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Capitolo 9

Ma replicheranno che sta scritto: "Se un uomo pecca contro un altro uomo, si pregherà Dio per lui, ma se un uomo pecca contro il Signore, chi potrà intercedere per lui?". Innanzi tutto, come ho affermato in precedenza, ti lascerei anche muovere obiezioni del genere, se tu escludessi dalla possibilità del pentimento i sacrileghi soltanto. Tuttavia la domanda quale tormentoso dubbio potrebbe cagionare? Non sta scritto: "Nessuno intercederà per lui", ma "chi intercederà", cioè, si pone il quesito chi possa pregare per lui in tale eventualità, non si fa esclusione di sorta.

Nel salmo 14, 1 leggiamo: "O Signore chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte?". Non già nessuno vi abiterà, bensì il virtuoso, né afferma che nessuno vi dimorerà, ma il prescelto. A conferma di questa verità, non molto dopo nel Salmo 23, 3 dice: "Chi salirà il monte del Signore, chi starà sul suo luogo santo?". Cioè, non un uomo qualsiasi, di bassa levatura, ma di condotta esemplare, di merito eccezionale. Perché ti convinca che quando è detto "chi" non s'intende "nessuno", bensì "qualcuno", dopo aver domandato: "Chi salirà il monte del Signore?", ha aggiunto: "Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non ha ricevuto invano la sua anima." In altro passo: "Chi dotato di sapienza intenderà queste parole?". Forse dice che nessuno le comprende? Ancora, nel Vangelo: "Chi è l'amministratore fedele e saggio, che il Signore ha posto a capo della sua servitù per distribuire a ciascuno, a tempo debito, la razione di cibo?". Perché ti sia chiaro che ha alluso a persona esistente e non già immaginaria, ha aggiunto: "Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro". In questo senso anche, secondo me, è detto: "Dio, chi è simile a te?" E' da escludere "nessuno", perché il "Figlio è l'immagine del Padre".

Non diversamente è da interpretare: "Chi intercederà per lui?", cioè, qualcuno che meni vita senza macchia deve pregare per chi ha commesso peccato contro il Signore. Quanto più grave è la colpa, tanto più c'è necessità di un valido patrocinio. Non uno qualsiasi della folla, ma Mosè pregò per il popolo dei Giudei, allorché essi, trascurando la fede giurata, adorarono la testa del vitello. Forse Mosè commise errore? Non direi, giacché meritò che la sua preghiera fosse esaudita. Cosa, d'altra parte, non avrebbe conseguito un uomo così predisposto che si sacrificava per il suo popolo dicendo: "Ora se tu perdoni loro il peccato, rimettilo, altrimenti cancellami dal libro della vita"? Puoi constatare che non alla maniera di un patrocinatore molle, schifiltoso, si guarda dall'arrecare offesa, colpa questa che, invece, il novaziano afferma di temere. Avendo a cuore la causa comune, dimentico della propria, Mosè non aveva paura di commettere peccato pur di sottrarre, liberare i Giudei dal pericolo che loro derivava dall'aver offeso Dio.

A ragione, dunque, sta scritto: "Chi intercederà per lui?". Un uomo, cioè, della levatura di Mosè disposto a sacrificarsi per i peccatori o di Geremia che, nonostante Dio gli avesse comandato: "Tu non pregare per questo popolo", levò ugualmente suppliche e ottenne il perdono. Del resto, il Signore medesimo impietosito dall'intercessione del profeta e dalla preghiera del veggente così santo, rivolge la parola a Gerusalemme. La città, infatti, si era pentita dei peccati e aveva pregato: "Signore onnipotente, Dio d'Israele, un'anima angosciata, uno spirito tormentato grida verso di te. Ascolta, Signore, abbi pietà". Dio le ordina di spogliarsi delle vesti del dolore, di porre fine ai gemiti della penitenza. Così, infatti, è scritto alla fine del libro: "Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell'afflizione, rivestiti dello splendore della gloria chi ti viene da Dio per sempre".

Capitolo 10

Dobbiamo trovare patrocinatori di tale specie quando si tratta di colpe assai gravi. Se, infatti, persone qualsiasi esercitano la mediazione, non è dato loro ascolto.

Non potrà, quindi, avere alcun valore l'obiezione che fate, ricavandola dall'epistola di Giovanni il quale dice: "Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio darà la vita a chi commette un peccato che non conduce alla morte. C'è infatti un peccato che conduce alla morte, per questo dico di non pregare". L'Evangelista non rivolgeva la parola a Mosè, a Geremia, ma a un popolo costretto a ricorrere al patrocinio di qualcuno che preghi per le sue colpe; a un popolo che è pago di supplicare Dio per i peccati più leggeri, nel convincimento che la remissione dei più gravi si debba riservare soltanto alle preghiere degli uomini giusti. Come Giovanni avrebbe potuto affermare che non si deve pregare per una colpa che conduce alla morte, quando aveva letto nella scrittura che Mosè aveva pregato, e con successo, per la trasgressione della legge di Dio commessa volontariamente dai Giudei e che anche Geremia aveva levato suppliche al Signore?

