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INQUISIZIONE ATEA E ANTI-CRISTIANA

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    00 25/08/2018 11:18

    Con il termine "inquisizione" ci si riferisce normalmente all'organismo di indagine su chi era ritenuto pericoloso dal punto di vista sociale, e la Chiesa la istituì per fronteggiare innanzitutto il pericolo rappresentato dalle eresie e dalle sue implicazioni nella vita sociale, ispirandosi al principio di legittima difesa, e ponendo limiti  ai giudizi sommari e crudeli con cui i tribunali ordinari emettevano sentenze senza un giusto processo e spesso disumane.
    Quindi  vi era anche un intento umanizzante dell'amministrazione della giustizia dell'epoca, attraverso tale istituzione, nonostante talune volte può aver travalicato questa finalità ( e su cui spesso si favoleggia facendo diventare enormi dei casi circostanziati e motivati).
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    Ma ciò che invece viene troppo spesso ignorato, taciuto o addirittura nascosto è un altro tipo di "INQUISIZIONE": quella perpetrata da ideologie e governi ispirati ad un accanito e irriducibile anticristianesimo e che hanno seminato terrore, torture e morte, non certo con l'intento di rendere più umana la giustizia, ma con il fine principale di eliminare tutti gli oppositori, e spesso quelli dichiaratamente cristiani, per il solo fatto di essere cristiani, i quali certamente non attentano alla vita di nessuno, ma hanno come obiettivo la salvaguardia dell'umanità in generale. 
    Ci riferiamo ad una "inquisizione" non del Medioevo, ma recente o addirittura attuata anche ai nostri giorni !!!

    Ne diamo dei resoconti nei post seguenti:

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    Fonte UCCR

    «Albania, così l’Inquisizione atea
    torturò a morte i credenti. Io c’ero»

    Pubblichiamo alcuni stralci apparsi su L’Osservatore Romano del volume L’arca della morte. 10.000 giorni nelle prigioni comuniste (Mauro Pagliai 2018), scritto da Pjetër Arbnori. Fu soprannominato “il Mandela dei Balcani”, per aver resistito a una detenzione lunga 28 anni nelle carceri albanesi. Alla sua morte, nel 2006, l’Albania gli ha riservato i funerali di Stato.

     di Pjetër Arbnori*

    scrittore e attivista albanese

     È stata proclamata ufficialmente una lunga lista di martiri albanesi, che saranno canonizzati secondo una direttiva di Giovanni Paolo II. Io ho conosciuto da vicino molti di loro, tutti servi in Cristo, tutti uomini coraggiosi, che in condizioni difficilissime hanno mostrato una comune caratteristica: non hanno negato l’esistenza di Dio in nessuna circostanza, lo hanno testimoniato con le opere e hanno professato la loro fede pubblicamente.

    Nei confronti di tutti coloro che ho nominato finora, e anche di altri che non ho citato, io posso tranquillamente testimoniare che senza alcun dubbio, né ombre di nessun tipo, hanno meritato il processo di beatificazione e santificazione. Io ho parlato spesso di questi testimoni di Cristo, che sono stati fucilati, sono morti nelle prigioni o hanno sofferto nei campi di lavoro, sempre sotto la costante minaccia dei sostenitori del regime: «Noi vi togliamo la maschera!». Demistificare e smascherare significava, per i comunisti, deridere e disprezzare. Io posso confermare tutto, perché c’ero.

    Ed ero anche presente nelle occasioni di disseppellimento, quando per loro è venuto il momento dell’onore postumo, in sepolcri decorosi, e accompagnati da cerimonie solenni organizzate dallo Stato democratico. Questi dunque sono i miei ricordi, vivi come se avessi vissuto ieri le scene di cui parlo, anche se ormai, nel momento in cui scrivo, sono passati tredici anni e tante cose sono cambiate in Albania. Ma tanti di voi, amici lettori, potrebbero chiedersi legittimamente a questo punto: «Qual è stata la ragione di una guerra così spietata dichiarata dal comunismo ateo di Enver Hoxha al clero cattolico?». A questa domanda si possono dare diverse risposte.

    Primo motivo. I martiri erano tutti, sempre, esempio di santità, ma soprattutto apparivano testimoni di uno spirito diverso da quello allora corrente in un’Albania arretrata, carica di aggressività atea, declinata in persecuzioni su larga scala da parte dei comunisti. Erano visti dai più come una strana specie, come aliena, quasi non avesse avuto precedenti né radici nel paese. I martiri testimoniavano non solo la luce dello spirito, ma anche l’apertura della mente. Erano quasi tutti molto colti, conoscitori profondi delle loro materie, leader indiscutibili in molti campi della conoscenza: teologi, filosofi, scrittori, pubblicisti, pittori, musicisti, politici, sociologi, pedagoghi, storici, folcloristi, naturalisti, medici, architetti, demografi. Non c’è campo della cultura albanese che non abbia avuto in loro dei precursori e dei maestri.

    Per comprenderlo è sufficiente aprire un libro di letteratura: balza agli occhi come essi abbiano creato l’alfabeto albanese in lettere latine, invece di quelle cirilliche. Ma come mai proprio loro, e non altri? Per molti è ancora un mistero il ruolo fondamentale nella formazione della cultura albanese moderna e del suo consolidarsi insieme al senso di appartenenza nazionale. Per altri invece nella cosa non vi è nulla di misterioso: è come se, essendo pieni della loro fede, essi sentissero profeticamente che era venuto il momento di dare il massimo contributo vitale alla costruzione dello spirito del nostro popolo.

    Qui c’entrava naturalmente la fedeltà a Cristo: sentivano come un dovere il fatto di essere al servizio della fede e della cultura occidentale, per formare personalità in grado di diffonderla. Era questo, precisamente, che gli atei detestavano. Il comunismo influenzava piuttosto le masse ignoranti, i semi-intellettuali, quelli che giravano invano per sei o sette anni negli istituti d’Europa, e che tornavano in Albania dopo aver completato solo uno o due anni di corso: personalità incompiute. Questa fu la categoria che mostrò la maggiore avversione nei confronti del clero.

    Secondo motivo: il clero cattolico costituiva di fatto la colonna portante del patriottismo albanese, in conflitto naturale con l’internazionalismo marxista, disceso quest’ultimo su di noi come un’entità estranea, decisa a reprimere e a cancellare i caratteri secolari del popolo.

    Terzo motivo: il clero cattolico ha formato sempre una barriera contro il panslavismo, dunque un impedimento diretto per i piani dei comunisti slavofili, che intendevano mettere l’Albania sotto l’egida jugoslava. In quello snodo storico decisivo i comunisti comprendevano che il clero cattolico doveva essere eliminato, perché sino a quando avesse continuato a esercitare un’influenza avrebbe sempre impedito la realizzazione di quel disegno. Difatti, dagli ultimi dati, portati alla luce recentemente, risulta che la fucilazione di molti ecclesiastici sia stata commissionata espressamente dal regime jugoslavo. Una volta tolte di mezzo le anime ribelli, inscindibili dal sentimento indipendentista, si sarebbe potuto raggiungere lo scopo finale, che prevedeva addirittura l’annessione dell’Albania alla Jugoslavia, senza che una voce si levasse per opporsi.

    Quarto motivo: i comunisti atei, per imporre il dittatore Enver Hoxha come il “Dio” nuovo dell’Albania, avevano bisogno di far sparire l’altro Dio, quello del cielo. Inevitabile, dunque, la liquidazione del clero che, con la sua stessa esistenza, teneva viva la fede nel principio rivale. Afferma Albert Kamy: «Quando il cielo si spopola del Dio vero, allora la terra è piena di dei che hanno sete di sangue umano».

    I metodi per dissetarsi con questo sangue erano molti: alcuni conosciuti, altri tenuti nascosti. Qui ne esamino principalmente tre.
    a) Le accuse, senza prove, di collaborazione con il nemico, con il fascismo e il nazismo. I comunisti seguivano il principio «o con noi o contro di noi».
    b) La creazione di organizzazioni immaginarie, false. Queste costruzioni fittizie erano messe in piedi da dei provocatori. Un esempio ne sono stati il “partito democristiano”, che in realtà non è mai esistito, neppure nell’illegalità oppure l’organizzazione “Unione Albanese”. Per avervi preso parte furono fucilati tre famosi membri del clero, che probabilmente non l’avevano nemmeno sentita nominare. Può darsi che alcuni adolescenti entusiasti abbiano fatto dichiarazioni compromettenti e abbiano ceduto alle torture, ma è certo che le loro ultime affermazioni davanti alle corti siano state di negazione totale rispetto a quanto possono aver confessato sotto i colpi degli inquisitori. Costoro, in particolare, hanno smentito che i loro superiori ecclesiastici — già destinati a essere sottoposti al martirio — fossero stati gli iniziatori della contestata organizzazione “sovversiva”. Il loro comportamento dignitoso, fino ai limiti dell’eroico, risalta tanto di più, in quanto essi erano molto giovani e furono vittime di atroci torture e minacce.
    c) È esistita poi una variante albanese, del tutto originale anche rispetto all’Est comunista. Il partito ha provveduto a collocare di nascosto depositi di armi dentro alle chiese, per poter gridare al “complotto” e procedere alla repressione di una “banda armata”. I pacifici frati francescani si sono così visti accusare di aver nascosto armi persino dietro gli altari. L’esito dell’operazione fu quello di condannarne molti a morte e tanti altri a lunghe condanne di prigione.


    [Modificato da Credente 25/08/2018 11:52]
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    00 25/08/2018 11:27

    “Nessuno è mai stato ucciso in nome dell’ateismo”…davvero?



    NoAtheismLa vulgata comune in certi ambienti molto secolarizzati è che la religione abbia ucciso miliardi e miliardi di persone, in nome della religione, mentre anche se i peggiori dittatori della storia furono tutti atei dichiarati e impostarono sempre l’ateismo di Stato (Albania, Cina, Corea del Nord, Unione Sovietica, Cambogia ecc.), “nessuno è mai stato ucciso in nome dell’ateismo”.


