CREDENTI

MEDITIAMO LE SCRITTURE (anno A)

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    00 29/10/2014 06:46
    Nell’antica Alleanza, gli uomini di Dio Michea (Mi 3,5ss), Geremia (Ger 14,13) o Ezechiele (Ez 13,16) rinunciarono a servirsi di belle immagini per parlare della felicità che ci attende. Continuarono piuttosto ad annunciare il castigo per spingere il popolo alla conversione. I loro avversari, gli annunciatori di una felicità a buon mercato, usavano un linguaggio ben diverso: “Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: ‘‘Bene! Bene’’” (Ger 6,14). Essi hanno tranquillizzato, incoraggiato e illuso la gente. La loro razza non è ancor oggi estinta.
    La vita non è forse un fardello troppo pesante per l’uomo d’oggi? Che bisogno c’è che si aggiungano ad appesantirlo ancora di più le esigenze della Bibbia? I principi generali dell’ordine sociale e della pace non implicano forse già da sé doveri e obblighi? Ecco perché i pastori e i predicatori oggi pronunciano sempre di meno il “Fate dunque opere degne della conversione!” di Giovanni Battista. “Peccato” è una parola di cui si fa volentieri a meno nel predicare. Alcuni giungono a chiedersi: “Dobbiamo forse allontanare gli ultimi fedeli, con una pastorale troppo esigente?”.
    Gesù si serve di tutt’altro linguaggio nel predicare. La porta della salvezza non è spalancata. Non può essere certo di entrare chi si limita vagamente a fare la volontà di Dio e si accontenta di non praticare l’ingiustizia. Altri prenderanno il suo posto nel regno dei cieli. Lo stesso accadrà per chi, non essendo troppo disponibile all’ascolto, pensa di avere fatto i suoi bravi calcoli e di essersi ben arrangiato per entrarvi: ha fatto i conti senza l’oste.
    Gesù si pone senza dubbio sulla stessa linea dei profeti dell’Antico Testamento. Ci ricorda che non dobbiamo dimenticare la santità e il mistero di Dio. Sarebbe per noi fatale pensare di avere Dio per sempre dalla nostra parte in virtù del suo innegabile amore per noi, forse comodo e rassicurante ogni volta che ne abbiamo bisogno. Dio resta un mistero insondabile. E quand’anche ci preoccupasse la questione dell’eterna salvezza di coloro che non hanno conosciuto Gesù o che non l’hanno seguito manifestamente, una risposta a tali speculazioni non può far sì che la Parola di Dio non abbia alcun effetto.
    Nessuno può tralasciare quell’“allontanatevi da me” ripetuto anche nella nuova Alleanza.
    Contro tutte le tendenze al concetto della “grazia concessa a buon mercato” e contro tutte le tesi della posizione confortevole del cristiano, la parola di san Paolo rimane un punto di riferimento stabile: “Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore” (Fil 2,12).
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    00 30/10/2014 05:36
    Già lo stesso nome “Gesù” ce lo assicura: Dio è salvezza. Fin dall’inizio della sua vita, i titoli che vengono attribuiti al figlio della vergine di Nazaret sono: “Messia” e “Salvatore” (cf. Lc 1,47). Essi indicano il senso stesso dell’essere e della missione di Gesù. “Ecco, io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani”. Così egli parla di sé e della sua missione nel Vangelo di oggi. Questi sono i segni che accompagnano il profeta che reca agli uomini la Parola di Dio, che atterra e salva al tempo stesso.
    Gesù non è semplicemente un precursore che prepara la venuta di un ordine migliore e più umano. Vuole raccogliere i figli di Gerusalemme come una gallina la sua covata sotto le ali: cerca la comunione, rischia la propria vita pur di attirare a sé i contemporanei. E quando piange su di loro (cf. Lc 19,41), non si tratta di sentimentalismo: è piuttosto l’espressione di quella importante lotta spirituale che ha intrapreso per la loro salvezza. Vorrebbe riunirli, come la gallina riunisce attorno a sé i suoi piccoli per riscaldarli, nutrirli, proteggerli. E ancora, vuole mettere in pratica i comandamenti dello sforzo nella mitezza e dell’inclinazione nell’attenzione. Vuole essere tutto per loro, perché sono indifesi e completamente dipendenti da lui. Costi quel che costi: l’impegno della sua persona è completo. Egli rischia la propria vita.
    E non soltanto per l’amore di Gerusalemme. Infatti questo passo del Vangelo non riferisce soltanto parole datate ed effimere. Tali parole furono fedelmente conservate dopo la risurrezione dalla prima comunità cristiana, affinché conservassero il loro valore in eterno. Queste parole riguardano me che sto trascrivendo tali pensieri e riguardano te che li leggi o li ascolti. L’atteggiamento di Gesù e in particolare il suo affetto per noi sono i medesimi da duemila anni. Seduto alla destra del Padre, ancora oggi ci rivolge un invito ogni volta che ascoltiamo la sua parola.
    Conosce la nostra incostanza che esclama felicemente: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Un entusiasmo che non durerà. L’“Osanna” può presto trasformarsi nel “Crocifiggilo” dei Giudei. Il piano di Erode, un politico furbo, non fa che anticipare quanto otterrà il popolo esaltato. Il Signore sa che ne va della sua vita. “Perché voi non avete voluto” (Lc 13,34). Gli uomini non hanno accettato nemmeno che egli si desse loro completamente.
    A volte l’amore non è riamato. Ma, se l’amore va al di là di una ricerca di appagamento personale, anche quando viene respinto, non rinuncia all’essere che ama. “Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7). E ciò precisamente testimonia l’amore di Gesù: l’amore di Cristo diventa tangibile. È unito a colui che dice: “E il terzo giorno avrò finito” (Lc 13,32).
    Ecco perché ci salva. Perché “morire a Gerusalemme” (cf. Lc 13,33) non è la sua ultima azione. Dopo la croce, il fallimento con Gesù assume un senso nuovo. E il “terzo giorno” assicura definitivamente e indistruttibilmente la luce della risurrezione.
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    00 31/10/2014 06:15
    Movimento Apostolico - rito romano
    È lecito o no guarire di sabato?

    Gesù non vuole che gli adoratori del Padre suo siano scemi, stolti, insipienti, dementi, incapaci di un qualsiasi discernimento sulla verità rivelata. Neanche li vuole tardi e duri di cuore nel comprende i buoni e saggi insegnamenti. Figuriamoci poi se Lui potrà mai tollerare che la malvagità, la malignità, la cattiveria possano entrare nel cuore di chi dice di credere nel Dio che è carità per natura ed amore per essenza.
    Gesù vuole gli adoratori del Padre suo intelligenti, sapienti, accorti, amanti della verità e della giustizia, sempre alla ricerca del bene più grande per i loro fratelli. La verità di Dio passa nel mondo attraverso la loro verità. Anche la carità di Dio si riversa nei cuori attraverso la loro carità. Se loro sono falsi, non sono più strumenti della divina verità. Diventano strumenti della falsità di Satana. Così dicasi della carità. Se loro diventano egoisti, si chiudono nel loro mondo, non si aprono ai fratelli, mai potranno essere strumenti della carità di Dio. Si trasformeranno in strumenti di non bontà, anzi di chiusura delle porte della bontà. Il sole è lo strumento della luce di Dio sulla nostra terra. Se esso si trasforma in tenebre, spegne la sua luce, tutto il mondo manca di questa preziosa grazia di Dio che è la fonte di ogni vita.
    La Parola di Dio va letta, compresa, interpretata secondo il cuore del Padre, non secondo i pensieri dell'uomo. Quando l'uomo vi mette i suoi pensieri, da strumento di carità e di amore, la Parola diviene strumento di chiusura all'amore e alla carità. Essa non innalza più l'uomo fino a Dio, ricolmando di speranza e di salvezza. Lo deprime fino all'inferno, riempiendolo di disperazione e di morte. La Parola di Gesù oggi ci interpella ad una risposta. La nostra risposta dovrà essere sempre una, la sola: quale bene, in questa situazione storica particolare possono fare per mio fratello?
    Quella di Gesù è vera metodologia per una esatta, perfetta, completa interpretazione della Parola. La vita dell'uomo ogni giorno viene a trovarsi in diecimila situazioni. Qual è la nostra scienza, la nostra sapienza, la nostra intelligenza, il nostro sano discernimento? Tutte queste cose devono condurci a rispondere ad una sola domanda: in questa condizione o situazione particolare, quale bene posso io fare per i miei fratelli? Qual è la via migliore da seguire perché solo il bene venga fatto secondo il cuore del Padre e nessun sentimento umano subentri in questa storia di sofferenza?
    La vera soluzione potrà venire solo da un cuore santo, che sempre cerca al Signore di illuminarlo con la sua verità, perché lui sia sempre strumento del suo amore e della sua carità. Chi prega il Signore, chi è umile e puro di cuore, chi è ricco di misericordia e di bontà, chi ama l'uomo allo stesso modo in cui lo ama il Signore, di certo saprà trovare la giusta soluzione della carità. Chi invece è dal cuore malvagio e cattivo, sempre troverà una soluzione di non carità, non amore; una soluzione di egoismo e di chiusura. La soluzione rivela il nostro cuore, la nostra mente, la nostra anima. Un'anima buona troverà sempre una soluzione di salvezza. Un cuore cattivo inventerà sempre una soluzione di male, di peccato, di allontanamento dell'altro. Vergine Maria, Madre della Redenzione, facci puri nel cuore e santi nell'anima. Siamo chiamati ad essere i ministri della verità e della carità di Gesù. Angeli e Santi del Cielo venite in nostro soccorso. Vogliamo manifestare al mondo la carità di Dio.

