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Il finale del vangelo di Marco (Mc. 16:9-20)


Analisi lessicale del finale Mc. 16:9-20

Introduzione


Il vangelo di Marco che oggi conosciamo termina con il brano da 16:9 a 16:20. Senza di esso il vangelo si concluderebbe con il racconto della visita di Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome alla tomba di Gesù e l’annuncio della risurrezione dato da un “giovane vestito d’una veste bianca” – probabilmente un angelo – alle tre donne, senza alcun cenno alle apparizioni di Gesù agli apostoli, che sarebbero una “prova” concreta, almeno da un punto di vista letterario, della risurrezione. Dopo la sorpresa della tomba trovata vuota, segue il passo (che chiude il vangelo):

Mc. 16:9-20 – [9] Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni. [10] Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto. [11] Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere. [12] Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. [13] Anch'essi ritornarono ad annunziarlo agli altri; ma neanche a loro vollero credere. [14] Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato. [15] Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. [16] Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. [17] E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, [18] prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno». [19] Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. [20] Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano. [da: Bibbia trad. C.E.I., 1974, ristampa del 1983]



La Bibbia edizione C.E.I. riporta come nota al versetto 16:9 che “i vv. 9-20 sono un supplemento aggiunto in seguito per riassumere rapidamente le apparizioni”. Per quale motivo si è sentita l’esigenza di introdurre questa nota che mette in dubbio il fatto che il brano 16:9-20 debba essere considerato autentico? Il motivo è che i due manoscritti più antichi e testualmente più autorevoli che riportano questo passo di Marco sono il Codex Vaticanus (B) e il Codex Sinaiticus (א), entrambi databili al IV secolo, e nessuno di questi di questi riporta il passo in questione, concludendosi con le ultime parole di Mc. 16:8. Quasi tutti gli altri documenti successivi, invece, riportano un qualche tipo di finale a seguire il versetto 16:8, ma contro l'autenticità del finale che oggi ci è noto un ruolo determinante è giocato dalla lacuna nei due documenti completi più autorevoli del Nuovo Testamento.



B e א non riportano Marco 16:9-20





Il Codex Vaticanus (325 d.C. circa) non riporta Marco 16:9-20. Dopo Marco 16:8 però lo scriba ha lasciato uno spazio vuoto prima dell’inizio del versetto successivo, che è direttamente Luca 1:1. Questo spazio “bianco” corrisponde ad un’intera colonna di scrittura del codice, Luca 1:1 inizia in una nuova pagina del manoscritto. Se si considera che in nessun altro punto del Codex Vaticanus è stato lasciato un simile spazio vuoto con proporzioni così estese [1] e che non era usuale a quei tempi sprecare così il materiale scrittorio, si può avanzare l’ipotesi che il copista che produsse il Codex Vaticanus fosse consapevole dell’esistenza di un testo aggiuntivo dopo Marco 16:8 o che esistevano versioni del vangelo di Marco che contenevano le apparizioni. Forse il manoscritto “sorgente” dal quale lo scriba stava copiando non conteneva il passo ma il copista decise di lasciare uno spazio vuoto preoccupandosi di risolvere successivamente il problema, cosa che poi non fece. E’ stato osservato che lo spazio vuoto lasciato, pari a poco più di una colonna, risulta comunque insufficiente per contenere tutto il passo conclusivo di Marco esattamente come lo leggiamo oggi, tenendo conto delle caratteristiche e dello stile di scrittura del Codex Vaticanus. Infatti l'ampiezza delle colonne del Codice Vaticano è di circa 42 linee, mentre ogni linea contiene mediamente 16 caratteri, quindi lo spazio disponibile in una colonna risulta pari a 42 ´ 16 = 672 caratteri ed è adatto ad ospitare soltanto il 58% della porzione mancante del vangelo di Marco, che richiede ben 1.157 caratteri [2]. Nei links sottostanti è possibile scaricare la pagina con cui si conclude il vangelo di Marco nel Codice Vaticano B. Si noti che Marco si chiude con le parole ™foboànto g£r ("poiché avevano paura"), corrispondenti alla fine del v. Mc 16:8.



