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CAPITOLO 20
Ove si parla dei vantaggi che si procura l’anima rinunciando alla gioia dei beni temporali.
1. La persona spirituale deve fare molta attenzione per non cominciare ad attaccare il cuore o a cercare la gioia nelle cose di questo mondo. Deve temere che simile attaccamento, tenue all’inizio, diventi rilevante e assuma a poco a poco grandi proporzioni, finendo per causare danni notevoli, allo stesso modo che una scintilla è capace di bruciare una montagna e anche il mondo intero. Non si deve fidare mai di un sia pur tenue attaccamento, se non lo tronca subito, pensando di poter fare ciò in seguito. Se, infatti, non ha il coraggio di troncarlo all’inizio quando è ancora tenue, come pensa di poterlo estirpare quando avrà radici molto più profonde? Tanto più che il Signore nel vangelo afferma che chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto (Lc 16,10). Difatti colui che evita le piccole mancanze non cadrà nelle più gravi; del resto, già l’attaccamento alle piccole cose reca un grave danno, perché la cinta, la fortezza del cuore è già forzata, proprio come dice il proverbio: «Chi ben comincia è a metà dell’opera». Anche Davide ci ammonisce in questo modo: Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore (Sal 61,11).
2. L’uomo dovrebbe liberare completamente il cuore da tutti i piaceri che danno questi beni, se non per il suo Dio e in vista della perfezione cristiana, almeno per i vantaggi temporali che ne derivano, senza parlare di quelli spirituali. Infatti non solo si libera dai terribili danni che abbiamo descritto nel capitolo precedente, ma, rinunciando al piacere dei beni temporali, acquista anche la virtù della liberalità, che è un attributo molto evidente di Dio, niente affatto compatibile con la cupidigia. Oltre a ciò, acquista libertà di spirito, chiarezza di mente, calma, tranquillità e fiducia che si rimette subitamente a Dio, al quale rende con la sua volontà un vero culto e ossequio. Del resto, più si distacca dalle creature, più ne gioisce e trova diletto, gioia e diletto impossibili se le guarda con spirito di possesso: questa è già una preoccupazione che, come un laccio, lega lo spirito alla terra e non lascia spazio al cuore. Solo distaccandosi dai beni temporali ne acquista una conoscenza più chiara e ne comprende bene le verità che li riguardano, dal punto di vista sia naturale che soprannaturale. Così gode di tali beni in un modo del tutto diverso da colui che vi è attaccato, traendone grandi vantaggi e utilità: l’uno li gusta secondo la loro vera natura, l’altro invece secondo le false apparenze; quegli nel loro lato migliore, questi nel lato peggiore; quegli secondo la sostanza, l’altro secondo i loro accidenti, perché si attacca ad essi in modo sensibile secondo gli aspetti meno validi. Il senso, infatti, può raggiungere e penetrare solo gli accidenti, mentre lo spirito, purificato dalle ombre e dalle forme accidentali, penetra la verità e il valore delle cose, perché questo è il suo oggetto. La gioia, quindi, oscura il giudizio come una nebbia, perché non può esserci piacere volontario, come non può esserci gioia in quanto passione senza che nel cuore ci sia anche un abituale spirito di possesso. Al contrario, la negazione e la purificazione di tale gioia lascia al giudizio la sua chiarezza, come accade all’aria pura quando si sono dissolti i vapori che l’inquinavano.
3. Chi, dunque, non mette la sua gioia nel possesso delle creature, ne gode come se le avesse tutte; chi, invece, le guarda con particolare spirito di possesso, perde ogni gusto delle cose in generale. Il primo, che non ha nulla in cuore, possiede tutto, come dice san Paolo, in grande libertà (2Cor 6,10). Il secondo, che si attacca ad esse con volontà di possesso, non ha e non possiede nulla; anzi sono le cose a possedere il suo cuore e a fargli sentire il peso della schiavitù. Di qui, più gioie un’anima cerca di avere dalle creature, più sentirà il suo cuore attaccato e posseduto dalla sofferenza e dalla pena. Chi è distaccato, non è molestato da preoccupazioni, né durante né fuori l’orazione, e così, senza indugi, con facilità acquista un grande tesoro spirituale. L’altro, invece, non fa che agitarsi nel laccio in cui è imprigionato il suo cuore e, pur dimostrando diligenza, difficilmente può liberarsi anche per poco tempo dai vincoli del pensiero e del piacere a cui è legato il suo cuore. La persona spirituale deve, quindi, reprimere il primo moto che la porta verso la gioia delle creature. Si ricorderà di questo principio or ora enunciato, che cioè l’uomo non deve gioire di nulla se non di servire Dio, di procurare il suo onore e la sua gloria in ogni cosa, finalizzando tutto a questo scopo ed evitando ogni vanità che potrebbe incontrare nelle creature, senza mai cercare in esse il proprio piacere o la propria consolazione.
4. C’è un altro vantaggio molto grande e importante per chi rinuncia alla gioia che proviene dai beni temporali. Consiste nel lasciare il cuore libero per Dio. Questo è un modo per disporre l’anima ad accogliere tutte le grazie che Dio vorrà accordarle e che altrimenti non riceverebbe. Questi favori sono tali che, anche dal punto di vista temporale, sua Maestà, come promette nel vangelo (Mt 19,29), per una gioia lasciata per amor suo o allo scopo di conformarsi alla perfezione del vangelo, darà il cento per uno in questa vita. Ma anche se non vi fosse questo interesse, la persona spirituale dovrebbe soffocare nella sua anima le gioie che prova per le creature, per il dispiacere che dà a Dio. Difatti nel vangelo leggiamo che il Signore s’irritò talmente con quel ricco che si rallegrava solo del fatto di aver accumulato beni per molti anni, da dire che quella stessa notte la sua anima avrebbe dovuto rendere conto (Lc 12,20). Questo c’insegna che tutte le volte che ci rallegriamo vanamente, Dio guarda e ci prepara qualche punizione o amarezza commisurata alla colpa, per cui molto spesso la pena che proviene da tale gioia è cento volte superiore alla gioia stessa. Indubbiamente è vero quanto san Giovanni afferma di Babilonia nell’Apocalisse: Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in altrettanto tormento e afflizione (Ap 18,7). Questo non vuol dire che la pena non sarà più grande di quanto sia stata la gioia, perché, ahimè!, per piaceri di breve durata, vi saranno tormenti eterni. In questo testo si vuole solo far capire che ogni colpa avrà il suo castigo particolare, perché colui che punirà ogni parola inutile (Mt 12,36), non lascerà impunita la gioia vana.