    Certamente è vero che alcune religioni hanno fin nei propri semi la prevaricazione con la forza sugli “infedeli”, mentre altre -come il cristianesimo– hanno alla base un messaggio d’amore. Tanti cristiani e tanti uomini di Chiesa hanno commesso abomini e violenze, spesso convinti che fosse la volontà di Dio, ma sempre lo hanno fatto tradendo il Vangelo e gli stessi principi che avrebbero dovuto difendere.  Se dunque si devono condannare questi comportamenti e chiedere scusa per essi, occorre anche rispondere alle accuse generalizzate e storicamente infondate che arrivano dalla cultura laicista.


    Innanzitutto, ne abbiamo già parlato, gli studi -come “Encyclopedia of Wars” di Charles Phillips e Alan Axelrod- evidenziano che nella lista delle principali 1763 guerre della storia, meno del 7% hanno avuto una causa religiosa e generato meno del 2% di tutte le persone uccise in guerra. I conflitti armati, anche se portati avanti da autorità religiose, sono sempre stati motivate da conquista territoriale, controllo delle frontiere per rendere sicure le rotte commerciali o rispondere a all’autorità politica.


    Passando alla frase “nessuno è mai stato ucciso in nome dell’ateismo”, essa può essere pronunciata soltanto da chi non conosce il Novecento, il cosiddetto “secolo ateo” che vide per la prima volta nella storia l’esplosione del rifiuto pubblico di Dio e i primi tentativi di creare sistemi sociali e politici privi di religione e ostili ad essa, come l’illuminismo aveva soltanto teorizzato. Il ‘900 è stato il secolo ateo perché è stato il secolo marxista, e viceversa. Lo stesso Karl Marx ha detto: «la religione è l’oppio dei popoli», ma in Economic and Philosophic Manuscripts of 1844 ha anche aggiunto: «Il comunismo incomincia fin dall’inizio con l’ateismo. Anche se l’ateismo è diverso dal comunismo, l’ateismo è ancora per lo più un’astrazione».


    Vladimir Lenin, il tremendo dittatore sovietico, ha invece affermato: «Un marxista deve essere un materialista, cioè, un nemico della religione, ma una dialettica materialista si basa non sulla lotta contro la religione in modo astratto, non sulla base della distanza puramente teorica, non variando la predicazione, ma attraverso un modo concreto, sulla base della lotta di classe, quello che sta avvenendo oggi, ed è educare le masse più e meglio di quanto possa fare ogni altra cosa». Ed ancora, Lenin spiegava: «La base filosofica del marxismo, come Marx ed Engels hanno più volte dichiarato, è il materialismo dialettico -che si è completamente ripreso dalle tradizioni storiche del materialismo del XVIII secolo in Francia e di Feuerbach (prima metà del XIX secolo) in Germania-, un materialismo che è assolutamente ateo e positivamente ostile a ogni religione». Non solo l’ateismo, ma anche il darwinismo influenzò il pensiero di Marx, Lenin e Stalin. «In queste ultime settimane ho letto un sacco di cose. Tra gli altri, il libro di Darwin “Natural Selection”. Anche se è sviluppato nel grezzo stile inglese, questo è il libro che contiene la base della storia naturale per la nostra visione», disse Marx nel 1860.


    L’Unione Sovietica è stata ufficialmente atea dal 1917 al 1992, fino a quando salì al potere Gorbacev. Ed infatti la persecuzione dei cristiani in Unione Sovietica è stata violentissima: 28 vescovi e 1200 sacerdoti sono stati assassinati soltanto da Leon Trotsky. Dopo Lenin e Stalin oltre 50.000 sacerdoti sono stati uccisi, molti sono stati torturati, crocifissi e mandati nei lager. La maggior parte dei seminari sono stati chiusi, la pubblicazione della scrittura religiosa è stata vietata, abolito l’insegnamento religioso nelle scuole, nel 1922 messe fuori legge le canzoni e le celebrazioni religiose anche all’interno delle abitazioni private. «La Russia diventò rossa con il sangue dei martiri», ha detto padre Gleb Yakunin, militante dei diritti umani della Chiesa ortodossia. Secondo fonti della Chiesa russa, fino a cinquanta milioni di credenti ortodossi sono morti nel XX secolo a causa della persecuzione comunista.


    L’ateismo (scientifico) divenne materia obbligatoria nelle università sovietiche, tanto che la poetessa russa Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, docente dal 1991 presso la Facoltà di Filologia dell’Università di Mosca e nominata cavaliere della Repubblica francese nel 2005, ha raccontato: «Nessuno dei progetti utopici del regime come l’ateismo di stato o l’arte e le scienze manipolate dall’ideologia riuscì a realizzarsi allo stato puro. Ma pur nella loro parziale attuazione hanno generato fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi».  Ne ha parlato anche Andrey Kuraev, laureatosi in “Teoria e storia dell’ateismo scientifico”, oggi cristiano: «Noi, gli studenti, specializzandi in ateismo scientifico, venivamo contattati dal Comitato dei Giovani comunisti di Mosca per condurre una ricerca sociologica sulla religiosità dei giovani. Ci mandavano nelle chiesa di Mosca ogni domenica in osservazione, per poi farci compilare dei questionari nei quali indicare il nome del sacerdote, il contenuto del suo sermone (specificando se era indirizzato ai giovani, se ha solo citato la Bibbia e i Padri della Chiesa o anche la stampa e la letteratura contemporanea). Dovevamo indicare anche il numero di parrocchiani e se avevamo riconosciuto dei giovani che conoscevamo».


    Questo solo per quanto riguarda l’Unione Sovietica, ma bisognerebbe affrontare le altre dittature ufficialmente atee. Ancora oggi ne rimangono due: la Cina e la Corea del Nord (considerato lo Stato più persguitatore dei cristiani nel 2013 dall’agenzia americana Open Doors) dove ancora oggi i cristiani vengono discriminati in quanto cristiani, ovviamente nel silenzio imbarazzatodegli aggressori occidentali della religione in nome della superiorità morale dell’ateismo.


    Il premio Nobel russo Aleksandr Solzhenitsyn, spiegando le grandi tragedie del regime comunista sovietico, ha scritto: «Oltre mezzo secolo fa, quando ero ancora un bambino, mi ricordo di aver sentito un certo numero di anziani spiegare così i grandi disastri che hanno colpito la Russia: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, ecco perché tutto questo è successo”. Da allora ho speso pressoché 50 anni di lavoro sulla storia della nostra rivoluzione, producendo centinaia di libri e raccogliendo centinaia di testimonianze personali. Ma se mi si chiedessero oggi di formulare nel modo più conciso possibile la causa principale della rivoluzione rovinosa che ha inghiottito circa 60 milioni della nostra gente, non potrei essere più rispettoso alla precisione se non ripetendo: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, ecco perché tutto questo è accaduto”».

    fonte UCCR


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    00 25/08/2018 11:28

    Il dittatore ateo Kim Jong-un proibisce il Natale:
    «celebrerete mia nonna»

    In Corea del Nord censurato il cristianesimoIl tiranno nordcoreano Kim Jong-un ha vietato il Natale, al posto della nascita di Gesù Cristo ha infatti imposto la celebrazione di sua nonna Kim Jong-suk.

    Sul New York Post si legge infatti che la parente del leader supremo della Corea del Nord nacque nella vigilia di Natale del 1919, era una guerrigliera e un’attivista comunista, moglie del primo dittatore Kim Il Sung.

    Nonostante il suo odio per tutto ciò che riguarda la religione, è possibile comunque trovare alcuni alberi di Natale a Pyongyang, ma privi di simboli cristiani. Un po’ come avviene in alcune scuole occidentali, in nome di un ambiguo “rispetto”. Sempre quotidiano americano riferisce che i gruppi per i diritti umani ritengono che 50.000-70.000 cristiani siano «rinchiusi in prigione e confinati nei campi di concentramento solo a causa della loro fede».

    Attenzione: stiamo parlando di oggi, del mese scorso. Non del medioevo, del rinascimento, dei secoli pagani o delle dittature atee che nel ‘900 hanno distrutto interi popoli, perseguitato centinaia di credenti, distrutto le chiese, incarcerato i cristiani e decapitato i sacerdoti: da Tito a Stalin, da Hoxa a Ceaușescu, da Castro a Lenin, da Mao a Pol Pot. Parliamo di quanto accade in questi giorni, dall’altra parte del mondo.

    Per l’organizzazione umanitaria americana Open Doors, la situazione in Corea del Nord può essere paragonata solo alla persecuzione cristiana promossa dai dittatori atei Enver Hoxha e il cambogiano Pol Pot. E’ chiaro che, come loro, anche Kim Jong-un sia inspirato dal socialismo di Karl Marx, per il quale -citando Robert Owen- «il comunismo comincia subito con l’ateismo» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi 1970, p. 112). Marx, a sua volta influenzato da Feuerbach in particolare, vedeva nell’ateismo una fonte di liberazione dalle catene religiose: «poiché il contenuto della religione è il contenuto di un difetto, la fonte di questo difetto si può cercare soltanto nella natura dello Stato» (K. Marx, La questione ebraica, in Opere, Newton Compton 2011, p. 34). Così, assieme a Friedrich Engels, riteneva che «l’eliminazione della religione come illusoria felicità del popolo è la condizione della sua felicità reale» (K. Marx, Per la critica della filosofia hegeliana del diritto», in Opere, Newton Compton 2011, p. 19).

    I dittatori comunisti hanno semplicemente messo in pratica il materialismo dei teorici del marxismo, i quali si ispirarono a loro volta a Hegel. E non bisogna dimenticare, come ha giustamente ricordato il sociologo Zygmunt Baumann, che «il comunismo non è un’utopia romantica, ma è figlio del secolo dei Lumi, di Voltaire e Diderot. E ha qualcosa di messianico. Trotzky si considerava forse come un messia degli ebrei, forse come una specie di Cristo, forse pensava al secondo Avvento».

