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Capitolo 12

Soffermiamoci su un altro passo del medesimo tenore: "Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, chi, invece, non crede nel Figlio, non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui". Se l'ira di Dio rimane, deve, ovviamente, avere avuto un inizio, e da qualche colpa, poiché prima quest'uomo non ha avuto fede. Appena, quindi, uno crede, la collera di Dio, si allontana, la vita si avvicina. Credere in Cristo è lucrarsi la vita. Infatti, "chi crede in lui non è condannato".

Ma i Novaziani replicano che chi crede in Cristo deve scrupolosamente osservare il suo verbo. Affermano, infatti, che nella Scrittura si leggono queste parole del Signore: "Io come luce sono venuto al mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolterà le mie parole e le osserverà, io non lo condanno". Egli non condanna, tu, invece, ti ergi a giudice? Il Signore dice: "Affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre", cioè, sebbene sia stato nell'oscurità, non vi resti per sempre, ma corregga l'errore, si liberi della colpa, creda nei miei insegnamenti. Infatti, ho detto: "Non ho piacere della morte del peccatore, bensì che desista dalla sua condotta". Ho già affermato che "chiunque crede in me non è condannato". Sono del medesimo parere. "Sono venuto, infatti, non già per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per opera mia". Volentieri perdono, mi mostro indulgente senza esitazione, "voglio l'amore e non il sacrificio", giacché il giusto attesta la sua devozione mediante il sacrificio, il peccatore si procura la salvezza in forza della misericordia. "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori". Nella legge è il sacrificio, nel Vangelo l'amore; " La legge fu data per mezzo di Mosè", la grazia in virtù mia. Quale discorso più limpido di questo del Signore?

Più innanzi dice: "Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna". Credi forse che chi non si è emendato recepisca le parole del Signore? Non lo direi. Chi si corregge accoglie il verbo di Cristo. La parola del Signore, infatti, vuole, appunto, significare che ciascuno di sua volontà deve allontanarsi dal peccato. Perciò è necessario che o tu ripudi il pensiero da lui espresso o che ne sia pago, se non sei in grado di confutarlo.

Chi desiste dal peccato e rifugge dalle colpe deve osservare i precetti del Signore. Non è da credere che egli esprimendosi come si è detto si sia riferito a chi è stato sempre ubbidiente alla sua parola. Se avesse inteso in questa maniera, avrebbe aggiunto "sempre". Dal momento che non lo ha aggiunto, ovviamente, ha parlato di chi è stato osservante delle parole che ha udito. Ha prestato loro ascolto per correggere il suo errore. Ha custodito, pertanto, quello che ha udito.

Quanto sia cosa spietata che debba per sempre essere condannato chi almeno dopo aver peccato ha osservato gli insegnamenti del Signore, può ben insegnartelo egli stesso che non ha rifiutato il perdono a gente che non ha ubbidito alla sua legge. Sta scritto nel testo del Salmo: "Se violeranno i miei statuti e non osserveranno i miei comandi, punirò con la verga il loro peccato e con flagelli la colpa, ma non toglierò loro la mia grazia". Il Signore promette a tutti misericordia.

Ma perché tu non creda che si tratta di pietà indiscriminata, c'è distinzione tra gli uomini che sono stati sempre ubbidienti ai comandi celesti e quelli caduti in colpa per errore o in forza delle circostanze. Ancora, perché tu non pensi che il giudizio divino possa in qualche modo essere limitato dal nostro argomentare, presta attenzione. Il Signore dice: "Se un servo conoscendo la volontà del padrone non ha agito in conformità, riceverà molte percosse, ne riceverà, invece, poche, se non l'ha conosciuta". Il Signore accoglie, dunque, entrambi, purché abbiano fede, giacché "Dio castiga ogni figlio che accoglie". Indubbiamente, non consegna alla morte chi punisce. Sta scritto "Il Signore mi ha provato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte".

Capitolo 13

Infine, Paolo insegna che non bisogna abbandonare persone che hanno commesso peccato che cagiona morte, bensì castigarle con i pani delle lacrime e con la bevanda del pianto, in maniera, tuttavia, che l'afflizione sia contenuta. Questo, appunto, significa: "e li abbevererai di lacrime con misura", in modo, cioè, che l'angoscia abbia un limite, affinché il penitente non soccomba all'eccessiva tristezza. Scrive ai Corinzi: "Che volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore e con spirito di dolcezza?". Il bastone non vuole significare spietatezza. Egli aveva letto: "Tu lo batterai con la verga, salverai però la sua anima dalla morte".

