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Passaporto per la pace

Il padre Evagrio disse anche: «Principio della salvezza è accusare se stessi».



*** L'uomo possiede dentro di sè diversi istinti.

Ma ce n'è uno, il più “ancestrale”, che risale all'inizio della sua comparsa nel mondo creato, ed è l'istinto che lo porta, immediatamente, ad accusare gli altri di ciò che succede a lui o intorno a lui, o perfino dentro di lui.

Tale istinto ancestrale, è il primo prodotto della colpa originaria, o peccato originale: non appena Adamo ed Eva ebbero commesso il peccato, invece di incolpare, ciascuno di loro, se stesso, pentendosi e chiedendo perdono a Dio, non fecero altro che scaricare ogni colpa sull'altro.

Adamo dà la colpa ad Eva, questa incolpa di tutto il serpente, il quale, in questo caso, si mostra l'unico che si assume le sue responsabilità, e, non potendo chiedere perdono, almeno tace (cfr. Genesi, cap.3).

Viene da pensare a cosa sarebbe successo, se i nostri due progenitori, invece di accusarsi a vicenda, avessero riconosciuto la loro colpa e avessero chiesto perdono. Fu, forse, proprio quell'atteggiamento impenitente di reciproca accusa, che ha meritato la terribile condanna da parte di Dio, più che lo stesso atto di disobbedienza? Forse Dio li avrebbe perdonati, concedendo loro un'altra possibilità, se avessero recitato insieme il "mea culpa"?

In tal caso, apparirebbe ancora più chiaramente quali enormi e tragici danni produca quell'innato istinto di "accusare gli altri".

Se dunque l'accusare gli altri ha segnato l'inizio della condanna, appare del tutto evidente la verità dell'affermazione di Evagrio (ma anche di altri Padri), che il principio della salvezza non possa essere altro che l'opposto, cioè "l'accusa di se stessi".

Sia detto in modo "semiserio", ma, sembra che già nell'atto di nascere il bambino pianga, per gettare sugli altri la colpa di averlo drasticamente sottratto al suo ambiente comodo e protetto, nel grembo della madre.

Crescendo, farà risuonare i suoi urli e i suoi pianti, battendo i pugnetti sul petto della madre, per farla sentire in colpa perchè non lo accontenta in ciò che chiede.

Appena inizia a frequentare la scuola, una delle prime cose che impara è quella di incolpare gli insegnanti di non valutarlo come dovrebbero o di preferirgli qualche altro, invece di imparare a dare la colpa a se stesso, impegnandosi di più e meglio.

Crescendo, farà le prime esperienze di amicizia o di relazione con l'altro sesso, e non perderà occasione di gettare sugli altri la colpa di ogni eventuale incomprensione, o mancanza di corrispondenza o della stessa rottura dei rapporti, invece di esaminare il suo proprio modo di relazionarsi con loro, e di corrispondere al loro affetto e alla loro attenzione.

Se poi avrà la rara fortuna di trovare un posto di lavoro, incomincerà, dopo un po', a trovare "tanti peli nell'uovo", innumerevoli motivi di insoddisfazione, distribuendo colpe a destra o a sinistra (ogni riferimento è casuale), invece di conservare nell'animo la dovuta riconoscenza verso Dio e verso gli uomini, accontentandosi di quello che gli viene offerto e che tanti non hanno, e impegnandosi con tutte le sue forze per produrre quei risultati che ci si aspetta da lui, accusando il suo scarso impegno, per gli eventuali insuccessi.

Ma il vero "tiro a segno" delle colpe, inizierà quando i due faranno il fatidico passo del matrimonio. Allora inizierà la fiera degli "scarica barile", quando ciascuno incolperà l'altro di quasi tutte le immancabili difficoltà del vivere insieme, invece di accusare se stesso per ogni eventuale disguido o incomprensione o frainteso o affievolimento dell'interesse verso l'altro. Finchè, alla fine, questa catena arrugginita e ininterrotta di reciproche accuse porterà alla crisi o alla rottura di quell'altra catena dorata, intessuta di promesse d'amore, che un giorno li aveva avvinti, in un crescendo di stima e di affetto altamente liberatorio ed esaltante.

