00 21/04/2015 16:30
39. ACCUSE DI CONNIVENZA CON LA DITTATURA ARGENTINA E FRASE MISOGINA

Come dicevamo, anche con Francesco, almeno per il primo periodo, si è pensato di usare l’attacco diretto e la calunnia, esattamente come per Benedetto XVI (tanto che Beppe Grillo, leader del Movimento 5 stelle disse: «scavando nel suo passato per trovare ogni piccola ombra. Questo me lo rende simpatico. Quali papi sono stati crocifissi dalla stampa mezz’ora dopo essere stati eletti?»). Vediamo come si è svolta la primissima fase.

La macchina del fango è ripartita di gran cassa subito dopo l’elezione di Bergoglio, ricominciando laddove aveva interrotto con Benedetto XVI. Pochi minuti dopo l’annuncio del nuovo pontefice, la sua pagina Wikipedia è stata vandalizzata con la frase «God is gay, god is gay». .

Il 14 marzo 2013 sono piovute addosso a Bergoglio le accuse di presunta complicità con la dittatura argentina tra il 1976 e il 1983. Ad occuparsene quattro quotidiani in particolare: il “New York Times”, “Página 12″ di Buenos Aires, il “Fatto Quotidiano” e il “Manifesto”.
Le vicende sono state raccontate dall’accusatore principale di Bergoglio, il giornalista ed ex guerrigliere marxista Horacio Verbitsky, ovviamente collaboratore del “Fatto Quotidiano” (giornale che, come vedremo, continuerà più degli altri a calunniare Papa Francesco anche quando la verità emerse palese, Massimo Introvigne parla di «versione rozza del “Fatto” di Marco Travaglio che spara a zero sul Papa»).

Il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro, ha invece spiegato al Pontefice argentino che cosa gli succederà se darà fastidio: gli sarà chiesta «piena trasparenza sui suoi rapporti con la dittatura militare argentina, sugli scandali di compromissione che lo hanno chiamato in causa come gesuita in vicende mai chiarite». Daniela Padoan sul “Fatto Quotidiano” non ha nemmeno lasciato margine al dubbio: «Dunque abbiamo un Francesco in Vaticano. Non è venuto dal nulla, camminando scalzo. Era a Buenos Aires, sprezzante di tutte le figure che sono state vittime della dittatura argentina. Sembra di cattivo gusto evocare le porte chiuse in faccia alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo, e le circostanziate testimonianze di una vicinanza a un regime che torturava gli oppositori. Ma non è concesso accantonare con un’alzata di spalle ciò che un uomo ha fatto durante una dittatura. Chi ha vissuto durante una dittatura ha subito la più difficile delle prove, e non è ininfluente se si è schierato dalla parte dei persecutori o da quella delle vittime. Non si tratta solo di rispettare e dar credito alle parole di un giornalista che, come Horacio Verbitsky, ha passato la vita a ricostruire brandello per brandello le testimonianze di quegli anni, ma di guardare l’operato, nella sua sede vescovile di Buenos Aires, di un uomo che non ha fatto mistero della propria collocazione ideale: Dio, patria, famiglia. Gli ideali della dittatura argentina. Di tutte le dittature».

Il nome di Bergoglio è emerso principalmente riguardo ad un fatto specifico: nel febbraio del 1976, un mese prima del golpe, egli, a capo dei Gesuiti argentini -ed intenzionato a mantenere la non politicizzazione della Compagnia di Gesù-, chiese a due gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalics, di lasciare la loro missione nelle favelas a causa dell’adesione esplicita alla ambigua “Teologia della Liberazione”. Poco prima del colpo di stato del 24 marzo 1976, ha voluto nuovamente avvertirli del pericolo offrendo loro rifugio nella casa dei gesuiti, ottenendo come risposta un rifiuto. Dopo questi fatti, i due sacerdoti vennero espulsi dall’ordine e, sempre stando alla ricostruzione dell’ex terrorista argentino, Bergoglio fece pressioni all’allora arcivescovo di Buenos Aires per toglier loro l’autorizzazione a officiare messa. Poco dopo il colpo di Stato, i due religiosi furono sequestrati, detenuti e torturati nella Scuola meccanica della Marina (Esma), simbolo delle violenze e delle torture contro i desaparecidos. Una volta liberati, dietro esplicite pressioni del Vaticano, uno di loro, Yorio, raccontò che quella espulsione dai gesuiti rappresentò una sorta di via libera per i golpisti (è poi morto per cause naturali).