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    00 01/11/2014 09:58
    padre Ermes Ronchi
    Beatitudini: Dio regala vita a chi produce amore

    Le Beatitudini, che Gandhi chiamava «le parole più alte che l'umanità abbia ascoltato», fanno da collante tra le due feste dei santi e dei defunti. La liturgia propone il Vangelo delle Beatitudini come luce che non raggiunge solo i migliori tra noi, i santi, ma si posa su tutti i fratelli che sono andati avanti. Una luce in cui siamo dentro tutti: poveri, sognatori, ingenui, i piangenti e i feriti, i ricomincianti. Quando le ascoltiamo in chiesa ci sembrano possibili e perfino belle, poi usciamo, e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, stravolgente e contromano che si possa pensare.
    Ma se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore. E possono cambiare il mondo. Ti cambiano sulla misura di Dio. Dio non è imparziale, ha un debole per i deboli, incomincia dagli ultimi, dalle periferie della Storia, per cambiare il mondo, perché non avanzi per le vittorie dei più forti, ma per semine di giustizia e per raccolti di pace.
    Chi è custode di speranza per il cammino della terra? Gli uomini più ricchi, i personaggi di successo o non invece gli affamati di giustizia per sé e per gli altri? I lottatori che hanno passione, ma senza violenza?
    Chi regala sogni al cuore? Chi è più armato, più forte e scaltro? o non invece il tessitore segreto della pace, il non violento, chi ha gli occhi limpidi e il cuore bambino e senza inganno?
    Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo e al cuore del vangelo c'è un Dio che si prende cura della gioia dell'uomo. Non un elenco di ordini o precetti ma la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.
    Non solo, ma sono beati anche quelli che non hanno compiuto azioni speciali, i poveri, i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l'ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza.
    Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell'altro mondo! Beati, perché c'è più Dio in voi. E quindi più speranza, ed è solo la speranza che crea storia. Beati quelli che piangono...
    e non vuol dire: felici quando state male! Ma: In piedi voi che piangete, coraggio, in cammino, Dio sta dalla vostra parte e cammina con voi, forza della vostra forza!
    Beati i misericordiosi... Loro ci mostrano che i giorni sconfinano nell'eterno, loro che troveranno per sé ciò che hanno regalato alla vita d'altri: troveranno misericordia, bagaglio di terra per il viaggio di cielo, equipaggiamento per il lungo esodo verso il cuore di Dio. A ricordarci che «la nostra morte è la parte della vita che dà sull'altrove. Quell'altrove che sconfina in Dio»(Rilke).

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    00 02/11/2014 09:19
    padre Gian Franco Scarpitta
    Comunione con i nostri cari

    Se parecchi fratelli ci hanno preceduto immediatamente nella gloria del Paradiso e adesso vengono da noi meritoriamente esaltati come Santi del Signore, ve ne sono altri che, purtroppo, per loro scelta e non per fondamentale volontà divina, hanno subito la condanna eterna della retribuzione dell'empio, insomma l'inferno. Si tratta di una realtà molto triste e sconcertante che certamente non ci rallegra e che non si augurerebbe a nessuno; l'inferno è una dimensione di pena eterna, alla quale Dio non ha destinato nessuno e che vuole a tutti i costi scongiurare all'uomo; una dimensione amara e ignobile per l'uomo, che non vorremmo considerare e che (a torto) oggi le nostre catechesi parrocchiali tendono sempre ad evitare come argomento. Ma è pur sempre una realtà necessariamente esistente, poiché nella sua libertà assoluta di scelta l'uomo può decidere di condannare definitivamente se stesso così come deliberare di salvarsi. L'inferno è infatti una condizione di pena eterna consistente in uno stato di atroce sofferenza personale e di privazione definitiva di Dio, riservata al termine di questa vita a coloro che ostinatamente si saranno affidati al mistero dell'iniquità rifiutando categoricamente l'amore salvifico di Dio. Dio ci ha destinati alla salvezza, ci recupera sempre a sé nei suoi infiniti progetti di amore, ci sprona con rinnovate motivazioni al bene in questa vita perché possiamo conseguire il bene indefinito nell'altra, ma quando ci si ostinasse a vivere nel peccato sarà per libera scelta esclusivamente nostra che avremo preferito l'inferno alla gloria eterrna.
    Fortunatamente il Signore Dio onnipotente, nel quale risiede ogni possibilità di speranza e salvezza e al quale nulla è impossibile quando si tratti di recuperare l'uomo strappandolo al maligno,, ci comunica ulteriormente suo amore concreto e incondizionato concedendoci anche nell'altra vita un'ulteriore possibilità di salvezza. Per questo, ha stabilito una dimensione intermedia fra la gloria e la dannazione: la purificazione delle colpe o purgatorio. Chi vi accede dopo la morte sarà effettivamente salvo, poiché dovrà semplicemente purgare le pene temporali e i rimasugli di peccato e di malizia, che contrassegnano pur sempre l'uomo. Certamente la purificazione comporta patimenti e impone dolore, lacrime e sacrifici, ma non per questo si smentisce la realtà di un Dio amore che intende condurci tutti alla gioia e alla salvezza favorendo anche la possibilità che noi possiamo sostenere i nostri cari defunti nel loro probabile itinerario di purificazione per costruire così una relazione sempre più comunionale con loro.
    Pregare per i nostri cari defunti, far celebrare per loro delle Messe di suffragio e darci alle opere di "edificazione vicendevole" dell'amore e della carità operosa è certamente di grande ausilio per i nostri defunti, è un modo per continuare ad avvertire la loro presenza e di sentirli ancora più viventi chi mai, anche se sotto aspetti del tutto differenti. Anche Giuda Maccabeo (2Mc 12, 42 - 46) nell'organizzare una colletta di suffragio afferma che è necessario pregare per i nostri defunti, affinché anche dopo la morte possano trovare modo di essere salvati. Sarebbe ridicolo e controproducente pregare per i nostri cari che non son o più in vita se non vi fosse la certezza che anche dopo la morte ci è riservata una possibilità di salvezza e di gloria.In più, consapevoli di configurarci al Cristo Figlio di Dio che con la sua resurrezione ha debellato definitivamente la morte, preghiere e suffragi ravvivano in noi la certezza che, sia i nostri cari sia noi stessi successivamente, assumiamo sempre più coscienza di dover risuscitare un giorno con il Cristo per essere partecipi del suo futuoro di gloria. Ecco allora la vera motivazione della nostra presenza massiccia nei cimiteri, che associata alla preghiera e ai Sacramenti acquista l'indulgenza plenaria: deponiamo fiori sulle laipidi dei defunti, ci intratteniamo davanti a loro chi nelle lacrime, chi nel raccoglimento, chi nell'attitudine alla preghiera fiduciosa, ma occorre che professiamo la speranza nella vita eterna e la fiducia in un Dio che sfida la morte anche al di là della vita presente. La giornata dedicata a tutti i defunti non è una celebrazione luttuosa, se consideriamo l'onnipotenza del Dio amore che valica anche il sepolcro su ciascuno dei nostri cari, dopo aver vinto egli stesso la morte fuoriuscendo glorioso dal suo sepolcro. Il morire cristiano non è un semplice trapassare dell'anima da uno stato all'altro, ma realizza un incontro individuale con Dio amore che salva, apportando la fiducia e la speranza nella vita senza fine e in questa ottica occorre che entriamo anche noi.

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    Coordin.
    00 03/11/2014 06:48
    Il Vangelo è scuola di convivialità. Gesù non vuole impedirci di ricevere persone care: parenti, amici, conoscenti. Ma, nel discorso al suo ospite, egli insiste sulla gratuità del dono. Da coloro che conosciamo bene, che amiamo e che ci riamano, noi abbiamo già la nostra ricompensa: l’affetto e la stima di chi appartiene alla nostra cerchia familiare.
    È necessario non dimenticare coloro che ci sono più lontani per distanza o condizione sociale (senza tetto, immigrati, isolati, ecc). Tutti loro, tesi verso di noi, rappresentano l’immagine e la condizione di Cristo. È attraverso il nostro atteggiamento nei loro confronti che saremo giudicati nella “risurrezione dei giusti”. Ed anche qui, in quest’ultima prospettiva, risiede la gratuità. Se dobbiamo tradurre in gesti l’amore verso gli uomini nostri fratelli, non è per guadagnare più tardi una retribuzione; ma è in risposta alla grazia di essere stati accettati e accolti da Dio. In altri termini, il Vangelo di oggi è un richiamo a vivere fin dal presente la vita dell’amore attivo. Più tardi, e fin d’ora, vi è una ricompensa, quella di comportarsi come figli dell’Altissimo, figli di colui che è buono anche nei confronti degli ingrati e dei peccatori.
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    Coordin.
    00 04/11/2014 08:11
    Un pastore buono è un dono eccellente per la Chiesa, come san Carlo è stato per la Chiesa di Milano e per tutta la Chiesa. Consacrato vescovo a soli 25 anni, questo giovane, vissuto negli agi e negli onori del suo rango, si diede tutto al servizio del suo popolo, profondendo ricchezze e salute, sostenendo fatiche e penitenze estreme, che certamente gli abbreviarono la vita. Propugnò con energia e pazienza l'applicazione del Concilio di Trento, con la costante preoccupazione di formare sacerdoti santi e pieni di zelo.
    L'amore di Gesù crocifisso era per lui modello e continuo sprone. "San Carlo è stato detto fu l'uomo della preghiera, delle lacrime, della penitenza intesa non come opera eroica ma come partecipazione misteriosa, appassionata alle sofferenze di Cristo, al suo entrare nel peccato del mondo, fin quasi allo scoppio del cuore e alla divisione dell'animo".
    Oggi preghiamo in modo speciale per il nostro papa, vero buon pastore intrepido e noncurante di sé, che moltiplica i viaggi, i discorsi, che accoglie tutti, che annuncia con coraggio e franchezza la verità del Vangelo in ogni circostanza e in ogni punto del mondo
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    Coordin.
    00 04/11/2014 08:14
    Casa di Preghiera San Biagio FMA
    Commento su Fil 2, 5-6

    "Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio".

    Fil 2, 5-6
    Come vivere questa Parola?

    Gesù si muove dalla divinità all'umanità, dimenticandosi i privilegi dell'essere Dio. L'umanità anche nelle sue accezioni meno nobili o meno facilitanti non lo spaventa. Anzi di essa vuole sperimentare tutto, anche quanto di meno attraente essa possa offrire. Senza vittimismo o masochismo. Solo per amore, per desiderio di partecipare intimamente alla condizione umana. Per essere con ogni uomo, capace di solidarietà vera.