Come Giovanni avrebbe potuto sostenere che non si deve pregare per un peccato che conduce alla morte, egli che proprio nell'Apocalisse ha scritto del comando impartito al Vescovo della Chiesa di Pergamo? Scrive: "Hai presso di te seguaci della dottrina di Balaan, il quale insegnava a Balak a provocare la caduta dei figli di Israele, spingendoli a mangiare carni immolate agli idoli e ad abbandonarsi alla fornicazione. Così pure hai di quelli che seguono la dottrina dei Nicolaiti. Ravvediti, dunque, altrimenti verrò da te". Non vedi che Dio esige la penitenza per garantire il perdono? Nell'Apocalisse, ancora, dice: "Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: al vincitore darò da mangiare la manna".

Forse Giovanni ignorava che Stefano aveva pregato per i suoi persecutori, i quali avevano in odio persino il nome di Cristo, e che aveva detto a proposito dei lapidatori: "Signore, non imputare loro questo peccato"? Ci è dato constatare in Paolo quale fosse l'effetto della preghiera. Egli che era a guardia dei mantelli degli uomini che scagliavano le pietre, non molto tempo dopo diventò Apostolo in virtù della grazia di Cristo: eppure era stato un persecutore.

Capitolo 11

Poiché il discorso verte sull'epistola cattolica di Giovanni, indaghiamo se quanto egli ha detto nel Vangelo collimi con l'interpretazione da voi data. Scrive: "Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". Se tu desiderassi richiamare alla fede un lapso, lo esorteresti a credere o a non credere? Indubbiamente, a credere. Ma chi crede, secondo quanto il Signore sentenzia, avrà vita eterna. Come ti può essere, dunque, vietato di pregare per una persona cui è dovuta la vita eterna? Non è forse la fede un dono della grazia divina e l'Apostolo, appunto, dove tratta della "diversità dei carismi" insegna che "a uno è donata la fede per mezzo dello Spirito"? I discepoli dicono al Signore: "Aumenta la nostra fede". Chi ha fede ha la vita; chi ha la vita non è escluso dal perdono. Afferma: "Chiunque crede in lui non muoia". Quando dice "chiunque" non c'è limitazione, esclusione di sorta. Non si fa eccezione per il lapso, sempre, s'intende, che si penta convenientemente della colpa.

Sappiamo di tante e tante persone che dopo il peccato si sono adeguatamente fortificate e hanno patito nel nome di Dio. Non possiamo vietare che facciano parte della schiera dei martiri, se Gesù lo ha loro concesso. Abbiamo forse l'ardire di sostenere che non è stata restituita la vita a chi Cristo ha donato la corona del martirio? Dopo la caduta a numerosi peccatori è restituita, dunque, la corona, se patiscono il martirio. Parimenti, sempre che credano, è concessa di nuovo la fede. Fede che è un dono di Dio. Sta scritto: "Da Dio vi è stato concesso non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui". Forse chi riceve la grazia di Dio, non ne ottiene la pietà?

Né è grazia unica, bensì duplice, questa da cui scaturisce che chi crede è anche disposto a soffrire per Gesù. Chi crede ha, dunque, la grazia, e anche un'altra, nel caso che la sua fede sia coronata dal martirio. Pietro non fu privo della grazia prima del martirio; quando, però, lo patì, conseguì anche l'altra. Molte persone che non hanno avuto la grazia di soffrire per amore di Gesù, hanno avuto quella di credere in lui.

Perciò è detto: "Affinché chiunque crede in lui, non muoia". Chiunque, cioè, qualunque sia la condizione di vita, qualsivoglia il peccato, se nutre fede non deve temere la morte. Può verificarsi, infatti, il caso che qualcuno discendendo da Gerusalemme a Gerico, cadendo, cioè, dall'agone del martirio nelle passioni della vita, negli allettamenti del secolo, sia ferito dai predoni, vale a dire, dai persecutori, e lasciato semivivo venga trovato dal Samaritano. Può darsi che costui che è il guardiano delle nostre anime - Samaritano significa, appunto, custode - non passi oltre, ma lo curi, lo guarisca.

Forse non passa oltre, giacché scorge in lui qualche segno di vita che lascia sperare nella guarigione. Non comprendete che anche il lapso è semivivo, se la fede non è del tutto spenta in lui? E' morto chi ha per sempre bandito Dio dal cuore. Chi non lo ha scacciato del tutto, ma, alla prova della tortura, lo ha soltanto temporaneamente misconosciuto, è semivivo. Se, d'altra parte, è morto, perché affermi che deve pentirsi, dal momento che ogni possibilità di guarigione gli è ormai preclusa? E' semivivo: versa, allora, l'olio, e, ancora, il vino che sia mescolato con l'olio, un lenimento, insomma, che gli alimenti il calore e, a un tempo, lo rimorda nella coscienza. Caricalo sul tuo giumento, affidalo all'oste, paga due denari perché sia curato, sii per lui il suo prossimo. Non lo sei se non fai opera di misericordia. Può essere detto "il prossimo" chi gli ha prestato assistenza, non già inferto ferite mortali. Se vuoi meritare l'appellativo di "prossimo", Cristo ti dice: "Va' e anche tu fa' lo stesso".