Finale di Marco Codice Vaticano B (PDF 35 KB)



Immagine a colori del passaggio Mc 16:8 - Lc 1:1 (JPEG 448 KB)



Nel Codex Sinaiticus (370 d.C. circa) notiamo ancora un fatto curioso. Quattro pagine del codice tra la fine di Marco e l’inizio di Luca sono state tolte, strappate dal manoscritto originale e sostituite con altre quattro pagine dove risulta diversa la calligrafia dello scriba, leggermente più stretta, forse da chi visionava il lavoro del copista del codice ed aveva commissionato la copia. In particolare sono stati riscritti i versetti da Mc 14:54 a Lc 1:56. La situazione può essere visualizzata nel sottostante link che riporta le pagine in questione del manoscritto.



Passaggio da Marco a Luca nel Codice Sinaitico (PDF 448 KB)



Per quale motivo queste quattro pagine sono state tolte e sostituite con altre quattro pagine? Sicuramente non per aggiungere nel codice il finale del vangelo di Marco, che non è comunque presente nel testo “sostitutivo” o “aggiunto”: anche qui il vangelo di Marco termina al v. 16:8 con le parole ™foboànto g£r. Inoltre una analisi del testo delle sedici colonne sostituite (il Codex Sinaiticus – ricordiamo – è organizzato su quattro colonne per pagina) mostra che il passo Mc 16:9-20 non è inseribile nel contesto in base alle caratteristiche di chi ha scritto il documento originario, quindi non poteva essere presente neppure nel testo originale del Sinaiticus, almeno non nella forma oggi a noi nota. E’ possibile che chi doveva controllare il testo si sia accorto che in qualche punto del documento, nella parte finale di Marco oppure in quella iniziale di Luca, per un errore del copista siano venuti a mancare uno o più versetti, quindi abbia deciso di sistemare il testo, rimpiazzando un intero foglio del codice, che viene a costituire proprio quattro pagine. Osserviamo inoltre che verso la fine della quarta colonna del foglio “sostitutivo” curiosamente la scrittura si fa sempre più ravvicinata e stretta, come se chi doveva correggere il testo si fosse accorto che mancava una grossa parte nel testo originario e avesse deciso di inserirla brutalmente, alterando la propria calligrafia e stringendo prepotentemente le lettere: è stato calcolato che se il “correttore” (utilizziamo questo termine per riferirci a chi ha tolto le quattro pagine originarie del codice e le ha sostituite con quattro pagine “nuove”) avesse continuato a scrivere sino alla fine dell’ultima pagina in questo modo, allora Mc 16:9-20 così come lo leggiamo oggi, probabilmente avrebbe potuto essere inserito nel foglio. Ma misteriosamente il “correttore” non inserisce Marco 16:9-20 e dall’inizio della quinta colonna inserita riprende a scrivere con la usuale grafia, meno stretta. Non possiamo dire che la mancanza del finale in questo codice sia una vera e propria omissione perché le pagine originali di fatto mancano e sono state sostituite così che non sappiamo cosa vi era scritto.





Altri manoscritti che non attestano Marco 16:9-20





Oltre agli autorevoli (da un punto di vista testuale) codici Vaticano (B) e Sinaitico (א), omette totalmente l'attuale Mc. 16:9-20 anche il codice 304, un manoscritto in minuscolo del XII sec. conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Questi tre sono gli unici codici greci che omettono qualunque tipo di finale dopo Mc. 16:8. Il codice 304 ha una caratteristica particolare (cfr. M. Robinson): il testo dei vangeli è inframmezzato da brani catalogabili come “commentario”, dopo il versetto 16:8, che termina con ™foboànto g£r, vi è un segno dal quale si evince che inizia un lungo brano del commentario costituito da un riassunto dei finali presenti negli altri vangeli, con citazioni da essi. A un certo punto il commentario inizia a descrivere le differenze tra il finale di Marco e quello degli altri vangeli ma sfortunatamente manca la conclusione del brano che è andata perduta quindi non si sa se il testo proseguisse con un tipo di finale anche per Marco o meno. E’ molto probabile, comunque, che il testo di 304 non contenesse il finale.



Tra le traduzioni dal greco non riportano alcun tipo di finale vi è poi la versione siro-sinaitica (Sy-S, un palinsesto della fine del IV sec.), la versione copto-shaidica (Co-S, del III-IV sec.), alcuni manoscritti delle versioni armene e georgiane databili al V secolo.



