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Pastore. (inizio)

Termine applicato ai capi dell'AT (Ger 2,8; 3,15) e a Dio come buon pastore (Ez 34,1‑31; Sal 23,1‑4). Cristo fu mandato per le pecore smarrite d'Israele (Mt 10,6; 15,24; cf Lc 15,3‑7). Come buon pastore, Gesù dà la sua vita per le pecore (Gv 10,11‑16; cf Eb 13,20; 1 Pt 2,25). Egli chiama altri a fare da pastori nella Chiesa, ma i fedeli rimangono sempre il suo gregge (Gv 21,15‑17; 1 Pt 5,1‑4). Tra i Protestanti, il ministro ordinato che presta servizio in una chiesa locale è spesso chiamato « pastore », come anche presso i cattolici in certe parti della Germania (cf CIC 519). Cf Ministri; Parroco; Popolo di Dio; Presbitero; Vescovo.

 

Patriarca (Gr. « padre che governa »). (inizio)

Nome dato ad Abramo, Isacco, Giacobbe, ai dodici figli di Giacobbe e a Davide (Gn 12,50; At 2,29; 7,8‑9; Eb 7,4). A partire dal VI secolo, il titolo venne dato ai vescovi di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Questi patriarchi esercitarono una grande autorità, come quella di designare i vescovi per le diocesi più importanti e di giudicare gli appelli alla loro giurisdizione. Il Concilio Niceno I (325) riconobbe questo ruolo di Roma e affermò la priorità di Alessandria su Antiochia. Il Concilio Costantinopolitano I (381) conferì a Costantinopoli un primato di onore dopo Roma, in quanto Costantinopoli è « una seconda Roma » (can. 3), cosa che il Concilio di Calcedonia (451) nel ventottesimo canone (che il papa Leone I non approvò mai) estese fino ad affermare che Costantinopoli era seconda solo a Roma in giurisdizione. Il Concilio Costantinopolitano IV (869‑870), riconosciuto di solito dai cattolici come l'ottavo concilio ecumenico, sancì il primato di Roma e elencò i patriarcati in questo ordine di dignità: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (riconosciuta come patriarcato dal Concilio di Calcedonia; cf DS 661). Il Concilio Lateranense IV (1215) e il Concilio di Firenze (1438‑1445) ripeterono lo stesso elenco di patriarcati e nello stesso ordine (DS 811; 1307‑1308; FCC 7.159‑7.160). Riguardo alle Chiese d'Oriente unite a Roma, il Concilio Vaticano II riconobbe le loro tradizioni, i loro diritti, i loro privilegi e la loro giurisdizione (OE 7‑10). Stabilì inoltre che, « dove sia necessario, si erigano nuovi patriarcati, la cui fondazione è riservata al Concilio Ecumenico o al Romano Pontefice » (OE 11). Questo fu suggerito da molti teologi in vista di future unioni tra le Chiese sorelle e Roma. Il Vaticano II propose anche direttive generali per una riunione con le Chiese d'Oriente separate da Roma (UR 13‑18), « tra le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali » (UR 14). Cf Autocefalo; Chiese Orientali; Ortodossia; Ortodossi Orientali; Pentarchìa; Primato.

 

Patriarca ecumenico (Gr. « patriarca universale »). (inizio)

Titolo usato dai patriarchi di Costantinopoli a partire dal VI secolo. Cf Oikoumène; Primato.

 

Patripassianismo (Lat. « sofferenza del Padre »). (inizio)

Termine coniato da Tertulliano (circa 160 ‑ circa 220) per quella forma di Monarchianismo o Modalismo sostenuto da Prassea (vissuto verso il 200). Tertulliano lo mise in derisione dicendo che costui aveva cacciato lo Spirito e crocifisso il Padre. Un altro modalista, Noeto (vissuto anch'egli verso il 200) asseriva che era stato il Padre a nascere e poi a morire sulla croce. CfModalismo; Monarchianismo; Sofferenza di Dio.

 

Patristica (Lat. « studio dei Padri »). (inizio)

Lo studio della teologia dei Padri della Chiesa. Il termine è stato spesso usato superficialmente come sinonimo di patrologia. Cf Padri della Chiesa; Patrologia.

