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CAPITOLO 19
Ove si parla dei danno che può subire l’anima quando ripone la sua gioia nei beni temporali.
1. Se dovessimo parlare di tutti i danni che insidiano l’anima che ripone l’affetto della volontà nei beni temporali, non ci basterebbero l’inchiostro né la carta né il tempo. Da un male di poco conto, infatti, possono derivare danni gravi e distruzione di beni più grandi, allo stesso modo che da una scintilla di fuoco, se non viene spenta, possono scoppiare grandi incendi, capaci d’incenerire il mondo. Tutti questi danni hanno la loro radice e origine in un danno privativo principale che proviene da questo attaccamento ai beni temporali, ed è quello di allontanarci da Dio. Tutti i beni ci arrivano quando l’anima si avvicina a Dio attraverso l’affetto della volontà; al contrario, quando si allontana da lui per l’attaccamento alle creature, si manifestano tutti i danni e i mali in proporzione alla gioia e all’affetto con cui si attacca alle creature: questo è allontanarsi da Dio. Di conseguenza si può comprendere che, a seconda che ci si allontani più o meno da Dio, i danni saranno più o meno considerevoli in estensione o intensità e, spesso, sotto entrambi gli aspetti.
2. Questo danno privativo, da cui – dicevo – nascono tutti gli altri danni privativi e positivi, racchiude quattro gradi, uno peggiore dell’altro. Quando l’anima è arrivata al quarto grado, ha raggiunto tutti i mali e i danni che si possano enumerare nel presente caso. Questi quattro gradi vengono elencati molto bene da Mosè nel Deuteronomio, con le parole: Si è ingrassato l’amato e ha fatto lunghi passi indietro – sì, ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato –, ha respinto il Dio che lo aveva fatto e si è allontanato da Dio, sua salvezza (Dt 32,15 Volg.).
3. L’ingrassamento dell’anima, che in precedenza era amata da Dio, significa che si è immersa nel piacere delle creature. Da ciò deriva il primo grado di questo danno, che consiste nel tornare indietro; è un appesantimento dello spirito nei confronti di Dio, per cui non riesce a vedere i beni spirituali, come la nebbia che oscura l’aria impedendole di essere illuminata per bene dalla luce del sole. Quando la persona spirituale ripone la sua gioia in qualche creatura e lascia spazio ai suoi appetiti verso cose futili, perde luminosità nei confronti di Dio e offusca la semplicità della sua intelligenza e del suo giudizio. È precisamente quanto insegna lo Spirito di Dio nel libro della Sapienza, laddove afferma: Il fascino del vizio deturpa anche il bene e il turbine della passione travolge una mente semplice (Sap 4,12). Con queste parole lo Spirito Santo ci fa capire che, anche se non vi fosse alcuna cattiva intenzione nell’intelletto, basterebbero la concupiscenza e la soddisfazione per queste cose a provocare nell’anima il primo danno. Esso consiste nell’annebbiamento dello spirito e in una sorta di oscurità che impedisce il giudizio dal ben comprendere la verità e dal valutare le cose così come sono.
4. Non bastano la santità e il buon giudizio dell’uomo per non cadere in questo danno, se si dà via libera alla concupiscenza e al piacere nei beni temporali. Per questo motivo, Dio ci mette in guardia per mezzo di Mosè, dicendo: Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti (Es 23,8). Tale raccomandazione era diretta soprattutto a coloro che dovevano fungere da giudici, perché dovevano avere lo spirito retto e vigile; ma essi non l’avrebbero avuto se fossero stati avidi di doni. Per lo stesso motivo Dio ordinò a Mosè di nominare giudici coloro che aborrivano l’avarizia, perché il loro giudizio non fosse deviato dall’attrazione delle ricchezze (Es 18,21-22). Pertanto è detto che non solo non devono desiderare le ricchezze, ma anche devono aborrirle. Difatti, per potersi difendere perfettamente dall’amore per un oggetto, bisogna nutrirne avversione, perché un contrario si combatte con il suo contrario. Questo è il motivo per cui il profeta Samuele fu sempre un giudice retto e illuminato, perché, come afferma egli stesso, non accettò mai alcun regalo (1Sam 12,3).