Il Codex Vercellensis (detto codice a, IV secolo, scritto in latino) contiene il finale Marco 16:9-20 ma è fortemente interpolato e sembra essere una aggiunta posteriore. Alcuni sostengono che il finale non fosse originariamente presente ma altri studiosi non lo considerano un testimone utilizzabile per stabilire se il finale fosse presente o meno. Anche il papiro di Chester Beatty P45 (200-250 d.C.) purtroppo non può essere di alcun aiuto in quanto è molto danneggiato e purtroppo l’eventuale passaggio Mc 16:9-20 non si è conservato.





La variante breve





Esiste poi un manoscritto in latino, il Codex Bobiensis (o codice k, IV-V secolo d.C., successivo ai codici Vaticano e Sinaitico) che riporta una variante breve del testo oggi noto. Il vangelo in questa versione si conclude dopo Mc. 16:8 con:



Mc. 16:9 (k) - Esse [Maria di Giacomo, Maria di Magdala e Salome] annunziarono brevemente ai compagni di Pietro quanto era stato loro detto [dall’angelo trovato seduto nel sepolcro di Gesù]. Dopo ciò lo stesso Gesù mandò avanti per mezzo di loro dall’oriente fino all’occidente il messaggio sacro e incorruttibile della salvezza eterna.



Questo manoscritto, tuttavia, oltre che essere con ogni probabilità più recente rispetto ai due codici che omettono il finale “classico” di Marco, non sembra essere molto affidabile. In particolare dove oggi leggiamo il cap. 16 di Marco il codice riporta invece una interpolazione che sembra avere punti in comune con un passo di uno scritto apocrifo, il “vangelo di Pietro”. La variante breve conclude quindi il vangelo di Marco con le donne che raccontano l’episodio della tomba trovata vuota a Pietro e agli Apostoli e quanto detto loro dall’angelo, mentre nel testo oggi noto è scritto “E non dissero niente a nessuno perché avevano paura.” (cfr. Mc 16:8) dunque secondo la versione odierna gli Apostoli non vennero affatto informati.



Alcuni manoscritti come L, Y, 099, 579, 1112, ecc... riportano sia il finale attuale, combinato con la variante breve di k, inserita prima o dopo il finale odierno.







La variante lunga (W)





Se il Codex Bobiensis è un esempio di variante breve del passo in questione, il Codice W di Washinghton (detto anche codice di Freer) del IV-V secolo contiene invece una variante lunga in quanto riporta un tipo di finale contenente una espansione rispetto al finale oggi noto. In questo codice, difatti, oltre ai vv. Mc. 16:9-20, ad integrazione del v. 16:14, in cui Gesù rimprovera i discepoli che non avevano creduto alle apparizioni a Maria di Magdala e ai due viaggiatori, vi è la seguente inserzione:



Mc. 16:14 (aggiunta di W) - Essi si difesero dicendo: "Questa epoca di iniquità e mancanza di fede è sotto satana che non permette a coloro che sono sotto gli spiriti immondi di raggiungere la verità e la potenza di Dio. Dopo ciò, rivela la tua giustizia ora." (Così) quelli dicevano al Cristo. E il Cristo rispose loro: "Si è compiuto il limite degli anni dell'autorità di satana ma dell'altro è vicino. Io fui consegnato alla morte per coloro che hanno peccato affinché si volgano alla verità e non pecchino più. Affinché ricevano la gloria della giustizia spirituale ed eterna del cielo."



Questa variante “lunga” del v. Mc. 16:14 è testimoniata solo in W, quindi si può considerare una interpolazione, come del resto dimostra l'elevato numero di hapax legomena e di costruzioni estranee al resto del vangelo che si riscontra in essa, rendendola estranea per stile e lessico al resto del vangelo secondo Marco.