    L’uomo che elimina Dio perché crede di esserlo lui stesso è la tentazione umana ben descritta nel peccato biblico di Adamo ed Eva. Così si è arrivati a censurare la celebrazione del Natale: oggi, pochi giorni fa. Non nel secolo scorso.

    fonte UCCR


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    00 25/08/2018 11:30

    Ateismo di stato in Corea del Nord:  6mila cristiani nei gulag



    Ragazza north koreaLa Corea del Nord ha stabilito un record: per l’11esimo anno consecutivo è il paese che perseguita di più i cristiani nel mondo. Lo ha stabilito il consueto rapporto annuale sulla persecuzione dei cristiani stilato dall’organizzazione internazionale Open Doors, il regime ateo-comunista di Pyongyang è il più repressivo nei confronti dei cristiani, peggio anche di Arabia Saudita (secondo posto), Afghanistan e Iraq (terzo e quarto).


    Sul rapporto si legge che si «contrasta con veemenza ogni tipo di religione. I cristiani sono visti come persone ostili, meritevoli di arresto, detenzione, tortura e anche esecuzioni pubbliche». Secondo le stime di Open Doors, «nonostante la pesante repressione, esiste un movimento crescente di chiese sotterranee che conta circa 400 mila cristiani» su una popolazione di 24,5 milioni di abitanti.


    Riferendosi poi al terribile campo di concentramento per prigionieri politici di Yodok, il rapporto ricorda che «in Corea del Nord c’è un sistema di campi di lavoro, compreso il famigerato campo n. 15, dove si trovano almeno 6 mila cristiani».  Secondo una fonte di Daily Nk, organo di informazione composto da dissidenti del Nord, «le autorità nordcoreane dividono i dissidenti in diverse categorie a seconda della ragione per cui cercano di scappare. Quelli che portano con sé una Bibbia o hanno stretto contatti con cristiani cinesi vengono di solito giustiziati». Un cristiano è stato recentemente ucciso proprio per questi motivi. Ricordiamo che assieme alla Cina, la Corea del Nord è uno dei pochi Paesi che ancora è guidato ufficialmente dall’ateismo di stato.


    Dalla Russia invece, ex fortezza dell’ateismo governativo, si apprende che l’ora di religione è divenuta obbligatoria nelle scuole. Una decisione che non riteniamo per nulla condivisibile, stupisce tuttavia riflettere sulla portata del cambiamento avvenuto, quando fino a pochi anni fa il dittatore Stalin imponeva ore di ateismo scientifico nelle scuole e nelle facoltà universitarie, come ha recentemente ricordato la scrittrice russa Ljudmila Ulitskaja, la poetessa Ol’ga Aleksandrovna Sedakova e sopratutto Andrey Kuraev.

    fonte UCCR


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    00 25/08/2018 11:31

    La mattanza dei cattolici sotto il comunismo ateo



    La sconfitta del nazismo nell’Europa occidentale segnò la fine di una dittatura e il ritorno alla libertà e alla democrazia, ma nei paesi conquistati dall’Armata Rossa significò solamente il passaggio da un occupazione a un’altra. Nei loro precedenti colloqui Churchill, Roosvelt e Stalin avevano concordato sul fatto che, nel dopoguerra, le nazioni liberate avrebbero dovuto decidere sulla loro forma di governo, ma il georgiano era in realtà intenzionato ad espandere la sua influenza: “Chi occupa un territorio, vi impone il proprio sistema sociale” ebbe a dichiarare a Milovan Gilas. Per questo motivo cominciò subito a liquidare tutti i possibili oppositori alla dominazione sovietica (eliminazioni avvenute in certe parti prima ancora della fine del conflitto) in modo da avere governi dominati da comunisti che avrebbero introdotto nei propri stati misure simili a quelle del governo comunista, come la persecuzione religiosa.


    Già Lenin, infatti, andato al potere nel 1917 provvide a mettere fuori legge le religioni perché riteneva, come Marx, che fossero solo un’illusione creata dall’uomo per evadere dalla realtà (“l’oppio dei popoli”). A farne le spese più pesanti fu la Chiesa Ortodossa perché maggioritaria del paese, ma tutte le confessioni presenti in Russia ne ebbero a soffrire: negli anni ’20 sotto la Repubblica sovietica vivevano circa un milione e seicentomila cattolici che furono sottoposti a dure misure repressive fino alla fine dell’URSS. Eppure la Chiesa aveva cercato inutilmente di stipulare un Concordato e aveva offerto, durante la carestia del 1922, due milioni di dollari per alleviare le sofferenze della popolazione, ma come ha sottolineato lo storico Andrzej Kaminski «in Unione Sovietica la fede e la pratica di una religione furono a lungo motivi sufficienti per essere deportati in un campo di concentramento».


    Le misure antireligiose furono esportate nei territori direttamente occupati, come negli stati Baltici. Ad esempio,  in Lituania era severamente proibito ai sacerdoti «tenere lezioni ai bambini, impartire la cresima, assistere malati e moribondi e sovrintendere ai funerali” ed era vietato “pubblicare, stampare e diffondere libri, opuscoli o giornali a carattere religioso». Il filosofo polacco Leszek Kolakowski denunciava il fatto che molte persone erano rinchiuse nei campi di concentramento sovietici per «propaganda religiosa» e che era un «dovere giuridico dei genitori dare ai figli un’educazione comunista e quindi atea; in caso contrario il potere minaccia di togliere i figli stessi». In altri stati, invece si assistette alla nascita di democrazie popolari, formalmente indipendenti, ma nella pratica asservite all’URSS e il cui obiettivo principale era diffondere l’ateismo divenuto in pratica religione di stato, e separare i contatti delle chiese con Roma. Nei paesi ortodossi come la Romania e la Bulgaria l’influenza sovietica s’intrecciò a più strette relazioni locali con la chiesa autocefala ortodossa e il Patriarcato di Mosca. In Romania, infatti, il potere sovietico cercò di spingere i greco-cattolici a far parte della Chiesa Ortodossa (ma ciò non impedì agli stessi ortodossi d’essere perseguitati), e impose la fusione imprigionando o uccidendo coloro si opposero ossia tutti i vescovi e gran parte dei sacerdoti. Si tentò, invece di manipolare la Chiesa Cattolica di rito latino sostituendo l’autorità di Bucarest a quella del Vaticano. Nonostante le persecuzioni, però, il regime non riuscì mai ad imporre la propria autorità e si ebbero diversi martiri come padre Alajos Boga, morto in carcere per non aver accettato un piano governativo di una Chiesa nazionale senza legami con Roma. Stessa sorte toccò in Bulgaria al vescovo di Nicopoli, il beato Eugenio Vincenzo Bossilkov, processato nel 1952 per essersi rifiutato di mettersi a capo di una chiesa nazionale e condannato a morte. «Non ho rinnegato né la Chiesa, né il Santo Padre, né don Gallioni (n.d.a. Reggente della delegazione apostolica)» disse prima di morire.


    Anche nei paesi a maggioranza cattolica, la persecuzione si fece sentire aspramente. La Chiesa in Polonia ebbe un ruolo importante nella formazione di Solidarnoc e parecchi preti e vescovi subirono la prigione o la morte per la loro resistenza al potere comunista come il primate Stefan Wyszynski che subì una lunga prigionia. In Ungheria, invece, il primate Josef Mindszenty fu incarcerato nel 1948  secondo l’incredibile accusa di voler scatenare una terza guerra Mondiale (lo stesso aveva già subito una detenzione dal governo comunista nel 1919 e un’altra sotto il nazismo nel 1944)! Venne liberato durante la rivolta d’Ungheria, e riuscì a mettersi in salvo dalla repressione russa rifugiandosi nell’Ambasciata Americana. In Cecoslovacchia, il cardinale Beran (che era stato prigioniero nel campo di Dachau) venne posto agli arresti domiciliari e fu espulso nel 1965. La repressione peggiore si ebbe comunque in Albania dove verso il 1976 l’ateismo di stato entrò di fatto nella costituzione (Stalin, invece, aveva fatto redigere una costituzione liberale che ovviamente rimase sulla carta) e i giornali annunciavano trionfalmente che tutte le chiese e le moschee erano state chiuse o demolite. Nella Germania dell’Est la lotta religiosa assunse aspetti meno cruenti: si cercò di scimmiottare rituali cristiani sotto altri nomi come il battesimo o il matrimonio socialista. Si obbligava le persone a giurare fedeltà allo stato o al socialismo, in una cerimonia fatta in contrapposizione alla comunione cattolica e alla confermazione protestante e s’insegnava ai bambini: «Lenin ha spiegato che quest’epoca in cui non esisteranno più lacrime ha un nome. Non si chiama né Natale, né primavera (…) si chiama socialismo». Anche qui, però, non mancarono violenze contro gli atti di resistenza cristiani come quelli contro la distruzione della chiesa nell’Università di Lipsia.


    Queste azioni non avvenivano solo nel mondo sovietico, ma anche negli altri stati comunisti. Nella Jugoslavia, Tito aveva già fatto uccidere centinaia di sacerdoti e dopo che l’arcivescovo Alojzije Stepinac si rifiutò di sovrintendere a una chiesa nazionale croata, fu arrestato e processato con l’accusa di essere stato complice dei massacri ustascia. Sebbene alcuni studiosi abbiano preso seriamente queste accuse, in realtà, fu un processo farsa e uno degli estensori dell’accusa, Josip Hrnevic ammise: «se avessimo ascoltato i testimoni della difesa, il processo sarebbe caduto». Del resto, il maresciallo perseguitò la Chiesa Cattolica anche in Slovenia nonostante il clero si fosse schierato dalla parte del movimento di liberazione ottenendo promesse di rispetto che non furono mai mantenute. La situazione non muta, anzi peggiora se dal comunismo europeo si passa a quello asiatico perché oltre alla propagazione dell’ateismo e al tentativo di sradicare il legame con Roma, vi era anche un atteggiamento xenofobico: il cristianesimo era considerato una religione straniera e come tale doveva essere respinto. Sotto il Vietnam del Nord si provvide a chiudere i seminari, a espellere i missionari stranieri, a nazionalizzare le scuole e a paralizzare la vita cristiana. La persecuzione provocò l’esodo di circa 600.000 cattolici (su 1 milione e mezzo) verso il Vietnam del sud. Anche nel Laos la piccola comunità cristiana soffrì persecuzioni e anche qualche martirio, mentre la guerra di Corea permise a Kim il Sung di tentare d’estirpare ogni presenza cristiana e molti missionari operanti nel sud vennero deportati a nord. «La nostra rivoluzione è molto più utile ed efficacie del tuo Dio» disse una guardia ad un prete incarcerato. La dittatura più sanguinaria fu comunque quella che sorse in Cina, sotto Mao Tse Tung. Questi durante la guerra civile aveva promesso di rispettare la libertà religiosa di tutti i cinesi, ma appena giunto al potere instaurò l’ateismo di stato vietando la propaganda religiosa. Scelse di tollerare il culto privato perché pensava che col tempo il popolo avrebbe abbandonato la fede, ma simile disposizione non valeva per il cattolicesimo perché religione non autoctona. Il dittatore cinese perciò diede vita al “Movimento delle Tre Autonomie”, i cui obiettivi erano l’autogoverno, l’autofinanziamento e  l’autopropaganda. I vescovi cinesi ribadirono, però, che chi usciva dall’obbedienza della Santa Sede si allontanava dalla Chiesa e si assistette così alla nascita di due chiese: una costretta in clandestinità con vescovi nominati da Roma e un’altra “ufficiale” con vescovi nominati dal governo.


