00 01/05/2013 18:31
LA OPINIONE DEGLI ALTRI: PADRI, ESEGETl 

I Padri vengono sempre meno considerati nella moderna esegesi, o perché - si dice - raramente unanimi, o perché non hanno voluto affrontare il problema critico, o perché non intendono farsi eco del pensiero propriamente della Chiesa.

Generalizzando troppo però questi concetti si può snervare praticamente il principio del magistero della Chiesa nell'interpretazione biblica. Per rispettare questo principio infatti non basta inchinarsi ai suoi interventi positivi e alle sue eventuali proibizioni, che sono ben rari, ma bisogna coerentemente tenere conto delle sue preferenze e dei suoi orientamenti, di cui i Padri costituiscono una eco particolare e qualificata.

Più che guardare se i Padri intendevano esprimere il pensiero della Chiesa si deve guardare se la Chiesa ha riconosciuto nei Padri se stessa. E' la Chiesa che riconosce e addita i Padri come suoi figli particolarmente santi e illuminati e fedeli, il che costituisce appunto il titolo della loro autorità, che in certi casi è decisiva.

Non è giusto ad ogni modo passare senz'altro dal caso della loro autorità decisiva alla noncuranza, quando manchino alcune condizioni. Vi è qualcosa di analogo in questo - con le ovvie e debite distinzioni con l'obbedienza dottrinale alla Chiesa, che è proporzionatamente doverosa anche negli insegnamenti non strettamente infallibili. Quanto alla svalutazione dei Padri, in base alla mancata impostazione critica, non si deve dimenticare che il valore della tradizione cattolica non si proporziona, per sua natura, all'uso del metodo critico scientifico - che va tuttavia opportunamente caldeggiato - ma all'assistenza dello Spirito Santo. 

Un inverso atteggiamento, di immensa fiducia cioè verso la opinione degli altri, si nota invece modernamente nel campo esegetico riguardo agli eruditi della cultura esegetica più riformatrice. Talora sembra di assistere a un vero fenomeno di moda della cultura, quale si nota in tutti gli altri campi scientifici, non esclusa la fisica.

Quando qualche dotto avanza sul terreno opinabile in posizioni particolarmenteardimentose - come son chiamate, non si capisce logicamente perché, quelle meno soprannaturali: mentre il massimo ardimento è di aderire pienamente al soprannaturale - in vari altri studiosi vi è un primo movimento di sorpresa. Si guarda poi se l'autorità ecclesiastica reagisce - il che essa, maternamente longanime, fa ormai tanto di rado - e in caso contrario ci si volge sempre più numerosi verso quelle posizioni, con la simpatia della novità e dell'ardimento, inteso nel suddetto senso, cioè come preferenza per le tesi meno soprannaturali ed antiche. Vengono poi i divulgatori a dire: «L'esegesi cattolica moderna oggi pensa così».

Ma in realtà spesso non è il vero pensiero della esegesi cattolica, bensì di quel primo isolato e avventato iniziatore.

Alla plenaria episcopale italiana dell'8 aprile 1967 il S. Padre lamentava - in una visione ancora più generale - che «persone e pubblicazioni, che avrebbero la missione d'insegnare e di difendere la fede, non mancano purtroppo anche da noi di far eco a quelle voci sovvertitrici, per la celebrità più che per il valore scientifico, dei loro fautori; la moda fa legge più della verità». 

INTENZIONE E INFALLIBILITÀ DELL'AGIOGRAFO 

Quando grandi biblisti dicono delle formule molto spinte, le concretizzano poi con chiarimenti ed esemplificazioni, che le delimitano e le possono rendere ammissibili. I divulgatori invece non hanno sempre tale accortezza e, con la migliore intenzione, possono giungere a posizioni generalizzate obiettivamente disastrose.

Uno dei principi più pericolosi, se non bene inteso, è quello della ricerca della intenzionedello scrittore sacro, come indispensabile per comprendere quanto ha voluto dire e quindi quanto ha realmente detto, dietro la veste di una espressione letterale eventualmente fittizia.

E' così che viene radicalmente risolta la questione dei generi letterari, ossia dei modi di narrazione biblici solo apparentemente storici. La verità biblica è salva - si dice - considerando l'intenzione dello scrittore, il quale può aver parlato metaforicamente, aver voluto narrare a scopo didattico delle pure storie popolari, aver voluto adornare per maggior efficacia dei fatti storici con episodi fittizi (armonizzanti però con la figura e il pensiero dei protagonisti reali), aver voluto filtrare i fatti stessi evangelici traverso la integrativa, comunitaria e personale meditazione teologica, ecc. 