5. Il secondo grado di questo danno privativo deriva dal primo: viene espresso nel seguito del testo già citato: Ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato (Dt 32,15). Questo secondo grado consiste nella dilatazione della volontà che si concede ormai più libertà nei confronti dei beni temporali. Si verifica quando l’anima non si preoccupa più tanto della pena e della ripugnanza che le davano la gioia e la compiacenza per i beni creati. Le capita questo perché ha dato via libera alla gioia; tale brama ha ingrassato l’anima, come dice il testo citato, e la pinguedine della gioia e dell’appetito l’ha portata a dilatare sempre più la volontà verso le creature. Ciò comporta gravi danni, perché questo secondo grado allontana l’anima dalle cose di Dio e dalle pratiche di pietà. Essa non vi prova più gusto; nutre affetto per altre cose; si lascia andare a molte imperfezioni, inezie, gioie frivole e vane soddisfazioni.
6. Questo secondo grado distoglie completamente l’anima dai suoi abituali esercizi di pietà, perché tutta la sua attenzione e la sua brama si rivolgono ai beni di questo mondo. Coloro che sono giunti a questo secondo grado, hanno il giudizio e l’intelletto ottenebrati di fronte alla conoscenza della verità e della giustizia, parimenti a quelli che si trovano nel primo grado; ma in più presentano molta rilassatezza, tiepidezza e indifferenza nel conoscere e compiere i loro doveri. Di costoro dice Isaia: Tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova non giunge fino a loro (Is 1,23). Questo non avviene senza loro colpa, soprattutto quando sono obbligati a farlo in forza del loro ufficio. Difatti quelli che si trovano in questo secondo grado non sono privi di malizia, come invece quelli del primo grado. Così si allontanano sempre più dalla giustizia e dalle virtù, perché investono la loro volontà soprattutto nell’attaccamento alle creature. Pertanto la caratteristica di coloro che si trovano in questo secondo grado consiste in una grande tiepidezza per gli esercizi spirituali, che adempiono male: li compiono solo per formalità, per forza o per abitudine, non per amore.
7. Il terzo grado di questo danno privativo consiste nel respingere completamente Dio: l’anima non si preoccupa di osservare la sua legge, pur di non perdere i beni di questo mondo. Così, trascinata dalla cupidigia, essa si lascia cadere in peccati mortali. Questo terzo grado è evidenziato dal seguito della citazione riportata sopra: Ha respinto Dio che lo aveva fatto (Dt 32,15). In questo terzo grado si trovano tutti coloro che hanno impegnato le potenze dell’anima nelle cose del mondo, nelle ricchezze e negli onori, tanto da non preoccuparsi minimamente di praticare la legge di Dio. Vivono in totale oblio e noncuranza per ciò che riguarda la loro salvezza, mentre sono attivi e abili al massimo nelle cose del mondo. Per questo Cristo nel vangelo li chiama figli di questo secolo e dice che costoro, nei loro interessi, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce (Lc 16,8). Così, dunque, essi non sono nulla per quanto riguarda Dio, mentre sono tutto per le cose del mondo. In senso stretto, questi sono gli avari, la cui cupidigia e soddisfazione per le cose create hanno assunto un’estensione e un attaccamento tali da non sentirsi mai sazi. Anzi la loro fame e sete crescono tanto più intensamente quanto più essi sono lontani dalla sorgente che potrebbe soddisfarli, cioè Dio. Di loro il Signore dice per bocca di Geremia: Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono acqua (Ger 2,13). L’avaro, infatti, non trova di che saziare la sua sete nelle creature, ma, al contrario, di che accrescerla. Questi sono quanti cadono in mille forme di peccati per amore dei beni temporali e innumerevoli sono i danni che subiscono. Davide così si è espresso a loro riguardo: Transierunt in affectum cordis: Si sono abbandonati alle passioni del cuore (Sal 72,7).