    Vedendo questa situazione e il fatto che nonostante la persecuzione nei paesi liberati come in Francia e in Italia, sempre più persone continuavano ad aderire al partito comunista, Pio XII decretò la scomunica per chi avesse sostenuto o fatto parte del partito, ma l’adesione di un’ampia parte della società alle idee socialiste rese difficile applicare una simile disposizione e la scomunica cadde presto nel dimenticatoio. La fine del comunismo europeo segnò la fine delle persecuzioni religiose, ma in Asia resiste ancora e molti credenti sono tutt’oggi incarcerati e uccisi per la loro fedeltà alla Chiesa o per il loro rifiuto all’ateismo di stato.


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    Bibliografia
    ANDREA RICCARDI, Il secolo del martirio, Milano 2000
    AA. VV. Il libro nero del comunismo Milano, 1998
    AA. VV. Il libro nero del comunismo europeo, Milano 2006
    ANDRZEJ KAMINSKI, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, Torino 1998
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    fonte UCCR


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    00 25/08/2018 11:33

    Cina: lo stato (ateo) uccide 5000 persone all’anno



    L’85,6% del totale mondiale delle esecuzioni capitali si svolge in Cina. Quest’anno ne ha effettuate circa 5.000, come nel 2009. E’ il dato che emerge dal rapporto 2011 di ‘Nessuno tocchi Caino’, presentato in questi giorni a Roma.


    Al secondo posto un altro stato con un’ideologia religiosa al potere, cioè l’Iran, con 546 esecuzioni. Le esecuzioni pubbliche sono aumentate anche in un altro Stato guidato ufficialmente dall’ateismo, cioè la Corea del Nord, che si colloca al terzo posto con 60 esecuzioni all’anno (per traffico di droga, fuga in Cina o in Corea del Sud ecc.). Il quotidiano La Stampa sostiene che le esecuzioni sarebbero aumentate nel tentativo di rafforzare il regime: Kim Jong-un, designato alla successione del padre Kim Jong-il, avrebbe richiesto “fucilazioni in tutto il Paese”.


    In Europa c’è uno solo Stato con la pena di morte, cioè la Bielorussia, area ex comunista e anch’essa segnata dall’imposizione (ir)religiosa. La Russia invece, ex patria mondiale dell’ateismo, si sta impegnando ad abolire lentamente la pena di morte. Negli USA permangono ancora 46 esecuzioni capitali all’anno. Proprio in questi giorni invece a Panama è stata avanzata la proposta di introdurre la pena di morte per i casi d’omicidio. Come riferisce Radio Vaticana, i cattolici si sono subito schierati contro.

    fonte : UCCR


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    00 25/08/2018 11:36

    I cattolici perseguitati sotto il regime ateo cinese



    In Italia, i sedicenti alfieri dei cosiddetti “diritti civili” o “diritti delle minoranze”,  comeGiuseppe Cruciani e Pierluigi Battista, stranamente parlano soltanto di gay e della loro presunta discriminazione (come si può sentirsi discriminati avendo la totalità del potere mediatico dalla propria parte pronto a tacciare di omofobia chiunque osi esprimere un punto di vista differente? Come si può ritenere attendibili indagini sulla discriminazione basate su auto-dichiarazioni degli stessi omosessuali? Come si puòsentirsi discriminati contando su schiere di riviste, giornali, social network e siti web con cui far sentire la propria voce? Come si può sentirsi discriminati sapendo che in Parlamento siedono politici con l’unico compito di occuparsi dei “diritti dei gay”?).


    Se questi paladini dei diritti umani fossero davvero tali, si occuperebbero anche di altre discriminazioni (quelle vere, e non politicamente corrette), come ad esempio dei cristiani e degli atei perseguitati, incarcerati e messi a morte dai regimi islamici e induisti. O dei cattolici perseguitati sotto l’ateo-comunismo di stato cinese.


    Nessuno lo fa, per questo è importante segnalare l’uscita del libro di Francesca Romana Poleggi, “La persecuzione dei cattolici in Cina” (ed. Sugarco 2012), scritto per la fondazione Laogai Italia (www.lagoai.it). L’autrice ha presentato a “Tempi.it” il suo libro, spiegando la pericolosità di essere cattolici sotto il regime comunista cinese: «Sì e non c’è da stupirsi perché il Partito cinese (Pcc) è comunista e in quanto tale si rifà al pensiero ateo e materialista di Mao, che l’ha ripreso da Marx. Quando uno Stato è totalitario, pretende di essere lui il Dio da adorare e così per le religioni non rimane più spazio. Chi non mette al primo posto della scala di valori la fede nel Partito comunista è considerato un criminale e finisce in prigione o nei laogai o agli arresti domiciliari. Era così negli anni 50, ai tempi di Mao, ed è così oggi nella Cina dell’apertura e del rilancio economico».


    Questa lettura è confermata proprio dalle parole di Zhu Weiqun, Vice ministro esecutivo del Dipartimento del Fronte Unito di lavoro: «ai membri del Partito è vietato credere nella religione, questa è sempre stata una regola costante nel Partito Comunista», chiedendo il  rafforzamento dell‘identità marxista e atea all’interno del Partito. Il dittatore ateo Mao odiava la religione ma sapeva che non è possibile estirpare gli uomini da Dio, così «nel 1957 ha fondato l’Associazione patriottica (Ap), ente legato al Pcc esistente tutt’oggi che offre un surrogato della religione cattolica. La cosiddetta “Chiesa ufficiale”, che si potrebbe chiamare “Chiesa di Stato” o “Chiesa aperta” organizza messe, catechismo, ordinazioni vescovili come se fosse la Santa Sede», ha continuato la Poleggi.  Una Chiesa comandata dal Partito, come spiega bene Marco Respinti su “Libero”.


    Ma la Chiesa cattolica esiste, è sotterranea e molto viva e per questo subisce fortissime repressioni. Nonostante tutto, «è in atto una rinascita religiosa senza precedenti che il governo comunista non si spiega e non riesce a fermare. Sono impossibili stime ufficiali, ma si calcola che il numero dei cattolici vada dai 20 agli 80 milioni. E il rapporto tra fedeli della Chiesa di Stato o aperta e quelli della Chiesa sotterranea è di uno a quattro». Viene incarcerato chi prega e chi possiede una Bibbia, 15 vescovi sono in prigione. La violenza colpisce anche le donne, pochi giorni fa ad esempio è stata multata una coppia per 1,3 milioni di yuan dopo il parto della secondo figlia, in linea con la politica abortista del figlio unico.


    Inutile ricordare che, dell’uscita di questo libro, nessun sedicente attivista dei diritti umani ha parlato.

    fonte UCCR


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    00 25/08/2018 11:59




    «Il costo umano del comunismo», intervista con Oscar Sanguinetti


    fonte  Alleanza Cattolica 

    È stata ripubblicata a distanza di quarantacinque anni dalla sua prima edizione italiana l’opera dello storico Robert Conquest (1917-2015) e di altri studiosi statunitensi, Il costo umano del comunismo. Russia, Cina, Vietnam, edita da D’Ettoris (Crotone 2017, pp. 240, euro 19,90). Abbiamo intervistato al riguardo il dottor Oscar Sanguinetti, di Alleanza Cattolica e direttore dell’I­stituto Storico dell’Insor­genza e per l’Identità Nazionale di Milano, che ha tradotto, curato e introdotto la nuova edizione.

     

    D. A distanza di cento anni dalla rivoluzione bolscevica e dopo il crollo di buona parte dei regimi socialcomunisti, taluni ridimensionano o tentano di giustificare i crimini comunisti.

    R. Che il comunismo internazionale, nel suo itinerario verso la conquista del mondo, abbia prodotto una quantità inverosimile di massacri, di guerre civili e convenzionali, di violenze e d’in­giustizie di ogni tipo, è un dato di fatto che ai nostri giorni ben pochi — solo se ancora accecati dall’ideologia — mettono in discussione. Si discute eventualmente sulle fasi, sulle responsabilità particolari e sulla gravità dei diversi episodi, ma nessuno oggi può ignorare lo stretto legame fra comunismo — almeno quando è al potere — e crimini contro l’uomo e la donna.

    La stantia tesi giustificazionista dei crimini comunisti secondo cui essi sarebbero stati compiuti necessariamente al fine di eliminare ogni resistenza all’avanzata inelut­tabile modulata dalla dialettica storica verso la dittatura del proletariato, quindi verso la meta della giustizia sociale totale, oggi che dal comunismo sono caduti molti veli non tiene più. 

    La storia del Novecento, specialmente ora che molte censure preventive sono cadute e nuovi documenti si sono resi disponibili, mette in luce in modo sempre più drammaticamente lampante come, ovunque vi sia stato un movimento comunista, dalla Spagna al Nepal, esso sia stato causa di devastanti conflitti civili, ciascuno dei quali ha comportato un numero indescrivibile di lutti e di danni. Il comunismo novecentesco ha prodotto — e produce — vittime in due momenti: quando cerca di conquistare il potere in uno Stato — con il terrorismo, l’insurrezione, la guerra civile e convenzionale — ma, soprattutto, quando lo ha conquistato e la minoranza rivoluzionaria comunista inizia a tradurre in realtà il suo progetto utopistico e anti-naturale di società aggredendo in maniera terroristica il corpo sociale. 