L’altro sacerdote, Jalics, ha invece tutt’ora buoni rapporti con Bergoglio. Ha affidato una dichiarazione al sito dei gesuiti tedeschi jesuiten.org spiegando: «Per la mancanza di informazioni di allora e per false informazioni fornite appositamente la nostra posizione era stata fraintesa anche nella chiesa». Con Bergoglio i due gesuiti imprigionati si videro anni dopo, «celebrammo pubblicamente una messa insieme, ci abbracciammo solennemente. A Papa Francesco auguro la ricca benedizione di Dio per il suo ufficio». Il fratello di Jalics ha mostrato alla televisione tedesca una lettera inviata da Bergoglio alla famiglia di Jalics dopo l’arresto, datata 15 settembre 1976: «Ho preso molte iniziative per arrivare alla liberazione di vostro fratello, finora non abbiamo avuto successo», si legge. «Ma non ho perduto la speranza che suo fratello verrà presto rilasciato. Ho deciso che la questione è il mio compito. Le difficoltà che suo fratello e io abbiamo avuto tra di noi sulla vita religiosa non hanno nulla a che fare con la situazione attuale. Ferenke è per me un fratello. Ho amore cristiano per suo fratello e farò tutto quanto potrò perché egli torni libero». In un secondo comunicato, Jalics ha precisato: «Dopo la mia spiegazione del 15 marzo di questo anno ho ricevuto molte richieste, per questo vorrei completare con quanto segue. Mi sento quasi obbligato, poiché alcuni commenti significano il contrario di quello che ho inteso. I fatti sono questi: Orlando Yorio ed io non fummo denunciati da padre Bergoglio. Come avevo chiarito nella mia precedente spiegazione, fummo incarcerati a causa di una catechista che dapprima lavorava con noi e poi entrò nella guerriglia. Per tre quarti di un anno non l’abbiamo vista. Due o tre giorni dopo il suo arresto fummo arrestati anche noi. L’ufficiale che mi interrogò controllò i miei documenti. Quando vide che ero nato a Budapest, mi ritenne una spia. Nella provincia dei gesuiti argentina e nei circoli ecclesiali già negli anni precedenti erano state diffuse false informazioni sul fatto che ci saremmo trasferiti nella favela perché anche noi appartenevamo alla guerriglia. Ma era falso. La mia supposizione è che furono queste voci il motivo per il quale non fummo liberati subito. In passato anch’io tendevo a pensare che eravamo stati vittima di una denuncia. Ma alla fine degli anni Novanta dopo numerosi colloqui mi è stato chiaro che questa supposizione era infondata. E’ dunque falso supporre che il nostro arresto è avvenuto a causa di padre Bergoglio».

E’ inoltre emersa una nota del 19 agosto 1977 inviata da Bergoglio al provinciale tedesco Juan Hegyi, si legge: «Osservo che padre Jalics (e forse anche padre Yorio) ha l’impressione di essere stato accusato in qualche modo su alcuni punti […] Le voci sui contatti che alcuni padri della comunità avrebbero intrattenuto con gruppi estremisti mi paiono inesatte ed ingiuste […] È una grandissima leggerezza l’accusa di falsa dottrina formulata contro Jalics, giacché i suoi scritti e i suoi corsi possono contare sull’imprimatur e il nihil obstat ecclesiastico e fanno del bene a tanta gente». Bergoglio sottolineava l’afflizione per le sofferenze del «buon padre Jalics nei suoi 6 mesi di detenzione da innocente» e di comprensione per i suoi sentimenti per «essere stato sospettato di contatti con i guerriglieri o di cattiva dottrina».

