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3. LE FONTI SULLA RESURREZIONE DATATE VICINO AGLI EVENTI.


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Il terzo argomento a favore dell’ipotesi storica della resurrezione è la datazione assolutamente precoce delle fonti storiche.


Se il principio vuole che più una fonte è vicina agli eventi narrati e più ha probabilità di raccontare la verità dei fatti storici, le fonti cristiane raggiungono il massimo delle probabilità di riferire il vero.


L’alta datazione delle fonti cristiane è un’evidenza è ormai acclarata dal mondo accademico e ha messo definitivamente fine alle speculazioni comuni nei secoli passati sulla creazione tardiva dei racconti pasquali.


Per decenni si sostenne che i racconti evangelici si fossero formati a seguito della sopraffazione psicologica della morte di Gesù e la contemporanea acquisizione di una graduale convinzione e consapevolezza spirituale che la sua missione non fosse terminata con la morte. Così, le comunità cristiane avrebbero iniziato progressivamente ad esplorare le Scritture ed utilizzare il linguaggio della risurrezione per articolare la propria esperienza. Verso la fine del I secolo, infine, alcuni avrebbero iniziato ad inventare storie circa un’effettiva risurrezione.


Questa interpretazione non è oggi più sostenibile. Il primo dei motivi è appunto la datazione quasi contemporaneità agli eventi delle prime fonti cristiane. Ecco quali sono:



 


 


3.1 L’antica fonte pre-paolina (32 d.C.).


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La prima fonte utile è quella scritta da Paolo di Tarso, un ebreo persecutore dei cristiani che si convertì improvvisamente nel 32 (o 33) d.C.36, si recò a Gerusalemme per incontrare gli apostoli Pietro e Giacomo nel 35 (o 36) d.C.37 e vi rimase quindici giorni (Gal 1,18-20). E’ qui che Paolo ricevette le informazioni che successivamente inserì nelle sue lettere, a partire dalla Prima lettera ai Corinzi (datata generalmente nel 50-55 d.C.).


All’interno di questa lettera gli storici (per primo fu Joachim Jeremias38) individuano ormai da decenni alcuni versetti (cfr. 1Cor 15,3-7) in cui Paolo utilizza parole non sue (tra cui i termini “apparizione”, “per i nostri peccati”, “secondo le Scritture”, “i Dodici” ecc) e che non ripeterà più nelle altre sue lunghe lettere, prova che sta citando qualcosa che gli è stato trasmesso e che lo precede.


Ecco cosa si legge in questo antichissimo brano pre-paolino:




«Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli» (1Cor 15,3-7).




L’autore condensa in poche righe i principali eventi che saranno poi raccontati dettagliatamente da tutti i vangeli, compresa la risurrezione di Cristo. Inoltre, informa di voler trasmettere ai lettori quel che lui stesso ha ricevuto (παραλαμβάνω) direttamente dai discepoli.


A quando risale la datazione di questa formula pre-paolina? B.D. Ehrman, docente di Nuovo Testamento all’Università del North Carolina, ritiene che «risalga probabilmente ad un paio di anni circa dopo la morte di Gesù»39, ovvero al 32 d.C., cioè nella quasi contemporaneità degli eventi (solo 24 mesi dopo la crocifissione di Cristo).


Effettivamente Paolo dopo la conversione è realmente entrato in contatto con «informatori che parlavano per conoscenza diretta»40 e, sempre secondo B.D Ehrman, «è una sfida al buon senso pensare che Paolo abbia trascorso più di due settimane insieme al compagno più intimo di Gesù senza apprendere nulla su di lui (per esempio, che era vissuto)»41, e che era risorto ed apparso a più persone (l’agnostico Ehrman è sempre comprensibilmente a disagio nel ricordare che in questa antica formula cristiana si parla anche della resurrezione e delle apparizioni di Gesù).