    Oggi quando si scrive «terrorismo» si pensa subito e solo alle bombe, ai kalashnikov e ai coltelli che purtroppo affollano le cronache televisive; in ogni modo a gesti efferati di pochi che lo Stato di diritto combatte. Nel caso del totalitarismo comunista, invece, del terrore — e George Robert Acworth Conquest lo mette bene in luce — è artefice lo Stato. 

    Aleksandr Solženicyn (1918-2008) nei primi anni 1970 — quindi relativamente a poca distanza dal rapporto Conquest — avvalora le stime del professore di statistica russo, emigrato in Germania nel 1943 e poi negli Stati Uniti nel 1950, Ivan Alekseevič Kurganov (1895-1980), secondo il quale le vittime del comunismo sovietico ammontavano a quel tempo a 66,7 milioni, più circa altri 55 milioni di mancate nascite (deficit demografico) causate dalla morte dei precedenti.

    Con la lodevole eccezione del Libro nero del comunismo — che è comunque una iniziativa di privati, cui manca ogni investitura pub­blica e persino il «bollino blu» accademico —, uscito in Francia nel 1997, e degli sforzi di studiosi indipendenti come Vladimir Konstantinovič Bukovskij — che ha pubblicato in Occidente migliaia di documenti di capitale importanza trafugati dagli archivi del KGB, i servizi segreti sovietici, durante gli anni della presidenza di Boris Nikolaevič Eltsin (1931-2007) — o come Vasilij Nikitič Mitrokhin (1922-2004) — che ha passato ai britannici migliaia di documenti sulle attività di destabilizzazione svolte al­l’estero dai servizi segreti sovietici —, ben pochi sono andati a cercare la documentazione più compromettente delle malefatte degli apparati repressivi, segreti e pubblici, dell’immenso impero sovietico. Eppure la burocrazia sovietica teneva minuziosa traccia di ciascuno dei crimini che le forze repressive commettevano, redigendo per ogni arrestato, fucilato, inviato nelle prigioni e nei campi, un dossier più o meno nutrito. 

    D. In quale contesto storico-politico nasce il rapporto?

    R. Il costo umano del comunismo è la traduzione italiana di tre documenti statunitensi: il primo, sul comunismo sovietico, preparato nel 1970 per il Senato statunitense dallo storico Robert Conquest, grande studioso della Rivoluzione comunista; il secondo, sul comunismo in Cina, redatto nel 1971 dallo studioso e ambasciatore americano in Corea del Sud Richard Louis «Dixie» Walker (1922-2003), allora Direttore del­l’Institute of International Studies dell’Università della South Carolina; e il terzo, sul comunismo in Vietnam, coordinato nel 1972 da James Oliver Eastland (1904-1986), senatore democratico del Mississippi. I tre testi sono stati per lungo tempo l’unico serio tentativo di contare le vittime del comunismo internazionale, almeno nei principali teatri geopolitici in cui nei primi anni 1970 dominava o stava dramma­ticamente per instaurarsi. 

    Non si trattava di una operazione a sfondo neutro o di un mero e­sercizio computistico accademico bensì, agli inizi della presidenza repubblicana di Richard Milhous Nixon (1913-1994), di superare l’ireni­smo kennediano e di mettere in campo un argomento «forte» nella «battaglia delle idee» che allora, in anni non solo di apogeo della potenza militare sovietica ma anche di forte revival marxista-leninista negli ambienti intellettuali dell’Occidente, tornava a essere particolarmente accesa. 

    I tre rapporti promossi dal Senato americano rappresentano palesemente uno strumento al servizio della guerra psicologica, segnata già allora dal tremendo gap esistente fra l’enorme macchina propagandistica comunista e l’esile voce dell’apparato culturale anti-comunista, che affiorerà nitido durante la guerra in Vietnam, persa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nelle piazze e sui media, piuttosto che sul campo. 

    D. Tutti e tre i rapporti parlano di «costo umano» del comu­nismo. In che senso si deve intendere questa espressione?

    R. Il comunismo nasce e cresce storicamente nella prima metà del Novecento, ossia in un crogiolo infinito di guerre, di rivoluzioni, di carestie, di drammi sociali, che comportano nel loro complesso un numero astronomico di vittime. In realtà, però, quando parlano di vittime, i rapporti non intendono i caduti nelle guerre di cui sono protagonisti Paesi a regime comunista, né le vittime militari e civili delle guerre intestine di cui alla fine la fazione comunista risulta vincitrice e nemmeno chi è morto a causa di situazioni di povertà o di maggiore morbilità frutto del disordine sociale causato dalle guerre e dalle rivoluzioni. I rapporti considerano invece, correttamente, i morti — cui andrebbero aggiunti i feriti, nel corpo e nello spirito, e i danni morali e materiali subiti dalle comunità aggredite — frutto dell’aggressione diretta o indiretta che le classi dirigenti comuniste scatenano nei confronti delle rispettive società per attuare i propri disegni d’ingegneria sociale e per «ripulirle» dai nemici e dagli oppositori — individui o intere classi di persone —, consapevoli o meno, applicando in pieno la logica della lotta di classe. Il «costo umano» del comunismo comprende quindi tutti coloro che i comunisti uccidono, direttamente o privandoli della libertà e ponendoli in contesti di impossibile sopravvivenza, in quanto li considerano nemici politici, ossia nemici di classe, oppositori politici, membri del clero, credenti, nazionalità «refrattarie», reazionari «irrecuperabili» o, anche, «compagni caduti in disgrazia». 

    Fucilati con o senza processo; torturati a morte nelle celle della polizia segreta; condannati alla deportazione nell’«arcipelago GULag», a costruire a mani nude canali a cin­quanta gradi sotto zero o imprigionati nelle centinaia di micidiali Laogai cinesi, molti dei quali ancora attivi; privati del senno nelle cliniche psichiatriche; massacrati e sepolti nelle foibe e nelle fosse comuni come quelle di Katyń; im­prigionati fino a morire di stenti; fatti perire di fame attraverso carestie create artificialmente, come i kulaki, i contadini benestanti ucraini — nella strage, per alcuni genocidio, nota come Holodomor: tutti costoro, vittime della terrificante macchina di morte allestita sulla Terra dai regimi marxisti-leninisti, entrano nel computo del «costo umano» del comunismo. 

    L’altissimo valore che esso assume stando ai rapporti del 1970-1972 non è il risultato di difficoltà contingenti del progresso del movimento ri­vo­luzio­nario o frutto della crudeltà di singoli personaggi come Iosif Vissarionovič Džugašvili detto «Stalin» (1878-1953) o Pol Pot (1925-1998). Ovunque il comunismo ha conquistato il potere su uno Stato immediatamente ha iniziato a «macinare» vite umane. Il comunismo, applicazione della dottrina della lotta di classe mondiale propugnata da Karl Heinrich Marx (1818-1883) e da Friedrich Engels (1820-1895) e scatenata da Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924), da Stalin, da Mao Zedong (1893-1976) e da Hồ Chí Minh (1890-1969), è criminogeno per natura, ha come esito strutturale e fatale il «classicidio» e come cause primarie l’ateismo militante e il totalitarismo politico-sociale. 

    D. Il bilancio del costo umano del comunismo tracciato dai tre rapporti è però una valutazione solo parziale e necessariamente «in progress» della tragedia comunista.

    R. In primis per ragioni cronologiche. Il saggio sull’URSS di Conquest — in buona parte un «taglia e cuci» del suo Il grande terrore (1) — si ferma alla fine dell’epoca di Stalin e non registra le vittime dei crimini perpetrati in URSS durante il periodo bellico e post-bellico, come, per esempio, lo sterminio dei russi e delle altre nazionalità che avevano collaborato con i tedeschi, in certi casi «restituiti» a Stalin, insieme ad antichi emigrati, dagli stessi Alleati; e come l’epurazione dei reduci rimasti esposti all’influenza nociva nei Paesi capitalisti occupati. 

    E, ancora, mancano all’appello le vittime della repressione delle rivolte anti-comuniste nei Paesi occupati dall’Armata Rossa nel 1944-1945, che in taluni casi si protrarranno fino agli anni 1960. E quelle della «cintura esterna» dell’im­pero: Berlino nel 1953; Varsavia e Budapest nel 1956; Praga nel 1968 e, se vogliamo, l’Afghanistan sovietizzato degli anni 1980. Penso soprattutto alle migliaia di vittime della repressione ungherese, ai caduti nei combattimenti e agli uccisi dalle centinaia di carri armati del Patto di Varsavia affluiti nelle vie della capitale, ma anche alle migliaia di processati e fucilati dalle corti marziali nei mesi e negli anni successivi al novembre 1956.

    I rapporti su Cina e Vietnam, invece, fanno stato delle vittime del comunismo ai primi anni 1970, nel primo caso a vent’anni circa dalla conquista comunista del potere, nel secondo quando il Vietnam del Nord era comunista da circa tre lustri. E in entrambi i casi, con l’aggiunta del Viet­nam del Sud, la macchina repressiva continuerà per decenni a macinare vittime.

    Oltre al limite cronologico, vi è poi quello geografico.

    Un computo globale del costo umano del comunismo avrebbe dovuto prendere in considerazione gli altri Paesi già a quel tempo sottoposti a regimi comunisti, per esempio Cuba e la Corea del Nord, nonché i Paesi dell’Europa orientale: Albania, Jugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Bulgaria, Germania dell’Est, in cui i partiti comuni­sti, ascesi al potere, con poche varianti, nei primi anni del secondo dopoguerra, mietevano vittime su vittime nella loro «pulizia di classe» e nella loro lotta anti-religiosa. 

    Infine, un ultimo importante e inevitabile limite sta nel fatto che i dati pubblicati si riferiscono a Paesi dove era proibito l’accesso a organismi di indagine stranieri e dove in generale tutti i dati ufficiali erano ampiamente censurati e manipolati a seconda delle esigenze del regime, spe­cialmente, come si può immaginare, quando si trattava di dati relativi alle vittime di politiche repressive o di carestie o di lavoro forzato e incarceramenti.

