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 ESEGESI SCOTTANTE SUL MISTERO PASQUALE

Cerco un bel commento moderno sulla passione e risurrezione di Gesù. Il libraio dice che di attualità non ha altro di pregevole da consigliare che il volume Passione e resurrezione del Signore dell'illustre domenicano Pierre Benoit, direttore della Scuola Biblica di Gerusalemme (trad. Gribaudi ed., 1967). Nel catalogo delle Editions du Cerf sono riportati infatti vari calorosi giudizi sull'originale francese. J. J. Weber, Arcivescovo di Strasburgo: «Questo libro di esegesi è un libro di vita spirituale e di formazione pastorale. Quante visioni commoventi... quante osservazioni sagge su come deve essere un apostolo del nostro tempo!... Un libro di luce e di pace per le intelligenze». In Verbum Caro: «Un ammirabile libro di meditazione». 

In Prétres diocésains: «Si raccomanda nel modo più caloroso quest'opera magistrale, che illumina il mistero pasquale e quindi tutta la liturgia» . Nella Civiltà Cattolica (21 sett. 1968: G. De Rosa): «I vantaggi di questo metodo sono evidenti... Questo volume... ha anche un alto valore spirituale... raccomandiamo vivamente la sua lettura». Immagino pertanto che il libro vada a ruba. Quanto a La Scuola Cattolica (3 - 1967, 389 ss.), nel recensirlo, dice che esso «interessa la sempre più scottante esegesi dei Vangeli... si muove secondo i binari della più recente e critica esegesi moderna... è pure fortemente sconcertante». Lo sconcerto non sembra preoccupare però il recensore che augura al libro «larga fortuna anche in Italia». 

Riconosco che nel libro vi sono belle pagine. Quanto al resto sono del sommesso parere che non sia per niente utile sconcertare i lettori; tanto meno con questi sistemi esegeticisbrigativi, che è quanto dire superficiali; e ancor meno sul culminante mistero della morte e risurrezione di Gesù. 

Scorrendo queste pagine si può cogliere un interessante florilegio, metodologicamenteassai istruttivo. Ne dò alcuni saggi. 
 
BACIO DI GIUDA 
 
Al saluto e al bacio, secondo Mt 26, 50, Gesù rispose: «Amico, a che sei venuto?»; secondo invece Lc 22,48, Gesù ha risposto: «Giuda, con un bacio tradisci il Figliolo dell'uomo?». P. B. ritiene (68 s.) che sia «vano» chiedersi cosa realmente Gesù abbia detto. Non si tratta infatti di frasi «registrate col magnetofono» - egli dice - ma che hanno voluto solo esprimere «lo spirito della scena», secondo «la psicologia e la teologia» dei rispettivi evangelisti. Di fronte alla prospettiva poi che le due frasi siano state dette successivamente, B. si chiede: «Ma è necessario che siano state pronunciate realmente tutt'e due?».

Ora, di contro, io mi chiedo se è necessario il contrario - cioè che non siano state pronunciate entrambe - e su che base critica questo contrario venga preferito. In tale preferenza si vede solo il preconcetto esegetico moderno di unificare le cose simili, mentre razionalmente il trascendente contesto della storia evangelica giustifica piuttosto una moltiplicità di arricchimento.

Nel dubbio, comunque, la presunzione sta per la verità dei testi, salvo positiva prova in contrario. 

Nessuna difficoltà, d'altra parte, può sorgere qui dal fatto che un evangelista abbia riportato una frase e l'altro un'altra. La verità di entrambe e il loro succedersi è quanto mai naturale: la prima può essere stata detta subito nei pochi istanti tra il saluto e il bacio, la seconda dopo il bacio. 
Certo, non si chiede l'esattezza da «magnetofono». Si deve contare però sulla notoria abitudine degli orientali, sostenuta dalla loro forte memoria, di riportare esattamente i testi. Tanto più ci si deve contare il riguardo di una così solenne circostanza. In questo caso si può anzi supporre che siano state riferite proprie le precise parole, non soltanto ilpensiero (e tanto meno il solo «spirito della scena» come gratuitamente afferma il B.). Quanto al pensiero, esso è notevolmente diverso nelle due frasi, secondo una diversità psicologicamente comprensibilissima di intensificazione: la seconda sottolinea che il tradimento è avvenuto proprio nell'atto della espressione dell'amicizia. 

CATTURA 

«Come i pittori circondano di un'aureola le teste dei santi, così Giovanni avvolge volentieri Gesù di questa maestà divina» (74). - C'è questa differenza però, che l'aureola dei pittori è puramente simbolica e fittizia, mentre le narrazioni giovannee debbono criticamente ritenersi storiche, fino a prova in contrario. 