Riassunto delle varianti



Non riportano il finale: B, א , 304, Sy-S, Co-S, arm., geo.; sospetto: a

Solo variante breve: k

Solo variante lunga: W



I testimoni manoscritti “contrari” alla presenza di Marco 16:9-20 sono come visto antichi e soprattutto testualmente molto autorevoli (in particolare B ed א) e non solo per la data di stesura ma anche per la loro “qualità testuale” intrinseca: entrambi B ed א appartengono alla famiglia alessandrina o neutrale che è considerata dalla critica testuale la classe più affidabile. Esistono comunque tantissimi altri documenti – in pratica la stragrande maggioranza dei manoscritti noti, circa 1800, ai quali vanno aggiunti tutti i lezionari – che invece riportano il finale “classico” oggi a noi noto. Si può dire, anzi, che numericamente la quasi totalità dei manoscritti che ci sono pervenuti riportano il finale “classico”. Per esempio il Codex Alexandrinus (V secolo), il Codex Bezae Cantabrigensis (metà o fine del V secolo) o il Codex Ephraemi Rescriptus (metà o fine del V secolo) riportano tutti il finale più o meno come lo conosciamo oggi. Tuttavia tutti questi codici contenenti il finale “classico” sono cronologicamente successivi al Vaticanus e al Sinaiticus, anche se non di molto: essi devono comunque aver avuto delle “sorgenti” che contenevano il passo in questione, sorgenti che si vengono a collocare temporalmente vicino – se non prima – all’epoca in cui sono stati scritti il Codex Vaticanus ed il Codex Sinaiticus.



Nel valutare questa omissione pesa molto un argomento di critica testuale esterna: se il copista aveva a disposizione manoscritti più antichi comprendenti il noto finale, perché egli lo avrebbe omesso? Una delle regole della critica testuale (almeno secondo il modello di Westcott ed Hort) è che in genere nel processo di filiazione dei manoscritti si tende ad aumentare il materiale letterario piuttosto che ometterlo, inoltre uno scriba non produce mai un lavoro che sia contrario alla propria dottrina e omettere il passo di Marco che racconta le apparizioni, qualora sia disponibile, è evidentemente contrario agli interessi del cristianesimo e dei copisti.





Citazioni dei padri della Chiesa





Di particolare interesse sono le citazioni di questo passo da parte dei padri della Chiesa. A questo proposito è stato osservato che due padri della Chiesa autorevoli come Origene (185-250 d.C. circa) e Clemente di Alessandria (150-215 d.C. circa) non hanno mai citato nelle loro opere alcuna frase proveniente da Marco 16:9-20, neppure sotto forma di allusione, come se ai loro tempi appunto questo passo non esistesse. D’altra parte a questa tesi si può contrapporre il fatto che Origene in generale non è mai stato molto propenso a citare il vangelo di Marco mentre Clemente di Alessandria non ha mai citato nelle sue opere, oltre che il finale di Marco, neppure il finale di Matteo (Cap. 28) e tuttavia non è una mancata citazione di Clemente di Alessandria che può eventualmente mettere in discussione l’autenticità del finale del vangelo di Matteo. L'argomentazione ad silentium, infatti, va utilizzata con estrema cautela: se un autore non cita un determinato passaggio, non è detto che esso non esistesse nel momento in cui egli scriveva. Oltretutto pare che in un punto del Contra Celsum (cfr. VII, 17) Origene faccia implicitamente riferimento a Marco 16:18, anche se non si tratta di una citazione diretta. Il fatto che Origene e Clemente di Alessandria non citino mai direttamente alcun passo tratto da Marco 16:9-20 potrebbe quindi essere casuale.



Nel IV secolo Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa), vissuto dopo Origene e Clemente di Alessandria, attesta però che in quel periodo circolano effettivamente copie del vangelo di Marco prive del finale accanto a copie contenenti il finale “classico”. Nello scritto Ad Marinum Eusebio risponde su alcune questioni che gli vengono poste relativamente alle discrepanze sui racconti delle apparizioni dopo la risurrezione nei vangeli. Eusebio, soffermandosi sulle differenze tra Matteo (Cap. 28) e Marco (Cap. 16) afferma che la questione potrebbe essere risolta osservando da un lato che esistono copie di Marco prive del finale (che conseguentemente non contrastano con Matteo) e d’altra parte egli considera autentici entrambi i racconti di Matteo e Marco e quindi dovrebbero essere entrambi accettati e integrati (armonizzati?) tra loro. Quello che è importante è che Eusebio fotografa la situazione al suo tempo e segnala che nel IV secolo esistono copie con il noto finale ma anche molte copie che lo omettono. Inoltre dal tipo di risposta sembrerebbe che a quel tempo le differenze tra il finale di Marco e quello di Matteo fossero davvero grandi, tanto da invocare una armonizzazione per renderle concordi. Origene comunque non sembra affermare che, dal suo punto di vista, il finale presente in Marco a lui noto nel IV secolo è falso.