Tutto ciò, anche per i fatti storici, si afferma consono alla mentalità di quei tempi. L'infallibilità dell'Agiografo e della Scrittura riguarderebbe dunque solo ciò che lo scrittore ha voluto dire, nel modo come lo ha voluto dire. Se, per es., egli ha incorniciato alcuni fondamentali eventi di Gesù - come l'infanzia - con circostanze mitiche e favolose, l'infallibilità riguarda la sostanza dei fatti, di cui egli ha voluto solo facilitare psicologicamente la comprensione con quelle amplificazioni favolose e miracolose. Se un fatto storico è narrato con particolari raccolti da fantasiose tradizioni popolari - quasi come citazioni implicite - l'infallibilità riguarda il fatto, non quei particolari, che costituiscono soltanto un ripiego per fissare le idee: come chi dipinga una storica battaglia non intende certo riprodurre fotograficamente quegli episodi. E così via. 

Questo principio, indiscriminatamente applicata, può distruggere in realtà ogni sicurezza della esegesi biblica, trasformando la rigorosa analisi del testo nella aleatoria ricerca delle talora inafferrabili intenzioni dello scrittore. Quando anche si raggiungesse una probabileconoscenza di tali intenzioni, la certezza del testo si declasserebbe in pura probabilità.

Nessuna difficoltà possono creare certe forme metaforiche o paraboliche o altrimenti didascaliche, in cui le intenzioni dello scrittore sono chiaramente indicate dal testo e dal contesto. Ma la difficoltà è massima quando l'intenzione, modificatrice del senso ovviamente letterale, riguarda narrazioni storiche, scritte non a scopo didascalico, come alcuni libri dell'A. T., ma a scopo dimostrativo della verità storica di persone e del loro insegnamento e soprattutto della persona di Gesù. 

La distinzione tra sostanza e accidenti è aleatoria ed essenzialmente indeterminata: nessuno potrà dire in molti casi fondamentali dove finiscono le accidentalità e dove comincia la sostanza. Inoltre la sostanza non può acquistare la sua veridica concretezza se non mediante i veridici accidenti. Quando le particolarità descritte della vita di Gesù - fatti e detti - possono essere elaborazione didascalica ed interpretativa dello scrittore, nessuno può escludere che la realtà stessa essenziale della vita di Gesù si dissolva in una creazione mitica, frutto magari della illusione in buona fede dell'Agiografo.

Riprendo un precedente paragone. E' vero che una pittura riproducente una battaglia non ne fotografa certamente i particolari, ma è anche vero che il quadro creato dal pittore non prova per niente la verità storica della battaglia, potendo benissimo il pittore avere rappresentato un conflitto mitico o leggendario. E' per altra via che debbo conoscere la verità storica della battaglia. Mentre il Vangelo è un quadro che deve dimostrare la verità storica del divino Redentore. 

Con questa concezione di una intenzione dell'Agiografo facilmente diversa dal sensoletterale, a ben riflettere, l'infallibilità dell'Agiografo, per assistenza dello Spirito Santo, non si traduce nell'inerranza scritturale, ma nella sincerità scritturale, ossia nella sincerità dello scrittore, nel senso che esso non voleva ingannare, ma soltanto edificare, o citare e così via. Non è più, in fondo, assistenza alla mente, ma solo al cuore dell'Agiografo, garantendone soltanto la retta intenzione.

L'inerranza è reale ed operante invece non quando termina nell'onestà morale dello scrittore sacro, ma quando comunica la verità al lettore. Ora questa comunicazione veridica suppone che l'intenzione dello scrittore corrisponda, per sé, al senso letterale della descrizione e questa corrisponda ai fatti. Lo scostarsi per accidens da tale senso deve risultare non dalla nascosta intenzione dello scrittore, ma dal testo stesso e dal contesto (intendendo il contesto, in senso estensivo, come qualunque conoscenza estrinseca, come le conoscenze astronomiche per interpretare il fermarsi del sole, ecc.). 

Tale discostarsi dal significato letterale non può nemmeno giustificarsi in base alle ovvie limitazioni umane e al temperamento dello scrittore sacro, che lascerebbero la loro traccia fatale, non essendo la infallibile ispirazione una dettatura. L'ispirazione infatti opera appunto sostenendo tali deboli forze umane contro l'errore, inteso, a prescindere dalla retta intenzione dello scrittore, come obiettiva discordanza dal significato ovvio letterale. Essa non può concepirsi che come assistenza all'Agiografo perché attinga alle fonti vere e dica le cose vere: ossia non soltanto perché non voglia ingannare, ma perché non inganni: ora, con la predetta concezione vi sarebbe effettivamente inganno. 

