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Enciclica LUMEN FIDEI

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    00 05/07/2013 21:06
    Ecco l'enciclica “Lumen fidei”
    «La fede illumina l'esistenza»
     
     
    Lumen fidei - La luce della fede (LF) - è la prima enciclica firmata da Papa Francesco. Suddivisa in quattro capitoli, più un’introduzione e una conclusione, la Lettera – spiega lo stesso Pontefice – si aggiunge alle Encicliche di Benedetto XVI sulla carità e sulla speranza e assume il “prezioso lavoro” compiuto dal Papa emerito, che aveva già “quasi completato” l’enciclica sulla fede. A questa “prima stesura” ora il Santo Padre Francesco aggiunge “ulteriori contributi”.

     L’introduzione (n. 1-7) della LF illustra le motivazioni poste alla base del documento: innanzitutto, recuperare il carattere di luce proprio della fede, capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo, di aiutarlo a distinguere il bene dal male, in particolare in un’epoca, come quella moderna, in cui il credere si oppone al cercare e la fede è vista come un’illusione, un salto nel vuoto che impedisce la libertà dell’uomo. In secondo luogo, la LF – proprio nell’Anno della fede, a 50 anni dal Concilio Vaticano II, un “Concilio sulla fede” – vuole rinvigorire la percezione dell’ampiezza degli orizzonti che la fede apre per confessarla in unità e integrità. La fede, infatti, non è un presupposto scontato, ma un dono di Dio che va nutrito e rafforzato. “Chi crede, vede”, scrive il Papa, perché la luce della fede viene da Dio ed è capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo: procede dal passato, dalla memoria della vita di Gesù, ma viene anche dal futuro perché ci schiude grandi orizzonti. 

    Il primo capitolo (n. 8-22): Abbiamo creduto all’amore (1 Gv 4, 16). Facendo riferimento alla figura biblica di Abramo, in questo capitolo la fede viene spiegata come “ascolto” della Parola di Dio, “chiamata” ad uscire dal proprio io isolato per aprirsi ad una vita nuova e “promessa” del futuro, che rende possibile la continuità del nostro cammino nel tempo, legandosi così strettamente alla speranza. La fede è connotata anche dalla “paternità”, perché il Dio che ci chiama non è un Dio estraneo, ma è Dio Padre, la sorgente di bontà che è all’origine di tutto e che sostiene tutto. Nella storia di Israele, all’opposto della fede c’è l’idolatria, che disperde l’uomo nella molteplicità dei suoi desideri e lo “disintegra nei mille istanti della sua storia”, negandogli di attendere il tempo della promessa. Al contrario, la fede è affidamento all’amore misericordioso di Dio, che sempre accoglie e perdona, che raddrizza “le storture della nostra storia”; è disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio, “è un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi a Lui per vedere il luminoso cammino dell’incontro fra Dio e gli uomini, la storia della salvezza” (n.14). E qui sta il “paradosso” della fede: il continuo volgersi al Signore rende stabile l’uomo, allontanandolo dagli idoli. La LF si sofferma, poi, sulla figura di Gesù, mediatore che ci apre ad una verità più grande di noi, manifestazione di quell’amore di Dio che è il fondamento della fede: “nella contemplazione della morte di Gesù, infatti, la fede si rafforza”, perché Egli vi rivela il suo amore incrollabile per l’uomo. In quanto risorto, inoltre, Cristo è “testimone affidabile”, “degno di fede”, attraverso il quale Dio opera veramente nella storia e ne determina il destino finale. Ma c’è “un aspetto decisivo” della fede in Gesù: “la partecipazione al suo modo di vedere”. La fede, infatti, non solo guarda a Gesù, ma guarda anche dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi. Usando un’analogia, il Papa spiega che come nella vita quotidiana ci affidiamo a “persone che conoscono le cose meglio di noi” – l’architetto, il farmacista, l’avvocato – così per la fede necessitiamo di qualcuno che sia affidabile ed esperto “nelle cose di Dio” e Gesù è “colui che ci spiega Dio”. Per questo, crediamo a Gesù quando accettiamo la sua Parola, e crediamo in Gesù quando Lo accogliamo nella nostra vita e ci affidiamo a Lui. La sua incarnazione, infatti, fa sì che la fede non ci separi dalla realtà, ma ci aiuti a coglierne il significato più profondo. Grazie alla fede, l’uomo si salva, perché si apre a un Amore che lo precede e lo trasforma dall’interno. E questa è l’azione propria dello Spirito Santo: “Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito” (n. 21). Fuori dalla presenza dello Spirito, è impossibile confessare il Signore. Perciò “l’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale”, perché la fede si confessa all’interno del corpo della Chiesa, come “comunione concreta dei credenti”. I cristiani sono “uno” senza perdere la loro individualità e nel servizio agli altri ognuno guadagna il proprio essere. Perciò “la fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva”, ma nasce dall’ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio. 