Anche San Girolamo (340-420 d.C. circa), l’autore della Vulgata latina (la traduzione in latino della Bibbia), nel V secolo testimonia a favore della non autenticità del finale di Marco 16:9-20. Dobbiamo però osservare che proprio la Vulgata latina contiene questi versetti. Inoltre questa affermazione è contenuta in una lettera (Ad Hedibiam, 120) di San Girolamo che sembra più che altro essere una citazione dei temi proposti da Eusebio nell’Ad Marinum piuttosto che non una argomentazione originale, in quanto le tesi sostenute sono sostanzialmente le stesse di Eusebio, e sostanzialmente negli stessi termini.



Sono sufficienti queste autorevoli citazioni per concludere che certamente nel vangelo di Marco non esisteva alcun finale riconducibile a quello attuale?



Gli studiosi hanno osservato che Giustino Martire (100-165 d.C. circa), uno dei primissimi padri della Chiesa, antecedente Origene, Eusebio e San Girolamo, scrisse che gli Apostoli “partendo da Gerusalemme predicarono dappertutto” (cfr. Apologia I, 45, 5). Questa sembra una citazione diretta di Marco 16:20: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano”. Tra l’altro sia Giustino che Marco utilizzano entrambi la parola greca pantacoà che non è molto comune. Possibile quindi che Giustino abbia preso spunto dal finale di Marco 16:9-20?



Ireneo di Lione (140-202 d.C. circa) ci fornisce una testimonianza diretta molto importante sulla esistenza del passo di Marco 16:19 in tempi relativamente molto antichi. Nello scritto “Contro le eresie” – in latino Adversus Haereses – leggiamo infatti ad un certo punto:



“Inoltre Marco verso la conclusione del suo vangelo dice: Gesù dopo aver parlato loro salì al cielo e sedette alla destra del Padre” (Ireneo, Adverus Haereses, libro III, 10:5-6)



Ireneo cita direttamente Marco 16:19, con un linguaggio veramente molto simile a quello che compare oggi nel vangelo: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio” [Marco 16:19]. Ireneo scrive nella seconda metà del II secolo, prima del Codex Vaticanus, del Codex Sinaiticus (manoscritti che sono del III-IV secolo), prima di Eusebio di Cesarea e prima persino di Origene e di Clemente di Alessandria.



Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl., 3.39.9) ha scritto poi che Papia di Gerapoli (vissuto nel periodo 70-150 d.C. circa) scrisse in un suo lavoro (oggi andato perduto) che Giuseppe “Giusto” Barsabba (personaggio citato anche in Atti 1:23) bevve del veleno e non morì. Ora, in Marco 16:18 leggiamo: “prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno”. Possibile che ai tempi di Papia fosse noto l’attuale finale del vangelo di Marco e che Papia di Gerapoli si fosse ispirato a quei versetti? Sottolineiamo che questa citazione di Papia proviene comunque da uno scritto di Eusebio di Cesarea (IV secolo) e non da un documento originale attribuibile a Papia.



Si potrebbero riportare anche altri passi di autori molto antichi, sebbene successivi a Papia di Gerapoli, Ireneo di Lione e Giustino Martire, citazioni che sembrano testimoniare in favore della esistenza di Marco 16:9-20 così come lo conosciamo oggi. Certo è sempre possibile sostenere che in origine il vangelo non contenesse affatto l’attuale finale, che sarebbe stato costruito a tavolino o “armonizzato” da qualcuno utilizzando materiale dei primi padri (Giustino e Papia, ad esempio); questa teoria non spiega però la citazione diretta di Ireneo di Lione, che si riferisce direttamente a Marco.



Se veramente i padri del II secolo hanno citato da Marco ed esisteva a quel tempo il finale odierno o qualcosa di molto simile, allora si dovrebbe supporre che il Codex Vaticanus e il Codex Sinaiticus (o più verosimilmente le sorgenti di questi antichi manoscritti) siano precedenti Giustino ed Ireneo. Oppure che ad un certo punto siano andate avanti, per qualche inspiegabile motivo, in parallelo due tradizioni diverse. Giustino operava a Roma, Ireneo in Francia. Eusebio, che attesta la presenza di copie senza il finale – invece a Cesarea, in Palestina, così come dal medio oriente e precisamente dall’Egitto provengono il Codex Sinaiticus e – forse – il Vaticanus. E’ possibile che in Egitto e in Oriente esistesse – o avesse più credito – una versione “breve” del vangelo di Marco (senza il passaggio oggi noto) mentre in Europa, e in particolare a Roma, quel vangelo fosse noto col finale “lungo”.