    Questi sentimenti di Gesù passano in Paolo. Da Damasco in poi Gesù è per lui non solo un modello, ma un testimone efficace e, così efficace, da fargli sentire l'obbligo di condividere gli stessi sentimenti. Un aspetto dell'abbracciare la condizione umana da parte di Gesù non previsto. Gesù ha costruito, generato un'esperienza di sentimenti umani tale che ora possono essere di altri: ma li ha raffinati, elevati, rendendo l'umanità e il suo modo sentire più sensibile. Ha introdotto nel mondo un modo più amorevole di guardare l'altro, ha dato dignità ad ogni persona, apprezzando ogni differenza, ma non rendendola motivo di discriminazione. Paolo è tra i primi ad essere travolto da questa novità pasquale. Un'umanità rigenerata, una nuova creazione lo trascina in un'avventura senza eguali. Che ora ha passato a noi. Un'avventura che ci responsabilizza, per essere uomini e donne con gli stessi sentimenti di Cristo.
    Signore, il dono del vangelo ci permette di amare di più l'uomo, di avere più misericordia. Fa' che non abbiamo paura di quello che l'amore e la misericordia ci chiederanno
    La voce di un santo

    "Immaginando Cristo Nostro Signore presente e in croce fare un colloquio: come sia venuto da Creatore a farsi uomo e da vita eterna a morte temporale, e così a morire per i miei peccati». Dunque domandarsi di fronte al Crocifisso: ma perché hai fatto questo? perché ti sei abbassato? perché ti sei umiliato tanto?"

    Sant'Ignazio di Loyola testo degli Esercizi (numero
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    Coordin.
    00 05/11/2014 06:38
    Noi soffriamo ogni volta che la fede e la Chiesa vengono attaccate. Ci impegniamo contro le tendenze politiche che minacciano le forme cristiane della vita sociale e umana, contro una certa “cultura” dei mezzi di comunicazione che si prende gioco di ogni tabù, che bestemmia e ridicolizza Dio.
    Noi ci difendiamo, a buon diritto.
    Infatti noi siamo garanti che il nome di Dio sia santificato, che i comandamenti che Dio impartisce agli uomini in vista della loro salvezza trovi un’eco in tutti i cuori. Dobbiamo fare in modo che l’inquinamento spirituale non ci soffochi e non soffochi i nostri cari.
    Ma la lotta fra Dio e l’uomo, forse oggi più forte che in passato, assume un senso positivo alla luce del Vangelo di oggi. Gli ambienti cristiani permettevano un tempo un’adesione spontanea alla Chiesa. Oggi, invece, la società, spesso ostile alla fede, obbliga l’individuo a prendere posizione. Ognuno di noi si trova coinvolto personalmente nel cercare di comprendere ciò che rappresenta per lui il messaggio cristiano e nel cercare di capire se è pronto ad accettarlo in prima persona. Infatti è esigente seguire Cristo, anche se con il sostegno e la stima della comunità cristiana. Il contrario non corrisponderebbe né al grado di colui che lo chiama, né alla dignità del discepolo.
    Certo, sarebbe per noi più piacevole fingere di non intendere quanto il Signore esige da noi, vedere meno da vicino il suo disegno di costruzione della torre e la spesa da affrontare... Ma il Signore non fa alcuna concessione. Sembra, anzi, portato - in modo diverso da un tribuno o da un capo politico -, proprio in ragione della moltitudine di coloro che lo seguono, a tale precisione provocante e rischiosa.
    Portare la propria croce è il prezzo da pagare, egli dice ai suoi discepoli, che devono porre in secondo piano ogni sicurezza umana, fino a mettere in gioco la propria vita. È questo che si chiede al cristiano! E ciò si concretizza di fronte agli attacchi recenti di un mondo materialistico.
    Chi, di fronte a tali principi, saprebbe essere così coraggioso da continuare a seguire Cristo? Non lo si può certo fare per una scelta personale. Ma diventa possibile se ciò ci è dato: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16).
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    Coordin.
    00 06/11/2014 06:18
    Non è facile oggi riconoscere la necessità di convertirsi. L’educazione e la catechesi ce ne danno una prova. Bisogna essere soddisfatti delle proprie azioni e non rimettere in questione né se stessi né gli altri. Perché far sprofondare l’uomo nel dubbio di sé, dal momento che porta già il pesante fardello della vita? Fa male riconoscersi peccatore, rompere con il proprio passato e ripartire in direzione opposta.
    Far sì che il fedele riconosca i propri sbagli non è più l’interesse prioritario dei pastori della Chiesa. Nel migliore dei casi, l’invito alla conversione viene lanciato indirettamente, poiché i pastori temono che le chiese vengano disertate ancora di più. Anche nella nostra vita privata, spesso, chiudiamo gli occhi di fronte agli sbagli dei fratelli, perché non vogliamo rischiare di perderli.
    L’illusione della non colpevolezza imprigiona anche i cristiani. Ma l’approvare o lo scusare va contro tutta la tradizione biblica, a cominciare dai profeti dell’Antico Testamento fino alla predicazione dell’ultimo apostolo. Ma non è tutto: tale tendenza pastorale non ha un sostegno spirituale realistico né un fondamento nella catechesi. È raro che l’uomo sia felice come quando risponde all’invito alla conversione. “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,11). Che cosa potrebbe darci una gioia più profonda del ritorno al Padre che ci ama, che già ci attende e ci offre il suo perdono senza nulla chiederci in cambio?
    Se il senso del peccato e della conversione tende a scomparire del tutto dai messaggi pastorali, bisogna cercarne la ragione nella società che ci circonda, che si è allontanata da Dio. Solo chi è toccato dalla maestà e dalla santità di Dio prende coscienza del peccato, in se stesso e negli altri. La conversione diventa allora la sua parola chiave non soltanto perché essa concede agli uomini di pregustare la felicità eterna, ma perché allora Dio esulta di gioia. Quando Gesù parla del “cielo” (Lc 15,7), allude in realtà a Dio. E nella corte celeste (Lc 15,10) si effonde una gioia di cui molti cristiani non sanno conoscere l’intensità e la profondità.
    Questo brano di Vangelo è davvero una Buona Novella. Chi non se ne dimentica, non può mai perdere la speranza, in qualunque situazione si trovi. E tale Buona Novella esorterà gli uomini a seguire maggiormente Gesù per annunciare alle pecore smarrite la misericordia del Padre affinché Dio ne abbia gioia.
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    Coordin.
    00 07/11/2014 08:29
    Ascoltare da Gesù la parabola dell’amministratore infedele ci stupisce. Sia che si ispiri a un fatto realmente accaduto in quel tempo, sia che inventi di pura fantasia, come può il Signore lodare tale amministratore? È la domanda che ci facciamo.
    Osservando più da vicino, ci accorgiamo però che le lodi di Gesù non si riferiscono propriamente a quest’uomo e al suo agire colpevole: non lo approva completamente, né lo propone come esempio ai discepoli. Come uno gestisce i beni materiali è una questione che non interessa a Gesù. Il centro del paragone è un altro: si tratta dell’intelligenza. I figli della luce dovranno impararla da quest’uomo disonesto.
    Infatti avranno anch’essi dei conti da rendere. Gesù ci esorta a puntare tutto, assolutamente tutto, sull’intelligenza, e a misurare su di essa le nostre parole e le nostre scelte. L’intelligenza che egli esige non è quella di una migliore conoscenza delle cose, del sapere, del “know-how”. Consiste piuttosto nel prendere le proprie decisioni alla luce della meta prefissata; è “la prua della conoscenza” (Paul Claudel) della nave della nostra vita che si dirige verso l’eternità. L’intelligenza ci insegna a non fermarci all’immediato e a guardare, invece, alla meta ultima, come già dicevano gli antichi Romani.
    Ciò potrebbe riguardare anche il buon uso dei nostri beni. Come si dice alla fine del Vangelo di oggi: “Procuratevi amici con la iniqua ricchezza” (Lc 16,9). Colui il cui animo s’attacca troppo alla ricchezza, è sulla cattiva strada.
    Ma l’intelligenza, che tutto dispone in funzione del proprio fine, non basta ai nostri sforzi. Se non ci si vuole ritrovare senza difesa, se si vuole avere Dio stesso non come giudice, ma come amico, bisogna seguire fin d’ora i suoi comandamenti e le sue esortazioni. Ottenere dall’uomo che sia attento ai segni dello Spirito: ecco ciò che Gesù si è proposto di fare per mezzo di tale parabola.
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    Coordin.
    00 08/11/2014 08:02
    Lc 16,9-15

