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1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.3 Il principio della traduzione nella storia cristiana. Traduzione e incarnazione. Traduzione e trasformazione culturale del cristianesimo.

Bibliografia:

Shaw, R. Daniel, Transculturation. The Cultural Factor in Traslation and Other Communication Tasks, Pasadena, California: William Carey Library, 1988, pp. 9-20 (Cap. 1 : "A Biblical Perspective of Culture", soprattutto pp. 14-20).

Walls, Andrew F., The Translation Principle in Christian History, in Philip G. Stine, ed., Bible Translation and the Spread of the Church, Leiden - New York . Köln : E.J. Brill, 1992; pp. 24-39.



1. Se la politica è l’arte del possibile, la traduzione è l’arte dell’impossibile. Tuttavia, la fede cristiana si fonda su una visione ottimistica del tradurre: essa infatti nasce da un atto divino di "traduzione": "Il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). L’Incarnazione differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni, compreso l’ebraismo e l’islamismo. Le Scritture cristiane non sono semplicemente la Torah ebraica con un supplemento di aggiornamento. Alla traduzione della parola divina in parola umana, esse aggiungono la traduzione del Verbo divino nella stessa umanità, e ciò porta a un incontro nuovo con Dio.



2. Ma allo stesso modo con cui si parla non un linguaggio generale, ma una lingua particolare, così anche il Verbo si incarna non in una umanità generica ed astratta, ma in una umanità concreta, in un posto e in un tempo particolari.



3. Attraverso la "missione ai popoli (cf Mt 28,19-20), il primo atto divino di traduzione dà origine a una successione costante di nuove traduzioni. Il multiculturalismo cristiano è una conseguenza dell’Incarnazione.



4. Il processo di traduzione implica parallelamente un duplice processo di "conversione". Una traduzione è il tentativo di esprimere il significato del testo di partenza attraverso le risorse e all’interno del sistema del linguaggio di arrivo. In tal modo, qualcosa di nuovo viene immesso nella lingua, ma il nuovo può essere compreso solo attraverso i mezzi e i termini di un linguaggio preesistente. Durante questo processo, il linguaggio di arrivo viene utilizzato per un nuovo scopo, e trova così una reale estensione.

Allo stesso modo, anche l’elemento tradotto dal linguaggio di partenza è sottoposto in qualche modo a un processo di espansione e di rinnovamento. Il linguaggio di arrivo ha infatti una sua propria dinamica e porta il nuovo materiale in spazi non ancora toccati nella lingua di origine.

Così, la conversione implica l’uso di strutture esistenti, il "rivolgerle" verso nuove direzioni. Non si tratta di sostituire qualcosa di vecchio con qualcosa di nuovo, ma di trasformare, di rivolgere l’esistente verso nuovi compiti.



5. Il Verbo non si è fatto semplicemente "carne", si è fatto persona. Proseguendo il parallelo linguistico, il Verbo non è semplicemente una parola straniera adottata nel vocabolario dell’umanità; il Verbo è pienamente tradotto, trasportato nel sistema funzionale del linguaggio, nella pienezza delle esperienze e delle relazioni personali e sociali. La risposta umana appropriata all’incarnazione non può che essere l’apertura e la disponibilità del sistema delle funzioni personali e sociali al nuovo significato, alla nuova espressione del Cristo. Da questo punto di vista, la conversione è il riorientamento verso Dio di ogni aspetto di umanità - umanità sempre intesa in senso culturalmente specifico. Per sua natura, la conversione non è un atto puntuale, ma un processo senza fine.

Così, la traduzione della Bibbia come processo è sia un riflesso dell’atto centrale da cui dipende la fede cristiana, sia una concretizzazione del mandato verso i popoli dato da Gesù ai discepoli. Nessun’altra attività rappresenta più chiaramente la natura della missione della Chiesa.



6. Il parallelo fra Scrittura e Incarnazione è suggerito dal prologo stesso della Lettera agli Ebrei, che mette in relazione le parziali e occasionali parole di Dio attraverso i profeti con la definitiva e completa parola di Dio pronunciata una volta per sempre nel Figlio. Le questioni e i problemi della traduzione della Bibbia sono le questioni e i problemi dell’Incarnazione.

Lo sforzo di presentare degli scritti contenuti in linguaggi e culture estranee alla situazione presente dei popoli è autorizzata dall’atto dell’Incarnazione con cui Dio si è "tradotto" nell’umano.