    Il secondo capitolo (n. 23-36): Se non crederete, non comprenderete (Is 7,9). Il Papa dimostra lo stretto legame tra fede e verità, la verità affidabile di Dio, la sua presenza fedele nella storia. “La fede senza verità non salva – scrive il Papa – Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità”. Ed oggi, data “la crisi di verità in cui viviamo”, è più che mai necessario richiamare questo legame, perché la cultura contemporanea tende ad accettare solo la verità della tecnologia, ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la scienza e che è “vero perché funziona”, oppure le verità del singolo valide solo per l’individuo e non a servizio del bene comune. Oggi si guarda con sospetto alla “verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale”, perché la si associa erroneamente alle verità pretese dai totalitarismi del XX secolo. Ciò comporta però il “grande oblio del mondo contemporaneo” che - a vantaggio del relativismo e temendo il fanatismo - dimentica la domanda sulla verità, sull’origine di tutto, la domanda su Dio. La LF sottolinea, poi, il legame tra fede e amore, inteso non come “un sentimento che va e viene”, ma come il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà. Se, quindi, la fede è legata alla verità e all’amore, allora “amore e verità non si possono separare”, perché solo l’amore vero supera la prova del tempo e diventa fonte di conoscenza. E poiché la conoscenza della fede nasce dall’amore fedele di Dio, “verità e fedeltà vanno insieme”. La verità che ci dischiude la fede è una verità incentrata sull’incontro con Cristo incarnato, il quale, venendo tra noi, ci ha toccato e donato la sua grazia, trasformando il nostro cuore. A questo punto, il Papa apre un’ampia riflessione sul “dialogo tra fede e ragione”, sulla verità nel mondo di oggi, in cui essa viene spesso ridotta ad “autenticità soggettiva”, perché la verità comune fa paura, viene identificata con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Invece, se la verità è quella dell’amore di Dio, allora non si impone con la violenza, non schiaccia il singolo. Per questo, la fede non è intransigente, il credente non è arrogante. Al contrario, la verità rende umili e porta alla convivenza ed al rispetto dell’altro. Ne deriva che la fede porta al dialogo in tutti i campi: in quello della scienza, perché risveglia il senso critico e allarga gli orizzonti della ragione, invitando a guardare con meraviglia il Creato; nel confronto interreligioso, in cui il cristianesimo offre il proprio contributo; nel dialogo con i non credenti che non cessano di cercare, i quali “cercano di agire come se Dio esistesse”, perché “Dio è luminoso e può essere trovato anche da coloro che lo cercano con cuore sincero”. “Chi si mette in cammino per praticare il bene – sottolinea il Papa – si avvicina già a Dio”. Infine, la LF parla della teologia ed afferma che essa è impossibile senza la fede, poiché Dio non ne è un semplice “oggetto”, ma è Soggetto che si fa conoscere. La teologia è partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso; ne consegue che essa deve porsi al servizio della fede dei cristiani e che il Magistero ecclesiale non è un limite alla libertà teologica, bensì un suo elemento costitutivo perché esso assicura il contatto con la fonte originaria, con la Parola di Cristo. 