 

Patrologia (Gr. « studio dei Padri »). (inizio)

Termine forgiato nel XVII secolo per indicare lo studio dei Padri della Chiesa. Un'istruzione del 1989 sullo studio dei Padri (emanata dalla Congregazione per l'educazione cattolica) distingue la « patrologia » come studio storico e letterale dei Padri, dalla « patristica » come studio del loro pensiero teologico. Cf Padri della Chiesa; Patristica.

 

Peccato. (inizio)

Qualsiasi pensiero, parola o fatto che trasgredisca deliberatamente la volontà di Dio e che in qualche modo respinga la bontà e l'amore di Dio. A cominciare dal peccato di Adamo e Eva (Gn 3,1‑24), l'AT narra la storia del peccato umano e della sua schiavitù (cf GS 37). Con la denuncia ripetuta dell'idolatria e dell'ingiustizia, i profeti affermano la responsabilità personale per le mancanze peccaminose (Ger 31,29‑30; Ez 18,1‑4). L'AT chiama il peccato hatta (Ebr. « sbagliare il segno »), pesha (Ebr. « trasgredire gli ordini », « rivoltarsi contro i superiori ») eawon (Ebr. « colpa che nasce dall'iniquità ») (cf Sal 51,3‑5). Come l'AT (Gn 6,5; 8,21; Ger 17,9), Gesù vede che il peccato viene dal cuore (Mc 7,20‑23). Il Vangelo di san Giovanni vede il peccato come incredulità nei riguardi di Cristo, un preferire le tenebre alla Luce del mondo (Gv 3,16‑21; 9,1‑41; 11,9‑10). Sin dall'inizio, i Cristiani hanno confessato che Cristo è morto « per i nostri peccati » (1 Cor 15,3; cf Rm 4,25; Eb 2,11‑14). La tradizione protestante è stata impressionata dalle riflessioni di san Paolo sulla forza del peccato che corrompe e rende schiavi gli esseri umani (Rm 1,18-3,23; 5,12‑21; 6,15‑23). La Tradizione ortodossa vede il peccato come distruzione della koinonìa (Gr. « comunione ») con Dio, con gli altri e col creato. La tradizione cattolica, come il cristianesimo occidentale in genere, ha avuto la tendenza a considerare le conseguenze individuali del peccato più che le ferite che vengono inferte alla comunità. Però, l'enciclica di Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, del 1987 (cf 36‑37) manifesta un senso rinnovato della dimensione sociale del peccato (cf GS 25). Cf Caduta (La); Cuore; Espiazione; Grazia; Koinonìa; Metànoia; Peccato originale; Riparazione; Riscatto; Sacramento della Penitenza; Salvezza; Sette peccati capitali.

 

Peccato mortale e peccato veniale. (inizio)

Distinzione tra quei peccati che « escludono dal regno di Dio » (1 Cor 6,9‑10; Gal 5,19‑21; Ef 5,5) e quelli che non escludono (Gc 3,2; 1 Gv 1,8; 5,16‑17). Un peccato mortale comporta un allontanamento deliberato e radicale da Dio fatto con chiara conoscenza e pieno consenso in una materia veramente grave (cf DS 1537, 1544, 1680‑1682; FCC 8.070, 8.077; 9.240, 9242). Porta come conseguenza la perdita della grazia santificante e il rischio della dannazione eterna. Il peccato veniale (Lat. « scusabile ») offende, sì, il rapporto con Dio e con gli altri, ma non comporta un'opzione fondamentale contro Dio. Il Codice del 1983 parla di peccati veniali (CIC 988) e di peccati « gravi » anziché di peccati mortali. Cf Grazia abituale; Inferno; Opzione fondamentale; Sacramento della penitenza.

 

Peccato originale. (inizio)

Inteso tradizionalmente come la perdita della grazia e ferita della natura subìta dai nostri progenitori, questo intaccò tutte le generazioni successive. Questo concetto è stato sviluppato sulla base della Scrittura (soprattutto: Gn 3,1‑24; Sal 51,7 e Rm 5,12‑21) e la prassi antica di battezzare anche i bambini perché venissero liberati dal peccato originale. Sant'Agostino di Ippona (354‑430) sostenne contro Pelagio che, siccome i bambini non sono capaci di commettere peccati personali, il « peccato » da cui vengono liberati non può essere altro che una peccaminosità ereditata. La dottrina del peccato originale (DS 496, 621, 1510‑1516; FCC 3.054, 3.060, 4.037, 8.043) esprime non solo la condizione di peccato in cui nascono tutti gli esseri umani, ma anche il fatto che la nuova vita di grazia che viene attraverso il battesimo non è un diritto « naturale », ma un libero dono di Dio. Così, il peccato originale si riferisce alla nostra solidarietà umana nel peccato e alla nostra comune chiamata alla vita soprannaturale in Cristo. I cristiani orientali, mentre praticano il battesimo dei bambini, non hanno sviluppato una teologia sul peccato originale. I Protestanti hanno spesso accentuato esageratamente il peccato originale e i suoi effetti dannosi. Cf Battesimo dei bambini; Caduta (La); Concupiscenza; Corruzione totale; Immacolata Concezione; Luteranesimo; Pelagianesimo; Soprannaturale; Teologia naturale.

