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CAPITOLO 22
Ove si parla dei danni causati all’anima che ripone la gioia della volontà nei beni naturali.
1. Molti dei danni e vantaggi che sto per elencare sono comuni a tutti i diversi generi di gioie. Perciò, siccome essi derivano direttamente dall’adesione o dalla rinuncia alla gioia, e sebbene questa appartenga a qualcuno dei sei generi di cui ora tratterò, ciò che dirò dei danni e dei vantaggi di uno si applica anche agli altri, perché si riferisce alla gioia comune a tutti. Mio scopo principale, tuttavia, è di esporre i danni e i vantaggi particolari che vengono all’anima quando prova o non prova gioia nei beni naturali. Li chiamo particolari perché sono prodotti in modo primario e immediato da un tal genere di gioia, ma in modo secondario e mediato da un tal altro genere. Per esempio, la tiepidezza di spirito è un danno causato direttamente da tutti i sei generi di gioie, quindi questo danno è comune a tutti i generi; ma la sensualità è un danno particolare, che deriva direttamente solo dai beni naturali di cui sto parlando.
2. I danni spirituali e corporali, causati direttamente ed effettivamente all’anima quando ripone la sua gioia nei beni naturali, si riducono principalmente a sei. Il primo è la vanagloria, la presunzione, la superbia e il disprezzo del prossimo. Difatti non si può concedere la stima a una cosa senza sottrarla a un’altra. Da ciò segue quanto meno una disistima concreta per le altre cose, perché è naturale che quando il cuore ripone il suo apprezzamento in una cosa, lo ritiri dalle altre per aderire a quella che preferisce; da questo disprezzo reale è facile passare a un disprezzo intenzionale e volontario verso qualche altra cosa in particolare o in generale, non solo interiormente, ma anche a parole, e si dice: la tal persona o la tal cosa non è come quell’altra. Il secondo danno consiste nello spingere i sensi al compiacimento, al piacere sensuale e alla lussuria. Il terzo danno consiste nel far cadere nell’adulazione e nelle lodi vane, in cui c’è inganno e vanità, come dice Isaia: Popolo mio, chi ti loda, t’inganna (Is 3,12 Volg.). Infatti, sebbene a volte si dica la verità elogiando i doni e la bellezza di una persona, sarebbe strano che non ne risultasse qualche inconveniente, o inducendola al compiacimento vano e alla gioia frivola, o annettendo a quest’elogio attaccamenti e intenzioni imperfette. Il quarto danno è generale; consiste nell’annebbiamento della ragione e del senso dello spirito, come quando si pone la gioia nei beni temporali e, sotto un certo aspetto, molto di più. Poiché i beni naturali sono più intimi all’uomo di quelli temporali, la gioia da essi prodotta s’imprime con maggior efficacia e rapidità, lasciando nei sensi una traccia e uno smarrimento molto maggiore. La ragione e il giudizio perdono la loro libertà; sono come ottenebrati in seguito all’affezione di quella gioia a loro molto intima. Da ciò deriva il quinto danno, che è la distrazione della mente verso le creature. Da questa poi nascono la tiepidezza e la fiacchezza spirituali, che costituiscono il sesto danno. Anch’esso è generale e arriva fino a far provare grande noia e tristezza nelle cose di Dio, e addirittura a odiarle. In questo piacere, almeno agli inizi, si perde inevitabilmente la purezza di spirito; se poi si avverte del fervore, sarà un fervore molto sensibile e grossolano, poco spirituale, scarsamente interiore e raccolto: consisterà più nella gioia dei sensi che nel vigore dell’anima. Questa, poi, è tanto debole e poco elevata da non avere la possibilità di vincere in sé l’abitudine a tale gioia (infatti basta, per non avere la purezza di spirito, che l’anima abbia quest’abitudine imperfetta, anche se in alcune occasioni non consentirà ad atti di compiacenza). E così il fervore della persona verrà a risiedere, in certo qual modo, più nella debolezza dei sensi che nella forza dello spirito; comunque, le occasioni ne manifesteranno la consistenza e la perfezione. Non nego, tuttavia, che ci possano essere molte virtù insieme a tante imperfezioni; ma se queste gioie per i beni naturali non vengono soffocate, non può esserci spirito interiore puro e gustoso, perché regna la carne, che milita contro lo spirito (Gal 5,17); e sebbene lo spirito non si renda conto del danno, quanto meno sarà soggetto a una segreta dissipazione.