    Quelli che abbiamo davanti, in conclusione, sono dati imprecisi e in buona misura congetturali, ma non per questo da scartare. Forse Conquest e i suoi colleghi possono aver evidenziato qualche insufficienza di tipo scientifico-metodo­logico, ma va detto che l’oggetto di cui si sono occupati non era dei più facili. 

    D. Davanti a questa tragica realtà qualcuno potrebbe obiettare che non è più così: i Paesi a regime comunista non uccidono più; oggi, chi più chi meno, sono cambiati e l’ideologia comunista si è «defilata»; quei Paesi si sono «aperti» all’Occidente e al benessere e il comunismo «convertito» al capitalismo non fa più paura.

    R. Pur non negando significativi addolcimenti del regime in Cina, nel Vietnam unificato, a Cuba e in altri Stati nel periodo successivo alla data dei tre rapporti, si può rispondere che l’addolcimento è stato graduale e ha conosciuto momenti di «alta» e di «bassa», e che nei secondi il «tasso criminogeno» del comunismo è stato indubbiamente tutt’altro che basso. Senza dimenticare che nell’operazione di dissoluzione delle classi «reazionarie» il «grosso» del lavoro era già stato svolto con successo; dunque restava ben poco da livellare e bastava solo ostacolare il fatale riprodursi delle disuguaglianze e delle gerarchie naturali.

    Se il sistema totalitario sovietico è imploso — o, comunque, ha mutato «pelle» — e, dunque, ci si trova di fronte a un nuovo regime, forse autoritario, ma per molti aspetti simile alle liberal-democrazie occidentali, nella Repubblica Popolare Cinese il partito controlla ancora totalmente la vita sociale di un 1,4 miliardi di uo­mini e di donne, sui quali gli esperimenti di ingegneria sociale, con i loro inevitabili «scarti di produzione», sono tutt’altro che terminati.

    Ed è un fatto che ancora oggi in Cina i campi di lavoro forzato, i Laogai, sono migliaia — 1.422 al 2008 — e si calcola che la popolazione in essi imprigionata assommi a circa 10 milioni di persone; i vescovi non-collaborazionisti scompaiono e riappaiono — magari dopo una o più decine di anni di lavoro forzato — a piacimento del regime; la politica demografica uccide non-nati e neo-nati a decine di migliaia; i credenti sono perseguitati e le etnie — 56 in totale — diverse da quella maggioritaria, la han, specialmente quella uigura, sono represse e discriminate. 

    Tutto ciò non può non avere, almeno indirettamente, un alto «costo umano». Il comunismo oggi non uccide più gli oppositori con il classico colpo di revolver alla nuca, ma non smette di produrre vittime: di certo non più con i ritmi degli anni 1920-1970, di cui fanno stato le decine di milioni di morti rilevati da Conquest e dai colleghi, ma l’essenza criminogena e illiberale dei regimi comunisti, dove il potere del partito non è controllato da alcuna istituzione superiore; dove le informazioni interne filtrano all’estero solo in maniera controllata e «distillata»; dove un cittadino può sparire senza che nessuno se ne accorga o se ne giustifichi la sparizione, continua a esistere e a «produrre» «costo umano».

    Infine, si obietta che i dati del rapporto Conquest e colleghi siano superati. Ed è vero: oggi, dopo la rimozione del Muro, la fine del­l’URSS e momenti di maggiore apertura del regime succeduto al comunismo in Russia — anche se per il Vietnam, la Cina e Cuba, tuttora comuniste per­mangono forti difficoltà ad elaborare calcoli precisi —, i dati che è possibile mettere insieme sono molti di più e decisamente più affidabili. Ma quello che è assolutamente certo è che i calcoli recenti ampliano di molto, non riducono, i risultati del rapporto americano degli anni 1970.

    D. Quali effetti ha avuto il rapporto sulla situazione politica di allora?

    R. Il peso è stato vicino allo zero. Negli Stati Uniti d’America il lavoro di Con­quest e compagni avrà diffusione in ambienti intellettuali e mediatici abbondantemente control­lati dai liberal e in piena e forsennata campagna delle sinistre di ogni tinta per la sconfitta americana in Vietnam del Sud, dunque sarà degnato solo di un’atten­zione fuggevole e sarà destinato al­l’oblio. 

    Non ho idea di quanto sia accaduto nei Paesi occidentali dopo la pubblicazione dei rapporti, ma non risultano a oggi edizioni in francese, in spagnolo o in tedesco. Pare quindi che la traduzione italiana, pur menomata, sia stata un unicum. Però anche da noi, nonostante il vantaggio della traduzione, il rapporto non avrà sorte migliore: qualche eco vi sarà nei minoritari — e allora ridotti alla semi-clandestinità dalla pressione socialcomunista — ambienti culturali e politici della destra nazionale — promotori dell’e­dizione —, ma anche lì sarà accolto come un déjà-vu o, comunque, con scarsa convinzione di farne uso adeguato.

    Eppure, forse sull’onda del successo elettorale anti-comunista del 1972 — sicuramente prodotto della reazione ai progressi dissolutori conseguiti dai movimenti rivoluzionari a partire dal 1969 —, il rapporto americano poté uscire nella collana di volumi che il settimanale «laico» di destra liberal-nazionale il Borghese — fondato da Leopol­do «Leo» Longanesi (1905-1957) e allora diretto da Gian­na Preda (pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi; 1921-1981) e dal sen. Mario Tedeschi (1924-1993), esponenti di una destra quanto meno di dubbia purezza dottrinale, ma dal forte e appuntito impegno anti-comunista — meritoriamente affian­ca­va alla rivista. 

    Possiamo chiederci tuttavia: perché solo in Italia? Per capirlo, è probabilmente sufficiente scorrere l’elenco degli autori e dei titoli della collana, alcuni, è doveroso dirlo, tutt’altro che di scarso valore. Ci si accorge così che alle spalle dell’iniziativa editoriale de il Borghese doveva esserci almeno qualche «aiutino» da parte degli ambienti diplomatici — per non dire di più — «atlantici». 

    Nel medesimo ambiente fiorivano anche altre piccole iniziative editoriali anti-comuniste. Per esempio, vi trovava diffusione, a partire dal 1967 e fino al 1975, il mensile Documenti sul comunismo, edizione italiana, curata dal vaticanista Emilio Cavaterra (1925-2014), del bimestrale francese Est&Ouest — promosso da Georges Albertini (1911-1983) e da Boris Souvarine (1895-1984), come B.E.I.P.I. (1949-1955) — che, fra il 1956 e il 1991 sarà una delle poche fonti d’informazione sul comunismo al di là del «sipario di ferro». La rivista, pubblicata a Parigi dall’Associa­tion d’Études et d’Informations Politiques Internationales, raccoglieva la voce di ambienti di esuli dell’emigrazione e del samizdat, l’auto-editoria clandestina diffusa dagli ambienti dell’opposizione dei Paesi dell’Est, nonché notizie e «suggerimenti» di qualche agenzia d’in­formazioni governativa. 

    Concludendo sul punto, che si sia trattato di un episodio, di una mossa reattiva in un contesto decisamente assai sfavorevole per la destra politica italiana, lo prova anche il fatto che dal 1973 a oggi Il costo umano del comunismo non è stato mai più riedito. L’ambiente che lo promosse a suo tempo, sia per ragioni storico-politiche, sia per ragioni anagrafiche, non c’è più, così come la destra in cui si inseriva si è diluita nel centro-destra degli anni berlusconiani, ha goduto di briciole di potere ma si è poi pressoché dissolta. Inoltre, la Guerra Fredda è finita e con essa le «strutture d’interesse» americane nel nostro Paese.

    D. Che senso ha riproporre oggi, a oltre quarant’anni di distanza e dopo i mutamenti subiti dall’orbe comunista, questa opera?

    R. Riparlarne serve per prima cosa a ricordare che il comunismo e la morte sono stati stretti sodali per decenni e non hanno ancora «divorziato» e, visto che il comunismo domina su quasi un miliardo e mezzo di nostri contemporanei, aiuta il nostro prossimo a tenerlo a mente.

    Poi, vale anche a dare un segnale: in Italia l’anti-comunismo non è morto. Non solo gli anti-comunisti ci sono ancora, ma ricordano tutto per filo e per segno. 

    Ricordano le montagne di cadaveri prodotte dall’«esperimento comunista» sulla pelle dei popoli, delle famiglie, delle nazioni, delle chiese, di miliardi di uomini e di donne, ricchi e, più spesso, povera gente. Rievocare e commemorare quei milioni di morti senza nome — anche se molti nomi sarebbe possibile fare e qualcuno ne è stato fatto — per i quali nessuno, né grande, né piccolo, dei loro carnefici materiali o morali ha mai pagato in alcuna forma. Morti che oggi ricevono qualche forma di onoranza in monumenti e musei solo nei Paesi europei usciti dal socialismo reale all’inizio degli anni 1990, ma che a livello globale vantano solo un dimesso — ancorché del tutto meritorio — memorial, eretto dalla Victims of Commun­ism Memorial Foundation, cioè da privati, collocato in una aiuola all’incrocio fra la Massachusetts Avenue e la New Jersey Avenue della capitale federale americana, inaugurato da George Walker Bush nel 2007. 

    Né dimenticano quelle centinaia di migliaia di cristiani anonimi, cattolici e ortodossi, protestanti e di altra confessione — ma anche islamici, Testimoni di Geova e buddisti —, uccisi per la loro fede, che costituirono lo zoccolo duro della resistenza al comunismo per decenni, in Europa e nel mondo, e che solo dal pontificato del polacco san Giovanni Paolo II (1978-2005) hanno cominciato a essere metaforicamente riesumati e beatificati.

    Gli anti-comunisti di oggi non credono affatto che il comunismo «sia finito», ma ritengono che continui sotto altre spoglie. E che, anzi, proprio grazie alla metamorfosi che ha attuato, almeno da noi, abbia ripreso quota e sia riuscito ad arrivare dove ancora non era arrivato, cioè nella «stanza dei bottoni», con il vecchio volto, sebbene addolcito dal fascino intellettuale del gramscismo e dal pauperismo della «austerità» berlingueriana, autentica parodia evangelica.