Come l’Incarnazione è avvenuta nei termini di un contesto sociale particolare, così la traduzione usa termini e strutture di un contesto specifico.

La traduzione della Bibbia ha lo scopo di rendere disponibile la parola su Gesù Cristo così che essa possa raggiungere tutti gli aspetti di uno specifico contesto linguistico e culturale, in modo tale che il Cristo possa rivivere in quel contesto, nelle persone dei suoi discepoli, sentendosi a casa così intimamente come quando visse nella cultura della Palestina giudaica del primo secolo.

Le difficoltà e i rischi del tradurre sono parte necessaria del processo della missione cristiana. Parole o concetti centrali, senza ovvii equivalenti nel linguaggio di arrivo, immagini centrali radicate nel terreno o nella storia del vicino oriente e dell’impero romano, lo slittamento di significato in parole apparentemente corrispondenti, il bagaglio che il linguaggio di arrivo inevitabilmente porta con sé, sono tutti degli strumenti attraverso i quali la parola su Gesù Cristo viene applicata agli aspetti differenzianti di una cultura. Le nuove traduzioni, portando la parola su Gesù Cristo in nuove aree, volgendola a nuove situazioni, hanno la potenzialità di rimodellare e di approfondire o di estendere la fede cristiana.

Invece di definire una "area di sicurezza", dove certe linee di pensiero sono prescritte e altre sono invece proscritte (conseguenza naturale di una autorità concepita come intraducibile), la traducibilità della Bibbia comincia potenzialmente una serie di interazioni della parola su Gesù Cristo con nuove aree di pensiero e di tradizione.



7. Anche da questo punto di vista, la traduzione si rassomiglia alla conversione, anzi ne può essere vista come un modello funzionale. La traduzione, come la conversione, ha un inizio, ma non una fine. Nonostante la sua efficacia, non è mai buona abbastanza; come cambiano la vita sociale e il linguaggio, così deve continuare a cambiare la traduzione. Il principio della traduzione è il principio della revisione.



8. Il principio di revisione ha tuttavia un’eccezione, che in realtà rafforza il parallelismo tra Incarnazione e traduzione.

Le "traduzioni" del Cristo che hanno luogo quando i credenti rispondono a lui nelle differenti culture, sono delle "ri-traduzioni". Queste "re-incarnazioni" sono contingenti rispetto alla prima Incarnazione, con il suo fermo ancoraggio nel tempo e nello spazio, "sotto Ponzio Pilato".

Allo stesso modo, una traduzione della Bibbia è una "ri-traduzione", con l’originale sempre a portata di mano. Le diverse traduzioni possono e devono essere confrontate, non solo con l’originale, ma anche tra di loro, con le altre traduzioni fatte dal medesimo originale. Anche se ogni atto di traduzione, come ogni processo di conversione, porta l’originale in nuovi territori e potenzialmente lo espande, l’assenza di una rassomiglianza "familiare" tra le diverse generazioni dovrebbe legittimamente far nascere qualche sospetto.

Di per sé, la diversità proveniente dalla penetrazione in una nuova cultura non è incompatibile con la coerenza derivante dal fatto che le diverse traduzioni sono fatte a partire da un medesimo originale (si tralasciano qui evidentemente i casi in cui sono effettivamente diverse le "lezioni" originali ). Ed anche da questo punto di vista, la traduzione biblica rispecchia la missione cristiana. Non è possibile avere "troppo" del principio di localizzazione e indigenizzazione, che fa sentire la fede a casa sua, e nemmeno avere "troppo" del principio universalizzante in costante tensione con il primo, e che collega la comunità "locale" con la sua espressione "domestica" della fede nel medesimo Cristo di altri cristiani di altri tempi e luoghi. E’ solo possibile avere "troppo poco" di tutti e due i principi.



9. La strategia comunicativa dell’apostolo Paolo, quale la ritroviamo in 1Cor 9,19-23, ha delle sicure risonanze anche per il problema della "traduzione" della Bibbia. Riportiamo la pagina per intero:

19 Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20 mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. 21 Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. 22 Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. 23 Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.

Non si tratta di un relativismo morale che approfitta di ogni circostanza, ma di applicare una comprensione culturale alla effettiva comunicazione della verità del vangelo. Si tratta di pertinenza culturale, non di relativismo culturale (cf Shaw 1998, p. 16; Nida, Customs and Cultures, New York: Arper and Row, 1954, p. 52).