    Il terzo capitolo (n. 37- 49): Vi trasmetto quello che ho ricevuto (1 Cor 15,3). Tutto il capitolo è incentrato sull’importanza dell’evangelizzazione: chi si è aperto all’amore di Dio, non può tenere questo dono per sé, scrive il Papa. La luce di Gesù brilla sul volto dei cristiani e così si diffonde, si trasmette nella forma del contatto, come una fiamma che si accende dall’altra, e passa di generazione in generazione, attraverso la catena ininterrotta dei testimoni della fede. Ciò comporta il legame tra fede e memoria perché l’amore di Dio mantiene uniti tutti i tempi e ci rende contemporanei a Gesù. Inoltre, diventa “impossibile credere da soli”, perché la fede non è “un’opzione individuale”, ma apre l’io al “noi” ed avviene sempre “all’interno della comunione della Chiesa”. Per questo, “chi crede non è mai solo”: perché scopre che gli spazi del suo ‘io’ si allargano e generano nuove relazioni che arricchiscono la vita. C’è, però, “un mezzo speciale” con cui la fede può trasmettersi: sono i Sacramenti, in cui si comunica “una memoria incarnata”. Il Papa cita innanzitutto il Battesimo – sia dei bambini sia degli adulti, nella forma del catecumenato - che ci ricorda che la fede non è opera dell’individuo isolato, un atto che si può compiere da soli, bensì deve essere ricevuta, in comunione ecclesiale. “Nessuno battezza se stesso”, spiega la LF. Inoltre, poiché il bambino battezzando non può confessare la fede da solo, ma deve essere sostenuto dai genitori e dai padrini, ne deriva “l’importanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede”. In secondo luogo, l’Enciclica cita l’Eucaristia, “nutrimento prezioso della fede”, “atto di memoria, attualizzazione del mistero” e che “conduce dal mondo visibile verso l’invisibile”, insegnandoci a vedere la profondità del reale. Il Papa ricorda poi la confessione della fede, il Credo, in cui il credente non solo confessa la fede, ma si vede coinvolto nella verità che confessa; la preghiera, il Padre Nostro, con cui il cristiano incomincia a vedere con gli occhi di Cristo; il Decalogo, inteso non come “un insieme di precetti negativi”, ma come “insieme di indicazioni concrete” per entrare in dialogo con Dio, “lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia”, “cammino della gratitudine” verso la pienezza della comunione con Dio. Infine, il Papa sottolinea che la fede è una perché uno è “il Dio conosciuto e confessato”, perché si rivolge all’unico Signore, ci dona “l’unità di visione”, ed “è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito”. Dato, dunque, che la fede è una sola, allora deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità: “l’unità della fede è l’unità della Chiesa”; togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. Inoltre, poiché l’unità della fede è quella di un organismo vivente, essa può assimilare in sé tutto ciò che trova, dimostrando di essere universale, cattolica, capace di illuminare e portare alla sua migliore espressione tutto il cosmo e tutta la storia. Tale unità è garantita dalla successione apostolica. 