Quale significato avesse "venire con il bastone", ce lo insegnano la sua invettiva contro l'immoralità, l'accusa dell'incesto, il biasimo dell'orgoglio di cui erano gonfie persone che avrebbero dovuto, invece, piangere, e, infine, il verdetto pronunziato contro il reo che era escluso dalla comunione e dato in balia di Satana, per la morte della carne e non dell'anima. Come il Signore non diede al diavolo alcun diritto sull'anima di Giobbe, bensì gli concesse la padronanza assoluta del corpo, così il reo è dato da Paolo a Satana per la distruzione della carne, perché il serpente lambisse la sua terra, senza nocumento, però, dell'anima.

Muoia, dunque, la nostra carne ai desideri, sia pure in catene, in schiavitù, non muova guerra alla legge dello spirito. Muoia, soggiacendo a salutare servitù, secondo l'esempio di Paolo. L'Apostolo torturava il corpo per renderlo schiavo, con l'intento di dare maggiore credito alla parola, se la legge della carne non sembrasse affatto essere in guerra con quella dello spirito. La carne, infatti, muore quando la sua saggezza si trasferisce allo spirito; non è più allora sapiente nelle cose materiali, ma nelle spirituali. Oh, mi fosse concesso di vedere la mia carne ammalarsi, così da non essere più trascinato prigioniero della legge del peccato e non vivere nella carne, bensì nella fede di Cristo! E', pertanto, grazia più grande nella infermità che nella salute del corpo. Il Signore amò intensamente Paolo, eppure non volle liberarlo dalla malattia della carne. Allorché l'Apostolo gli domandò di allontanare l'infermità dal corpo, rispose: "Ti basta la mia grazia; la potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza". Paolo attesta di trovarsi maggiormente a suo agio nelle infermità: "Quando sono debole è allora che sono forte". La virtù dell'animo raggiunge la perfezione, quando la carne è ammalata.

Abbiamo chiarito il pensiero di Paolo. Soffermiamoci sul significato delle parole, per quale motivo, cioè, ha detto di aver dato il reo "in balia di Satana, per la morte della carne". La spiegazione è nel fatto che il diavolo ci mette alla prova. Suole arrecare, infatti, infermità a ciascuna delle membra e cagionare malattia all'intero corpo. Afflisse, appunto, il santo Giobbe con orrenda piaga dai piedi alla testa, poiché il Signore gli aveva dato potestà assoluta sulla carne, dicendo: "Eccolo nelle tue mani! Soltanto, risparmia la sua anima". L'Apostolo esprime analogo concetto, quando dice che ha dato un individuo "siffatto in balia di Satana per la morte del corpo, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo".

Autorità grande, grazia insigne quella che può imporre al demonio di distruggersi da se medesimo! Si distrugge, infatti, quando da debole rende forte l'uomo che egli desidera dolosamente abbattere con l'indurlo in tentazione. Ne fiacca la carne, ma rinvigorisce lo spirito. L'infermità del corpo caccia via il peccato, la dissolutezza rafforza, invece, la colpa della carne.

Il diavolo rimane beffato, si morde con i suoi stessi denti. Arma contro di sé chi si era illuso di prostrare. Ferisce il santo Giobbe, ma lo fornisce di armi migliori, giacché costui, pur avendo il corpo ricoperto di orrenda piaga, soffrì i morsi del diavolo, senza risentire l'effetto velenoso. Fu, appunto, a lui opportunamente detto: "Potrai tu pescare il dragone con l'amo, scherzerai con lui come con un uccello, lo legherai così come il fanciullo il passero, porrai su di lui la tua mano".

Il demonio, puoi constatarlo, viene schernito da Paolo. Alla maniera del fanciullo nella profezia, l'Apostolo introduce la mano nella bocca dell'aspide, senza che il serpente gli arrechi danno. Lo trae fuori dalle tenebre, fa del suo veleno un antidoto spirituale, trasformandolo in farmaco. Il veleno è per la morte della carne, l'antidoto per la salvezza dell'anima. Ciò che è di danno al corpo, riesce di utilità allo spirito.

Mangi pure il serpente la mia terra, addenti la carne, riduca a brandelli il corpo. Il Signore dica di me: "Eccolo nelle tue mani! Soltanto, risparmia la sua anima". Grande davvero è la potenza di Cristo il quale impone la custodia dell'uomo al demonio che pure non ha altra mira se non il nostro danno! Rendiamoci, dunque, propizio il Signore. Quando Cristo regna, il diavolo si trasforma addirittura in guardiano della preda. Ubbidisce, sia pure di cattivo animo, agli ordini divini e, quanto vuoi spietato, esegue comandi improntati a misericordia.