Quando nella genealogia di Gesù si parla di 14 generazioni e poi ancora di 14 e ancora di 14 (Mt. 1, 17) apparisce subito dal contesto remoto scritturale stesso, ossia dalla conoscenza di altri personaggi, oltre quelli elencati, il valore puramente mnemonico e sintetico della così precisata numerazione. Ma quando fosse narrato particolareggiatamente un episodio di Gesù - per es. nella natività - non avvenuto, non si avrebbe che obiettiva falsificazione perché nessuna solida indicazione contestuale può suggerire il carattere puramente ornativo di tale particolare: a meno che lo si veda - incoerentemente, come si è visto sopra - nella soprannaturalità stessa dello episodio. 

Quanto alle caratteristiche dei singoli stili degli scrittori ispirati sono invece ben naturali, non trattandosi di dettatura. Ma un conto è lo stile, o l'impiego di una narrazione didascalica invece che storica, o l'assenza del rigore cronologico e della precisione circostanziata al modo della cronaca e della scienza storiografica moderna e un conto è, in un quadro di narrazione certamente storica, inventare un fatto o un detto, mai avvenuto. Quella è impronta umana, questa è falsità.

Si potrebbe obiettare che se, per es., un predicatore popolare, nel narrare un avvenimento storico, lo adornasse di macchiette e colloqui fittizi per renderlo più interessante, restando però fedele alla sostanza dello avvenimento, non lo si potrebbe tacciare di falsità. Non lo so. Nel mio piccolo ho avuto sempre molta ripugnanza a usare tale metodo. Certo, piena sincerità non è; e si può rendere il racconto molto interessante per il modo come si dice, senza ricorrere a tale ripiego.

Ma, comunque, si deve vedere una netta differenza tra il caso del predicatore e il caso dell'Agiografo. Tali debolezze e ripieghi umani infatti, nel caso dell'Agiografo si inserirebbero proprio nella linea di comunicazione infallibile della verità, il che non è ammissibile e non può essere permesso dallo Spirito Santo.

In tale linea di verità anzi la divina ispirazione potrebbe anche scavalcare la intenzione dell'Agiografo, come quando esso scriva un annuncio profetico, di cui può non essere consapevole, o anche quando egli intenda - senza adeguata indicazione testuale e contestuale - riferire una incontrollata tradizione popolare, che potrebbe, a sua insaputa, corrispondere tuttavia alla realtà. 

È LA VERITÀ DOTTRINALE O ANCHE L'EPISODIO, IN SÉ, CHE CONTA? 

La svalutazione dell'episodio in sé è frequente nei biblisti moderni. Se un adornamento favoloso o una totale creazione favolosa possono sottolineare e meglio chiarire una dottrina, la quale è lo scopo della narrazione, o se possono sottolineare la sublimità di un personaggio (per es. i prodigi della natività per sottolineare la divinità di Cristo) perché non sarebbero compatibili con la ispirazione dello Spirito Santo? Né similmente sembrerebbe che possa ripugnare ad essa l'elaborazione e l'approfondimento teologico che lo scrittore sacro abbia fatto, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, esplicitando e integrando quello che Gesù ha detto, o attribuendogli parole che, pur non essendo state pronunciate, armonizzano col suo pensiero. Ciò non sembrerebbe ripugnare anche perché attualmente la Chiesa stessa, sotto la infallibile assistenza dello Spirito Santo, sviluppa il dogma per approfondimento ed esplicitazione

Ma, pur restando (nei giusti limiti) la possibilità del genere letterario non storico, in questa generalizzazione si dimenticano due cose. La prima è che si cade, quanto ai Vangeli, in un circolo vizioso, negando quella loro scarna e piena obiettività storica, che è il validopresupposto dimostrativo - come vedremo meglio tra poco - della realtà di Cristo e della Chiesa e quindi anche del dogma della infallibile ispirazione dottrinale, a cui ci si appella. 

La seconda è che si dissolve in tal modo ogni differenza tra ispirazione biblica e infallibiletradizione. L'assistenza dello Spirito S. in questa infatti riguarda solo la dottrina, mentre in quella riguarda tutta la narrazione scritturale, episodi compresi. La Chiesa è infallibilmente assistita in quanto maestra di verità, l'Agiografo in quanto scrittore, come ha ribadito il Vaticano II (cfr. R 11; 19: deh. 890; 901): vi tornerò sopra in seguito.