    Il quarto capitolo (n. 50-60): Dio prepara per loro una città (Eb 11,16). Questo capitolo spiega il legame tra la fede e il bene comune, che porta alla formazione di un luogo in cui l’uomo può abitare insieme agli altri. La fede, che nasce dall’amore di Dio, rende saldi i vincoli fra gli uomini e si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. Ecco perché essa non allontana dal mondo e non è estranea all’impegno concreto dell’uomo contemporaneo. Anzi: senza l’amore affidabile di Dio, l’unità tra gli uomini sarebbe fondata solo sull’utilità, sull’interesse o sulla paura. La fede, invece, coglie il fondamento ultimo dei rapporti umani, il loro destino definitivo in Dio, e li pone a servizio del bene comune. La fede “è un bene per tutti, un bene comune”; non serve a costruire unicamente l’aldilà, ma aiuta a edificare le nostre società, così che camminino verso un futuro di speranza. L’Enciclica si sofferma, poi, sugli ambiti illuminati dalla fede: innanzitutto, la famiglia fondata sul matrimonio, inteso come unione stabile tra uomo e donna. Essa nasce dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale e, fondata sull’amore in Cristo, promette “un amore che sia per sempre” e riconosce l’amore creatore che porta a generare figli. Poi, i giovani: qui il Papa cita le Giornate Mondiali della Gioventù, in cui i giovani mostrano “la gioia della fede” e l’impegno a viverla in modo saldo e generoso. “I giovani hanno il desiderio di una vita grande – scrive il Pontefice –. L’incontro con Cristo dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita”. E ancora, in tutti i rapporti sociali: rendendoci figli di Dio, infatti, la fede dona un nuovo significato alla fraternità universale tra gli uomini, che non è mera uguaglianza, bensì esperienza della paternità di Dio, comprensione della dignità unica della singola persona. Un ulteriore ambito è quello della natura: la fede ci aiuta a rispettarla, a “trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità o sul profitto, ma che considerino il creato come un dono”; ci insegna ad individuare forme giuste di governo, in cui l’autorità viene da Dio ed è a servizio del bene comune; ci offre la possibilità del perdono che porta a superare i conflitti. “Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno”, scrive il Papa, e se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, perderemo la fiducia tra noi e saremo uniti solo dalla paura. Per questo che non dobbiamo vergognarci di confessare pubblicamente Dio, in quanto la fede illumina il vivere sociale. Altro ambito illuminato dalla fede è quello della sofferenza e della morte: il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare affidamento alle mani di Dio che mai ci abbandona e così essere “tappa di crescita della fede”. All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua presenza che accompagna, che apre un varco di luce nelle tenebre. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza. E qui il Papa lancia un appello: “Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino”. 

    Conclusione (n. 58-60): Beata colei che ha creduto (Lc 1,45). Alla fine della LF, il Papa invita a guardare a Maria, “icona perfetta” della fede, perché, in quanto Madre di Gesù, ha concepito “fede e gioia”. A Lei innalza la sua preghiera il Pontefice affinché aiuti la fede dell’uomo, ci ricordi che chi crede non è mai solo e ci insegni a guardare con gli occhi di Gesù.
     
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    00 06/07/2013 16:34

    Virtù, ragione e un appello per i credenti. Quell'opera a "quattro mani" che corona il trittico di Benedetto

    di Vittorio Messori

    Eccola, dunque, la prima enciclica pensata e scritta “a quattro mani“, per usare l’espressione dello stesso  papa Bergoglio. Il quale firma sì, da solo, con un Franciscus manoscritto,  ma spiega, nel testo stesso, come stiano le cose: <<Queste considerazioni sulla fede intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato la  prima stesura di  un’ enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi >>. In realtà, questi  contributi del pontefice argentino sembrano di contorno. Secondo l’autorevole  sociologo delle religioni Massimo Introvigne sono rintracciabili soprattutto nel fatto che Francesco <<insiste sulla sua tesi preferita, che la fede cioè ci libera dall’autoreferenzialità, per cui parliamo sempre solo a noi stessi anziché “uscire” a parlare con gli altri.>> Sia lo schema di pensiero che certe espressioni stilistiche o i riferimenti agli autori, approvati o confutati (molti dei quali tedeschi, a cominciare da Nietzsche) sono chiaramente ratzingeriani. Si tratta,  insomma, della conclusione omogenea del trittico che Benedetto XVI aveva deciso di dedicare alle tre virtù teologali, per cominciare dalle radici il progetto di nuova evangelizzazione che già era stato di Giovanni Paolo II.