Conclusione di un tema che resta aperto





Sebbene ci siano alcune testimonianze che sembrano indicare il fatto che antiche versioni del vangelo di Marco contenessero i vv. 16:9-20 (vedi in particolare la citazione di Ireneo di Lione) è un altro dato di fatto che due codici molto importanti ed antichi non contengono questa parte del vangelo ed Eusebio di Cesarea afferma che al suo tempo (IV secolo) circolavano effettivamente copie del vangelo prive del finale che oggi conosciamo. Quindi le copie senza il finale sono esistite davvero e sono visibili anche ai nostri giorni nel Codex Vaticanus e nel Codex Sinaiticus, i più antichi manoscritti contenenti questa parte del vangelo di Marco. Oltretutto B ed א sono manoscritti testualmente molto importanti, essi appartengono alla famiglia neutrale, una classe che la moderna critica testuale giudica come la migliore e la meno interpolata.



Alcuni studiosi pensano che in origine il vangelo di Marco non contenesse affatto questi versetti, che sarebbero stati inseriti in seguito (a questo proposito la nota della Bibbia C.E.I. è eloquente) forse per armonizzare Marco con Matteo e soprattutto con Luca. Le copie che presentavano il finale sarebbero esistite fin da tempi molto antichi (e questo giustificherebbe la citazione di Ireneo e i brani degli altri padri che sembrano ispirati a Marco 16:9-20) ma sarebbero derivate da una armonizzazione molto antica probabilmente sorta in area occidentale. Del resto il testo occidentale è noto per essere sì molto antico ma anche per la tendenza ad assimilare materiale proveniente da tradizioni originariamente non presenti nelle copie più antiche. La Chiesa ritiene comunque oggi che i versetti 16:9-20 siano da ritenersi canonici.



Altri studiosi spiegano la lacuna ipotizzando che ad un certo momento sia andato perduto il finale a causa di un incidente nella trasmissione e quindi siano nati alcuni manoscritti senza questa parte conclusiva. C’è anche chi avanza l’ipotesi che l’estensore del vangelo, secondo la tradizione Marco, un collaboratore di Pietro, non sia riuscito a completarlo e il finale che oggi conosciamo o qualcosa di simile sia stato scritto da un suo successore e rifiutato da alcuni cristiani che avrebbero utilizzato solo il testo conforme a quanto effettivamente scritto dal primo autore (Marco). Ad un certo punto sarebbero andate avanti quindi almeno due versioni del vangelo e, dopo un certo tempo, si pose il problema di una sistemazione della questione (vedi Eusebio). Queste teorie hanno il pregio di spiegare perché il Codex Vaticanus e il Codex Sinaiticus – i manoscritti più antichi – non contengono Marco 16:9-20 ma esistono alcuni curiosi riferimenti dei padri della Chiesa, precedenti a questi antichi codici, a punti di questo passo.





Analisi interna del passo, alcuni cenni





Ma come si concludono gli altri tre vangeli? Esistono altri punti controversi? Che cosa si può dire relativamente allo stile del passo in rapporto al resto del vangelo?



Secondo Matteo (cfr. Cap. 28) Gesù appare subito dopo la risurrezione per la prima volta a Maria (probabilmente la madre di Giacomo, dal momento che qui non è designata come madre di Gesù ma come "l'altra Maria") e a Maria di Magdala, contemporaneamente, nei pressi del sepolcro trovato vuoto (Mt. 28:1, 28:9) Poco dopo appare in Galilea agli Apostoli (Mt. 28:16-17). Non vi è alcun cenno alla Ascensione di Gesù.



Giovanni – il vangelo più recente tra i canonici – è il più particolareggiato nel descrivere le apparizioni di Gesù (cfr. capp. 20-21), la prima a Maria di Magdala che si trovava nei pressi del sepolcro (Gv. 20:11-18) poi, la sera di quello stesso giorno, apparve agli Apostoli riuniti (Gv. 20:19-23) e, otto giorni dopo, di nuovo agli Apostoli per la seconda volta (episodio di Tommaso, Gv. 20:26-30); infine il vangelo secondo Giovanni dà notizia di un’ultima apparizione di Gesù a sette discepoli, presso il lago di Tiberiade, non accennando però al tema dell’Ascensione (Gv. 21:1ss) [3].



