00 15/06/2014 18:19
XII. Chi si è purificato è in grado di contemplare in se stesso la bellezza divina; della causa del male

Ma forse nessuno ignora tutto questo; piuttosto, è naturale che alcuni cerchino di sapere se è possibile trovare una sorta di metodo e di via capace di condurci a questa meta. I libri divini sono pieni di tali istruzioni, e molti santi rendono visibile la loro vita, che serve come da faro a coloro che camminano secondo il volere di Dio. Ma ciascuno può attingere in abbondanza da entrambi i Testamenti le relative norme della Scrittura ispirata da Dio: molto si può prendere senza limitazione sia dai profeti e la legge sia dalle tradizioni evangeliche ed apostoliche; le riflessioni che potremmo fare seguendo le parole divine sono invece le seguenti.
L'uomo, quest'essere vivente provvisto di ragione e di pensiero, opera ad imitazione della natura divina e pura (nella cosmogonia è scritto a proposito di lui che «Dio lo fece a sua immagine»); quest'essere vivente, quest'uomo, non ricevette dunque alla sua nascita, come parte della propria natura e della propria essenza, la proprietà di essere soggetto alle passioni ed alla morte. Non sarebbe infatti stato possibile salvaguardare il principio dell'immagine, se la bellezza rappresentante l'immagine fosse risultata contraria al suo modello. Solo dopo la sua prima formazione furono introdotte nell'uomo le passioni. Questo avvenne nel modo seguente. Come si è detto, l'uomo era l'immagine e l'imitazione della potenza che su tutto regna, e per tale ragione, nella libertà delle sue scelte, era simile al padrone di tutte le cose; non era schiavo di nessuna necessità esterna, e poteva disporre di sé come voleva secondo il proprio giudizio, giacché aveva la facoltà di scegliere ciò che gli piaceva. Fu lui ad attirare volontariamente su di sé, fuorviato da un inganno, la disgrazia in cui ora si trova il genere umano: da sé scopri il male, senza averlo visto prodotto da Dio. «Non fu infatti Dio a creare la morte», ma fu l'uomo a divenire in un certo senso il creatore e l'artefice del male. La luce solare può essere percepita da tutti coloro che sono provvisti della facoltà visiva. Chi vuole può, chiudendo gli occhi, rimanere estraneo a questa percezione; in tal caso però non è il sole a ritirarsi altrove ed a produrre quindi la tenebra, ma è l'uomo a separare il proprio occhio dal raggio chiudendo le palpebre.
Poiché la facoltà visiva non può funzionare a causa della chiusura degli occhi, è fatale che l'inattività della vista metta in azione la tenebra, che l'uomo fa insorgere deliberatamente tramite la cecità. Così pure, chi si costruisce una casa senza lasciare aperta nessuna via capace di far entrare la luce nell'interno, deve necessariamente vivere nella tenebra, in quanto ha chiuso di proposito l'ingresso ai raggi solari. Allo stesso modo il primo uomo nato dalla terra, o piuttosto colui che fece nascere il male nel genere umano, trovava il bello ed il buono a portata di mano in qualsiasi punto del suo ambiente naturale e ne poteva disporre come voleva; tuttavia, agendo contro se stesso, introdusse volontariamente delle novità contrarie alla natura e così, rifiutando la virtù, venne a provare il male di sua libera scelta. Il male, considerato al di fuori della libera scelta ed in se stesso, non esiste nella natura: «ogni creatura di Dio è bella e non va disprezzata» e «tutte le cose che Dio ha fatto sono fin troppo belle». Ma quando l'ingranaggio del male s'introdusse nel modo sopra descritto nella vita dell'uomo corrompendola, e quando in seguito al riversarsi nell'uomo di un'enorme quantità di vizi originatisi da un piccolo pretesto, anche la bellezza della sua anima - simile a Dio ed imitazione della bellezza originaria - venne annerita come un ferro dalla ruggine del vizio, l'uomo in quelle circostanze non seppe più conservare la grazia dell'immagine che gli era propria e che era conforme alla natura, ed assunse l'aspetto turpe caratteristico del peccato. Per questo l'uomo, «questa cosa grande e preziosa» - così lo chiama la Scrittura - abbandonò la propria dignità: come chi scivola e cade nel sudiciume diventa irriconoscibile anche alle persone con cui ha familiarità perché tutta la sua figura è sporca di fango, così anche l'uomo, caduto nel sudiciume del peccato, perse l'immagine del Dio incorruttibile ed assunse con il peccato un'immagine soggetta a corruzione e fangosa. La parola divina suggerisce di toglierla lavandola con l'acqua pura della retta condotta di vita, in modo che «una volta eliminato l'involucro» di terra, possa apparire di nuovo la bellezza dell'anima. La deposizione di ciò che è contrario all'uomo consiste nel ritorno a ciò che gli è proprio e secondo natura: in quest'intento egli non può riuscire, se non ritorna ad essere quello che era all'inizio, quando fu creato. La somiglianza a Dio non è infatti opera nostra né una realizzazione delle facoltà umane, ma dipende dalla generosità di Dio, che la donò alla natura umana fin dalla sua prima nascita.