    Ovviamente si dirà che non ha più senso dire che forze politiche come il Partito Democratico odierno siano forze comuniste o post-comu­niste. Ed è vero, se si guarda alla sua composizione e ai sempre più incolori programmi. Ma ciò che è decisivo per riconoscere in forze politiche come quella evocata la «vecchia talpa» sempre al lavoro, sono i fini e, in parte, i metodi.

    Oggi i comunisti occidentali non indossano più i colbacchi rosso-stellati della CEKA, né portano al collo i fazzoletti rossi dei partigiani omicidi del «Triangolo Rosso» post-bellico: oggi non vogliono più imporre la dittatura del proletariato — anche perché il proletariato non c’è più… —, né vogliono la collettivizzazione integrale dell’esistenza, troppo povera e squallida, ma seguitano a coltivare il medesimo odio filosofico — «pensato» non più con le categorie della dialettica materialistica, ma con quelle del nichilismo post-moderno — per tutto ciò che vi è di stabile, di naturale e di sacrale nell’esistenza umana, da cui era animato il «vecchio» comunismo. E solo l’anti-comunismo «dottrinale» dei cattolici di ieri e di oggi può comprenderlo e diffidare, non certo l’anti-comuni­smo «democratico» che ho evocato più sopra.

    Gli anti-comunisti non ignorano neppure che, se i comunisti russi e occidentali hanno cambiato «ragione sociale», i comunisti «asiatici», an­ch’essi cambiati esteriormente, sono ancora lì, al potere, con le loro bandiere rosse e le gigantografie di Mao, imperturbabili, senza aver fornito la minima giustificazione per i milioni di cadaveri su cui si fonda il loro potere, ancora persua­si, nonostante i fiumi di sangue versato e la miriade di sofferenze inflitte al loro popolo, che il comunismo, magari non più quello «di guerra», ma quello «liberalizzato» e «capitalistico», sia un valido progetto per lo sviluppo dei popoli del mondo e per attuare la giustizia sociale.

    In conclusione, per non dimenticare che è esistita una ideologia e un movimento che hanno prodotto nella storia almeno cento milioni di morti e continuano a produrne dove sono al potere; per ricordare il dovere di condannarne la memoria e la realtà; per sottolineare l’esigenza di opporsi, oggi come un tempo, a qualunque riedizione, sotto qualsiasi forma e con qualsiasi metodica si presenti, del socialismo e del collettivismo; per opporsi a ogni realtà che incarni la medesima ispirazione gnostica e «per­fettistica» del comunismo e che voglia ripercorrere in altre forme lo stesso itinerario di schiavitù e di morte, in questo centenario della Rivoluzione di Ottobre e dell’inizio del dramma, abbiamo ripub­blicato Il costo umano del comunismo.

     

    Note:

    (1) Cfr. R. Conquest, Il grande terrore. Le «purghe» di Stalin negli anni Trenta, 1968, trad. it., Mondadori, Milano 1970. 


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    00 25/08/2018 12:08




    Negli anni Settanta del secolo scorso il movimento Khmer, capeggiato da Pol Pot, ha devastato la Cambogia causando oltre due milioni di morti, nell’indifferenza della comunità internazionale.


    Di Roberto Roggero


    Pol PotLa Cambogia, paese compreso tra golfo di Thailandia, il Laos e il Vietnam, ha una superficie di circa 182.000 chilometri quadrati. Ex colonia francese, il Paese è indipendente dal 9 novembre 1953. La popolazione attuale è di circa 10 milioni di abitanti, costituita da diversi gruppi etnici, principalmente Khmer (il 90%), mentre la religione dominante è il Buddhismo Theravada. Il territorio è quasi totalmente pianeggiante, eccetto alcune alture nel sud-ovest e nel nord, e le ricchezze naturali sono rappresentate principalmente da manganese, fosfati, miniere di pietre preziose, legname e da un notevole potenziale idroelettrico. La popolazione vive tuttavia in uno stato di estrema povertà, a causa della continua instabilità politica, del costante impoverimento della moneta e per le difficoltà nell’usufruire di aiuti umanitari internazionali. Le infrastrutture come la rete stradale (poco più di 600 chilometri, oltre a 13.000 di autostrade e 3700 di vie fluviali interne), ponti, centrali idroelettriche e aeroporti, non essendo sottoposti a lavori di manutenzione rischiano il completo degrado e la dismissione. L’economia cambogiana si regge principalmente sull’agricoltura, praticata dal 90% della popolazione.

    Oltre due milioni di vittime

    La Cambogia è conosciuta principalmente per le tragiche vicende legate al periodo della dittatura del leader marxista Pol Pot che eliminò da 1,5 a 2 milioni di suoi compatrioti, quasi il 25% dell’intera popolazione cambogiana. Una delle prove di questo eccidio è rappresentato da uno dei tanti campi di sterminio creati dal despota, noto con il N. 8985, situato nei pressi di Choeung Ek, a 15 chilometri dalla capitale Phnon Penh, dove nei primi anni Ottanta sono stati riesumati centinaia di migliaia di resti umani, fra cui oltre ottomila teschi, molti dei quali spaccati (per risparmiare munizioni, i Khmer Rossi (Khmaey Krahom) di Pol Pot erano soliti eliminare le loro vittime con bastoni o machete). Ai margini dei campi, ancora oggi sorgono baraccopoli dove vivono migliaia di persone che hanno perso le famiglie, dove istruzione e diritti umani sono concetti totalmente aleatori, dove dilaga la criminalità e lo sfruttamento della manodopera.
    Ma chi era Po Pot? Saloth Sar (questo era il suo vero nome), futuro leader dei Khmer, nasce il 25 maggio 1925 in un villaggio a circa 150 chilometri dalla capitale, allora parte della colonia francese dell’Indocina. A sei anni è mandato a vivere presso il fratello maggiore al collegio Royal Household di Phnon Penh, dove studia i precetti del Buddhismo. Due anni più tardi, egli frequenta la Scuola Elementare Cattolica, apprendendo i concetti della cultura occidentale e la lingua francese. Nel 1949, è a Parigi in una scuola statale, dove viene a contatto con le sinistre europee, e si iscrive al Partito Comunista Francese. Dopo altri quattro anni, nel 1953, fatta propria l’ideologia marxista-stalinista, torna in Cambogia e in breve tempo diventa un personaggio di primo piano del Partito Comunista Indocinese che, a quel tempo, faceva capo al movimento Viet Minh.
    Nel frattempo, la sconfitta francese in Indocina del 1954 divide il Vietnam in due: il Nord comunista sostenuto dalla Cina, e il Sud vicino all’Occidente e sostenuto dagli Stati Uniti. Nello stesso anno, le elezioni in Cambogia vedono il Partito Comunista alleato dei democratici, pesantemente sconfitti. Il principe Sihanouk assume poteri assoluti. In questo periodo il comunista Pol Pot svolge mansioni di insegnante in una scuola privata e, nel contempo, cerca di fare proseliti tra i membri della classe intellettuale. Attività che alla fine lo costringe alla clandestinità. Si rifugia nella giungla, vicino al confine vietnamita, dove rimane sette anni, organizzando un’armata clandestina e allacciando contatti con le forze nord vietnamite. Nel 1964, le truppe americane sbarcano in Vietnam in appoggio al regime di Saigon e, dopo un primo periodo di neutralità, garantita dal principe Sihanouk, anche la Cambogia viene coinvolta negli eventi. I Vietcong utilizzano i porti della costa come basi militari e logistiche, e per reazione l’esercito americano entra anch’esso in Cambogia, i cui obiettivi, per i successivi quattro anni, verranno martellati dai bombardieri pesanti B52 che causeranno la morte di oltre 750.000 persone.
    Nel 1970, un colpo di stato, organizzato e finanziato dalla CIA, destituisce il principe Norodom Sihanouk, costretto ad unirsi alla guerriglia e a cercare un accordo con il suo antico nemico Pol Pot, mentre il potere è affidato al generale Lon Nol. La situazione sfocia nella guerra civile. Lo stesso anno, in seguito alla penetrazione di forze nord viet, le truppe americane entrano anch’esse in Cambogia per fare fronte al nemico che riesce ad unirsi alle forze rivelli dei Khmer Rossi. A questo punto, il governo militare cambogiano, corrotto e incompetente, perde anche il sostegno economico e militare statunitense, e Pol Pot ne approfitta per marciare su Phnon Penh. La data fatidica è il 17 aprile 1975, quando i Khmer Rossi entrano nella capitale e migliaia di cittadini si riversano per le strade, in realtà, più che per inneggiare al movimento di Pol Pot, per festeggiare la fine della guerra civile durata oltre cinque anni.
    In brevissimo tempo, però, l’euforia si trasforma in terrore. I soldati Khmer prendono possesso dei punti nevralgici della città, intimando alla popolazione di abbandonare immediatamente le proprie abitazioni. A chi chiede il motivo di tale provvedimento viene risposto che gli americani stanno pianificando attacchi aerei su Phnon Penh, menzogna ben architettata applicata a tutte le maggiori città del paese. Chi rifiuta l’ordine, chi non obbedisce istantaneamente, o agisce troppo lentamente, viene ucciso sul posto. Centinaia di migliaia di persone formano quindi lunghe colonne dirette fuori città verso un’area prescelta dai Kkmer per la raccolta.
    Inizia il periodo più agghiacciante della storia cambogiana. Pol Pot, che vuole instaurare una repubblica comunista nel senso più totalitario del termine, basata unicamente su fattorie cooperative e sull’abolizione della vita nelle città, avvia un esperimento rivoluzionario ispirato in parte alla rivoluzione culturale attuata da Mao in Cina, paese con il quale, tra l’altro, stabilisce rapporti diretti. Fra i primi provvedimenti del nuovo dispotico e folle regime, l’espulsione degli stranieri, la chiusura di tutte le ambasciate, il rifiuto di ricevere aiuti internazionale, la chiusura dei luoghi di culto, la proibizione di parlare lingue al di fuori del dialetto Khmer, la chiusura di tutti i giornali, le televisioni e le radio; la confisca di tutti i beni e mezzi di trasporto privati, la cessazione dei servizi postali e telefonici e di quasi tutti i servizi pubblici. E, naturalmente, l’eliminazione fisica di tutti gli appartenenti al vecchio stato ed esercito nazionali. Secondo le stime dei ricercatori dell’Università di Yale, durante il periodo della sua dittatura, Pol Pot eliminò 1,7 milioni di concittadini, mentre Amnesty International e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti fanno ammontare la cifra, rispettivamente a 1,4 e 1,2 milioni. Lo stesso Pol Pot, dal quale era lecito attendersi sottostime, dichiarò di avere eliminato 1 milione 800.000 ‘reazionari borghesi’, compresi donne, vecchi e bambini. Gli unici cambogiani che hanno diritto a vivere sono i contadini, mentre intellettuali, insegnanti, religiosi, impiegati, artigiani e commercianti, in quanto appartenenti al vecchio regime e quindi potenziali nemici del nuovo comunismo- agricolo di Pol Pot vengono liquidati. Anche il semplice fatto di portare gli occhiali viene visto come indice di una cultura avversa. In base all’emanazione di nuove, deliranti leggi, vengono messi fuorilegge il denaro, la proprietà privata, la religione, qualunque collegamento con il mondo esterno e persino qualsiasi tipo di relazione affettiva all’interno delle famiglie considerate nuclei ‘borghesi’. Le città vengono maledette e abbandonate in quanto simboli del capitalismo. L’ormai desolata Phnon Penh viene ribattezzata “la grande prostituta del Mekong”. La nuova capitale di quella che si sarebbe chiamata ufficialmente Repubblica Kampuchea, viene spostata ad Angka, centro noto per i suoi templi del XII secolo.
    Agli abitanti delle zone sottoposte al governo dei Khmer Rossi veniva imposto di venerare in maniera fanatica e pseudo-religiosa l’onnipresente ma impalpabile entità Angka o Angkar Padevat, cioè Organizzazione Rivoluzionaria, (rappresentazione pesudo metafisica del Partito Comunista di Kampuchea, i cui membri peraltro in molti casi non erano noti al popolo), infallibile depositaria della giustizia e responsabile della sua esecuzione, della sorveglianza e della difesa del popolo cambogiano, nonché unico oggetto di amore consentito alle persone. Nel ‘sistema’ Khmer non esisteva alcun riferimento al Partito o ai suoi leader, i quali non venivano mai nominati direttamente, ma indicati come Fratelli e distinti tramite un numero cardinale. Con il loro fervore quasi mistico e i loro culti (in contraddizione con la cultura razionalista sulla quale si fonda il marxismo) avevano molti tratti in comune con la dottrina nord coreana Juche.
    Nel frattempo vengono allestiti i campi della morte, dove centinaia di migliaia di persone vivono in schiavitù. Oltre ai cambogiani, vi vengono rinchiusi vietnamiti, thailandesi, circa ottomila cristiani, musulmani Chams e altri venti gruppi etnici. Le guardie Khmer, spesso poco più che bambini, esercitano diritto di vita e di morte su chiunque. Almeno il 50% dei circa 425.000 cinesi residenti in Cambogia vengono, e i musulmani che rifiutano di mangiare carne di maiale sono uccisi dalle guardie Khmer a colpi di ascia.
    Nel tristemente famoso centro di detenzione S-21 o alla scuola di Tuol Sleng, trasformata in quartier generale della polizia Khmer (oggi Museo del Genocidio nella capitale) sono torturate oltre 40mila persone, senza distinzione fra uomini, donne, anziani e anche bambini.
    Nel 1978 l’esercito vietnamita, sostenuto economicamente dall’URSS, entra in Cambogia e la guerra si allarga a tutto il paese, specialmente nelle giungle occidentali ai confini con la Thailandia, dove Pol Pot combatte alla testa di circa 40.000 uomini e con gli aiuti della CIA, che, per le esigenze della Guerra Fredda, ha l’obiettivo di portare la Cambogia nelle Nazioni Unite. Segue una lunga guerra che, dopo aver causato oltre 65.000 vittime, nel 1989, termina con il ritiro dalla Kampuchea dell’esercito vietnamita. Subito dopo la cessazione delle ostilità, la Kampuchea viene ribattezzata Cambogia e il nuovo governo provvisorio ripristina, almeno in parte, i diritti cancellati dai Khmer. Anche il Buddhismo viene reintrodotto come religione ufficiale. Ma Pol Pot si rifiuta di cooperare nel processo di pace, e continua a combattere il nuovo governo di coalizione. I Khmer Rossi riescono a tenere in scacco le forze governative fino al 1996, quando le truppe, ormai demoralizzate, iniziarono a disertare. Per nulla intenzionato a cedere, nel 1997, Pol Pot fa fuori il suo braccio destro di sempre, Son Sen, che voleva giungere ad un accordo con il governo, ma poi egli stesso venne arrestato dal capo militare dei Khmer Rossi, Ta Mok, e condannato agli arresti domiciliari per il resto della vita. Nell’aprile 1998, Ta Mok fugge nuovamente nella foresta a seguito di un attacco dei governativi e porta Pol Pot con sé. Ma pochi giorni dopo, il 15 aprile, Pol Pot muore, probabilmente a causa di un attacco cardiaco.