La ciurma stramazzata a terra. - Al famoso «io sono» di Gesù «diedero indietro e stramazzarono a terra» (Gv 18, 6). B. esclude il «prodigio». «Basta che, impressionati dalla maestà di Gesù, essi retrocedano un po', urtino nelle radici degli olivi e qualcuno di loro cada all'indietro». Marco e Matteo «non hanno ricordato questo dettaglio» perché esso è, in sé, insignificante. Giovanni invece vi vede un valore «simbolico... questi uomini sono caduti a terra dinanzi al Signore». - Tutto ciò non sembra davvero convincente. Sa di barzelletta. 
Quanto infatti al silenzio di Mt e Mc (e Lc) esso non dimostra la pochezza dell'episodio più di quanto il silenzio di Gv dimostri la pochezza, per es., dell'agonia dell'orto.

La supposta esterna «maestà di Gesù», inoltre, non è storicamente verosimile, perché egli aveva invece il viso sfigurato dall'agonia e dal sudore di sangue. D'altra parte se tale esteriore e suggestiva maestà vi fosse stata già avrebbe dovuto produrre questo supposto effetto dominatore al primo incontro con la ciurma e alle prime parole di Gesù: «Chi cercate?». E poi, stiamo criticamente al testo: Giovanni collega il fatto con le parole di Gesù e non con la sua presenza.

Il retrocedere a quelle parole (che ricordavano il divino «io sono» dell'Es 3, 14) non si può spiegare quindi che come effetto di una miracolosa potenza emanante da Dio, che sospinse gli sgherri fino a farli cadere. D'altra parte l'ipotesi che quei nerboruti soldati, su quel terreno pianeggiante, appena incespicati siano caduti, è inverosimile. Solo il prodigio spiega l'indietreggiamento e la caduta. 

I TRE RINNEGAMENTI 
 
Un solo rinnegamento. - Dai quattro Vangeli risulterebbe - secondo B. (106 ss.) - una «moltiplicazione [di rinnegamenti] inverosimile quanto ridicola... s'arriva in tal modo a costruire un piccolo romanzo. Meglio sarebbe riconoscere che gli scrittori sacri, come qualsiasi altro scrittore, hanno fatto uso di una certa libertà narrativa». «Lo Spirito Santo - ribadisce B. - non ha modificato queste condizioni umane e naturali, che non interessano la teologia». Per es. quando Mc dice che Pietro «uscì fuori», mentre poi lo ritroviamo dentro perché viene ulteriormente interrogato, «la contraddizione è lampante»; e se Mc precisa che uscì nel «vestibolo», «queste parole potrebbero essere state aggiunte proprio allo scopo di attenuare questa incoerenza». Sulla linea dell'esegeta protestante Masson, B. prospetta infine l'ipotesi - che egli definisce «intelligente» - di un solo effettivo rinnegamento (108).

Viene così fatto un crocione su un bellissimo esempio di racconti alquanto diversi, ma ottimamente armonizzabili, che, proprio per la loro diversità, costituiscono una valida conferma della autonoma obiettività dei singoli testimoni. Niente di più naturale, invece, che avendo Pietro attirato l'attenzione in mezzo a tante gente, una volta iniziate le contestazioni contro di lui, esse si siano moltiplicate, pur potendosi raggruppare in tre momenti fondamentali. Per chi conosce poi la pianta di quelle case signorili con il cortile interno allo scoperto e l'androne di accesso, non costituisce alcuna «contraddizione lampante» l'uscita dal cortile per entrare in quell'androne. 
 
E' pertanto da domandarsi cosa sia più «romanzo» e meno «intelligente»: se il concordare le varie narrazioni stando puramente al testo o se vagare con incontrollabili ipotesi sulla «combinazione» di diverse tradizioni, fino a prospettare un possibile unico rinnegamento. In particolare, come si potrebbe conciliare questa ipotetica unicità con il preannunzio di Gesù circa il triplice rinnegamento (Mt 26, 34 e parall.: tutti e quattro i vangeli) e con il significato allusivo del triplice interrogatorio sulla sponda del lago (Gv 21, 15-17)? 
 
Dettagli imrnaginari. - B. equipara gli evangelisti a «qualsiasi altro scrittore» per la libertà narrativa dei dettagli, dato anche che ogni testimone «non ricordando più il dettaglio, se lo immagina a modo suo» e che «lo Spirito Santo non ha modificato queste condizioni umane e naturali, che non interessano la teologia».
 