Secondo Luca i primi a vedere Gesù dopo la risurrezione furono i discepoli di Emmaus (sappiamo che uno dei due si chiama Cleopa, cfr. Lc 24:18). Questo episodio però non è raccontato da nessun altro vangelo (tranne, forse, Marco come vedremo più avanti). Oltre alla apparizione a Cleopa e al suo compagno di viaggio Luca narra anche che Gesù apparì a Pietro, ma non sembra dare molta importanza a questa apparizione, visto che la accenna solo di sfuggita. Segue poi la descrizione della apparizione agli Apostoli (Lc. 24:36-49) e l’accenno alla Ascensione (Lc. 24:50-53) che è tema caratteristico di Luca: ricordiamo infatti che gli Atti degli Apostoli, attribuiti sempre a Luca, si aprono proprio con il racconto – più dettagliato – dell’Ascensione (At. 1:9-10). Nel vangelo Luca, però, sembra attestare che Gesù è asceso al cielo pochissimo tempo dopo la risurrezione, forse già il giorno successivo alla risurrezione stessa. Negli Atti invece si dice che “Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio” (cfr. Luca 1:3) così che rimane una ambiguità di fondo: quando si sarebbe verificata effettivamente l’Ascensione? Ricordiamo che nei testi di Matteo e Giovanni non si parla dell’Ascensione, di cui abbiamo notizia dal solo Luca (nel vangelo e negli Atti).



L’attuale finale di Marco 16:9-20 sembrerebbe proprio un compendio di quanto raccontano Matteo e Luca, una vera e propria “armonizzazione” fatta per tenere conto di varie esigenze. Molto sbrigativamente si dice che Gesù apparve prima a Maria di Magdala (tema trattato da Matteo e Giovanni ma non da Luca), poi a “due in cammino verso la campagna” (probabilmente i discepoli di Emmaus di cui parla Luca ma non Matteo e neppure Giovanni), infine si accenna ad una apparizione agli Apostoli (come anche Matteo, Luca e Giovanni) e all’Ascensione (tema caratteristico del solo Luca). In particolare l’accenno alla apparizione ai due viaggiatori sembra preso alla lettera da Luca che è l’unico che sviluppa a fondo questo discorso. Quando poi nel versetto 16:9 si parla di “Maria di Madgala dalla quale aveva cacciato sette demoni” – come a ricordare un fatto già raccontato precedentemente – occorre tenere presente che questo episodio non è raccontato nel vangelo di Marco, ma è narrato solo in Luca 8:2. Queste considerazioni “interne” al testo sembrano portare alla conclusione che il passo non fosse presente nelle prime versioni o, almeno, che esso non fosse scritto esattamente in ogni suo punto in questo modo così come lo conosciamo oggi.



Anche una analisi linguistica non sembra testimoniare a favore della autenticità del brano. Per esempio in tutto il vangelo di Marco viene utilizzata la parola “Signore” per diciassette volte. Tuttavia nel versetto 16:19 (quello citato da Ireneo di Lione nel II sec.) si utilizza il termine Signore Gesù (KÚrioj 'Ihsoàj) in una forma (a Gesù viene attribuito il titolo di Signore) che solo qui è utilizzata e in nessun altro punto del testo e non fa parte del tipico vocabolario di Marco. Nel Nuovo Testamento in molti passi si fa riferimento a Gesù chiamandolo con il titolo di Signore, un titolo che in genere è utilizzato nell’A.T. per designare direttamente Dio. La forma Signore Gesù però è localizzata solo in alcuni scritti del Nuovo Testamento: essa compare una volta soltanto in Marco (nel versetto 16:19, di autenticità sospetta), una volta soltanto in Luca 24:3, compare in modo massiccio negli Atti degli Apostoli (si contano ben diciotto occorrenze), in molte lettere di Paolo e nell’Apocalisse (due volte, vv. 22:20-21, a conclusione del libro).