    Le prime parole del Vangelo di oggi ricavano una morale dalla parabola dell’amministratore infedele. Gesù ci chiede di usare bene il denaro e la ricchezza. Il termine stesso “mammona”, un calco greco di origine ebraica, è legato all’idea di “fedele”, “contare su”. Il Signore guarda al nostro fine ultimo. Le ricchezze devono essere usate per “le dimore eterne”. Soltanto allora, come Gesù insegna ai discepoli, la speranza che affidiamo all’iniqua ricchezza produrrà come frutti l’eternità e la fedeltà.
    Nei versetti che seguono, vediamo Gesù esigere da noi, nel nostro rapporto con le ricchezze nostre e altrui, che ci prepariamo ai beni eterni e che ne diamo una prima prova nel campo propriamente socio-economico. Una dichiarazione davvero stupefacente sulle labbra del Signore, dato che le cose di questo mondo abitualmente non lo interessano. Qui non predica in alcun modo indifferenza verso il creato: esorta piuttosto a essere integri in ogni occasione.
    Così, quando il Signore parla delle vere ricchezze, non vuole cancellare la differenza fra quanto appartiene a me e quanto, invece, appartiene a te. I beni altrui non devono in alcun caso essere loro sottratti. La prospettiva escatologica è ricordata non perché nei nostri rapporti con le ricchezze terrene regni in certo qual modo l’arbitrario, ma perché il denaro può avere sull’uomo un potere fascinatorio. E il Vangelo di oggi in questo senso si rivela estremamente attuale. Il fascino che esercita il possesso materiale ha al giorno d’oggi una forza raramente raggiunta in passato.
    Ciò è probabilmente una conseguenza del nostro sistema economico, in cui alla mano d’opera corrisponde un costo preciso in denaro, e in cui si finisce per dare un valore maggiore alle cose materiali che all’attività e al sapere umano. Soltanto la prudenza ci potrà preservare dal pericolo di una nuova schiavitù. Senza contare che tutte le reti televisive, tutti gli altoparlanti spingono gli uomini a cedere a bisogni sempre nuovi e a cercarne soddisfazione con l’acquisto di beni materiali. Tale mercato stimola costantemente le nostre attitudini materialistiche. Una tendenza che, del resto, è confermata da teorie filosofiche tipo il “Sono ciò che possiedo” di Jean-Paul Sartre.
    I beni non vengono più subordinati alla persona. L’uomo che li possiede non è più totalmente libero, ma gli oggetti che egli possiede costituiscono il suo essere stesso.
    Non ci si deve allora stupire se anche i “grandi” comincino a vacillare. Fino ai governi occidentali, eletti democraticamente, che sono scossi da scandali e corruzione. Il mondo politico conosce sempre arricchimenti disonesti e repentini. E quando il privato perpetra una frode al fisco, ciò viene da molti considerato al massimo un delitto di gente onesta.
    “Non potete servire a Dio e a mammona”. I continui errori dell’uomo moderno, che si ripercuotono su scala mondiale, giustificano pienamente l’avvertimento che il Signore ci dà, senza usare mezzi termini, riguardo il denaro. Perché il denaro è così pericoloso? Perché colui che se lo procaccia con successo si ritrova solo, con se stesso e con tutte le preoccupazioni che il suo denaro gli dà. È preoccupato delle porte che il denaro sembra aprirgli; pensa ad assicurazioni e conti in banca; il suo domani gli si presenta al sicuro da ogni problema. Gli piacerebbe poter dire a se stesso: “Hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia” (Lc 12,19). Ma Dio è ormai per lui un’idea priva di ogni importanza. Tutte le preoccupazioni e le gioie della sua esistenza non tengono più conto di Dio.
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    00 09/11/2014 08:07
    padre Ermes Ronchi
    Nella Chiesa fuori i mercanti e dentro i poveri

    In tutto il mondo i cattolici celebrano oggi la dedicazione della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, come se fosse la loro chiesa, radice di comunione da un angolo all'altro della terra. Non celebriamo quindi un tempio di pietre, ma la casa grande di un Dio che per sua dimora ha scelto il libero vento di sempre, e si è fatto dell'uomo la sua casa, e della terra intera la sua chiesa.
    Nel Vangelo, Gesù con una frusta in mano. Il Gesù che non ti aspetti, il coraggioso il cui parlare è si si, no no. Il maestro appassionato che usa gesti e parole con combattiva tenerezza (Eg 85). Gesù mai passivo, mai disamorato, non si rassegna alle cose come stanno: lui vuole cambiare la fede, e con la fede cambiare il mondo. E lo fa con gesti profetici, non con un generico buonismo.
    Probabilmente già un'ora dopo i mercanti, recuperate colombe e monete, avevano rioccupato le loro posizioni. Tutto come prima, allora? No, il gesto di Gesù è arrivato fino a noi, profezia che scuote i custodi dei templi, e anche me, dal rischio di fare mercato della fede.
    Gesù caccia i mercanti, perché la fede è stata monetizzata, Dio è diventato oggetto di compravendita. I furbi lo usano per guadagnarci, i pii e i devoti per ingraziarselo: io ti do orazioni, tu in cambio mi dai grazie; io ti do sacrifici, tu mi dai salvezza.
    Caccia gli animali delle offerte anticipando il capovolgimento di fondo che porterà con la croce: Dio non chiede più sacrifici a noi, ma sacrifica se stesso per noi. Non pretende nulla, dona tutto.
    Fuori i mercanti, allora. La Chiesa diventerà bella e santa non se accresce il patrimonio e i mezzi economici, ma se compie le due azioni di Gesù nel cortile del tempio: fuori i mercanti, dentro i poveri. Se si farà «Chiesa con il grembiule» (Tonino Bello).
    Egli parlava del tempio del suo corpo. Il tempio del corpo..., tempio di Dio siamo noi, è la carne dell'uomo. Tutto il resto è decorativo. Tempio santo di Dio è il povero, davanti al quale «dovremmo toglierci i calzari» come Mosè davanti al roveto ardente «perché è terra santa», dimora di Dio.
    Dei nostri templi magnifici non resterà pietra su pietra, ma noi resteremo, casa di Dio per sempre. C'è grazia, presenza di Dio in ogni essere. Passiamo allora dalla grazia dei muri alla grazia dei volti, alla santità dei volti.
    Se noi potessimo imparare a camminare nella vita, nelle strade delle nostre città, dentro le nostre case e, delicatamente, nella vita degli altri, con venerazione per la vita dimora di Dio, togliendoci i calzari come Mosè al roveto, allora ci accorgeremmo che stiamo camminando dentro un'unica, immensa cattedrale. Che tutto il mondo è cielo, cielo di un solo Dio.
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    00 10/11/2014 07:03
    La domanda che Gesù ha posto ai suoi discepoli, la pone continuamente anche a noi, per impegnarci a contemplarlo più profondamente, ad approfondire il suo mistero: "Voi chi dite che io sia?".
    San Leone Magno, divenuto papa nel V secolo, affermò con fede luminosa la divinità di Cristo e la sua umanità: Cristo, Figlio del Dio vivente e figlio di Maria, uomo come noi. Non ha accettato, per esprimerci così, che si abbreviasse il mistero, né in una direzione né nell'altra, e il Concilio di Calcedonia ha cercato una formula che preserva tutta la rivelazione. Dio si è rivelato a noi nel Figlio, e il Figlio è un uomo che è vissuto in mezzo a noi, ha sofferto, è morto, è risorto.
    "Dio dice la lettera agli Ebrei aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti". E parlando per mezzo dei profeti Dio aveva fatto desiderare la sua presenza: "Se tu squarciassi i cieli e scendessi!" esclamava Isaia. E Dio è disceso, si è reso presente nel Figlio: "A noi Dio ha parlato per mezzo del Figlio".
    Chi è questo Figlio? È l'inizio e la fine, l'alfa e l'omega, l'erede di tutto, colui che realizza tutte le promesse di Dio, colui per mezzo del quale Dio aveva creato l'universo. L'autore della lettera agli Ebrei nella sua contemplazione si sforza di precisare la relazione del Figlio con il Padre e ha delle espressioni forti: il Figlio è "irradiazione della gloria del Padre", espressione del suo essere. La parola dice la loro unione intima: tra la luce e l'irradiamento della luce non è possibile alcuna separazione; e tuttavia il termine scelto dice che il Figlio non si confonde con il Padre: è Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero.
    L'autore aggiunge poi un'espressione più concreta: "Impronta della sua sostanza". La persona del Figlio riproduce esattamente la natura del Padre in tutta la sua profondità. Partecipa della sua potenza, poiché èlui che "sostiene tutto con la potenza della sua parola", che è la parola divina, che ha creato il mondo e lo regge. Dio è talmente potente che basta la sua parola per creare e mantenere nell'esistenza. Non ha bisogno di agitarsi come gli uomini: Dio nella sua infinita pace sostiene tutto con la sua parola; e il Figlio partecipa a questa attività del Padre.
    Ecco dunque la dimensione divina della persona di Cristo, il Figlio del Dio vivente, Sorgente incessante di vita eterna. Cristo, il Figlio, partecipa in pienezza di questa vita del Padre.
    Ma la rivelazione di Cristo non è solo rivelazione del Figlio di Dio nella sua preesistenza; è anche la rivelazione del Dio con noi, diventato uno di noi. L'immagine del Dio invisibile si presenta a noi nei tratti di un uomo, umile, misconosciuto, e non soltanto nel suo volto, ma in tutta la sua vita e in particolare nelle sue sofferenze e nella sua morte. Alla domanda di Mosè: "Mostrami la tua gloria! ", Dio risponde mostrando a noi Cristo nella sua passione. Ecco come si rivela il Figlio del Dio vivente. La santa Sindone di Torino non ci rivela soltanto il Viso, ma tutto il corpo di Gesù, con le tracce delle atroci sofferenze che egli ha sopportato. E è rivelatore il contrasto tra questo corpo martoriato in ogni punto e il volto che è rimasto pieno di serenità e di maestà: un volto che non si è incupito nella ribellione, aggrottato nella collera, ma è rimasto sereno nella unione con il Padre, con la certezza della vittoria, un volto che rivela sofferenze dominate dall'amore, trasformate dall'amore.
    "Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente", rivelato da questo amore per il quale sei venuto a condividere le sofferenze dei più disgraziati fra gli uomini, e anche dei più criminali, e hai trasformato le tue sofferenze in offerta che riporta tutti gli uomini nella comunione con Dio.
    Quando vogliamo contemplare Dio, è questa la strada che ci è tracciata: la contemplazione di una rivelazione vivente, radicata nel nostro destino di uomini: Gesù, Figlio del Dio vivente e Figlio di Maria, immagine eterna del Padre e nostro fratello, che ha sofferto con noi, ha sofferto per noi e ci ha aperto la via dell'intimità divina.
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    00 11/11/2014 08:29
    Riccardo Ripoli
    Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare

    Madre Teresa diceva "Sono una piccola matita nella mani di Dio".
    Molte persone che conosco fanno del bene non perché devono, ma perché vogliono e si sentono di farlo.
    Il Vescovo di Livorno, ora a Como, Monsignor Coletti, diceva ai giovani "Siate sentinelle di Dio".
    Siamo strumenti del Signore.
    Ognuno di noi ha un compito, ognuno di noi è chiamato a svolgere una sua funzione.
    Ma il bello del Vangelo è che ci lascia liberi.
    Ognuno di noi infatti è chiamato da Dio a fare qualcosa, ma chiamato non significa obbligato.
    Il Signore bussa alla nostra porta e ci chiede qualcosa.
    A volte noi siamo sordi a quella chiamata ed il Signore chiama più volte e più forte, un po' come il papà e la mamma che per il bene del figlio lo svegliano alla mattina per richiamarlo ai suoi doveri di studente. Alcuni figli si rigirano dall'altra parte e la mamma torna a svegliarli, e poi ancora, in maniera sempre più decisa, fin tanto che non si destano.
    Alcuni genitori si stancano di chiamare e capita che lascino dormire il figlio. Una mattina, un'altra mattina, ed ancora, ed ancora, fin tanto che il ragazzo diventa svogliato, non vuole andare più a scuola, si perde.
    Ma il genitore bravo non si stanca di svegliare il proprio figlio, ogni giorno, ogni mese, ogni anno, fin tanto che non sarà in grado di camminare da solo.
    Ecco, Dio, che è Padre buono di noi tutti, fa così con noi.
    Ci chiama, ci sveglia dal nostro torpore, ci sollecita di continuo. In certi casi ci desta scuotendoci ben bene, come attraverso la malattia di un figlio o la morte della mamma, ma è per mandarci a scuola, per imparare a mettere in pratica le parole del Vangelo, per aiutare gli altri in un mondo che è anche nostro perché Dio lo ha fatto per noi.