Ma perché mai vado elogiando lo spirito di ubbidienza del demonio? Egli sia sempre il cattivo per antonomasia, e Dio, che muta la malvagità del diavolo in grazia per il nostro bene, sia sempre il buono. Satana vuole fare danno, ma non può, se Cristo lo vieta. Ricopre di piaghe la carne, ma custodisce l'anima. Inghiotte la terra, preserva, però, lo spirito. D'altra parte sta scritto: "Allora i lupi e gli agnelli pascoleranno insieme, il leone e il bue si ciberanno di paglia, il serpente di terra quasi fossi pane. E non cagioneranno, dice il Signore, danno e distruzione sul suo santo monte". E' questo il verdetto di condanna del serpente: "Mangerai terra". Quale terra? Quella di cui è detto: "Terra sei e terra tornerai".

Capitolo 14

Il serpente mangia questa terra, se Gesù è misericordioso verso di noi, così che l'anima soffra per la debolezza della carne, ma non si bruci a causa del calore del corpo e dell'ardore della membra. "E' meglio sposarsi che ardere". C'è una fiamma, infatti, che avvampa dentro di noi. Dunque, affinché non ci bruciamo la veste dell'io interiore e la vorace fiamma della dissolutezza non logori l'abito esterno dell'anima, cioè, la sua tunica di pelle, non dobbiamo tenere stretto il fuoco nel grembo della mente, nel segreto del cuore. Occorre varcare la fiamma. Se qualcuno, perciò, incappa nel fuoco divampante dell'amore, spicchi un salto e lo attraversi. Non trattenga l'impudico desiderio, avvincendolo con i lacci dei cattivi pensieri. Non stringa a sé i legami con i nodi di una mente unicamente assorta dalla bramosia. Non rivolga troppo spesso gli occhi alla appariscente bellezza di una prostituta. La ragazza non sollevi lo sguardo al volto del giovane. Se ha per caso guardato ed è rimasta colpita, lo sarà ancora maggiormente, se curiosa fisserà gli occhi.

La consuetudine, almeno, ci sia maestra. La donna si vela il capo perché il suo pudore sia salvaguardato tra la folla, perché il volto si sottragga facilmente agli occhi del giovane. E' necessario che si ricopra del velo nuziale per non essere esposta a causa di occasionali incontri a ferite infertele da altri o che sia essa a cagionare. La piaga, comunque, in entrambi i casi, è lei a subirla. E se si vela il capo perché non sia vista o sia essa a vedere - quando la testa è coperta, il volto anche è nascosto -, ancora di più deve ammantarsi del velo del pudore, affinché, anche in mezzo alla folla, rimanga come appartata.

Ammettiamolo pure: l'occhio si è casualmente posato. L'animo, però, non si soffermi con desiderio. Non è colpa il vedere, ma dobbiamo guardarci che da esso scaturisca il peccato. L'occhio corporale vede, il pudore dell'animo, tuttavia, tenga a freno gli occhi del cuore. Abbiamo il Signore maestro di spiritualità e, a un tempo, di dolcezza. Il profeta ha detto: "Non guardare alla bellezza di una cortigiana". Il Signore, tuttavia, ha affermato: "Chiunque guarderà una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore". Non ha detto: "Chiunque guarderà" ha commesso adulterio, ma "chiunque guarderà per desiderarla". Non vuole imporre limiti di sorta alla vista, bensì fa questione di sentimento. Santo è il pudore che ama tenere a freno gli occhi del corpo, così che spesso non vediamo addirittura ciò che ci è innanzi. Apparentemente l'occhio vede ogni cosa che gli si para davanti, ma se non si aggiunge l'intenzione, questo nostro vedere, di cui la carne ci dà possibilità, riesce vano.

Dunque, vediamo con la mente più che con il corpo. La carne abbia pure veduto il fuoco, non teniamoci, però, la fiamma stretta in grembo, nel segreto, cioè, della mente, nell'intimo dell'animo. Non facciamo penetrare il fuoco nelle ossa, non incateniamoci da noi stessi, non parliamo con gente da cui emani ardente la fiamma della colpa. L'eloquio della ragazza è nodo che avvince i giovani. Le parole dell'adolescente sono lacci d'amore per la giovinetta.

Giuseppe fece esperienza di un fuoco del genere, allorché la femmina desiderosa d'adulterio gli parlò. La donna meditò di adescarlo con le sue parole. Ricorse alle malizie tutte delle labbra, non riuscì, però, ad imprigionare l'uomo casto. La voce del pudore, la serietà dell'eloquio, le briglie della prudenza, l'ossequio della fede, l'esercizio della castità, sciolsero i lacci che la donna intendeva stringere. La svergognata non poté accalappiarlo con le sue reti. Tese la mano e lo afferrò alla veste per stringere il nodo. Le parole della donna sfacciata sono le reti della cupidigia, la mano il vincolo della sua passione. Non reti, non lacci ebbero ragione dell'uomo casto. Scosse via la veste, il nodo fu sciolto. Non trattenne la fiamma nel grembo della mente e impedì, pertanto, che la carne si bruciasse.