    https://www.riscossacristiana.it/il-genocidio-cambogiano/


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    00 25/08/2018 12:14

    da Storia e Chiesa

     

    Cosa pensava Hitler della Chiesa cattolica? Andiamo alle fonti.

    Partiamo dal celeberrimo Mein Kampf. Qui si possono rintracciare almeno due idee interessanti: la Chiesa cattolica è, per il futuro dittatore della Germania, “in conflitto con le scienze esatte e con l’indagine scientifica”, mentre il cristianesimo si è imposto grazie ad una “fanatica intolleranza”. “Oggi il singolo deve constatare con dolore, scrive Hitler, che nel mondo antico, assai più libero del moderno, comparve col cristianesimo il primo terrore spirituale” (Adolf Hitler, Mein Kampf, Ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1990, p. 111, 105, 106).

    Quest’idea la troviamo assai diffusa in tutta la politica del primo Novecento. Anche il giovane Mussolini, ancora socialista, sostiene che la Chiesa è oscurantista e intollerante. Analoghi pensieri li troviamo espressi negli scritti di Lenin e Stalin, nei medesimi anni.

    Adolf Hitler ritorna sul cristianesimo, più e più volte, nel corso dei suoi Discorsi a tavola, con i gerarchi nazionalsocialisti, tra il 1941 e il 1944. Andiamo ancora ai testi originali, trascritti e ordinati dal gerarca nazista Martin Bormann.

    La sera dell’11 luglio 1941 Hitler afferma: “Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto è l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del cristianesimo. L’uno e l’altro sono una invenzione degli Ebrei. E’ dal cristianesimo che la menzogna cosciente in fatto di religione è stata introdotta nel mondo. Si tratta di una menzogna della stessa natura di quella che pratica il bolscevismo quando pretende di apportare la libertà agli uomini, mentre in realtà vuol far di loro solo degli schiavi… Il cristianesimo è stata la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore. Il suo segno è l’intolleranza” (Adolf Hitler, Conversazioni a tavola di Hitler, Goriziana, Gorizia, 2010, p. 45).

    Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1942 Hitler afferma: “Il cristianesimo (a differenza delle religioni animiste pagane, ndr) promulga i suoi dogmi con la forza. Una simile religione porta con sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinose”. Subito dopo parla dell’osservatorio astronomico che sta facendo costruire a Linz, per combattere l’ignoranza scientifica (idem, p. 308). Il 9 aprile 1942, nel pieno dei massacri di cui è colpevole, afferma: “La Chiesa si è piegata alla necessità di imporre il suo codice morale con la massima brutalità. Non ha indietreggiato neppure dinnanzi alla minaccia di rogo, dando alle fiamme, a migliaia, uomini di grande valore. La nostra società attuale è più umana di quanto non lo sia mai stata la Chiesa” (idem, p. 389).

    Ai cristiani e alla Chiesa, nelle 680 pagine dei Discorsi,  Hitler imputa almeno le seguenti colpe: di aver incendiato Roma all’epoca di Nerone; di aver rovinato l’impero romano; di aver distrutto biblioteche e testi antichi; di aver torturato i nemici; di aver bruciato milioni di streghe; di aver negato “le gioie dei sensi”; di instillare una “ribellione contro la natura, una protesta contro la natura” (promuovendo il matrimonio monogamico e indissolubile…; di privilegiare i malformati e i malriusciti, i poveri e gli ignoranti; di proporre un “paradiso insipido”, tutto canti e alleluia; di minacciare la gente con l’inferno (Hitler non ci credeva proprio, ad un giudizio finale; di basarsi su una “storia puerile”, “invenzione di cervelli malati”, che inventa un Dio personale che non esiste, l’assurdità della resurrezione, e un “preteso aldilà” che negherebbe importanza alla vita terrena…

    Riguardo ai preti essi sono “ripugnanti”, “perversi” e i missionari “gli ultimi dei maiali”, mentre la Chiesa in generale “non ha che un desiderio: la nostra rovina”. Ma non c’è alcuna dubbio: “La nostra epoca vedrà indubbiamente la fine della malattia cristiana” (p. 326).

    Quanto al rapporto tra scienza e fede il pensiero già espresso nel Mein Kampf ritorna anch’esso, insistentemente. La sera del 24 ottobre 1941: “la religione è in perpetuo conflitto con lo spirito di ricerca. L’opposizione della Chiesa alla scienza fu talvolta così violenta da sprizzare scintille”, tanto che oggi l’Evoluzione è in contrasto con la credenza puerile nella Creazione (idem, p. 110). Il mondo antico, pre-cristiano, invece, “amava la chiarezza. La ricerca scientifica vi veniva incoraggiata” (idem, p. 301).

    Cosa intende Hitler per “scienza”? All’epoca, non solo per lui, sono “scientifici” l’eugenetica (con i suoi corollari: eutanasia di persone malate e aborti di bambini malformati o nati da matrimoni misti), il razzismo (i nazisti ritenevano di avere dalla loro la biologia e l’evoluzionismo, nella sua versione materialista), e la produzione di bambini tramite gli accoppiamenti stabiliti dal regime, tra ariani e ariane certificati. Con annessa nascita di migliaia di bambini senza genitori.