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Capitolo 8

Fai vedere, dunque, al medico la tua piaga, perché tu sia curato. Se non gliela mostrerai, egli la conosce, ma desidera ascoltare la tua voce. Netta le tue cicatrici con le lacrime. In questa maniera, appunto, la donna di cui è parola nel Vangelo, si è mondata dal peccato, dal fetore della sua iniquità. Si è resa libera dalla colpa, nel lavare i piedi di Gesù con le lacrime.

Volesse il cielo, o Gesù, che tu mi destinassi a lavare i piedi che hai imbrattati mentre incedevi entro di me! Oh, potessi tu concedermi di nettarli nel sudiciume con cui li ho infangati con il mio cattivo operare! Ma donde attingere l'acqua viva con cui lavarli? Non ho a disposizione l'acqua, bensì le lacrime. Oh, potessi con esse purificare me stesso, mentre lavo i tuoi piedi! Come fare, perché tu dica di me: "Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato"? Ben di più avrei dovuto amare, lo ammetto, e fin troppo mi è stato condonato. Sono stato, infatti, chiamato al sacerdozio dopo essere vissuto sino a quel momento tra il frastuono delle cause forensi e le beghe paurose della pubblica amministrazione. E' mio timore, pertanto, apparire ingrato, se dimostrerò un amore minore, giacché molto di più mi è stato condonato.

Ma non posso stimare tutti all'altezza della donna la quale, meritatamente, è stata preferita anche a Simone che offriva il pranzo al Signore. Essa ha, infatti, dato lezione alle persone che intendono lucrarsi il perdono. Ha baciato i piedi di Cristo, li ha lavati con le lacrime, asciugati con i capelli e cosparsi di olio profumato.

Il bacio simboleggia la carità. Il Signore ha detto: "Mi baci egli con il bacio della sua bocca". I capelli cosa altro significano se non che tu sappia che è necessario invocare il perdono dopo aver disprezzato ogni prestigio che derivi dalle insegne delle alte cariche di questo mondo, e che ti getti bocconi al suolo, e che, prostrato, cerchi pietà? L'unguento simboleggia il profumo del buon mutamento d'animo. David era re, eppure diceva: "Ogni notte inonderò di pianto il mio letto, irrorerò di lacrime il mio giaciglio". Meritò, pertanto, una grazia ineffabile: tra i suoi discendenti fu scelta la Vergine che doveva, partorendo, dare alla luce Cristo. La peccatrice pentitasi, dunque, meritatamente per i motivi detti è lodata nel Vangelo.

Tuttavia, se non siamo in grado di uguagliarla, Gesù sa venire in soccorso dei deboli. Se non c'è la donna che possa apprestare il banchetto, offrire l'unguento, portare con sé "la fonte dell'acqua viva", Cristo in persona viene alla tomba.

Volesse il cielo che ti degnassi di accostarti a questo mio sepolcro, o Gesù, e mi lavassi con il tuo pianto! I miei occhi, infatti, si sono inariditi, le mie lacrime non bastano a lavare le mie colpe. Se piangerai per me, sarò salvo. Se sarò degno che tu per un poco versi lacrime per me, mi chiamerai fuori dalla tomba del corpo e dirai: "Esci fuori". Pronunzierai queste parole, affinché i miei pensieri non siano in catene nel carcere della carne, ma ne escano fuori verso Cristo, possano spaziare alla luce, così che io non mediti le opere delle tenebre, ma della luce. Chi ha in animo di peccare, non altro desidera che farsi schiavo della sua coscienza.

Chiama, dunque, fuori il tuo servo. Anche se avvinto dai legami del peccato, con i piedi incatenati, con le mani strette da nodi, anche se per sempre sepolto ai pensieri e alle "opere morte", se mi chiamerai, uscirò fuori libero. Sarò "uno tra quelli che siedono a mensa" al tuo banchetto. Tutta la tua casa emanerà la fragranza del prezioso profumo, se custodirai chi ti sei degnato di riscattare. Si dirà: Costui non è stato allevato nel seno della Chiesa, non è stato domato da fanciullo, ma, a forza, è stato trascinato fuori dai tribunali, strappato dalle follie del secolo. Avvezzo ad ascoltare la voce del banditore, si è assuefatto al cantico del salmista. Ecco, tiene fede al sacerdozio, non già per suo merito, ma in virtù della grazia di Cristo, e siede tra i convitati della mensa celeste.