Occorre ricordare che l’accusatore principale di Bergoglio, Verbitsky, è stato membro dell’organizzazione terroristica Montoneros e responsabile di un attacco armato all’edificio Libertador (marzo 1976), nel quale persero la vita diversi civili innocenti. Egli è stato associato anche all’assalto alla caserma di La Tablada nel 1989, che ha causato la morte di 39 persone e decine di feriti. Il terrorista è stato definito dal perorista Julio Bárbaro un «poveretto che, pur di scrollarsi le colpe di dosso, è capace di raccontare irrazionalità» e che «si va prosciugando con il passare del tempo […] ripete le stesse assurdità più volte». Fa parte, ha continuato Bárbaro, di quell’«un’ala stupida che pensa che chi la pensa diversamente da loro è un nemico». Secondo il “Wall Street Journal” il card. Bergoglio è stato «un sostenitore instancabile della critica alla corruzione contro il malaffare del governo del presidente Cristina Kirchner» e «il pitbull del governo Kirchner, Horacio Verbitsky, un ex membro del gruppo guerrigliero noto come Montoneros ed ora redattore presso il quotidiano filogovernativo Pagina 12, ha immediatamente iniziato una campagna per diffamare la reputazione del nuovo pontefice. La calunnia non è nuova. Gli ex membri di gruppi terroristici come il signor Verbitsky hanno usato la stessa tattica per anni per cercare di distruggere i loro nemici». Il quotidiano Il Foglio ha spiegato che Bergoglio «contestò l’apertura dei gesuiti alla Teologia della Liberazione, negli anni ’70 e questa posizione forse gli è valsa l’accusa ingiusta di connivenza con il regime dei generali, anche se peraltro non ci sono mai state prove né indizi della sua vicinanza alla dittatura».

Le accuse a Francesco sono state prontamente smentite inizialmente da padre Federico Lombardi, il portavoce della Santa Sede, il quale ha replicato: «È noto il ruolo di Bergoglio nel promuovere il perdono della Chiesa in Argentina per non aver fatto abbastanza nel tempo della dittatura. Le accuse appartengono all’uso di analisi storico-sociologico durante la dittatura fatto da anni dalla sinistra anticlericale contro la Chiesa. E devono essere respinte con decisione. La campagna contro Bergoglio è ben nota e risale a diversi anni fa. L’accusa si riferisce a quando Bergoglio era Superiore dei gesuiti argentini e due sacerdoti, che lui non avrebbe protetto, furono rapiti. Non vi è mai stata un’accusa concreta credibile nei suoi confronti. La giustizia argentina che lo ha interrogato una volta come persona informata dei fatti non gli ha mai imputato nulla ed egli ha negato le accuse in modo documentato. Moltissime dichiarazioni, invece, sono state fatte per dimostrare quanto egli fece per proteggere le persone durante la dittatura».

Nel libro-intervista col giornalista Sergio Rubin “Il Gesuita” (2010), lo stesso Bergoglio ha risposto alle accuse affermando di essersi da subito speso per l’immediato rilascio dei due preti, arrivando addirittura a contattare il comandante Videla, e che comunque non aveva agito in alcun modo tale da permettere, anche solo indirettamente, il grave gesto dell’esercito.

Anche il “Fatto Quotidiano” ha riconosciuto che non vi sono testimonianze o indizi che provino il coinvolgimento di Bergoglio. Infatti, nessuna denuncia formale è stata mai depositata in un tribunale argentino. Anzi, i rappresentanti della Giustizia argentina che hanno indagato sul possibile coinvolgimento di Jorge Bergoglio nel sequestro e nella tortura di due sacerdoti assicurano che le imputazioni contro papa Francesco sono totalmente false, avallate dalla sentenza emessa dal giudice Germán Castelli insieme ai magistrati Daniel Obligado e Ricardo Farías il 28 dicembre 2011. «È del tutto falso dire che Jorge Bergoglio abbia consegnato quei sacerdoti. Abbiamo analizzato la questione, ascoltato quella versione, visto le prove e abbiamo capito che il suo agire non ha avuto implicazioni giuridiche in questi casi. In caso contrario, lo avremmo denunciato», ha dichiarato il giudice Castelli
. Lo ha confermato Julio Strassera, storico procuratore nel processo contro la giunta militare responsabile degli anni bui dei desaparecidos: quel che è emerso contro Bergoglio «è assolutamente falso». Il presidente della Corte Suprema di Giustizia argentina, Ricardo Lorenzetti, ha spiegato a sua volta che Papa Francesco «è una persona assolutamente innocente. Al di là del fatto che ci sia gente che non è d’accordo, o che dice che potrebbe aver fatto una cosa o l’altra, resta il fatto certo che non esiste nessuna accusa concreta».