SENZA L'ARMONIA TRA I VANGELI È MINATA LA FEDE 

Ammettere la piena storicità delle narrazioni evangeliche o ammettere la loro piena concordanza è la stessa cosa, perché se i Vangeli sono pienamente - e non soltanto sostanzialmente - storici, essi descrivendo la medesima realtà debbono andare d'accordo e le disparità debbono risolversi in diversi e integrativi aspetti di cotesta unica realtà. Le difficoltà, che possono sorgere in proposito, debbono essere sicuramente superabili, anche se talora possa essere incerto il modo. 

Chi, nel campo cattolico, nega tale completa storicità, non intende certo infirmare la fede; anzi intende sottrarla ai colpi di tali difficoltà. Logicamente però, nonostante il nobile intento, tale posizione regge ben poco. 

Logicamente infatti i Vangeli vanno considerati satta due aspetti, in due successivi tempi: prima come libri puramente umani, per trarne la prova storica fondamentale della verità di Cristo e della Chiesa; poi come libri divinamente ispirati, come tali presentati dalla Chiesa infallibile. Prima di aver provato la realtà storica e divina di Cristo e la rivelata sua infallibile assistenza alla Chiesa, non si può logicamente parlare d'ispirazione nemmeno sostanzialedei Vangeli; e inutilmente ci si appellerebbe alla primitiva infallibile tradizione a cui avrebbero attinto gli scrittori sacri o alla ispirata loro elaborazione teologica, perché questa infallibile tradizione e questa infallibile ispirazione suppongono già provata la divinità di Gesù e la sua perenne assistenza alla Chiesa. 

Ora per pater trarre dai Vangeli - integrati con gli altri libri scritturali - la piena provastorica della divinità di Cristo (da cui la verità e infallibilità della Chiesa immediatamente dipendano) è necessario riconoscerne la piena storicità. E questa risulta infatti - secondo la pensosa critica tradizionale - dalla presenza o vicinanza degli scrittori agli eventi; dallo intento di precisione esplicitamente manifestato; dalle circostanze, dal tempo e dal luogo dove sono stati scritti e divulgati, in mezzo ai controlli degli altri interessati testimoni nemici ed amici; dalle mirabili conferme contestuali storiche; dalla semplicità disadorna e disinteressata con cui appariscono scritti, sottolineando anche gli aspetti meno favorevoli a Gesù; dalle loro diverse caratteristiche, che costituiscono, nella loro effettiva capacità di concordanza, un'alta conferma di spontaneità e veridicità; dal sigillo di verità del martirio dei narratori. 

Ora la piena storicità, sola capace di garantire la realtà storica della persona di Gesù, delle sue opere e del suo insegnamento, reclama la obiettività delle circostanze concrete di tempo, di luogo, ecc. delle narrazioni. 

Bisogna ricordare, a tale riguardo, che la difficoltà fondamentale contro il cristianesimo è la dissoluzione della figura di Cristo nella leggenda e nel mito, leggenda e mito che tanto più tentano gli studiosi quanto più essi considerano le strabilianti affermazioni di una religione, come il cristianesimo, adoratrice, addirittura, di un Uomo-Dio. Ora il mito si dissolve solo quando la nascita, l'attività pubblica, i miracoli, la morte, la risurrezione del grande protagonista si sanno avvenuti lì, in quel tempo, così e così. 

Togliete da tali narrazioni tale concretezza e la loro attendibilità perderà solida consistenza. Non potrò coerentemente prestare solida fede alla notizia del concepimento miracoloso di Gesù per opera di Spirito S. quando tale notizia mi venga data da un Evangelista che abbia pareneticamente creato o ingenuamente riportato pradigiose circostanze di tempo, di luogo e di eventi, prive di realtà. Non potrò coerentemente fidarmi di chi mi comunichi la promessa del primato petrino, quando egli incornici l'episodio in un circostanziato, fittizio colloquio tra Gesù e Pietro, in una circostanziata e fittizia apologia di Pietro fatta da Gesù. 

E come credere sicuramente alla prova fondamentale della divinità di Cristo, che è la risurrezione, e alla prova fondamentale della risurrezione, che sono le apparizioni, quando gli Evangelisti me le avrebbero narrate sbagliando, o gli uni o gli altri, circostanze essenziali di luogo e di tempo, poiché, per es., non sarebbero conciliabili le apparizioni a Gerusalemme narrate da S. Giovanni con quelle in Galilea narrate dai sinottici ?

Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Quegli esegeti infatti che hanno ritenuto di dover abbandonare criticamente il principio della piena storicità dei Vangeli, quando si trovano davanti a qualunque difficoltà nel concordare diverse descrizioni particolari dei medesimi fatti, negano subito e metodicamente la storicità di tutti i particolari apparentemente discordanti. 