Se poi, mediante la rigenerante e vitalizzante accusa di se stessi, si riuscirà ad andare avanti, nonostante le inevitabili difficoltà della vita comune (che per gli antichi costituiva la "maxima poenitentia"), arriverà il momento dello "scarica barile" riguardo all'educazione dei figli. Allora ciascuno attribuirà a sè gli aspetti positivi del loro carattere, e all'altro quelli negativi, magari considerando positivo ciò che l'altro considera negativo, e viceversa, in uno scambio interminabile di accuse intorno ai troppi o troppo pochi permessi accordati, intorno alla responsabilità di qualche vizio, piccolo o grosso, acquisito dai figli, riguardo perfino alle scelte che essi faranno, per la professione, per il partner, ecc.

Infine il povero essere umano, arrivato al tramonto della vita, non potrà certo cessare di esercitare il vizio ancestrale dell'accusare sempre gli altri, che lo ha accompagnato fino ad allora, e, per non interrompere l'allenamento, continuerà ad accusare i figli o i nipoti, perchè non si prendono la dovuta cura di lui, accrescendo a dismisura le pretese, basate sui diritti sacrosanti acquisiti per averli messi al mondo. E questo, almeno in parte è vero, purchè non si intenda riscuotere con interessi usurai il prezzo dell'aver donato la vita ad altri esseri umani, non senza essere stati già ampiamente ricompensati all'origine, dal dono immenso che gli stessi figli costituiscono per chi li ha messi al mondo.

Quando poi la prospettiva dell'accusare gli altri e mai se stessi, si sposta dall'ambito individuale a quello sociale, allora avremo il cittadino che incolperà sempre chi lo governa, sia che piova sia che non piova, scaricherà sui vicini di casa o sui condomini torrenti impetuosi di accuse di ogni genere e per ogni occasione, invece di impegnarsi ad essere un cittadino modello, che, prima di pretendere i diritti, veri o presunti, adempie appieno ogni suo dovere, senza omettere le tante forme di gentilezza e di cortesia verso gli altri, che nessuna legge prescrive, ma che la fantasia intrisa di benevolenza e depurata da ogni forma di acidità, può suggerire.

Dovendo concludere, per non essere accusato di eccessiva prolissità, accenno solo alla sostanziale differenza che esiste tra il "senso di colpa" patologico e "l'accusa di se stessi" di cui si sta parlando, naturalmente, al lume dell'esperienza e del buon senso, senza pretese psicologiche.

Basti dire che il senso di colpa è un impulso coatto, che si annida nelle profondità della psiche di ognuno, sebbene in forme e gradazioni diverse, che, come un autentico "guastafeste", impedisce, sia di gustare la gioia dei propri successi e dei meriti che si acquisiscono, sia di riconoscere con libertà e serenità, senza ossessione e tormento, le proprie immancabili colpe.

Invece "l'accusa di se stessi" è il riconoscimento libero e consapevole della possibilità certa e indiscutibile, che ognuno ha, di commettere errori e colpe, preferendo, però, peccare per eccesso piuttosto che per difetto, nel preferire di attribuire a sè e non ad altri la responsabilità di quello che succede, sia dentro che fuori sè, sotto l'ispirazione benefica di un salutare e salvifico sentimento di "umiltà evangelica", che invita ciascuno a considerare gli altri migliori di se stessi, senza che questo comporti alcun complesso di inferiorità, ma nella immancabile certezza che, alla fine, ci sarà Uno che saprà stabilire le reali responsabilita di ogni individuo, condannando o premiando ognuno secondo le sue opere.

Sull'argomento trattato, riportiamo un brano di una omelia di papa Francesco, molto illuminante ed autorevole:

“Se noi non impariamo questo primo passo della vita, mai, mai faremo passi sulla strada della vita cristiana, della vita spirituale”: “È il primo passo, accusare se stesso. Senza dirlo, no? Io e la mia coscienza. Vado per la strada, passo davanti al carcere: ‘Eh, questi se lo meritano’, ‘Ma tu sai che se non fosse stato per la grazia di Dio tu saresti lì? Hai pensato che tu sei capace di fare le cose che loro hanno fatto, anche peggio ancora?’. Questo è accusare se stesso, non nascondere a se stesso le radici di peccato che sono in noi, le tante cose che siamo capaci di fare, anche se non si vedono”.

“È più facile accusare gli altri”, eppure “accade una cosa un po’ strana” se proviamo a comportarci in modo diverso: “quando noi incominciamo a guardare di quali cose siamo capaci”, all’inizio “ci sentiamo male, sentiamo ribrezzo”, poi questo “ci dà pace e salute” (Omelia a Santa Marta, 2 marzo 2015).
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