L’assenza di prove è stata riconosciuta anche dallo stesso accusatore, Horacio Verbitsky, intervistato da “Repubblica”, il quale ha spiegato che nonostante abbia cercato per anni qualcosa, «non ci sono prove schiaccianti». Soltanto delle testimonianze, che però arrivano tutte da parte marxista. Anche Amnesty International ha spiegato che «non abbiamo documenti per confermare o smentire la partecipazione del nuovo Papa in questi fatti. Nessuna accusa formale è stata rivolta contro Jorge Mario Bergoglio, e non abbiamo alcun documento nei nostri archivi riguardanti un qualsiasi coinvolgimento dell’ex arcivescovo di Buenos Aires in altri casi. Non dobbiamo dimenticare che all’interno della chiesa in Argentina e nella regione sono stati molti coloro che si opponevano a questi regimi e hanno subito intimidazioni, torture, sparizioni o l’esecuzione. Molti di loro hanno lavorato e continuano a lavorare per la promozione e la protezione dei diritti umani per tutti, senza discriminazioni. Non è possibile generalizzare il ruolo della chiesa cattolica in Argentina, così come in ogni altro paese della regione». Secondo l’avvocato Horacio Morel, del foro di Buenos Aires, «i vertici della Chiesa argentina, di cui Bergoglio non faceva ancora parte, mantennero inizialmente un atteggiamento pubblico ambiguo verso il cosiddetto Processo Militare, ma senza dubbio tale posizione cambiò quando i crimini e il piano sistematico di eliminazione di qualsiasi elemento sospetto od oppositore furono evidenti. Molti prelati optarono per il lavoro silenzioso dedicandosi a salvare vite umane, come nel caso dello stesso Bergoglio. Una scelta che è lontanissima dalla complicità con il potere militare di allora che l’apparato kirchnernista cerca di attribuire a papa Francesco per screditarlo».

Adolfo Pérez Esquivel, pacifista argentino, vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1980 per le denunce contro gli abusi della dittatura militare argentina negli anni Settanta, ha spiegato alla BBC: «Ci sono stati vescovi che erano complici della dittatura in Argentina, ma non Bergoglio», negando ogni validità alle accuse. «Jorge Mario Bergoglio fu una delle tante vittime della dittatura, non un complice», ha aggiunto. «È anche vero che egli non ebbe il coraggio, come lo ebbero altri sacerdoti, religiosi, religiose, e anche vescovi, di porsi alla guida di coloro che lottavano per i diritti umani; questo non lo fece. Mi consta però che egli cercò di protestare per la violazione di questi diritti. Dobbiamo comunque collocare questi fatti nel clima tremendo di quell’epoca di dittatura militare. Mi ricordo di avere allora parlato con il rappresentante della Santa Sede di quel tempo, monsignor Pio Laghi, sul problema della difesa dei diritti umani in Argentina, e anche delle suore e dei religiosi incarcerati e torturati. Egli mi disse: “Che vuole che faccia? Io sono il nunzio apostolico; noi protestiamo, protestiamo con i militari, ma essi, pur dando ad intendere di ascoltarci, non fanno poi quello che chiediamo loro”. Bergoglio, come tanti altri, fece lo stesso; si limitò a protestare. A me sembra, però, che non sia giusto accusarlo di complicità». A Esquivel ha risposto Nello Scavo, autore di un’indagine accurata sulla vicenda: «Colui che diventerà Papa Francesco si comportò come Pio XII. Per poter salvare molte vite, non doveva esporsi. A chi sarebbe servito un paladino dei diritti umani incarcerato oppure morto? Fra l’altro Bergoglio all’epoca era un illustre sconosciuto, una sua denuncia pubblica non avrebbe fatto né caldo né freddo ai golpisti. E non dimentichiamo che il regime assassinò una trentina fra vescovi, preti e suore e fece sparire centinaia di catechisti reputati “comunisti”».