8. Il quarto grado di questo danno privativo è evidenziato nell’ultima parte della nostra citazione, ove si dice: Si è allontanato da Dio, sua salvezza (Dt 32,15). È una conseguenza del terzo grado appena illustrato. Quando, infatti, l’avaro, a causa dei beni temporali, non prende a cuore la legge di Dio, si allontana decisamente dal Signore, con la memoria, l’intelligenza e la volontà; lo dimentica come se non fosse il suo Dio, perché ha scelto come dio il denaro e i beni temporali, proprio come afferma san Paolo: L’avarizia è idolatria (Col 3,5). In questo quarto grado, infatti, si arriva fino a dimenticare Dio; l’uomo, che dovrebbe fissare il proprio cuore in Dio, lo mette nel denaro, come se non avesse altro dio.
9. Nel quarto grado si trovano coloro che non esitano a ordinare le cose divine e soprannaturali in funzione di quelle temporali come a loro dio, mentre invece dovrebbero ordinare le cose temporali a Dio, se, come esige la ragione, lo riconoscessero come tale. A questo novero appartiene l’iniqui Balaam che vendette la grazia di profeta concessagli da Dio (Nm 22,7). In questo modo agì anche Simon Mago, che riteneva stimabile in denaro la grazia di Dio: voleva, infatti, comprarla (At 8,18-19). Con tale azione mostrava che ai suoi occhi il denaro valeva di più, poiché pensava di trovare qualcuno che avrebbe stimato maggiormente i suoi quattrini, in cambio dei quali gli avrebbe dato la grazia. Anche ai nostri giorni vi sono numerose persone che appartengono a questo quarto grado. La loro ragione viene, dalla cupidigia, ottenebrata nei riguardi dei beni spirituali. Servono al denaro e non al Signore; antepongono il valore dei soldi a quello del premio divino; in molti modi fanno del denaro il loro dio e fine primario, anteponendolo al fine ultimo che è Dio.
10. A quest’ultimo grado appartengono, altresì, tutti quegli sventurati che sono dominati dai beni temporali e li considerano come loro dio al punto di non esitare a sacrificare la vita per essi. Quando, infatti, vedono che la loro divinità temporale viene a mancare, si disperano e si danno la morte per motivi miserabili. In tal maniera mostrano la triste ricompensa che si riceve da una simile divinità: poiché da questa non c’è nulla da sperare, ne ricavano solo disperazione e morte. Quanto, poi, a coloro che tale divinità non spinge fino al danno estremo della morte, essa li fa tuttavia vivere nelle sofferenze della preoccupazione e in mille altre miserie; non lascia entrare la gioia nel loro cuore e non permette che qualche bene risplenda ai loro occhi sulla terra. Li costringe a pagare continuamente il tributo del loro cuore al denaro, ragion per cui soffrono per esso, e con esso si avvicinano all’ultima disgrazia, che sarà la loro giusta perdizione, secondo quanto avverte il Saggio: Le ricchezze sono custodite dal padrone a proprio danno (Qo 5,12).
11. A questo quarto grado appartengono, inoltre, coloro di cui san Paolo dice che Dio tradidit illos in reprobum sensum: li abbandonò in balia di una mente insipiente (Rm 1,28). Ecco fino a quali danni può giungere l’uomo che ripone la sua gioia nei beni temporali come se fossero il fine ultimo. Anche quelli meno danneggiati da tale gioia sono da compiangere molto perché, come ho detto, essa costringe l’anima a tornare molto indietro nelle vie di Dio. Pertanto, come dice Davide: Se vedi un uomo arricchirsi, non temere, cioè non provare invidia pensando che ne tragga profitto, perché quando muore con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria (Sal 48,17-18).