «una delle maggiori debolezze dell’ipotesi della visione soggettiva delle allucinazioni è che non riesce a prendere sul serio quale catastrofe fu la crocifissione per la fede dei discepoli in Gesù»204. Pietro non lottava con la propria colpa ma con le aspettative messianiche deluse e, come già detto, non esisteva in lui in quanto ebreo alcuna speranza di una resurrezione corporale dopo la morte, né rispetto al Messia né rispetto ad un singolo individuo.


Rispetto a quanto scrive sulla “devozione cristiana inconscia” di Paolo di Tarso (classico accenno freudiano), Ludemann la percepisce in Romani 7,7-25. Tale interpretazione è stata sconfessata da tutti gli interpreti e commentatori paolini contemporanei e lo stesso teologo tedesco ha dovuto ammettere che la sua tesi «è respinta quasi ovunque»205. Infine, trascura radicalmente la testimonianza dello stesso Paolo quando riferisce di non aver avuto alcun rimorso quand’era un ebreo castigatore dei cristiani («per me era un guadagno», Fil 3:4-14).


Christopher Bryan, docente di Nuovo Testamento alla University of the South di Sewanee, ha scritto:




«Anche ammettendo che le visioni descritte da Lüdemann fossero comuni nell’antichità (e in un certo senso, più furono comuni, più forte diventa questa obiezione), né allora né nel presente sono normalmente considerate prove di risurrezione. Al contrario, sono considerate nel peggiore dei casi delle allucinazioni e nel migliore autentiche comunicazioni di conforto con i defunti dall’oltretomba. Ma in nessun caso sono e furono considerate dichiarazioni che il defunto è risorto dai morti»206.