E’ intervenuta anche l’ex membro della Commissione Nazionale sui desaparecidos (CONADEP), creata dopo il ritorno alla democrazia, l’attivista argentina per i diritti umani Graciela Fernández Meijide, che ha riferito: «so che non c’è assolutamente nessuna prova che mostra la complicità di Bergoglio con la dittatura. Ho lavorato per anni sotto la dittatura nella “Asamblea Permanente por los Derechos Humanos”, ho ricevuto centinaia di testimonianze e in nessun momento è stato nominato Bergoglio. Ora sono nella CONADEP, ma nessuno lo ha mai menzionato, né come mandante, né come niente». Rispetto alle accuse sui due sacerdoti rapiti, anche lei ha confermato: «Bergoglio ha ripetutamente detto loro di andarsene perché temeva per loro, perché non sarebbe stato in grado di coprirli. Finché un giorno sono stati rapiti e torturati». Dalla sua parte anche le madri di Plaza de Mayo, durissime (non del tutto a torto) nei confronti della gerarchia cattolica argentina. Anche l’Associazione 24 marzo, che ha spesso assunto la veste di accusatore, in tribunale, dei militari argentini, ha difeso Bergoglio. Il suo presidente, Jorge Ithurburu ha dichiarato: «Una cosa è la responsabilità della Chiesa cattolica come organizzazione, altra quella dei singoli. Bergoglio all’epoca non era neanche vescovo e di sue responsabilità individuali non c’è traccia, è evidente che l’episodio può essere letto in due modi: i capi dei due gesuiti sono responsabili di averli lasciati soli, o gli stessi capi sono intervenuti per ottenerne la liberazione. Propenderei per la seconda ipotesi: l’Esma non liberava nessuno per caso. Ma nessuno nella Chiesa ammetterà mai che è stata condotta una trattativa segreta, la Chiesa non parla di queste cose. La liberazione dei due sacerdoti resta però un fatto».

Da presidente dei vescovi argentini, Bergoglio ha spinto la Chiesa argentina a pubblicare una sorta di mea culpa in occasione del 30esimo anniversario del colpo di Stato, nel 2006: “Ricordare il passato per costruire saggiamente il presente” era il titolo della missiva apostolica. Nel 2010, interrogato come «persona informata dei fatti», dunque senza alcun capo d’imputazione, il futuro Papa ribadì alle autorità ciò che aveva confidato solo agli amici più stretti. L’allora cardinale Bergoglio rivelò di aver salvato numerosi dissidenti, ma mai se ne fece pubblico vanto. «Nel collegio Máximo dei gesuiti, a San Miguel, nella regione del Gran Buenos Aires, dove ho vissuto, ne nascosi alcuni. Non ricordo esattamente quanti. Dopo la morte di monsignor Enrique Angelelli, ho accolto nel collegio tre seminaristi della sua diocesi che studiavano teologia. Questi non sono stati nascosti, ma curati, protetti sì». Addirittura, l’attuale ministro kirchnerista Nilda Garré, ex Montonera, deve la sua vita all’attuale Papa. Una delle persone salvate dal futuro Papa è l’attivista per i diritti umani (dichiarata “difensore del popolo della città di Buenos Aires”, nel 1998), Alicia Oliveira, diventata poi sua grande amica, che ha affermato chiaramente: «quando ho denunciato la dittatura, lui era con me. Conosco l’impegno di Jorge: quando qualcuno ha dovuto lasciare il paese perché non riusciva a resistere, lo ha salutato con un pasto. E lui c’era sempre. Jorge era molto angosciato. stava cercando di convincere la gente fuori dal paese. Aveva un atteggiamento collaborativo con le persone bisognose». E rispetto ai due sacerdoti rapiti: «Bergoglio ha parlato con tutti per farli liberare, anche con Massera e Videla».

Il teologo Leonardo Boff, uno dei fondatori della Teologia della liberazione, ha commentato: «Bergoglio? Salvò e nascose molti perseguitati dalla dittatura militare». E’ intervenuta anche Maria Elena Bergoglio, sorella dell’attuale Pontefice: «Mio padre scappò dall’Italia per il fascismo: vi pare possibile che mio fratello fosse complice di una dittatura militare? Sarebbe stato come tradire la sua memoria. Protesse e aiutò molti perseguitati dalla dittatura. Erano tempi cupi e serviva prudenza, ma il suo impegno per le vittime è provato».