Per approfondire:



Analisi lessicale del finale Mc. 16:9-20 (documento PDF, 141 kB)



M.D. McDill, A Textual and Structural Analysis of Mark 16:9-20 (Filologia Neotestamentaria, Vol. 17, 2004, pp. 27-44.





Ipotesi di soluzione



Se è alquanto difficile stabilire l'esistenza e la forma di un eventuale finale a seguire l'attuale Mc. 16:8, vi sono studiosi per i quali non è un problema la totale assenza delle apparizioni del Cristo risorto nel secondo vangelo. Così scrive sull'argomento E. Lupieri:



“Mi pare convincente la spiegazione che il testo davvero finisse così [senza tutto l'attuale Mc. 16:9-20], poiché era pensato come una serie di letture da proporre come itinerario ideale al neofito, il quale gradualmente veniva educato nelle verità della nuova fede e invitato a immedesimarsi con Gesù, che avanza verso la morte fisica in Gerusalemme. Dietro a tale costruzione vi sarebbe l'eco dell'insegnamento paolino sul battesimo come morte e risurrezione. L'insegnamento impartito dal vangelo andava bene per Giudei, giudaizzanti e pagani, i quali tutti trovavano elementi nel racconto con cui identificarsi, per allontanarsi dalla propria vecchia fede, mentre l'insegnamento ancora più approfondito, le parole del Risorto, sarebbe stato riservato a un momento successivo al battesimo e perciò non sarebbe stato scritto nel vangelo.” [4]



Benoit Standaert ha cercato di spiegare il finale di Marco in relazione alla particolarità dell'impiego a cui il vangelo era destinato, essere letto interamente (in un paio d’ore) durante la liturgia della vigilia di Pasqua, al termine della quale avevano luogo i battesimi. La tesi complessiva di Standaert non ha pienamente convinto il mondo accademico e resta controversa, tuttavia in un importante commentario recente essa viene ritenuta, a un livello più generale rispetto alla sua formulazione originaria, plausibile e affascinante:



"In any event, whether or not our Gospel originally belonged in a baptismal setting, the idea that it played a central role in the liturgy of Mark's Christian community is a compelling one. One of the points in its favor is that in such a setting the cryptic nature of Mark's narrative, far from giving offense, would be very much at home. For its characteristic of liturgy, and indeed an aspect of its numinous power, that it contains elements that are disjunctive and mysterious, "half-revealed, half-concealed" in order to elicit worshippers' awe. (...) In conclusion, Mark may very well be a dramatization of the good news that was originally staged in the context of a Christian worship service." [5]





NOTE AL TESTO


[1] Va comunque osservato che in B tra la fine di Matteo e l’inizio di Marco esiste uno spazio corrispondente a circa metà colonna; l’inizio di Giovanni segue immediatamente la fine di Luca; alla fine di Giovanni è inserito uno spazio di quasi una colonna bianca. Inoltre si deve considerare che come per tutti gli altri libri copiati in B, anche la fine del vangelo di Marco risulta contrassegnata nel codice dal suo colophon (kata Markon) che è collocato poco al disotto delle ultime parole del v. Mc. 16:8 (™foboànto g£r). Il colophon è della stessa mano del copista e non è una inserzione successiva, di conseguenza chi scrisse il codice voleva terminare proprio in quel punto il testo del vangelo di Marco.



[2] Calcolo eseguito sul testo greco da Mc 16:9 a Mc 16:20, senza contare gli spazi bianchi, gli accenti e gli iota ascritti, che non venivano riportati nel testo.



[3] Il capitolo 21 del vangelo di Giovanni viene considerato da molti biblisti una aggiunta redazionale. Si veda sul problema, M. Marcheselli, Avete qualcosa da mangiare? - Un pasto, il risorto, la comunità, Bologna, 2006, Edizioni Dehoniane (EDB). Maurizio Marcheselli, docente di Nuovo Testamento a Bologna presso la Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna e l'Istituto Superiore di Scienze Religiose, è uno dei massimi specialisti di Gv. 21.



[4] E. Lupieri, in Storia del Cristianesimo, a cura di G. Filoramo e D. Menozzi, Laterza, Bari, pag. 114.



[5] Joel Marcus, Mark 1-8, Anchor Bible, Doubleday, 1999, pp. 68-69.

da http://digilander.libero.it/Hard_Rain/Marco.htm

[Modificato da Credente 01/01/2018 23:16]