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II. Esperienza religiosa ed esperienza cristiana. Occorre precisare il concetto di « esperienza », concetto, in verità, ricco di significati diversi. Esso indica, in primo luogo, la concreta esperienza intesa come sperimentazione scientifica, la somma delle acquisizioni realizzate da un individuo o da un gruppo, oppure l'esperienza comune dei sensi, o infine, l'esperienza psicologica, che può essere filosofica, teoretica, estetica, sentimentale, religiosa. Dal verbo latino ex-perior, il termine assume il significato di attraversare, passare attraverso. E proprio attraverso questo passaggio si arriva a conoscere una situazione vitale, qualcosa fino allora sconosciuto e nascosto nelle sue molteplici possibilità.6 Secondo J.-P. Jossua, vi sono alcune caratteristiche che contrassegnano l'esperienza propriamente detta: la percezione della propria relazione con il mondo, con gli uomini, con se stessi e con Dio; la partecipazione in prima persona a tale evento; la presa di coscienza soggettiva, come distanza oggettiva che permette la comunione, quindi, la conversione, cioè il cambiamento di atteggiamento vitale nel soggetto che fa l'esperienza; tale presa di coscienza si accompagna sempre a una interpretazione, cioè a una decifrazione intelligente di quanto si è percepito e appreso riflessivamente; infine, tale esperienza include in un insieme la percezione cosciente e unificata dall'interpretazione di un determinato settore dell'esistenza (intellettuale, estetica, affettiva, ecc.) o della storia.7

L'esperienza religiosa, è, invece, « un'esperienza affettiva, che scaturisce da un desiderio «naturale» di Dio. E un miscuglio di religiosità, emozioni, sentimenti confusi »,8 attraverso cui Dio viene percepito come un bisogno.

Se, poi, la religione viene concepita in un senso lato, come legame con il sacro, allora l'esperienza religiosa è percezione dell'assoluto interpretato come sacro. Questa percezione è attuazione del senso religioso. L'assolutezza nell'esperienza religiosa si esprime come ineffabilità, illimitatezza, incondizionalità, come essere-uno, totalmente, con Dio nell'amore, nella pienezza del proprio essere creaturale.

L'esperienza cristiana, al contrario, è esperienza di conoscenza offerta dallo Spirito attraverso Cristo Gesù. Si tratta di conoscenza sperimentale delle realtà divine, che va al di là della conoscenza speculativa della verità divina.9 E esperienza dello Spirito, perciò esperienza di fede.10

Tutti i cristiani, indistintamente, sono chiamati a fare tale esperienza che tende alla pienezza della vita cristiana come anticipazione della vita futura. Per questo motivo, al termine « esperienza » spesso viene associato l'altro termine « pienezza »: la perfezione del cristiano consiste nell'esperienza di piena comunione con Dio. In tale pienezza di vita, l'uomo si realizza nella sua totalità, compiendo il progetto salvifico di Dio su di lui.

La prima Lettera di Giovanni offre un criterio essenziale per discernere una vera da una falsa esperienza cristiana: « Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio » (4,2-3). Giovanni concorda con Paolo quando questi scrive ai Corinti: « Nessuno può dire: Gesù è Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo » (1 Cor 12,3), ragion per cui tale esperienza cristiana risulta essere, per sua natura, compimento, per la forza dello Spirito, del mistero del Cristo nel credente, al quale si richiede l'esercizio delle virtù teologali, all'interno della mediazione ecclesiale.

Più che parlare di « esperienza mistica », allora, è meglio parlare di esperienza del Mistero cristiano,11 perché l'oggetto dell'esperienza cristiana, che si basa sulla fede, è Dio percepito non già come oggetto qualsiasi e neppure come un altro uomo.12

La rivelazione cristiana rimanda, dunque, a una conoscenza del Mistero fino a quel momento nascosto. Lo Spirito di Dio ha manifestato alla sua Chiesa ciò che prima era nascosto in Dio, cioè le sue recondite profondità (cf 1 Cor 2,10).

In questo Mistero, Paolo vede prima di tutto la manifestazione chiara della sapienza di Dio (cf 1 Cor 2,7; Rm 16,27; Col 2,3) e, in secondo luogo, il pleroma (= la pienezza) (cf Col 1,19 e 2,9). In Efesini 1,10-13; 3,19, 4,13 sia il Mistero che il pleroma si trovano associati al concetto di « ricapitolazione » di tutte le cose in Cristo e a quello della Chiesa, Corpo di cui Cristo è Capo e Sposo (cf Ef 5,32). Il piano salvifico di Dio, comunque lo si consideri, sia come sapienza sia come pleroma, conduce ad un'unica conclusione: il mistero del Padre si compie in Cristo per mezzo dello Spirito nella Chiesa.

Ma, tale Mistero è Cristo stesso. Egli, infatti, nella sua morte e nella sua risurrezione « è » la sapienza di Dio (cf 1 Cor 1,24). Nello stesso tempo, è lui stesso il pleroma, perché in lui « abita corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Col 2,9) e perché in lui saranno ricapitolate tutte le cose (cf Ef 1,10). Di conseguenza, poiché il mistero di Dio è lo stesso Cristo Gesù, manifestazione e compimento della sua sapienza eterna, nonché pienezza della sua comunicazione agli uomini, l'unico modo per accedere al Padre è il Cristo, via, verità e vita (cf Gv 14,6).13

La via della conoscenza mistica che permette la realizzazione piena del progetto salvifico-comunionale di Dio è il Cristo della croce. Di qui nasce la dimensione, ineludibile, pasquale propria dell'esistenza cristiana. Si può, allora, addirittura affermare che la mistica cristiana è essenzialmente celebrazione e consumazione nell'intimo del credente del mistero di Cristo morto e risorto, quindi, partecipazione della pienezza della divinità, in Cristo, per mezzo dello Spirito. L'espressione paolina « in Cristo » riassume questo evento salvifico-comunionale nel suo duplice movimento: di Dio che si rivela all'uomo e dell'uomo che va incontro a Dio, attraverso la mediazione del Cristo. Nella sua complementarietà e diversificazione questo duplice movimento costituisce, relativamente alla vita cristiana, il centro propulsore dell'unico mistero che è il Cristo Gesù.14