Non comprendi, dunque, che il nostro animo è la fonte del peccato? La carne è innocente, ma per lo più è lo strumento della colpa. Pertanto, non ti lasciare soggiogare dal desiderio che suscita la bellezza. Il diavolo tende reti infinite, tagliole di ogni specie. L'occhio della cortigiana è il laccio che accalappia l'amante. I nostri occhi stessi sono reti. Sta scritto: "Non lasciarti adescare dai tuoi occhi". Noi medesimi tendiamo le reti che ci avvolgono e stringono. Siamo noi ad intrecciarci nodi. Perciò, si legge: "Ciascuno è catturato con le funi dei suoi peccati".

Orsù, passiamo attraverso il fuoco dell'adolescenza, le fiamme dell'età giovanile. Attraversiamo l'acqua, ma non indugiamo in essa, per non restare sommersi nel profondo delle fiumane. Varchiamole, dunque, così da dire: "L'anima nostra è passata attraverso le acque impetuose". Se uno, infatti, riesce a superarle è salvo. D'altronde, il Signore afferma: "Se dovrai attraversare le acque, io sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno". Il profeta dice: "Ho visto l'empio trionfante ergersi al di sopra dei cedri del Libano; sono passato e non c'era più". Passa, dunque, attraverso le vanità del secolo e vedrai del tutto fiaccata la tracotanza degli empi. Anche Mosè, varcando i fiumi di questo mondo, ebbe una visione sublime, e disse: "Passerò attraverso, contemplerò questo meraviglioso spettacolo". Se avesse perseverato nei vizi del corpo, nelle fallaci passioni del secolo, non avrebbe contemplato i misteri ineffabili.

Varchiamo, dunque, anche noi questo fuoco dell'incontinenza. Paolo non ne ha avuto certo paura: se lo ha temuto, è stato soltanto per amore nostro. Infliggendo, infatti, castighi al corpo, lo aveva messo in condizione di non nutrire paura per sé. Dice: "Fuggite la fornicazione". Fuggiamo, dunque, lontano dalla lussuria che ci incalza, ci insegue, e non è già alle nostre spalle, bensì in noi stessi. Guardiamoci dal trascinarcela con noi, mentre cerchiamo in ogni modo di sfuggirle. Siamo, sì, disposti spesso a sottrarci a lei, ma se non la eliminiamo, ce la portiamo con noi invece di disfarcene. Passiamole, dunque, attraverso con un salto, perché non ci dica: "Camminate nelle fiamme del vostro fuoco che avete acceso per voi". Come chi "porta il fuoco nel petto si brucia le vesti", così chi cammina sul fuoco non può non bruciarsi i piedi. Sta scritto: "Chi camminerà sulla brace senza scottarsi i piedi?".

Il fuoco è esiziale. Non alimentiamolo con la dissolutezza. La lussuria si pasce di imbandigioni, si nutre di piacevoli raffinatezze, si infiamma con le libagioni, divampa allorché siamo ubriachi. Ma ancora più funesti sono gli allettamenti delle parole che inebriano l'animo con il vino, per così dire, della vite di Sodoma. Guardiamoci, tuttavia, anche dall'uso del vino che è a nostra disposizione e per il cui effetto la carne diventa ebbra, la mente vacilla, l'anima tentenna, il cuore ondeggia. Il precetto con cui Paolo esorta Timoteo: "Fa' uso di un po' di vino a causa delle tue frequenti malattie", vuole significare che se il vino, da un lato, quando il corpo è in balia delle passioni, ne accresce il peccaminoso ardore, dall'altro, somministrato, invece, quando la carne è resa gelida dalla malattia, dà sollievo allo spirito. Se il corpo è in preda del dolore, la mente è afflitta, la tua tristezza, però, si muterà in gioia.

Non avere, perciò, timore, se la tua carne è data in pasto: la tua anima non è divorata. David dice di non avere paura, poiché, come leggiamo, i nemici mangiavano la sua carne, non lo spirito: "Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, i nemici che mi tormentano, a inciampare e a cadere". Il serpente cagiona morte soltanto a se stesso. Chi egli stritola gli è affidato perché lo faccia risorgere dopo averlo abbattuto e la resurrezione dell'uomo diventi la sconfitta della belva. Nella Scrittura Paolo ci addita in Satana l'autore della distruzione e infermità della carne e del corpo: "Mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia". Paolo ha imparato a curare i malati con le medicine medesime che hanno restituito a lui la vita.