L'uomo deve preoccuparsi solo di togliere la sporcizia che il vizio ha accumulato in lui e di far risplendere la bellezza della sua anima, prima velata. Penso che nel Vangelo il Signore insegni proprio questo quando dice a coloro che sono in grado di ascoltare «la sapienza comunicata nel mistero»: «il regno di Dio è dentro di voi». La sua parola mostra, a mio parere, come il bene concesso da Dio non sia separato dalla nostra natura né sia situato lontano da coloro che intendono cercarlo, ma si trovi in ciascuno di noi: esso è ignorato e nascosto quando «viene soffocato dagli affanni e dai piaceri della vita», ma può essere ritrovato quando diventa l'oggetto dei nostri pensieri, Se devo rendere più credibile con altri argomenti ciò che ho detto, ricorderò che a mio avviso il Signore vuole farci pensare proprio a questo quando parla della ricerca della dracma perduta: pur essendo tutte presenti, di nessuna utilità possono essere le rimanenti virtù - chiamate dracme dal Vangelo - se quella sola dracma manca nell'anima rimasta vedova. Per questo il Signore, alludendo forse alla ragione «che illumina gli oggetti nascosti», ci ordina di «accendere innanzitutto la lampada» e di cercare quindi la dracma perduta «nella nostra casa», vale a dire in noi stessi. Con la dracma cercata Egli vuole alludere proprio all'immagine del re, che non è persa del tutto, ma è solo nascosta nello sterco. Per sterco bisogna intendere, a mio parere, la sporcizia prodotta dalla carne: una volta che questa è stata spazzata via ed eliminata da una retta condotta di vita, l'oggetto cercato riappare; allora, l'anima che l'ha ritrovato ha ragione di rallegrarsi e di rendere i vicini partecipi della sua gioia. In effetti, quando la grande immagine del re impressa fin dal principio sulla nostra dracma «da colui che ha formato i nostri cuori ad uno ad uno» vien scoperta ed ha modo di risplendere, allora tutte le facoltà presenti nell'anima - chiamate «vicini» - si voltano
sotto l'effetto di quella gioia ed esultanza divina, e rimangono fisse nella contemplazione dell'ineffabile bellezza dell'oggetto trovato. «Rallegratevi con me - dice il Signore - perché ho ritrovato la dracma che avevo perso». Le facoltà dell'anima «vicine», vale a dire presenti in lei -quella razionale, quella concupiscibile, quella che regola il dolore e l'ira e tutte le altre di cui si può pensare dotata l'anima - piene di gioia per la scoperta della dracma divina a buon diritto possono essere ritenute amiche: è naturale che tutte si rallegrino nel Signore, quando contemplano il bello ed il buono ed agiscono per glorificare Dio, senza essere più le armi del peccato.
Se il ritrovamento di ciò che si cercava significa il ritorno alla condizione primitiva dell'immagine divina che ora è nascosta dalla sporcizia della carne, noi dobbiamo diventare quello che il primo uomo creato fu all'inizio della sua vita. Com'era dunque? Non aveva vestiti fatti con pelli morte, poteva guardare con tutta sicurezza il volto di Dio, non giudicava il bello mediante il gusto e la vista, «gioiva solo nel Signore», e a tale scopo - questo fa capire la divina Scrittura - si serviva dell'aiuto che gli era stato dato, giacché non conobbe la sua donna prima della cacciata dal paradiso e prima che essa fosse condannata alla pena del parto per il peccato che aveva commesso lasciandosi ingannare.
Possiamo ritornare alla primitiva beatitudine ripercorrendo in senso inverso quello stesso cammino che ci portò fuori del paradiso, quando ne venimmo scacciati insieme al nostro progenitore. Di quale cammino si tratta? Allora il piacere, prodotto dall'inganno, diede inizio alla caduta. Alla passione accesa dal piacere seguirono quindi la vergogna, la paura, il non avere più il coraggio di stare al cospetto del Creatore, ed il nascondersi tra le foglie nell'ombra; dopo di che, essi si ricoprirono di pelli morte. Così furono mandati esuli in questa regione malsana ed aspra, nella quale il matrimonio fu concepito come un mezzo di consolazione di fronte alla morte.