Ora io mi chiedo in quale documento del Magistero è detto che la divina ispirazioneriguarda soltanto le verità teologiche. Sappiamo invece che essa riguarda «tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono» (R. 11: deh. 890) per cui gli evangelisti «trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio... effettivamente operò e insegnò» (R. 19: deh. 90 l), «in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» (ivi). Certo, tutto ciò al fine della «eterna salvezza» (ivi). Ma, proprio per questo fine, i fatti debbono essere descritti con la caratteristica impronta di autenticità che consiste precisamente nella obiettività di certi dettagli, i quali garantiscono la «verità sostanziale» (di cui vorrebbe accontentarsi il B.). D'altra parte, dove finiscono i dettagli imprecisi e comincia la sostanza? 

Nessuna difficoltà ad ammettere un genere letterario non storico, ove vi fossero i motivi per ammetterlo. Ma quando si tratta evidentemente di genere storico e di dirette fonti testimoniali, la ispirazione potrà ben lasciare l'impronta delle diverse personalità dei narratori, eccetto quella che contraddistingue i narratori puramente umani: l'errore. E infatti nell'esporre tali impronte personali degli agiografi il Concilio dice: «sce­gliendo... sintetizzando... spiegando» (ivi); ma non parla in alcun modo di invenzione di dettagli, come se ogni testimone se li lmmagml «a modo suo». 
 
DINANZI AL SINEDRIO 
 
«Non bisogna cercare nelle narrazioni evangeliche un processo verbale strettamentefedele della seduta del Sinedrio» (163).
 
Che non si debba cercare un processo verbale tecnicamente condotto come si farebbe oggi, è evidente: basta ad escluderlo la frammentarietà delle narrazioni evangeliche. Ma nonostante ciò dagli ispirati scrittori si deve ugualmente attendere, soprattutto per questi culminanti episodi, grande fedeltà. Anche in questo caso invece B. nega questa fedeltà, facendo fulcro sul presupposto, gratuito, del combaciamento della descrizione di Mt 26, 59 ss. (e Mc 14, 55 ss.) con quella di Lc 22, 66 ss. E' presumibile invece che esse si riferiscano rispettivamente al processo notturno e mattutino davanti a Caifa (probabilmente. secondo e terzo, essendovi prima l'incontro notturno con Anna: cfr. Gv 18. 13. 24), come risulta dall'esplicito ricordo della riunione mattutina, dopo quella notturna in Mt 27, 1 (Mc 15, 1) e dalla corrispondente precisazione di Lc 22, 66: «Fattosi giorno...».
 
Le divergenze delle rispettive narrazioni trovano nella diversità delle due adunanze la più logica spiegazione, senza che d'altra parte le rassomiglianze possano giustificare l'identificazione. Tali rassomiglianze sono infatti molto naturali, giacché l'ultima riunione aveva lo scopo di confermare e sigillare ufficialmente le risultanze della precedente (il che spiega anche la forma maggiormente esplicita delle domande). Ma per B. bastano, nonostante gli espliciti testi contrari, da un lato il silenzio di Lc sulle altre sedute e dall'altro la rassomiglianza della sua narrazione con quella notturna di Mt e Mc per identificarle: metodologia esegetica di troppo facile accontenta tura.
 
Che «Luca abbia omesso una delle sedute» B. non manca di prospettarselo, ma poi subito lo esclude con questa pura e semplice affermazione: «Appare chiaramente nel suo testo che la seduta del mattino è identica a quella che Matteo e Marco raccontano come avvenuta durante la notte» (118). Questo «chiaramente» poche righe dopo si trasforma in «si ricava l'impressione». Tutto ciò significa affermare, gratuitamente e leggermente, non dimostrare
 
Un tentativo di dimostrazione intrinseca contro la esistenza della seduta notturna B. lo riduce a questo: essa sarebbe «contro la verosimiglianza psicologica: è difficile immaginare i membri del Sinedrio che escono di casa loro durante la notte per questo affare. Sembra più logico... dopo aver passato una notte tranquilla... non sembra naturale» (ivi); ma alcune pagine dopo ammette che «alcuni capi del Tempio» potevano avere di notte «atteso con Anna il risultato dell'arresto». Non si vede pertanto perché essi non potevano essere anche numerosi, mossi dal medesimo grande interesse per il preordinato evento, così da giustificare, in senso morale, l'espressione «tutto il Sinedrio» di Mc 14, 55. 
 
ASSOLUZIONE DEGLI EBREI 
 
«Gli ebrei sono scusabili perché non hanno saputo quello che facevano, come dice Gesù stesso» (223).