Preserva, o Signore, il tuo dono. Custodisci il bene che mi hai elargito, anche se da esso rifuggissi. Ero consapevole, infatti, di non meritare di essere chiamato vescovo, giacché mi ero votato al secolo. Ma "per grazia" tua "sono ciò che sono". Sono senza dubbio l'infimo di tutti i vescovi, l'ultimo per merito. Tuttavia, poiché mi sono sobbarcato a qualche travaglio per la tua santa Chiesa, custodisci questo frutto. Non permettere che chi già sull'orlo della perdizione è stato da te chiamato al sacerdozio, ora, che è tuo ministro, soccomba. Mi hai chiamato, perché impari a condolermi di tutto cuore dei travagli del peccatore. Virtù questa davvero grande. Sta appunto scritto: "Non gioire dei figli di Giuda nel giorno della loro sventura, non dire parole altezzose nel giorno della loro angoscia". Mi hai chiamato, perché, ogni volta che si tratta della colpa di un lapso, senta di lui pietà e non lo riprenda con durezza, bensì provi dolore e pianga. Ciò, affinché, nel momento in cui verso lacrime su di un altro, pianga su me stesso e possa dire: "Tamar è più giusta di me".

E' ammissibile che una giovinetta sia caduta nel peccato, ingannata e tratta alla rovina dalle circostanze che sono incentivo al cattivo operare. Però, se pecchiamo quando siamo avanti negli anni, la legge della carne muove guerra in noi a quella dello spirito, ci rende schiavi del peccato, ci induce a fare, insomma, ciò che non vorremmo. La giovinetta ha, almeno, come giustificazione gli anni, io nessuna. Essa deve imparare, io insegnare. Perciò, "Tamar è più giusta di me".

Incolpiamo qualcuno di cupidigia del denaro? Domandiamo prima se non abbiamo operato anche noi dimostrando la medesima bramosia. Allora ognuno di noi dica: "Tamar è più giusta di me". Infatti "l'attaccamento al denaro è la radice dei mali": insensibilmente, come radice che si estende sotto terra, fa il nostro corpo sua preda.

Ci siamo adirati contro qualcuno: un laico, e non un vescovo, può essere perdonato per aver agito sotto l'impulso dell'ira. Rimproveriamoci da noi stessi, diciamo: "Chi è incolpato di essere iracondo è più giusto di me". Parlando così ci metteremo nella condizione che Gesù o qualcuno dei discepoli non dica di noi: "Tu osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello".

Non vergogniamoci, perciò, di ammettere che la nostra colpa è più grave di quella di chi, a nostro giudizio, deve essere sottoposto ad accusa. Così, appunto, si è espresso Giuda che muoveva rimproveri a Tamar: richiamandosi alla mente la propria colpa, dice: "Tamar è più giusta di me". Affermazione che ha un profondo senso riposto e, a un tempo, suona insegnamento morale. Non fu attribuita colpa a Giuda, giacché si accusò da se stesso, prima che altri lo denunziasse.

Che io, dunque, non gioisca per la colpa di nessuno, bensì ne provi dolore! Sta scritto: "Non gioire troppo della mia sventura, mia nemica! Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce. Sopporterò lo sdegno del Signore, perché ho peccato contro di lui, finché egli mi renda ragione. Emetterà il verdetto su di me, mi farà uscire alla luce e vedrò la sua giustizia. La mia nemica lo vedrà, sarà coperta di vergogna, lei che mi diceva: Dove è il Signore Dio tuo? I miei occhi la vedranno e sarà calpestata come fango della strada". Giustamente, poiché chi esulta per la rovina degli altri, tripudia per la vittoria del diavolo. Addoloriamoci, dunque, allorché sentiamo che è andato in perdizione un uomo "per cui Cristo è morto" che non trascura neppure "la pagliuzza nella messe".

Dio voglia che questa "pagliuzza nella messe", il vuoto gambo del mio frutto, non sia gettata via da lui, ma raccolta! Infatti, dice: "Ahimè! Sono diventato come chi raccoglie la pagliuzza nella messe e chi racimola alla vendemmia". Oh, possa egli mangiare in me almeno le primizie della sua grazia, anche se i frutti ulteriori non debbano riuscirgli graditi!

Capitolo 9

Sia, dunque, nostro convincimento che bisogna fare penitenza e che ad essa tiene dietro il perdono. Una remissione, tuttavia, frutto di fede e non, per così dire, di un nostro credito. C'è profondo divario tra il rendersi meritevoli di qualche cosa e l'arrogarsene il diritto. La fede ottiene in forza quasi di obbligazione scritta, la presunzione, invece, è propria di chi è arrogante e non già di chi domanda. Perché tu sia nella condizione di ottenere ciò in cui speri, prima devi far fronte al tuo pegno. Comportati da onesto debitore, così che per pagare la cambiale non debba far ricorso ad altro prestito, bensì possa soddisfare, mediante le ricchezze che ti provengono dalla fede, all'interesse del debito contratto a tuo nome.