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    Coordin.
    00 12/11/2014 08:20
    Casa di Preghiera San Biagio FMA
    Commento su Lc 17, 15-19

    «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: "Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a render gloria a Dio, all'infuori si questo straniero?". E gli disse: "Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!"».

    Lc 17, 15-19
    Come vivere questa Parola?

    Dieci lebbrosi sono venuti a implorare da Gesù la guarigione. E li esaudisce. Solo al Samaritano però che torna indietro a ringraziarlo Gesù dice chiaramente: «La tua fede ti ha salvato!». Come mai Egli rivolge queste parole sorprendenti soltanto ad uno dei dieci? Perché anche Gesù aspetta qualcosa da parte loro. Il miracolo presuppone sempre un legame personale con lui. Egli guarisce, ma perché gli si venga a dire una parola di ringraziamento che instauri un rapporto personale con lui. E se guarisce a distanza, è perché i dieci lebbrosi si ricordino di ritornare sui loro passi, per la gioia di attenderli e di stabilire con loro una relazione, e non perché scompaiano definitivamente nell'anonimato! Solamente allora il miracolo si compie veramente in tutta la sua pienezza. La salute allora viene data integralmente, sia al corpo, sia allo spirito. Gli altri nove non sono che dei miracolati imperfetti, solo a metà. La loro guarigione è rimasta solo esteriore e sterile, quasi come se non fosse avvenuta, perché il loro cuore non è stato guarito, non si è aperto alla riconoscenza per Gesù e all'azione della sua Grazia.
    Il rendimento di grazie chiude, in un certo senso, il circuito di relazione con Dio, stringe il legame con lui ed è questa la cosa più importante. Ricevere un beneficio diventa a questo punto secondario, perché è fondamentale entrare in relazione col Donatore. Dio vuole che noi sentiamo il suo amore, vuole che lo riconosciamo, perché non si limita a darci solo dei benefici materiali, ma vuol darci se stesso. Ringraziando, cioè riconoscendo i suoi doni, noi entriamo in relazione con lui, completiamo quel rapporto che egli ha iniziato per primo con noi e che non può essere perfetto senza la collaborazione della nostra "riconoscenza" del suo dono.
    Per questo è fondamentale l'azione di grazie, perché è riconoscere che Dio ci ama e questo c'impedisce di godere egoisticamente dei suoi benefici, ripiegandoci nel nostro egoismo, come è avvenuto purtroppo negli altri nove lebbrosi risanati, ma spariti nel nulla.
    La voce della liturgia

    «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, lodarti e ringraziarti sempre per i tuoi benefici, Dio Onnipotente ed eterno. Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva»

    Prefazio comune IV
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    Coordin.
    00 13/11/2014 07:31
    Aspettare al tempo stesso ardentemente e pazientemente, senza pretendere di vedere arrivare la cosa, né di sapere come arriverà: ecco qualcosa di assai difficile.
    Quando arriverà il regno? ci chiediamo con i farisei. E alcuni si affidano ai calcoli. Altri gridano: Eccolo, è qui. No, risponde in anticipo Gesù: le domande che riguardano il momento, il luogo e il modo rimarranno sempre senza risposta, e anche senza oggetto: la sorpresa sarà totale, renderà polvere tutte le false domande.
    Ma le parole di Gesù ci riportano da questa attesa del futuro ai giorni del Figlio dell’uomo, cioè al tempo dell’Incarnazione: il regno di Dio è in mezzo a voi. Per riconoscerlo bisognerà che i farisei credano e comprendano che questo regno è Gesù stesso e ciò che egli dice, Gesù e la passione che egli vede avvicinarsi.
    Oggi il Regno non è ancora e sempre in mezzo a noi? Non si trova in embrione ovunque ci si ricordi dei giorni del Figlio dell’uomo, si aspetti il suo giorno, e si traduca questo ricordo e questa speranza in amore e fervore
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    Coordin.
    00 14/11/2014 08:18
    Casa di Preghiera San Biagio FMA
    Commento su Sapienza 13,1

    Davvero vani per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio, e dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è, né, esaminandone le opere, riconobbero l'artefice.
    Sap. 13,1

    Come vivere questa Parola?

    La riflessione dell'autore sacro è ancora valida. Se mai sono, cambiati gli elementi di una realtà che, invece, continua anche oggi. Millenni fa l'uomo, per l'esigenza di adorare profondamente radicata in cuore, adorava quel che di incantevole vedeva nel creato: il fuoco, il vento, la volta stellata, l'acqua impetuosa. "Affascinati dalla loro bellezza li hanno presi come dei" e la mitologia, oggi, parlandocene, ci svela le vicende di una realtà idolatrica. Ecco, gli dei sono cambiati ma purtroppo non è cambiata la realtà idolatrica. Chiaramente non adoreremo più il fuoco, il cielo stellato o cose del genere ma le acquisizione della scienza nei vari ambiti, le accresciute potenzialità in tante espressioni della ricerca, dell'economia, dell'industria, della produttività. Tutte cose in sé buone. Ma disastrose quando ne facciamo "IDOLI". Affascinati dalla loro potenza come dice il testo Sacro. Pensiamo quanto è più potente Colui che le ha formate. Di fatto, dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore. (v 4-5).

    La riflessione dell'autore Sacro è lineare, di un'evidenza luminosa. Abbiamo solo bisogno di liberare mente e cuore da incrostazioni di orgoglio e di vanità, da un vuoto di Fede riempito da surrogati: chiacchiere più parenti della stampa da mercato che da seri percorsi in cui scienza e Fede si danno la mano per aiutare ciascuno di noi a vivere, con cuore stupito nel sempre più profondo grazie a Dio Creatore

    La voce di un monaco trappista

    La contemplazione è un prender viva coscienza dell'Essere infinito che sta alla radice del nostro essere limitato.
    Thomas Merton
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    Coordin.
    00 15/11/2014 08:38
    Monaci Benedettini Silvestrini
    Pregare sempre

    Ai nostri giorni due grandi difficoltà non ci consentono di entrare in un clima di preghiera assidua e costante: da una parte un certo tipo di progresso che ci ha convinti di essere quasi onnipotenti, pare che nulla e nessuno possa più arrestare il cammino verso sempre nuove e affascinanti conquiste, da ciò deriva un senso di autosufficienza che esclude di fatto ogni ricorso a qualsiasi richiesta di aiuto. Dall'altra ci siamo convinti di godere di una forma di invulnerabilità ed anche questo tipo di sufficienza e di sicurezza, benché fasulla, non lascia spazio a quel pensiero di umiltà e di verità che ci consentirebbe invece di rivolgerci ad un Essere superiore. Onnipotenti ed invulnerabili, quindi niente preghiera! L'uomo saggio invece, che si lascia illuminare dallo Spirito di Dio, prende coscienza dei propri limiti, si mette alla ricerca del suo Signore e Padre e, trovatolo, lo invoca incessantemente per conoscerlo, per amarlo, per godere del suo amore, per scoprire il piano divino che lo conduce alla salvezza. Pregare sempre allora non è più una richiesta assurda perché diventa un bisogno irrefrenabile dell'anima, un bisogno di comunione con Dio che non può conoscere più pause o intervalli.

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    00 16/11/2014 08:29
    don Luca Garbinetto
    Il talento della figliolanza

    Tutti abbiamo dei doni, delle capacità, delle doti naturali. Chi più, chi meno: questo è certo. Succede anche che le vicende della vita condizionino la possibilità di mettere a frutto tali qualità, oppure che addirittura le elimino del tutto. Si pensi a un incidente che immobilizza la persona su un letto di ospedale, o a una grave malattia mentale.

    Tutti, quindi, abbiamo dei doni, ma se si misura la dignità della persona a partire da essi, effettivamente ci ritroviamo - come spesso accade nella storia - a generare categorie di valore, caste, scale di misura diverse. Sembrerebbe che, fra le persone, c'è chi vale di più e chi vale di meno.

    Il Vangelo di oggi, invece, ci parla di talenti. Sono dati, idealmente, a tutti i servi del padrone, cioè ad ogni uomo e donna del mondo, di cui la parabola raccontata da Gesù è icona. Ogni persona venuta al mondo riceve almeno un talento; alcuni ne ricevono di più, proprio ?secondo le capacità di ciascuno' (25,14). Non sono le capacità il dettaglio principale, ma il talento. Il talento ci viene consegnato personalmente e senza distinzione, e questo talento non ci appartiene, ma è del padrone, che ce ne chiederà conto.