Ancora Bart D. Ehrman, ha precisato meglio: «Paolo deve aver incontrato Cefa e Giacomo tre anni dopo la sua conversione, ricevendo le tradizioni che riportò nelle sue lettere, verso la metà degli anni Trenta, diciamo nel 35 o nel 36. Le tradizioni che ereditò erano, ovviamente, più vecchie e risalivano probabilmente a 2 anni dopo, circa, la morte di Gesù […]. E’ la prova che la fede nel messia crocifisso risale a pochissimo tempo dopo la morte di Gesù»42.


Ehrman, notoriamente agnostico, usa giustamente l’antica fonte pre-paolina come prova di un’immediata fede “nel messia crocifisso”. Il suo bias non-religioso lo porta però a trascurare che oltre alla morte in croce, questa antica fonte riferisce anche della resurrezione di Gesù e delle sue varie apparizioni post-mortem. Avrebbe infatti dovuto scrivere: “E’ la prova che la fede nel messia crocifisso e risorto risale a pochissimo tempo dopo la morte di Gesù”!


Più correttamente, in un passaggio successivo B.D. Ehrman conclude: «Non dobbiamo attendere il vangelo di Marco, datato attorno all’anno 70, per sentir parlare del Gesù storico. La prova, che traiamo dagli scritti di Paolo, combacia perfettamente con i dati forniti dalle tradizioni evangeliche, le cui fonti orali risalgono quasi certamente alla Palestina romana degli anni Trenta del I secolo. Paolo dimostra che, a pochi anni di distanza dal periodo in cui era vissuto Gesù, i suoi seguaci discutevano di quanto aveva detto, fatto e vissuto il maestro ebreo palestinese. E’ una straordinaria convergenza di prove: le fonti evangeliche e i resoconti del nostro primo autore cristiano»43.


Anche un altro importante studioso non credente, Gerd Lüdemann, docente all’Università di Gottinga, ha riconosciuto: «Gli elementi della tradizione citati da Paolo devono essere datati ai primi 2 anni dopo la crocifissione di Gesù, non più tardi di 3 anni. La formazione delle tradizioni di apparizione menzionate in 1Cor. 15,3-8, cade tra il 30 e il 33 d.C.»44. Come si osserva, Ludemann non ha le stesse remore personali di Ehrman a citare le apparizioni di Gesù (“dimenticandosi” però della resurrezione).


John Dominic Crossan, eminente studioso (anch’egli notoriamente scettico) del cristianesimo primitivo e co-fondatore del Jesus Seminary, afferma invece: «Paolo scrisse ai Corinzi da Efeso all’inizio degli anni ’50 d.C. Ma al momento la fonte più probabile per la ricezione dell’antica tradizione contenuta al suo interno deriva da Gerusalemme all’inizio degli anni ’30 quando andò a visitare Cefa (Pietro) e rimase con lui quindici giorni»45.


La datazione al 32-33 d.C. della formula pre-paolina citata da Paolo è un’opinione condivisa da molteplici studiosi del calibro di E.P. Sanders46, John Kloppenborg47, Jerome Murphy-O’Connor48, J.P Meier49, Peter Stuhlmacher50, C.E.B. Cranfield51, James Dunn52 e Pinchas Lapide53.


Nel 2006 l’eminente studioso Gary Habermas, ha raccolto in un articolo peer-review le conclusioni dei principali studiosi (anche critici, agnostici o non credenti) sulla Prima lettera ai Corinzi. Ecco la conclusione:




«Gli studiosi contemporanei concordano che l’apostolo Paolo è il principale testimone delle prime esperienze di resurrezione. Un ex avversario, Paolo, afferma che Gesù risorto gli apparve personalmente. Il consenso accademico è piuttosto attestato e poche altre conclusioni sono più ampiamente riconosciute del fatto che in 1 Corinzi 15, 3-7 Paolo registra una tradizione orale antica. Questo resoconto pre-paolino riassume il contenuto centrale dei Vangeli, cioè che Cristo morì per il peccato degli uomini, fu sepolto, resuscitò dalla morte e poi apparve a molti testimoni, sia individui che gruppi»54




Tra gli studiosi citati da Habermas, segnaliamo il papirologo Ulrich Wilckens, professore emerito di Nuovo Testamento all’Università di Berlino, per il quale «indubbiamente la prima lettera di Paolo risale alla fase in assoluto più antica nella storia del cristianesimo primitivo»55. Se per Walter Kasper, rinomato studioso del cristianesimo primitivo, 1Cor 15,2-7 era (molto ottimisticamente!) già «in uso alla fine del 30 d.C.»56, per il biblista e umanista dell’Università di Birmingham, Michael Goulder, il brano «risale a ciò che Paolo ha ricevuto quando è stato convertito, un paio d’anni dopo la crocifissione»57.