Ha maggiore possibilità di pagare chi è debitore di Dio che dell'uomo. Questi esige denaro in cambio di denaro, e il debitore non sempre lo ha pronto. Dio si accontenta, invece, della buona disposizione d'animo che è in tuo potere attestare. Non è povero chi è debitore del Signore, tranne che non si renda indigente da se stesso. Non ha da vendere, possiede, però, i mezzi con cui pagare. Le preghiere, le lacrime, i digiuni, sono le ricchezze del buon debitore e beni più sostanziosi che se uno offra senza fede il denaro ricavato dalla vendita di proprietà.

Povero era Anania, allorché, venduto il podere, consegnava agli Apostoli il denaro che, lungi dal liberarlo dal debito contratto innanzi a Dio, doveva implicarlo in nodi stretti. Ricca era, invece, la vedova, la quale mise due piccole monete nella cassa delle offerte. Di lei è detto: "Questa vedova, povera, ha messo più di tutti". Dio non domanda denaro, ma schiettezza di fede.

La colpa, credo, può essere mitigata mediante elargizioni ai poveri, purché la fede aggiunga credito ai donativi. A che offrire le proprie sostanze, se l'ardore di carità non si accompagna all'oblazione?

Alcuni non mirano che a soddisfare alla vanità personale, a conseguire la fama che può derivare dall'essere munificente. E' loro intento apparire persone virtuose agli occhi del popolino, poiché hanno elargito tutte le sostanze. Vanno in cerca del premio del secolo presente, non mettono, però, in serbo quello del futuro. Se, infatti, "hanno già ricevuto la loro ricompensa" su questa terra, non possono sperare in quella dell'aldilà.

Altri, dopo aver donato i beni alla Chiesa in seguito a impulso precipitoso e non già a matura riflessione, hanno ritenuto opportuno di revocare la donazione. Sia l'uno che l'altro modo di comportarsi non è stato per loro redditizio, in quanto il primo, dettato da inconsulto consiglio, l'altro, informato a sacrilegio.

Alcuni, poi, si pentono di aver spartito gli averi con i poveri. Ma chi esercita la penitenza non deve affatto avere rincrescimento in materia, perché non abbia a pentirsi di essersi pentito. Non pochi, infatti, per timore dell'eterno castigo, consapevoli delle loro colpe, domandano di fare penitenza e, una volta ammessi, si tirano indietro per la vergogna di doverla esercitare pubblicamente. Essi, a mio parere, hanno domandato di fare penitenza delle malefatte e la fanno, invece, delle buone opere da loro compiute.

Alcuni, ancora, invocano la penitenza, ma allo scopo unico di essere reintegrati nella comunione dei fedeli. Non desiderano mondarsi, ma stringere con lacci il ministro di Dio. Non sgravano la loro coscienza, fanno violenza a quella del sacerdote, cui è stato comandato: "Non date le cose sante ai cani e non buttate le vostre perle davanti ai porci". Si deve, cioè, vietare che persone imbrattate di immonde iniquità siano riammesse alla santa comunione.

Osservate queste persone: sono lì a passeggiare. Indossano abiti nuovi, mentre sarebbe stato loro conveniente essere in gramaglie, lamentarsi per avere infangato la veste della grazia battesimale. Le donne si sovraccaricano le orecchie di grosse, preziose perle: sono costrette, addirittura, a piegare le nuche, mentre bene avrebbero dovuto tenerle basse per amore di Cristo e non dell'oro, e versare, a un tempo, lacrime su se stesse per aver perduto la perla preziosa, la celeste.

Altri sono convinti che pentirsi significhi escludersi dai divini sacramenti. Sono giudici fin troppo spietati di se stessi. Si assegnano il castigo, rifiutano il rimedio. Sarebbe stato, invece, opportuno che si dolessero della pena inflittasi, poiché a causa di essa rimangono defraudati dalla divina grazia.

Altri, giacché è data speranza di fare ammenda delle colpe, credono che sia loro implicitamente concessa facoltà di continuare a peccare a piacimento. Ma la penitenza è rimedio del peccato, non già incentivo. Il farmaco è necessario alla ferita, non viceversa. Domandiamo il rimedio per curare la piaga, non già desideriamo questa per avere modo di applicarvi il medicamento. Fragile è, d'altra parte, la speranza che si affida al tempo. Ogni tempo è sempre incerto, né tutte le speranze gli sopravvivono.