Secondo la ricostruzione dei giornalisti americani Brian Murphy e Michael Varren, dell’Associated Press, «Entrambi i sacerdoti furono liberati dopo che il cardinale Bergoglio si mosse in modo straordinario dietro le quinte per salvarli. Arrivò a convincere il prete di famiglia del dittatore Jorge Videla a fingersi malato, in modo che lui stesso Bergoglio, potesse dire la messa nella casa del capo della giunta militare, dove a tu per tu con Videla invocò la grazia. Verosimilmente il suo intervento salvò le vite dei due sacerdoti, ma Bergoglio non rese mai pubblici i dettagli fino all’intervista di Rubin. Bergoglio disse a Rubin che era solito nascondere persone in immobili di proprietà della Chiesa durante il periodo della dittatura e una volta diede i proprio documenti di identità ad un uomo che gli assomigliava, mettendolo in condizione di fuggire attraverso la frontiera». «Ho visto due volte il generale Jorge Videla e l’ammiraglio Emilio Massera», ha dichiarato lo stesso Bergoglio. «Ricordo che era un sabato pomeriggio e tenni Messa nella residenza del comandante in capo dell’esercito, davanti a tutta la famiglia di Videla. Poi ho chiesto di parlare con lui, con Videla, proprio per capire dove tenessero i sacerdoti arrestati», ovvero Orlando Yorio e Francisco Jalics.

Interessante la testimonianza di padre Juan Isasmendi, uno dei sacerdoti impegnati nella “Villa 21-24″, le baraccopoli di Buenos Aires, il quale ha raccontato che Bergoglio, arcivescovo della città, si spese personalmente per contrastare le minacce di morte ricevute da un sacerdote che nel 2009 aveva denunciato la diffusione di una nuova droga tra i poveri delle baraccopoli. «Si presentò una mattina senza essere annunciato e camminò lentamente per tutta la villa, come per dire, se toccate loro, toccate me», ha spiegato. E «si offrì di dormire nella parrocchia» per contrastare, con la propria autorità, le minacce subite dai sacerdoti. In un editoriale del 2005 Aldo Cazzullo ha parlato di «un’infamia alimentata dai nemici di Bergoglio indicò in lui l’ispiratore del sequestro; era vero il contrario: il Provinciale andò di persona da Videla per chiedere la liberazione dei due religiosi, e agli atti della giunta militare risulta la richiesta di un passaporto per loro». Non si piegò mai, spiega ancora Cazzullo, ai caudillos, ai militari e ai politici, che si sono alternati alla guida dell’Argentina, anzi «si mosse per salvare preti e laici dai torturatori, ma non ebbe parole di condanna pubblica che del resto non sarebbero state possibili se non a prezzo della vita, e tenne a freno i confratelli che reclamavano il passaggio all’opposizione attiva», Andrea Velardi, ricercatore presso l’Università di Messina, ha affermato che i due gesuiti rapiti sono stati liberati «per l’opera silenziosa di Bergoglio che si mosse segretamente per riportare quei preti a casa, sani e salvi».

«Bergoglio è stato molto critico nei confronti delle violazioni dei diritti umani durante la dittatura, ma ha sempre criticato anche i guerriglieri di sinistra. Egli non dimentica quella parte» ha scritto il suo biografo Sergio Rubin. Il premio Nobel Pérez Esquivel in un’intervista per Repubblica, ha aggiunto: «So bene che il nuovo Papa è accusato di non aver fatto abbastanza durante gli anni della dittatura e di essere implicato nella scomparsa di due sacerdoti: ma io so che si è battuto di fronte ai militari per difendere delle persone, so che molte altre ne ha aiutate a fuggire. Non tutte le sue parole sono state ascoltate, i militari alla fine facevano quello che volevano. Ma non lo si può accusare di essere stato complice. Molti vescovi cercarono di fare cose durante la dittatura e non furono ascoltati: posso raccontare di quello che intervenne in mio favore, per mesi, cercando di farmi liberare. Non ci riuscì. Bergoglio ha cercato di aiutare le vittime della dittatura: nessuno di noi sa con precisione come e quanto, ma lo ha fatto, e non è poco».