    Ci è già capitato, proprio su questo giornale, di spiegare perché una simile novità di “magistero a due“ non sia fonte di confusione ma, al contrario, di conferma di una verità cristiana e, in particolare, cattolica. Non a caso, lo stesso papa Francesco scrive, dopo aver accennato al ruolo decisivo del suo predecessore nella stesura dell’enciclica: << Il Successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a confermare i fratelli in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo». Nei papi che si susseguono possono essere interessanti ma alla fine irrilevanti (almeno per quanto davvero conta) le diversità di carattere , di cultura, di storie personali. In effetti, il ruolo del Vescovo di Roma – <<ieri, oggi, domani>>, precisa Bergoglio- è quello di Maestro e di Custode di undepositum fidei  che non è suo ma che gli è stato affidato; che può meglio comprendere e approfondire ma non mutare neppure di uno jota. Dunque, la prima  enciclica “a due mani“ non è che la conferma di questa verità, spesso dimenticata anche da credenti (magari storici) che enfatizzano le differenze tra i vari pontificati. Può differire la stile o l’attenzione per certi temi, ma non certo il contenuto, quando un pontefice riannuncia la verità del Vangelo.

    Proprio perché così ratzingeriane, la novantina di pagine della Lumen fidei sono di grande densità teologica. Come probabilmente vedremo nei documenti che Francesco non solo firmerà ma elaborerà in proprio, sarà più accentuato l’orientamento pastorale rispetto a quello dottrinale. E’ proprio l’importanza del testo che suggerisce di rinviare a più avanti un’analisi approfondita, ora impedita dalle urgenze  giornalistiche. Qui dobbiamo limitarci a una constatazione, crediamo non apologetica ma oggettiva. Come ricorda l’enciclica sin dall’inizio, il movimento di pensiero che iniziò con la modernità, volle chiamarsi “illuminismo“, in contrasto alle “tenebre“ cristiane e in particolare cattoliche. I tempi del predominio religioso furono definiti “secoli bui“. E’ successo però che le fiaccole accese per guidare l’umanità verso i nuovi destini, portarono presto al Terrore rivoluzionario , alle stragi napoleoniche (due milioni di giovani europei, il futuro dell’Europa intera, sacrificati alle ambizioni del Còrso) e poi, via via, all’esito disastroso di tutti gli “ismi“ creati per fugare le ombre cristiane: socialismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo e, oggi, un liberismo e un libertinismo incontrollati di cui scontiamo le conseguenze. E’ dunque anche alla luce della storia che l’enciclica è stata volutamente chiamata, dalle prime due parole, “la luce della fede“. Fede che non solo non è tenebra, come assicuravano coloro che accesero i Lumi settecenteschi, ma è in grado di rischiarare non solo l’umanità ma anche le vite dei singoli uomini. In  tutto il testo, poi, ritorna di continuo  la grande, doverosa preoccupazione di quel teologo post-moderno che è Joseph Ratzinger: ben prima che ai sentimenti, fare appello alla ragione, per mostrare che questa non solo non esclude la fede ma può aprire la strada verso di essa. Le “ragioni per credere“ sono ribadite con forza, seguendo, in fondo il detto pascaliano che la storia sembra davvero avere confermato: <<La critica può sembrare allontanare dal Vangelo. Ma la critica della critica è sempre possibile e può   ricondurvi>>

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    00 07/07/2013 14:08

    UN LAMPO DI LUCE NELLE TENEBRE DEL PRESENTE

    Posted: 06 Jul 2013 01:17 PM PDT

    Ieri, mentre veniva presentata al mondo la nuova enciclica “Lumen fidei”, scritta a quattro mani da Benedetto XVI e da papa Francesco, i due uomini di Dio insieme hanno anche inaugurato, nei giardini vaticani, una statua di san Michele Arcangelo, consacrando la città vaticana a lui e a san Giuseppe.