3. Ma torniamo ora al secondo danno, che ne racchiude in sé di innumerevoli. Non credo sia possibile descrivere né spiegare a parole una realtà che non è oscura né occulta, cioè il termine a cui portano questi danni e quanta infelicità provenga dalla compiacenza che si ripone nelle doti e nella bellezza naturale. Ogni giorno, infatti, per questi motivi, vediamo omicidi, perdite di onori, ingiurie, dissoluzioni di patrimoni, gelosie, contese, adultèri, stupri, fornicazioni e tanti santi caduti nel fango, i quali possono essere paragonati a un terzo delle stelle del cielo che la coda del serpente precipitava sulla terra (Ap 12,4). Si è annerito l’oro, si è alterato l’oro migliore; i preziosi e nobili figli di Sion, già vestiti di oro fino, sono stimati quali vasi di creta, rotti, diventati coccio (Lam 4,1-2).
4. Dove non arriva il veleno di questo danno? E chi non beve, poco o molto, da questo calice dorato che porge la babilonia donna dell’Apocalisse (17,4), seduta sulla grande bestia dalle sette teste e dieci corna? Queste parole ci fanno capire che non c’è nobile o plebeo, santo o peccatore a cui ella non faccia bere il suo vino, assoggettando in qualcosa il suo cuore. Difatti nello stesso libro si racconta che si sono inebriati tutti i re della terra con il vino della sua prostituzione (Ap 17,2). Ella esercita la sua tirannia sugli uomini di tutte le condizioni; non rispetta neanche la condizione suprema ed eccelsa del santuario e del sacerdozio divino. Come dice Daniele (9,27), posa la coppa della sua abominazione nel luogo santo; a stento rimane qualcuno, forte o debole che sia, a cui non faccia bere vino di quel calice che è la gioia vana. Per questo dice che tutti i re della terra si sono inebriati di quel vino; difatti se ne troveranno pochi, anche fra i più santi, che non siano stati rapiti e sedotti da questa bevanda della gioia e del piacere della bellezza e delle grazie naturali.
5. È da notare l’espressione si sono inebriati. Infatti, per quanto poco sia il vino di quella gioia, subito affascina e adesca il cuore, producendo il danno di annebbiare la ragione, come accade a coloro che sono in preda al vino. Se non si prende subito qualche antidoto contro questo veleno per buttarlo fuori, la vita dell’anima è in pericolo. Quando, infatti, aumenta la debolezza spirituale, l’anima cade in una situazione riprovevole come quella di Sansone, allorché gli furono strappati gli occhi e tagliati i capelli in cui risiedeva la sua originaria forza. Anche l’anima, allora, sarà costretta a girare le macine del mulino, prigioniera tra i suoi avversari; e poi, forse, morirà della seconda morte, quella spirituale, come Sansone morì di morte fisica insieme ai suoi nemici. Tutti questi danni provengono dal fatto che l’anima ha voluto assaporare quella gioia. Tale ubriacatura causa all’anima, e ancora oggi a molte persone, sul piano spirituale, ciò che ha procurato a Sansone su quello temporale. I nemici dell’anima verranno a dirle, schernendola: «Non eri tu che strappavi i legami doppi, spezzavi le mascelle dei leoni, uccidevi mille filistei, scardinavi le porte della città e ti liberavi da tutti i tuoi nemici?» (cfr. Gdc 16,24).
6. Per concludere, indico infine il rimedio necessario contro questo veleno: appena il cuore si sente mosso dalla gioia vana dei beni materiali, deve ricordarsi quanto sia inutile, pericoloso e dannoso godere di qualcosa che non sia servire Dio. Egli deve riflettere sulla catastrofe causata dagli angeli che vollero gioire e compiacersi della loro bellezza e delle loro doti naturali, poiché per questo motivo furono precipitati negli abissi orrendi. Rifletta, inoltre, sui mali innumerevoli che tale vanità causa ogni giorno agli uomini. Si faccia, perciò, coraggio e prenda il rimedio che il poeta suggerisce a coloro che cominciano ad affezionarsi ai beni naturali: «Affrettatevi a porvi rimedio subito, agli inizi, quando i mali hanno avuto poco tempo per crescere nel cuore, altrimenti il rimedio e la medicina arriveranno tardi». Dice il Saggio: Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa. Scende giù piano piano e finirà con il morderti come un serpente e pungerti come un basilisco (Pro 23,31-32).