    Prima di notare il diverso atteggiamento dei servi della parabola, è opportuno soffermarsi un attimo ancora sul talento. In generale, come patrimonio prezioso consegnato dal padrone ai servi, ogni talento indica qualcosa di soprannaturale, di divino. E viene spontaneo pensare che abbia molto a che vedere con quella parte di eredità che il Padre suddivise fra i suoi due figli (cfr. Lc 15, 12). I talenti sono doni che vengono dal Cielo. Ce ne sono tanti, e forse non abbiamo piena coscienza di quanto siano importanti: ce ne accorgiamo quando mancano. Basti pensare alla fede, al Vangelo, alla capacità di perdono.

    Ma qual è il talento che è davvero dato a tutti e che tutti possono trafficare? Se ricordiamo il volto sfigurato del Padre misericordioso, trasformato dai figli in un padrone severo, o se intravediamo l'amara ironia nascosta nella risposta del signore della nostra parabola al servo ?malvagio e infingardo' (26, 25), cogliamo il talento dato a tutti: è la grazia della figliolanza!

    Siamo figli di Dio, ?e lo siamo realmente' (1Gv 3,1), grida Giovanni, uno che le parabole le ha ascoltate dal vivo. Siamo figli in virtù del battesimo, del dono dello Spirito Santo. La figliolanza divina dice la nostra identità profonda, ciò che siamo più intimamente, ciò che nessuna vicenda o condizione al mondo può rubarci. Anche prigioniero, san Paolo vive la libertà dei figli di Dio (cfr. Ef 4,1). E nel talento della figliolanza troviamo l'appoggio, il sostegno, il motore, la forza per vivere in pienezza la nostra vita, per scoprire e far crescere il germe della bellezza che ci fa felici.

    Se questo è vero, trafficare la figliolanza significa condividerne la verità, raccontarla e comunicarla. Nel riconoscermi figlio, mi comporto da fratello con chiunque ho accanto. Ecco perché il talento si può moltiplicare, come il pane buono distribuito da Gesù a tutti. Ecco perché l'obiezione di chi non vede per tutti il dono di essere figli, in quanto molti non hanno ricevuto il battesimo, è in realtà un appello a trafficare il talento. Riconoscere che non tutti gli uomini e le donne della terra hanno ancora ricevuto il dono dello Spirito Santo significa riscoprire nuovamente l'urgenza missionaria della Chiesa, casa dei ?talentuosi', non perché bravi e meritevoli, ma perché graziati dalla misericordia preveniente del Padre.

    C'è dunque un rischio enorme, raffigurato nella parabola dall'atteggiamento del servo che nasconde il talento: è il pericolo di avere paura della propria bellezza! Proprio così: scoprirsi figli è fonte inesauribile di gioia, ma è anche appello alla responsabilità e sfida ad un cammino a volte incerto e faticoso, che a tratti ci fa camminare ad altezze da vertigine. Si può scivolare nella tentazione di accomodarsi e di sminuire il valore di quanto abbiamo ricevuto gratuitamente: far finta che sia indifferente essere o non essere figli, essere o non essere cristiani, essere o non essere innamorati di Gesù.

    Forse è la condizione più drammatica e pericolosa, l'unica che realmente comporta l'essere esclusi dal Regno! E forse per questo Gesù ha voluto venire e rendersi solidale proprio con coloro che si nascondono, con coloro che rifiutano... perché Dio vuole davvero salvare tutti, e non si stanca di dare nuove opportunità per incontrarlo, non esaurisce la sua fantasia di amore!

    Così il Figlio non ha considerato il suo talento come un tesoro da preservare per sé, ma si è fatto uomo, assumendo la condizione di servo, e ha nascosto la sua figliolanza divina nella fragilità della carne umana. Lui che è l'eredità e l'erede insieme, si è mescolato con la terra (humus), essendo umile e obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. E il suo talento di Figlio è stato sepolto, per poter raggiungere negli inferi anche coloro che non si lasciano amare come figli, per tendere la mano di Fratello maggiore anche a coloro che rifiutano la grazia di essere famigliari di Dio, per abbracciare nuovamente chi è scappato di casa a sperperare i propri doni. Per questo il Padre lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome: nome condiviso con tutti noi, cristiani perché figli e fratelli; nome che siamo inviati a portare con Lui e a diffondere nel mondo come unica via di salvezza per tutti (cfr. Fil 2, 5-11).

    In questo mistero di totale abbassamento, contempliamo stupiti la gratuità che vi è racchiusa. Dio desidera che nessuno sia escluso dal banchetto definitivo. Nella sua umiltà, corre il rischio e ci dona il talento più prezioso sapendo che potremmo rifiutarlo. Ma a chi accoglie la grazia di essere figlio, in eterno avrà moltiplicata la gioia. Gioia di altri talenti, ma soprattutto gioia di tanti fratelli.
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    Coordin.
    00 17/11/2014 08:20
    Movimento Apostolico - rito romano
    Passa Gesù, il Nazareno!

    La nascita della fede in un cuore è un percorso carico di mistero. Essa però ha un'origine ben precisa, esatta: la perfetta verità sulla persona di Cristo Gesù. Noi non crediamo in una Parola, anche se vera, e neanche in una verità, anche se perfetta. Non crediamo in dei principi non negoziabili. Tutte queste cose sono un frutto, non l'albero della fede. L'albero è uno solo: Gesù Cristo nostro Signore.
    San Paolo pone bene in evidenza questa verità. Lui non crede in qualcosa, anche se ottima, perfetta, santa, giusta, vera. Crede in una Persona che "produce" tutte queste cose ottime, che sono vero dono di vita eterna: "Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro. È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l'amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato" (2Tm 1,6-14). Urge fare questo passaggio: dalla morale, verità, santità, giustizia alla sorgente di tutte queste cose, all'albero che produce questi frutti e quest'albero e questa sorgente è uno solo: Gesù.
    Quest'uomo cieco ha sentito parlare di Gesù. Molti gli hanno raccontato la potenza dei suoi miracoli, la forza del suo amore e della sua carità, la grandezza della sua misericordia e pietà. Gesù è persona che non abbandona, non lascia mai l'uomo nella sua miseria, malattia, peccato, sofferenza. Lui viene sempre in aiuto. Nessuno è mai tornato a mani vuote. Tutti sono stati guariti, sanati, ricomposti, perdonati, salvati. È questa fede in Gesù che è nel cuore di quest'uomo. Ora che appura che è Gesù che passa, sa che dinanzi a Lui vi è la sua salvezza. Molti gli hanno detto chi era Gesù. Uno solo gli dice che dinanzi a Lui vi è Gesù. Questo è il mistero della nascita della fede. Uno testimonia, l'altro annunzia, l'altro ancora certifica e l'altro dichiara presente.
    Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!». Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
    Come sentiamo pesanti i mali del corpo, così dovremmo sentire altrettanto pesanti, se non di più, i mali dell'anima. Come vogliamo essere guariti da Gesù dai mali fisici così dovremmo desiderare essere guariti anche da quelli spirituali. Gesù ha questa potenza: può guarire anima, spirito, corpo. Può liberare dalle schiavitù fisiche, ma anche da quelle morali. Da ogni male ci può liberare Gesù. Questa è la vera fede.
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    Coordin.
    00 18/11/2014 06:30
    Monaci Benedettini Silvestrini
    A salvare ciò che era perduto

    Nel racconto odierno l'evangelista Luca vuole unire in uno sguardo d'insieme il correre di Zaccheo e l'amore di Gesù che lo cerca in quell'alzar gli occhi e scorgerlo fra i rami, primizia della sua offerta, che consumerà in Gerusalemme. Mentre Gesù attraversava la città, la gente si affollava intorno a lui. Anche un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, voleva vederlo. Ma la folla glielo impediva, perché era basso di statura. La sua posizione civile come capo dei pubblicani e come gabelliere era un impedimento morale e sociale insormontabile per potere vedere e accogliere Gesù. Ma l'incontro si realizza al di là delle aspettative di Zaccheo nella giustizia del regno, che Gesù veniva a inaugurare. La salvezza impossibile a tutti, non lo è a Dio, che in Gesù "veniva a cercare e a salvare ciò che era perduto". Finalmente il desiderio di Zaccheo di vedere Gesù si incontra con quello di Gesù: "Zaccheo, scendi in fretta, perché oggi devo fermarmi a casa tua". Con grande gioia lo accolse in casa sua, suscitando le critiche di tutti, perché gli esattori delle imposte per conto dei romani erano considerati peccatori pubblici e odiati non poco. Ma questo non lo considerava Zaccheo, perché era pieno di gioia e, non importava a Gesù, "venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto". E' il faccia a faccia con il suo Salvatore, al quale ciascuno è chiamato. Quest'uomo ricco, arricchitosi a suo modo, fa davanti al Signore la sua confessione e il suo proposito. Ben al di là di quanto stabiliva la Legge, egli restituisce quanto ha sottratto. E per esprimere la sua conversione si impegna solennemente: "Ecco Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri". Mentre il giovane ricco va gioiosamente incontro a Gesù e alla risposta richiesta, divenne assai triste, perché era molto ricco, Zaccheo, anch'egli uomo ricco, compie di sua iniziativa il gesto di liberazione dal peso delle ricchezze, condividendole con i poveri. La trasformazione interiore dell'uomo, che Dio opera in noi, deve infatti proiettarsi all'esterno, in un'azione fraterna e liberatrice, sulla comunità umana nella quale il cristiano vive e condivide.
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    Coordin.
    00 19/11/2014 08:01
    Il brano del vangelo di oggi costituisce la conclusione del racconto del viaggio, che nel terzo Vangelo occupa ben dieci capitoli.
    Durante il cammino che lo conduce a Gerusalemme, il Signore insegna ai suoi discepoli come devono vivere e agire per compiere la volontà di Dio. Le sue istruzioni assumono il valore di un testamento: esse sono tutte pregne della gravità di colui che sa che la sua fine è ormai prossima: Gerusalemme vorrà la sua morte.
    Tutta l’importanza dell’insegnamento di Gesù si trova riassunta nella parabola di oggi, rinforzata dall’annuncio della caduta della città e della minaccia che ne verrà ai suoi discepoli (Lc 19,27)
    Può sembrare strano, allora, che Gesù non accenni nemmeno a esortare a resistere e a opporsi. Questa situazione rischiosa non deve spingerci a rinchiudere l’eredità dell’insegnamento e della salvezza che Gesù ci ha lasciato in un forziere: ad archiviare il tutto come se si trattasse di un mero documento storico, almeno fino al ritorno (cf. Lc 19,15) del Re dell’Universo. Ciò stupisce ancora di più perché la prima comunità cristiana di Gerusalemme, che ha conservato questa parabola, si aspettava che il ritorno trionfale del Signore seguisse di poco la risurrezione di Gesù, con il pericolo di cadere nella tentazione dell’ultimo servo: non affrontare alcun rischio, ma tenere riposta la “mina” in un fazzoletto (cf. Lc 19,20).
    Ma al Vangelo è estranea ogni mentalità del barricarsi. Lo Spirito di Dio, scendendo sulla terra, spalanca le porte alla folla impaurita. Il cristianesimo, se è ben compreso, è caratterizzato dall’apostolato e dalla missione. Nessuno è cristiano per salvare soltanto se stesso. E colui che è abitato da Cristo non tiene certo alla salvezza soltanto di se stesso! Il suo regno lo spinge all’azione. Il suo cuore è pieno di gioia e di gratitudine per il dono prezioso della vita eterna. Allora, non può impedirsi di parlare: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). E nessuno deve impedirlo! La mentalità ristretta dei funzionari che hanno paura di perdere il posto non trova spazio nel Vangelo.
    Per essere testimoni e per diffondere il Vangelo, non c’è alcun bisogno di studi e di diplomi. I soli criteri sono l’autenticità e la fedeltà al lieto messaggio.
    La nuova evangelizzazione dell’Europa non è un’invenzione di papa Giovanni Paolo II. Con tale impulso, il papa non fa che rispondere alla desolazione della incredulità, che irretisce un gran numero di uomini. Questo, del resto, è il dovere di ogni battezzato, se, al ritorno di Cristo, non vuole sentirsi dire: “Servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato [...]. Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci” (Lc 19,22-25).
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    Coordin.
    00 20/11/2014 06:45
    Movimento Apostolico - rito romano
    Alla vista della città pianse su di essa