    Da tali fatti emerge non solo l’affetto fraterno che unisce Francesco e il predecessore, ma soprattutto la loro comunione di fede profonda. Questa unità, in un mondo segnato dal conflitto, è il miracolo della grazia, l’essenza del cristianesimo.

    E va sottolineato anche perché i giornali tendono a parlare della Chiesa secondo i criteri di giudizio mondani. Senza vederne il miracolo.

    Non  a caso, proprio ieri mattina, su “Repubblica”, un articoletto pretendeva di proclamare invece la radicale “discontinuità” fra Benedetto XVI e papa Francesco. Un’idea clamorosamente smentita dagli stessi eventi del giorno.

    Del resto sempre ieri il papa ha pure firmato i decreti di canonizzazione di altri due papi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E ha voluto datare la sua enciclica così: “29 giugno, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo”.

    Dunque, con una straordinaria serie di gesti, in una stessa giornata, ha potentemente sottolineato la continuità e la grandezza del papato da san Pietro ai giorni nostri.

    E ha offerto a noi l’occasione di abbracciare, con un solo sguardo, la “creatività” di Dio nel nostro tempo.

    Egli infatti ha parlato al mondo di oggi attraverso la testimonianza potente e affascinante di papa Wojtyla, profeta di fede e di libertà; poi attraverso la sapienza profonda e l’umiltà di Benedetto XVI, che ha fatto brillare la ragionevolezza della fede davanti allo smarrimento dei moderni; infine alla nostra generazione Dio parla attraverso la paternità tenera e accorata di papa Francesco, grande abbraccio di misericordia su tutte le miserie e le ferite umane (la visita del Papa a Lampedusa, fra i disperati della terra – lunedì prossimo – ce lo mostra in modo commovente).

    L’enciclica “Lumen fidei”, dicevo, è profondamente segnata da questa continuità del giudizio della Chiesa sul mondo moderno e dalla variegata ricchezza della sua testimonianza.

    Costituisce del resto un evento memorabile: non è cosa di tutti i giorni che un’enciclica sia scritta a quattro mani, concordemente, da due papi.

    Ma, portando la firma dell’unico pontefice in carica che umilmente riconosce nel corpo stesso dell’enciclica la paternità del predecessore per buona parte del documento (“nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”), con buona pace di “Repubblica”, mostra senza alcun dubbio possibile, che papa Francesco abbraccia e fa suo il magistero del predecessore.

    Ovviamente lo fa donando alla vita della Chiesa di questi giorni e al mondo in rapida mutazione, ulteriori spunti di riflessione che tutti – quelli antichi di Benedetto e quelli nuovi – convergono sul volto di Gesù Cristo e la fede in Lui.

    Alcuni rapidi flash. La fede è luce, mentre il mondo sprofonda sempre più nelle tenebre. E’ un giudizio sul momento presente. Il Papa contesta apertamente l’idea che lo spazio della fede si apra “lì dove la ragione non può illuminare”.

    No. I secoli moderni – dai totalitarismi del Novecento alla confusione del presente – hanno dimostrato che le pretese assolute della ragione producono infelicità.

    E la luce della fede non è un sentimento soggettivo, ma verità oggettiva: “quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore”. Essa dunque sa “illuminare tutta l’esistenza dell’uomo”.

    E’ la prima contestazione della “dittatura del relativismo”.

    Un secondo flash. Cosa è la fede? Una credenza? Una dottrina? Una morale? No. Sta tutta in questa frase: “riconosciamo che un grande Amore ci è stato offerto”.

    Per questo l’enciclica usa l’espressione giussaniana “incontro che accade nella storia” e sottolinea che il Salvatore ci ha raggiunto attraverso una “catena umana” che ha attraversato i millenni, cioè la Chiesa, la tradizione.

    Un altro prezioso spunto. Nella mentalità dominante si oppone di solito alla fede l’agnosticismo o l’ateismo. Invece la “Lumen fidei”, in base alla lezione biblica, oppone alla fede “l’idolatria”.

