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Il prologo del Vangelo secondo Giovanni canta in termini poetici la passione d’amore che abita il cuore di Dio: il Figlio che è la parola di Dio rivolta verso Dio, “parla” a Dio Padre fin dall’eternità, nell’in principio fuori del tempo. È da questo primordiale colloquio d’amore interno al cuore stesso di Dio, tra Dio e la sua Parola eterna, che nasce la volontà di una comunione più ampia che dà origine alla creazione del mondo e alla rivelazione, fino all’incarnazione. La parola di Dio si espone al rischio di “uscire da sé”, fino a prendere forma umana in Gesù, venendo tra quegli uomini di cui fin da principio era la luce e la vita. In Gesù “la vita si è fatta visibile e noi l’abbiamo contemplata” (1Gv 1,2). In quella vita, per una volta nella storia, all’umanità è stato dato di contemplare la sua immagine purissima, come in uno specchio: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Ecco l’uomo vero.

Il mondo degli uomini fin da principio è stato creato da Dio per vivere nella luce della sua Parola. Eppure questo mondo ha dimenticato di essere trasparenza di luce, creato per la luce. In qualche modo si è assuefatto a vivere nell’oscurità, contro la sua natura, fino a trovare la tenebra più naturale della luce, come il quarto vangelo dice in un altro passo: “Gli uomini hanno amato più le tenebre della luce” (Gv 3,19). La luce è simbolo della vita vera, ossia dell’amore, che è lo scopo per cui ogni uomo che viene al mondo è stato creato. “Chi ama suo fratello dimora nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. Chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va” (1Gv 2,10-11).

E tuttavia il rifiuto della luce – ci assicura il vangelo – non arriva a vincere la luce, a sopraffarne la forza nascosta fino a spegnerla. Una sottile lama di luce resiste sempre, contro ogni ragionevole speranza. La vittoria del rifiuto, anche se appariscente, è solo apparente. Paradossalmente il rifiuto contribuisce alla piena rivelazione della luce. La parola di Dio che è Gesù si rivela in pienezza di “grazia e di verità” proprio quando è rifiutata. E allora può essere veramente accolta nell’intimo dell’uomo, quando diventa “parola della croce”, parola crocifissa. Parola totalmente svuotata di sé e disarmata, e per questo totalmente accogliente. Il Signore ci accoglie e fa splendere su di noi la luce del suo volto anche e proprio nelle tenebre del nostro rifiuto; e così mostra la sua gloria, che è “gloria come del Figlio unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14), gloria di chi dona la sua vita per amore. Quando è innalzato sulla croce Gesù mostra il senso pieno del suo essere donato al mondo come “vita vera” degli uomini: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). In fondo la “gloria nel più alto dei cieli” (Lc 2,14), proclamata davanti ai pastori dagli angeli del Natale, è la stessa gloria che possiamo contemplare sulla croce, diventata ormai trono regale. Tra i due momenti una vita umana che nelle pieghe della sua umanità è narrazione, racconto, esegesi dell’amore del Padre: “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato” (Gv 1,18).