 

Pelagianesimo. (inizio)

Eresia riguardante la grazia, iniziata con Pelagio (vissuto verso il 400), monaco bretone o irlandese il quale, prima a Roma e poi nel Nord Africa, insegnò che gli esseri umani possono raggiungere la salvezza coi loro soli sforzi. Il peccato originale non sarebbe altro che un cattivo esempio dato da Adamo ma che non recò nessun danno spirituale ai suoi discendenti e, in particolare, lasciò intatto l'uso naturale della libera volontà. Riducendo la grazia al buon esempio dato da Cristo, Pelagio esortava ad una vita ascetica intensa e patrocinava una Chiesa elitaria. Sant'Agostino di Ippona (354‑430) gli si oppose strenuamente. Il Pelagianesimo fu condannato in vari concili del Nord Africa (DS 222‑230; FCC 3.049‑3.050, 8.001‑8.007), da due papi e dal Concilio di Efeso nel 431 (DS 267‑268). Cf Agostinianismo; Messaliani; Peccato originale; Semi‑pelagianesimo.

 

Pellegrinaggio. (inizio)

Viaggio di devozione presso luoghi sacri. Questa pratica è comune al cristianesimo e ad altre religioni del mondo. Dopo la conversione dell'imperatore Costantino nel 312, i pellegrinaggi in Terra Santa e presso le tombe dei martiri a Roma aumentarono. Altre méte tradizionali e moderne di pellegrinaggi cristiani sono san Giacomo di Compostella (Spagna), i santuari mariani di Lourdes (Francia), di Fatima (Portogallo), e dell'isola di Tinos (Grecia) dove gli Ortodossi venerano in modo speciale la dormizione di Maria. Cf Assunzione della Beata Vergine Maria; Martiri.

 

Penitenza. Cf Sacramento della penitenza; Virtù della penitenza(inizio)

 

Pentarchia (Gr. « governo di cinque »). (inizio)

Una teoria, popolare specialmente nel primo millennio, secondo cui la Chiesa cristiana una e indivisa doveva essere governata dai patriarchi di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Con lo scisma fra l'Oriente e l'Occidente (definitivo solo col rifiuto del Concilio di Firenze), le Chiese greche ortodosse parlarono di tetrarchìa (Gr. « governo di quattro »). Però, l'idea di una pentarchìa non è mai stata interamente abbandonata e suggerisce alcune possibilità ecumeniche. Cf Codice dei Canoni delle Chiese Orientali; Concilio di Firenze; Patriarca; Primato; Scisma.

 

Pentateuco (Gr. « cinque libri »). (inizio)

Nome comune tra i Cattolici e gli Ortodossi per designare i primi cinque libri della Bibbia (= Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), chiamati dagli Ebrei « la Toràh » e da alcuni Protestanti « i primi cinque libri di Mosè ». La tradizione che ritiene Mosè per autore va intesa nel senso che gran parte della storia e della legislazione riportate in questi libri si ispira a Mosè. Seguendo alcune intuizioni di Jean Astruc (1684‑1766), Johann Gottfried Eichhorn (1752‑1827) ritiene come fonti del Pentateuco il documento Jahvista (J) e quello Elohista (E). Julius Wellhausen (1844‑1918) scoprì un'altra fonte, il Codice Sacerdotale (P), a cui in seguito fu aggiunta la fonte Deuteronomista (D), e si hanno così le cosiddette quattro Fonti. Oggi, una maggiore attenzione alle tradizioni orali e ad altri fattori ha modificato qualsiasi teoria netta e precisa circa i quattro documenti preesistenti (J, E, P e D) da cui semplicemente sarebbero stati scritti i libri del Pentateuco. Cf Antico Testamento; Bibbia; Toràh.