    In effetti l’ateismo non esiste. Nessun uomo può vivere, anche un solo istante, senza affermare qualcosa o qualcuno. E’ ciò che la Sacra Scrittura chiama “idolo”.

    Dunque l’unica grande opzione della vita sta in questo: fidarsi di Gesù Cristo o di qualche idolo. Non è possibile per nessuno sottrarsi a questa scelta. Chi è più affidabile? Chi merita veramente fiducia? Gesù di Nazaret, colui che è morto per me e per te, o un qualunque idolo?

    Questa enciclica ci libera da tanti luoghi comuni. Per esempio la cultura dominante pensa Dio come qualcuno che “si trovi solo al di là”, quindi “incapace di agire nel mondo”, perciò “il suo amore non sarebbe veramente potente, capace di compiere la felicità che promette”. Così “credere o non credere in Lui sarebbe del tutto indifferente”.

    Invece è vero il contrario. E sono i fatti – i concretissimi fatti – a gridarlo. E’ tutta una storia ricchissima di fatti a provarlo.

    Del resto “quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce”.

    Ma come inizia la fede? Incontrando Gesù, oggi come duemila anni fa. In un incontro con i cristiani che sono una cosa sola con Lui. Chi non vorrebbe vedere gli occhi di Gesù?

    Ebbene, citando Guardini, l’enciclica spiega che la Chiesa è la portatrice storica dello sguardo di Cristo sul mondo. In essa si sperimenta una vita comune. Così noi scopriamo che non siamo più soli.

    Si aderisce a quello sguardo, fino a farlo nostro, dando credito a alla compagnia di Gesù e cominciando a seguirlo concretamente: “se non crederete non comprenderete”. Perciò “la fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva”.

    Questa è la profonda ragionevolezza della fede. Chi ritiene invece che essa sia “una bella fiaba” o “un bel sentimento”, indichi qualcuno che sia più credibile di Cristo da seguire.

    La prova sperimentale – dice l’enciclica – mostra a ciascuno che l’amicizia di Cristo illumina la vita come nessuna cosa al mondo e apre il cuore umano all’amore che tutti desideriamo.

    Per questo possiamo riconoscere che Egli è la verità: “richiamare la connessione della fede con la verità” dice l’enciclica “è oggi più che mai necessario proprio per la crisi di verità in cui viviamo” perché “nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia” o “della scienza”.

    Il cristiano non pretende con arroganza di essere il padrone della verità. Anzi “la verità lo fa umile” perché non è lui a esserne padrone, ma è la verità a possederlo. Infatti è compagno di cammino di tutti.

    L’enciclica ha molti spunti antirelativisti. Per esempio sulla teologia (che è “al servizio della fede dei cristiani” e alla sequela del magistero). Sulla fede “fai-da-te” (la fede è una, non si può prendere una cosa e rifiutarne un’altra). Sulla rilevanza pubblica della fede cristiana. Sulla “fraternità” che non è possibile senza riconoscere un Padre di tutti.

    La fede proclama il primato dell’uomo nell’universo e al tempo stesso “ci fa rispettare maggiormente la natura”. Con buona pace di “Repubblica” esalta il matrimonio come “unione stabile dell’uomo e della donna… capaci di generare una nuova vita”, riconoscendo “la bontà della differenza sessuale”.

    E fa abbracciare tutte le sofferenze del mondo: “all’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto”, ma offre la sua presenza che accompagna e che si carica di tutti i dolori umani.

    La fede cristiana annuncia la “città di Dio” che ci è preparata per sempre. E si affida a colei che è “la Madre della nostra fede”.

    Decisamente queste pagine sono una grande luce nelle tenebre del presente.

     

    Antonio Socci

     

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    Credente
    00 09/07/2013 11:15
    [Modificato da Credente 09/07/2013 11:19]