Piano! Attenuanti si possono ammettere scusanti, soprattutto quanto ai capi, no. Lo ha detto esplicitamente Gesù, davanti a Pilato: «Chi mi ha consegnato nelle tue mani è ben più colpevole» (Gv 19, 11). 
Quegli ebrei avevano ben coscienza di essere mossi dall'odio. Dell'accecamento circa la verità di Gesù erano responsabili in causa, per cui meritarono tante volte le più severe apostrofi di Gesù, che non mancò anche di precisare: «Come potreste credere voi, che andate in cerca di gloria gli uni dagli altri... c'è già chi vi accusa, Mosè» (Gv 5, 44. 45). Anche S. Stefano, che pur chiese per loro il perdono (At 7, 60), disse: «Voi resistete continuamente allo Spirito Santo» (ivi 51).

Gesù disse bensì la misericordiosa e meravigliosa prima parola dalla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno» (Lc 23, 34). La disse, però, propriamente, non solo degli ebrei, ma di tutti i suoi carnefici. Tuttavia, se chiedeva per essi perdono, vuol dire che la loro colpa c'era: e la richiesta del perdono equivaleva alla richiesta al Padre di donar loro la grazia del pentimento e della conversione.

Quel «non sanno» va riferito a una conoscenza adeguata o almeno sufficiente in quel momento: molti di essi non l'avevano, ma perché avevano resistito alla grazia e quindi non senza loro colpa. 
 
PRODIGI ALLA MORTE DI GESÙ 
 
B. non intende «negare in linea di principio gli avvenimenti portentosi». Di fatto però li dissolve quasi totalmente, pressoché a priori (291 ss.). Il grande argomento generale è il simbolismo biblico dei profeti nel descrivere il grande giorno di Jahvé. Questo era caratterizzato da grandi prodigi nella natura; anche Gesù usò quelle immagini nel discorso escatologico; esse si ritrovano anche nelle narrazioni ebraiche, laudative della morte di celebri rabbini. Anche gli evangelisti avrebbero dunque tenuto presente tale simbolismo. 

Ma diversissimi invece sono i casi della simbolica previsione profetica della libera storia edificante, e della scarna e quasi spersonalizzata narrazione testimoniale della morte di Gesù, supremo evento storico divino. In questo secondo caso è da attendersi, sia per un sommo senso di responsabilità umana del narratore, sia per l'assistenza dello Spirito Santo, una grande cura di non adulterare con mescolanze simboliche la storica realtà del divino evento; è da attendersi che vi sia bensì un simbolismo in certi dettagli, in armonia a quelle figure bibliche, ma espresso dalla realtà dei dettagli prodigiosi stessi.
 
Ciò è criticamente tanto più da attendersi in un contesto così umiliante per l'eroe del racconto - Gesù -, contesto che fa escludere qualsiasi preoccupazione letteraria glorificatrice da parte dei narratori. 
 
In particolare - secondo B. - le tenebre si potrebbero spiegare come un grigiore dovuto a noti venti sciroccali carichi di sabbia. Il velo del tempio sarebbe stato squarciato da un potente colpo di vento. Tali prodigi consisterebbero, in fondo, soltanto nella coincidenza di tempo: un po' poco, a considerare la solennità dei testi. Quanto al terremoto, B. si limita ad ammettere che «non è proibito pensare ad esso».

Circa i «numerosi corpi di santi», risuscitati al momento della morte di Gesù, i quali dopo la risurrezione del Signore «apparvero a molti» (Mt 27, 52- 53), la narrazione pare al B. così incoerente (sarebbero risuscitati subito, ma restati nella tomba fino alla risurrezione di Gesù; inoltre dopo essersi mostrati a Gerusalemme, sarebbero nuovamente morti?) che egli interpreta la notizia di Mt come simbolo della pura liberazione delle sole anime dal limbo; i corpi risusciteranno soltanto alla fine dei tempi; frattanto le anime sarebbero entrate non nella città santa terrena, ma in quella celeste. L'affermazione è fatta con questa acritica sicurezza: «E' chiaramente questo che Matteo vuole qui insegnare».

Ora ciò significa semplicemente negare quello che Mt dice e che, in realtà, è tanto più attendibile quanto più è inaspettato e sorprendente e meno facile ad essere inventato: l'evangelista parla infatti esplicitamente di corpi e della Gerusalemme terrena, giacché apparvero a molti. Solo la risurrezione dei corpi costituiva, d'altra parte, l'adeguata associazione alla risurrezione del corpo di Cristo.

Le pretese incoerenze poi spariscono pensando che si tratta di corpi gloriosi (analogamente al corpo di Gesù risorto). Quei giusti risorti sarebbero poi ascesi al cielo insieme a Gesù. Nell'attesa, essendo corpi gloriosi, non crea difficoltà il problema dove si sarebbero nascosti, come non la crea per il corpo di Gesù nei quaranta giorni che restò in terra: si fecero vedere quando vollero e poi attesero in qualche luogo misterioso, vicino o lontano quanto si vuole, finché piacque al Signore.