Come già detto, la quasi contemporaneità della prima fonte cristiana scritta agli eventi smentisce la tesi di una costruzione teologica successiva da parte della prima comunità cristiana. Non c’era il tempo per sviluppare leggende, bugie fantasiose o elaborare una giustificazione “a posteriori” della supposta divinità, come invece è stato sempre sostenuto dal teologo Rudolf Bultmann e dalla cosiddetta “critica delle forme”.


«La convinzione che Gesù fosse risorto dai morti», ha scritto infatti Robert Funk, biblista (non credente) e co-fondatore del Jesus Seminar e del Westar Institute, «aveva già messo radici nel momento in cui Paolo si convertì intorno al 33 d.C. Dato che Gesù morì verso il 30 d.C., il tempo per il loro sviluppo fu quindi di due o tre anni al massimo»58.


Quando Paolo mise per iscritto 1Cor 15,3-7, inoltre, tutti i protagonisti degli eventi (ebrei e cristiani, amici e nemici) erano ancora vivi, con possibilità di clamorosa smentita in caso di informazioni errate. Anche per questo egli volle assicurarsi delle veridicità del contenuto del suo messaggio compiendo un secondo viaggio a Gerusalemme (cfr. Gal 2, 1-10) per certificare più approfonditamente quanto gli venne riferito dai testimoni oculari (cfr. Gal 2,2) e assicurare la verità dottrinale nella chiesa primitiva.


Se la prima volta incontrò Pietro e Giacomo (cfr. Gal 1, 18-20), la seconda volta confrontò le sue informazioni anche con l’apostolo Giovanni (cfr. Gal 2,9). Paolo stava chiaramente facendo un’indagine storica, intervistando i partecipanti diretti agli eventi.


Come ha notato Martin Hengel, professore emerito di Nuovo Testamento all’Università di Tubinga, «evidentemente la tradizione di 1Cor 15, 3-7 è stata sottoposta a molte verifiche»59 da parte di Paolo di Tarso.


Howard Clark Kee, professore emerito di Studi biblici alla Boston University School of Theology e alla Pennsylvania University, ha concluso a sua volta che l’indagine svolta da Paolo «può essere esaminata criticamente e confrontata con altre testimonianze oculari di Gesù, proprio come si valuterebbero le prove in un tribunale moderno o in un contesto accademico»60.


Se Paolo avesse riferito il falso sarebbe stato subito smentito. M.R. Licona, docente di Teologia alla Houston Baptist University, ha anche osservato che Clemente Romano (morto nel 99 d.C.) e Policarpo (69 – 155) conoscevano probabilmente in maniera diretta gli apostoli Pietro e Giovanni e si riferiscono a Paolo (e Pietro) come «alle più grandi e giuste colonne» (1Clem V,1) e ai «buoni apostoli» (1Clem V,3), e riconoscono la «sapienza del beato e glorioso Paolo», il quale «insegnò con tanta esattezza e sicurezza la parola della verità» (Lettera ai Filippesi).


Questi, osserva Licona, «non sono i giudizi che ci aspetteremmo se Paolo avesse insegnato un messaggio essenzialmente diverso da quello di Pietro e Giovanni, invece non ci sorprenderebbero se Paolo fosse stato onesto nel dire che stava predicando lo stesso messaggio degli apostoli di Gerusalemme»61.


«Le lettere di Paolo», ha concluso M.R. Licona, «sono la voce degli apostoli di Gerusalemme sull’argomento, sono fonti primarie per la risurrezione di Gesù»62.