    Gesù piange su Gerusalemme, come uno sposa sulla sua sposa infedele, ormai consegnatasi all'adulterio e alla prostituzione. Gesù, sposo divino del suo popolo, è venuto per la salvezza della sua sposa. Lo attestano le sue parole: "Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»" (Mt 23,37-39). Le parole di Gesù fanno eco, vogliono essere compimento della profezia di Isaia: "Poiché così mi ha parlato il Signore: «Come per la sua preda ruggisce il leone o il leoncello, quando gli si raduna contro tutta la schiera dei pastori, e non teme le loro grida né si preoccupa del loro chiasso, così scenderà il Signore degli eserciti per combattere sul monte Sion e sulla sua collina. Come uccelli che volano, così il Signore degli eserciti proteggerà Gerusalemme; egli la proteggerà ed essa sarà salvata, la risparmierà ed essa sarà liberata». Ritornate, Israeliti, a colui al quale vi siete profondamente ribellati. In quel giorno ognuno rigetterà i suoi idoli d'argento e i suoi idoli d'oro, lavoro delle vostre mani peccatrici" (Is 31,4-7). La profezia non potrà essere adempiuta perché Gerusalemme non lo ha voluto. Sottrattasi alla protezioni di Dio per sua diabolica, superba, arrogante, empia ed idolatrica decisione, essa non ha più scampo. Senza la difesa del suo Dio, da lei rifiutata, è la fine. Ecco la nuova profezia di Gesù sulla città infedele e traditrice dell'Alleanza.
    Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».
    Questa prima profezia sulla caduta di Gerusalemme e sulla sua distruzione, viene completata con più dettagli da una seconda. Senza Dio, Gerusalemme e senza se stessa. Non ha futuro. Il suo futuro è Dio ed è in Dio. Questa verità è stata ignorata. Le parole di Gesù sono senza appello. Come Egli dice, così sarà, così è avvenuto: "Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano verso i monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia. In quei giorni guai alle donne che sono incinte e a quelle che allattano, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti" (Lc 21,20-24).
    Il nostro futuro è in Dio e nelle nostre mani. È tutto in Dio e tutto nelle nostre mani. A noi la scelta, se porlo interamente in Dio oppure metterlo tutto nelle nostre mani. Se posto in Dio, se collocato interamente nella sua Parola, nei suoi Comandamenti, nell'ascolto oggi della sua voce. È posto in noi, se messo nei nostri pensieri, nella nostra volontà, nel nostro peccato. Finché non superiamo i limiti del peccato, la conversione è sempre possibile. Quando invece questi limiti vengono superati e si cade nel peccato contro lo Spirito Santo, non vi è più ritorno. Tutto allora è per sempre nelle nostre mani e nella nostra volontà di peccato. È la nostra fine.
    Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, liberateci dall'empietà
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    Coordin.
    00 21/11/2014 06:02
    Oggi contempliamo una bambina che si dà completamente al Signore.
    La Chiesa ha capito che l'atteggiamento di Maria all'annunciazione non era una improvvisazione e che nella sua anima l'offerta andava preparandosi da tempo, si era già progressivamente realizzata. E commovente vedere una bambina attirata dalla santità di Dio, che vuoi darsi a Dio, una bambina che capisce che l'opera di Dio è importante, che bisogna mettersi al servizio di Dio, ciascuno con le proprie capacità, aprirsi a Dio; una bambina che capisce che non si può compiere l'opera di Dio senza essere santificati da lui, senza essere consacrati da lui, perché non è possibile neppure conoscere la volontà di Dio, se il peso della carne ci chiude gli occhi.
    Maria realizzava quello che san Paolo più tardi proporrà come ideale dei cristiani: offrire se stessi:
    "Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio... Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio" (cfr. Rm 12,12).
    Cerchiamo allora di comprendere più profondamente le condizioni dell'offerta. Lo facciamo tenendo presente il canto del Magnificat, perché è chiaro che nessun Vangelo può corrispondere esattamente alla festa di oggi, che non è riportata in nessuna pagina della Bibbia: l'offerta di Maria bambina non è un avvenimento che abbia attirato l'attenzione e sia stato registrato. Scegliere il Magnificat non è un anacronismo, perché esso esprime i sentimenti che si sono formati nell'anima di Maria ben prima del giorno della visitazione, sentimenti di fondo che sono proprio la base della sua offerta:
    già della sua offerta di bambina, poi della sua offerta all'annunciazione e infine della sua offerta sul Calvario. Tutto parla del riconoscimento dei doni di Dio. Prima dell'offerta c'è sempre il dono di Dio e il riconoscimento di questo dono. "Ha guardato l'umiltà (la povertà, l'insignificanza) della sua serva... Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente... Di generazione in generazione si stende la sua misericordia": è proprio la scoperta dell'amore di Dio che fa pensare all'offerta, è la riconoscenza che suscita il bisogno di offrire. L'offerta, ripeto, è sempre una risposta al dono che ci è stato fatto:
    Dio ci previene con il suo amore e noi diamo a lui ciò che egli ci ha dato. San Paolo lo dice nello stesso capitolo della lettera ai Romani: "Abbiamo doni diversi, secondo la grazia data a ciascuno di noi" e la nostra offerta non può che consistere nei doni che abbiamo ricevuto, che noi riconosciamo come doni gratuiti, che non ci erano dovuti e attraverso i quali noi vediamo l'amore del Signore.
    E proprio per questa ragione, riconoscendo il suo amore, noi li mettiamo a sua disposizione, come offerta riconoscente.
    D'altra parte l'offerta ha anche l'aspetto di una preghiera di domanda, ed è buona cosa rendercene conto. Offrire a Dio è sempre domandargli di trasformare i doni che portiamo a lui, di santificarli. Lui solo li può santificare, lui solo può consacrare; noi possiamo "presentare", proprio come dice la festa di oggi: "Presentazione di Maria al Tempio".
    San Paolo non dice diversamente. Egli ci esorta a offrire i nostri corpi, a presentarli in offerta, ma la trasformazione è Dio che la opera e presentando noi gli domandiamo di rendere perfetto quello che gli offriamo e che per quanto ci riguarda è sovente pieno di imperfezioni.
    Gli domandiamo di trasformare le povere realtà terrestri che gli presentiamo, questi doni umani che vengono dalla sua creazione, che hanno bisogno di essere trasformati per servire alla comunione con lui.
    E, dato che la nostra offerta è in fondo sempre una preghiera di domanda, possiamo offrire tutto, anche quello che ci sembra completamente inutilizzabile nella nostra vita: i fardelli che ci pesano, che sentiamo come un ostacolo, le difficoltà, le sofferenze che in un certo senso sono assurde. Cristo crocifisso ci insegna che possiamo presentare a Dio tutto, perché tutto sia trasformato e che proprio le cose che sembrano più inutilizzabili sono state trasformate nel modo più meraviglioso. Niente era più inutilizzabile di una croce, patibolo dei malfattori, e tuttavia è sulla croce che si è realizzata la trasformazione capitale, che ha creato una nuova terra e ha fatto sì che l'amore di Dio riempisse tutte le cose.
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    Coordin.
    00 22/11/2014 07:53
    Monaci Benedettini Silvestrini
    La Madre del Signore

    Vari elementi hanno concorso alla istituzione della festa odierna della Vergine. Il Protovengelo di Giacomo, uno scritto apòcrifo, non riconosciuto come testo ispirato e perciò non annoverato tra i libri della Bibbia, ci narra della nascita di Maria Santissima da Gioacchino ed Anna a Gerusalemme, in una casa non lontana dal Tempio. Aldilà della verità storica di questa notizia è emersa una bella considerazione teologica: Maria è la figlia di Sìon, associata al tempio. Altri apòcrifi ci offrono quadri di vita domestica della Madre di Gesù, tutta intenta ad adempiere in lei la promessa fatta all'Angelo di essere la serva del Signore. Alcuni autori sacri ne hanno tratto motivo per presentare la vergine Madre come modello di vita consacrata. La presentazione al Tempio, questo mistero gioioso che oggi ricordiamo, ci appare quindi come una vera e propria consacrazione al Signore. Maria viene offerta a Dio e Dio ce la ridona come madre di tutti i credenti. Il vangelo di oggi esaltando Maria come la donna dell' "ascolto", di colei che per tutta la vita si è impegnata a compiere solo la volontà di Dio, "eccomi - aveva detto all'Angelo - sono la serva del Signore. Si compia in me secondo la tua parola", ci esorta a diventare a nostra volta umili e docili ascoltatori ed esecutori della stessa parola di Dio. Ciò ci consentirà di realizzare in noi una intimità di comunione con Cristo simile a quella che Maria ha goduto dando alla luce il Salvatore del Mondo. "Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre". Lei, la Madre, il tempio di Dio, accoglie il Verbo che si fa carne, noi, figli, incarniamo la Parola che è Gesù, che è la nostra vita.