Nel settembre 2013 è uscito il libro “La lista di Bergoglio. I salvati da papa Francesco. Le storie mai raccontate“ (EMi 2013) di Nello Scavo con la prefazione di Adolfo Pérez Esquivel, nel quale si raccontano le vicende di quanti – dissidenti, sindacalisti, preti, studenti, intellettuali, credenti e no – l’allora padre Jorge Mario Bergoglio riuscì a mettere in salvo perché perseguitati dalla giunta militare. Si parla di un centinaio di nomi, ma appare largamente incompleta. Il provinciale dei gesuiti aveva costruito una rete clandestina per salvaguardare i perseguitati (a cui offriva un campionario di consigli su come depistare la polizia e la censura) e organizzare le fughe verso l’estero. Uno di questi è Juan Manuel Scannone, massimo esponente di quella che dagli anni Ottanta in poi è stata definita “teologia del popolo”, che racconta: «Padre Jorge si prese cura di noi com’era, del resto, suo dovere. Oggi le cose possono essere osservate e giudicate con altri occhi, ma allora Bergoglio fece ciò che nella sua posizione andava fatto. Si rapportava frequentemente con il padre generale, che era al corrente di quanto avveniva, e offriva a noi consigli su come evitare guai, aggirare il pressante controllo del regime, senza però mai dover rinunciare alle nostre idee. Padre Jorge non solo mantenne il segreto allora, ma non ha mai voluto farsi vanto di quella sua particolarissima missione. Egli si adoperò non solo per proteggere, tutelare e salvare padri gesuiti e seminaristi, ma anche per nascondere giovani studenti finiti nel mirino della dittatura, i quali venivano portati nel nostro collegio, con tutte le cautele del caso, allo scopo di tenerli al riparo dai rapimenti della polizia». Oltre ai racconti in prima persona dei perseguitati protetti dal futuro Papa, il saggio contiene racconti e documenti inediti, tra cui la trascrizione dell’interrogatorio dell’allora cardinal Bergoglio, reso nel 2010 in qualità di persona informata dei fatti, davanti ai magistrati che indagavano sulla violazione dei diritti umani durante la dittatura. Con forza emerge l’integrità morale, la coerenza, il coraggio, spesso a rischio della propria vita, del gesuita che diventerà papa Francesco.

E’ intervenuto anche Alfredo Somoza, ex allievo di Bergoglio, sequestrato e incarcerato nel 1981 a Buenos Aires, fuggito prima in Brasile e poi in Italia, dove è arrivato nel 1982 come rifugiato politico, da sempre socialista e non credente. Ha affermato: «Verbitsky si è chiesto se Bergoglio potesse essere ritenuto responsabile dell’arresto dei due gesuiti, io penso invece che è grazie al suo operato e a quello di tutti i gesuiti che i due religiosi ne sono usciti vivi, rilasciati dopo cinque mesi, quando in quel periodo era frequente “scomparire”. Jorge Mario Bergoglio e i gesuiti sono riusciti a salvare tante persone negli anni bui della giunta militare in Argentina. Ne sono stato testimone oculare. Questa della sua compromissione con la dittatura militare è una storia che vorrebbe ridurre il valore della sua elezione a Papa». Anche dal gesuita Josè Luis Caravais, esponente di spicco della Teologia della liberazione, perseguitato in Paraguay dalla dittatura di Alfredo Strousser (1954-1989), ha spiegato: «Padre Bergoglio mi salvò la vita. Se non mi avesse protetto a Buenos Aires dai repressori della dittatura, non sarei qui». Padre Jorge Mario sapeva di essere finito nella lista nera delle personalità da spiare notte e giorno e con lui tanti altri, compreso un giovane che finirà a lavorare in Vaticano. Bergoglio, che a quel tempo non era ancora vescovo, s’era accorto che il ragazzo gli somigliava parecchio e sfruttò la somiglianza per farlo scappare. Lo ha confermato lui stesso quando venne interrogato dalla commissione d’inchiesta sugli anni del regime: «Ho fatto scappare dal Paese, passando da Foz do Iguacu un giovane che mi somigliava molto, dandogli la mia carta d’identità e vestendolo da prete: solo così potevo salvargli la vita».

Il 14 ottobre 2014 è uscito nelle librerie il secondo volume dell’indagine di Nello Scavo, intitolata: “I sommersi e i salvati di Bergoglio” (Piemme 2014). E’ la continuazione della rivelazione sull’impegno dell’allora gesuita e poi cardinale Bergoglio per salvare tanti dissidenti dalla dittatura argentina. Anche in questa occasione vengono riportate svariate testimonianze di prima mano.