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6. Trascorsi tre mesi in questa lotta, incoraggiando me stessa con questo ragionamento: le fatiche e la sofferenza della vita religiosa non potevano superare le pene del purgatorio e, avendo io ben meritato l’inferno, non era poi molto vivere come in purgatorio, tanto più che, dopo, sarei andata diritta in cielo, e questo era il mio desiderio. Così, in tale slancio ad abbracciare uno stato, mi sembra che a spingermi fosse più un timore servile che l’amore. Il demonio mi insinuava, per dissuadermi, l’impossibilità di sopportare i disagi della vita religiosa, delicata com’ero. Da ciò mi difendevo ricordando le pene sofferte da Cristo, di fronte alle quali non era gran cosa che io soffrissi un poco per lui. Dovevo certo anche pensare – ma di quest’ultima riflessione non mi ricordo – ch’egli mi avrebbe aiutato a sopportare tali pene. In quei giorni fui assalita da molte tentazioni.
7. Ero stata colta, oltre che da attacchi di febbre, da gravi svenimenti, perché ho avuto sempre ben poca salute. Mi rianimò l’essere divenuta ormai amante di buoni libri. Lessi le lettere di san Girolamo che m’incoraggiarono tanto da farmi decidere a dire a mio padre quanto mi proponevo. Ciò significava quasi prender l’abito religioso, essendo io così ligia al punto d’onore che non credo sarei mai tornata indietro per nessuna ragione, una volta detta una parola. Egli mi amava talmente che non riuscii in nessun modo ad ottenere il suo consenso, né mi valsero le preghiere di persone che indussi a parlargli. Tutto quel che si poté ottenere da lui fu che dopo la sua morte avrei potuto fare ciò che volessi. Io già temevo di me stessa: che, cioè, la mia debolezza non mi facesse tornare indietro; pertanto, non mi sembrò conveniente tale indugio e cercai di conseguire il mio scopo per altra via, come ora dirò.