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    Coordin.
    00 23/11/2014 07:45
    padre Ermes Ronchi
    Il peccato più grande? Smarrire lo sguardo di Dio

    Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere... Dal Vangelo emerge un fatto straordinario: lo sguardo di Gesù si posa sempre, in primo luogo, sul bisogno dell'uomo, sulla sua povertà e fragilità. E dopo la povertà, il suo sguardo va alla ricerca del bene che circola nelle vite: mi hai dato pane, acqua, un sorso di vita, e non già, come ci saremmo aspettati, alla ricerca dei peccati e degli errori dell'uomo. Ed elenca sei opere buone che rispondono alla domanda su cui si regge tutta la Bibbia: che cosa hai fatto di tuo fratello?
    Quelli che Gesù evidenzia non sono grandi gesti, ma gesti potenti, perché fanno vivere, perché nascono da chi ha lo stesso sguardo di Dio.
    Grandioso capovolgimento di prospettive: Dio non guarda il peccato commesso, ma il bene fatto. Sulle bilance di Dio il bene pesa di più. Bellezza della fede: la luce è più forte del buio; una spiga di grano vale più della zizzania del cuore.
    Ed ecco il giudizio: che cosa rimane quando non rimane più niente? Rimane l'amore, dato e ricevuto. In questa scena potente e drammatica, che poi è lo svelamento della verità ultima del vivere, Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da arrivare fino a identificarsi con loro: quello che avete fatto a uno dei miei fratelli, l'avete fatto a me!
    Gesù sta pronunciando una grandiosa dichiarazione d'amore per l'uomo: io vi amo così tanto, che se siete malati è la mia carne che soffre, se avete fame sono io che ne patisco i morsi, e se vi offrono aiuto sento io tutte le mie fibre gioire e rivivere.
    Gli uomini e le donne sono la carne di Cristo. Finché ce ne sarà uno solo ancora sofferente, lui sarà sofferente.
    Nella seconda parte del racconto ci sono quelli mandati via, perché condannati. Che male hanno commesso? Il loro peccato è non aver fatto niente di bene. Non sono stati cattivi o violenti, non hanno aggiunto male su male, non hanno odiato: semplicemente non hanno fatto nulla per i piccoli della terra, indifferenti.
    Non basta essere buoni solo interiormente e dire: io non faccio nulla di male. Perché si uccide anche con il silenzio, si uccide anche con lo stare alla finestra. Non impegnarsi per il bene comune, per chi ha fame o patisce ingiustizia, stare a guardare, è già farsi complici del male, della corruzione, del peccato sociale, delle mafie.
    Il contrario esatto dell'amore non è allora l'odio, ma l'indifferenza, che riduce al nulla il fratello: non lo vedi, non esiste, per te è un morto che cammina.
    Questo atteggiamento papa Francesco l'ha definito «globalizzazione dell'indifferenza». Il male più grande è aver smarrito lo sguardo, l'attenzione, il cuore di Dio fra noi.
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    Coordin.
    00 24/11/2014 08:00
    Casa di Preghiera San Biagio FMA
    Commento su Daniele 1, 19

    "Il re parlò con loro, ma fra tutti non si trovò nessuno pari a Daniele, Ananìa, Misaèle e Azarìa, i quali rimasero al servizio del re."
    Dn 1, 19

    Come vivere questa Parola?

    In questa ultima settimana dell'anno, la liturgia ci propone il libro di Daniele. È un libro tra i più recenti dell'antico testamento e il suo protagonista, Daniele, lo annoveriamo trai grandi profeti. Ma contrariamente ad Isaia, Geremia ed Ezechiele che corrispondo effettivamente a profeti, persone storicamente esistite, Daniele è un personaggio chiaramente inventato, una specie di supereroe che rimane giovane per generazioni, testimonial sorprendente della fedeltà a Jaweh del piccolo resto di Israele. Con racconti colorati, sogni e visioni, il libro di Daniele commenta il dramma del tempo in cui viene redatto (l'epoca delle persecuzioni del II° secolo AC), così come il libro dei Maccabei ci ha fatto sentire nella liturgia della scorsa settimana. Solo che Daniele usa lo stratagemma narrativo di raccontare con linguaggio apocalittico quegli orrori, collocandoli 4 secoli prima, durante l'esilio a Babilonia. Senza una minima preoccupazione storica, vengono ripresi i nomi dei grandi re del passato e Daniele si muove tra loro come un nuovo Giuseppe, sì schiavo, ma riconosciuto per saggezza e intelligenza ed esaltato tra altri, al punto da divenire il più ascoltato. L'arte di Daniele conduce questi re pagani a rispettare il Dio che egli ama e serve.

    In questo primo capitolo Daniele si presenta come l'ebreo fedele che sa stare dentro ad una nuova e diversa cultura, senza lasciarsi da questa né contaminare né schiacciare. Anzi, proprio la scelta che ostinatamente fa di una dieta diversa, sfida ed incuriosisce il Re che alla fine capitola e ama il servizio intelligente del giovane Daniele e dei suoi amici.

    Signore, aiuta anche noi a muoverci con disinvoltura in questo nostro tempo, fedeli alla tua Parola ma capaci di servizievole dialogo con chi spiritualmente è lontano da noi.

    La voce catechismo della liturgia

    Vegliate e tenetevi pronti, perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo. (Canto al vangelo)
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    Coordin.
    00 25/11/2014 07:16
    Questo brano di Vangelo ci mostra che Gesù non è venuto per provocare la rovina completa del giudaismo. Infatti, la legge e i profeti gli rendono omaggio: i patriarchi di Israele (Abramo, Isacco, Giacobbe, ecc.) hanno trovato in Dio la dimensione profonda della loro vita (Lc 20,27-40), la gioia dell’eternità, della vita che non ha fine.
    Tuttavia Israele si è chiuso nelle sue frontiere e non accetta la purificazione che Gesù gli propone (cf. Lc 19,45-48). Poiché il suo tempio è diventato una realtà terrestre, ha già cominciato ad avanzare verso la caduta (Lc 21,5-6): la sua distruzione è simbolo del modo con cui funziona questo mondo, ed è destinato a scomparire.
    Nonostante il suo splendore e tutto ciò che esso significa, il tempio di Sion porta in se stesso la prospettiva della morte. Quando si sarà prodotta la sua distruzione, quando sopraggiungerà la fine dei tempi, che ne sarà della morte?
    Gesù parla all’interno del tempio (Lc 19,47-48; 21,37-38). Da quel luogo con le sue parole divine egli supera tutto ciò che, come questo edificio, è soltanto realtà passeggera e ci conduce, ci trasporta verso la verità autentica e definitiva, cioè in altre parole verso l’eternità. Gesù attira la nostra attenzione sull’universalità di tutte le cose, l’universalità della storia.
    Così, dunque, dobbiamo essere attenti ai segni dei tempi, per mezzo dei quali Dio ci indica il cammino verso la vita che non ha fine, verso la gioia eterna.
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    Coordin.
    00 26/11/2014 06:19
    Luca 21, 12-19

    Questo brano di Vangelo espone alcune delle questioni fondamentali della vita: la salvezza, le persecuzioni, la fine dei tempi. Quando avverrà tutto ciò? Questi interrogativi, sempre presenti, sono l’espressione del nostro smarrimento di fronte alla vita. Perciò desideriamo conoscere, scoprire il senso del nostro passato e del nostro futuro. In questo modo cerchiamo di superare la nostra disperazione, la nostra paura di fronte alla fine dei tempi, di fronte a tutte le sofferenze che vengono elencate in questo brano. Tuttavia spesso la nostra fede nella potenza di Dio vacilla.
    Ma tutti i tormenti, tutte le persecuzioni sopportate per la gloria di Dio sono per noi altrettante occasioni di testimoniare la potenza del Redentore e l’Amore di Dio!
    Il Vangelo non ci fornisce soluzioni pronte per i nostri problemi. Esso ci ricorda soltanto che è importante perseverare e restare radicati nella verità di Gesù Cristo. Durante la nostra vita terrena, siamo portati a subire tentazioni, a soffrire pene, dispiaceri, incomprensioni, crisi di disperazione di ogni specie al punto che la vita ci può sembrare vuota e priva di significato.
    Ma per quanto dolorose e vane possano sembrare le cose terrene e la vita, la vittoria sulla rovina definitiva, eterna e assoluta è nelle mani di Cristo (Lc 21,8-9).
    I discepoli e i fedeli di Cristo, quelli che hanno fondato e costruito la loro vita sulla Parola di Dio, possono far fronte a tutte le persecuzioni e trionfare su di esse, stimolati e fortificati dalla grazia di Nostro Signore. Di conseguenza, noi che crediamo in Dio, dobbiamo salvaguardare i valori umani che il mondo spesso calpesta. È nostro dovere proteggere questi valori e la dignità dell’uomo, perché è nostro fratello in Cristo.
    In mezzo al mondo che disprezza e irride i valori sacri dell’uomo e di Dio, dobbiamo difenderli e continuare a praticarli.
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