Essi dicono: è difficile conciliarli, quindi non possono essere storici. Mentre dovrebbero dire: sono storici e quindi debbono essere conciliabili: e, messi coerentemente su questa strada, vi riuscirebbero, pur restando nel rigoroso piano critico. Ciò di fatto è possibile in tutti i casi in discussione: e mai con stiracchiature, anche se talora con qualche residua difficoltà, derivante dalla insufficiente informazione sulla complessa realtà. 

Molte sono le illusioni logiche di questi atteggiamenti esegetici. Si afferma che abbandonando la piena storicità e i vani tentativi di armonizzazione dei vari testi i fatti vengono sfrondati dal rivestimento secondario, emergendo così nella loro più robusta e profonda sostanza. Per es., nel caso delle apparizioni, facendo cadere la circostanza accidentale che alcune siano avvenute a Gerusalemme, resta che secondo tutti gli Evangelisti, Gesù è apparso, gli Apostoli in un primo tempo non credettero e poi l'hanno riconosciuto. Ma non si tiene conto del rilievo suddetto, che cioè le circostanze di luogo, di tempo e di modo sono fondamentali per dare solidità concreta alle apparizioni e per escludere il dubbio di ingannevoli suggestioni (che costituiscono la difficoltà principale contro di esse). 

Quello sfrondamento delle accidentalità dalla sostanza dei fatti potrebbe avere qualche significato costruttivo solo quando già si sapesse la esistenza dei fatti stessi. Ma invece la loro prova pende proprio da quelle descrizioni, solo capaci di esprimere la concretezza e quindi la realtà dei fatti. 

Tali descrizioni risultano fondamentalmente snervate da tale pretesa inesattezza dei narratori. Essi infatti, come sarebbero caduti in inganno su quelle precise circostanze, così potrebbero esservi caduti anche per la sostanza del fatto. 

Si afferma anche che tale abbandono della preoccupazione concordista libera la via al processo di approfondimento critico, ossia alla scoperta del vero genere letterario dei testi, attraverso la storia delle forme che permette di identificare i successivi strati e i rispettivi generi della tradizione evangelica, rendendo con ciò possibile di raggiungere le prime fonti, di comprenderne il carattere e di chiarirne meglio il significato. 

Ma in ciò si delinea una idea preconcetta e una illusione. L'idea preconcetta è che il genere letterario dei Vangeli non sia pienamente storico. L'illusione è di cercare la chiarificazione e la sicurezza critica in quella storia delle forme notoriamente regolata da criteri di congettura e di sola e talvolta limitatissima probabilità, variabile da autore ad autore e da mentalità a mentalità. Si abbandona cioè - in base a considerazioni generali preconcette (e ben poco consone al dogma della ispirazione) e per risolvere difficoltà particolari di concordanza tutt'altro che insuperabili ­il principio chiaro della piena storicità, per assumerne un altro molto meno chiaro, meno conforme al dogma e capace di moltiplicare le difficoltà particolari. Si vuol consolidare la casa fondata sulla roccia, fabbricandola sulla rena. 

In definitiva quelle considerazioni generali, ispiratrici di tali criteri esegetici, si risolvono nella già vista sopravvalutazione della limitatezza umana dello scrittore sacro, che - non trattandosi di dettatura - deve lasciare la sua traccia. Si dimentica però che l'influsso dell'autore principale, che è Dio, mirando essenzialmente alla verità, deve correggere e vincere tale defettibilità umana nella linea appunto della verità, ossia della storicità. 

Quanto alle difficoltà particolari che si opporrebbero alla piena storicità è veramente sintomatico notare la loro minima consistenza, per cui si è indotti a pensare più che a una motivazione veramente obiettiva, a una errata impostazione mentale, troppo ristretta e naturalistica. Un esempio classico è dato dal fondamentale fatto delle apparizioni. Perché non sarebbero avvenute veramente quelle narrate da S. Giovanni, nel cenacolo di Gerusalemme, il giorno stesso della risurrezione e la settimana dopo? Perché Gesù - dicono - aveva precedentemente ammonito i discepoli di andare dopo la risurrezione in Galilea (Mt. 26, 32) e le donne corse al sepolcro ebbero l'incarico di ricordarlo loro (Mt. 28, 7-10). 

Ma basta riflettere allo stato d'animo depresso e incredulo in cui i discepoli erano caduti - tanto che presero per vaneggiamento il messaggio delle pie donne (Lc. 24, 11) - e le apparizioni immediate nel cenacolo si spiegano benissimo come meraviglioso gesto della divina misericordia, per rincuorarli e far loro adempiere poi il prestabilito viaggio in Galilea, dove Gesù sarebbe più a lungo apparso. 

Un altro esempio - tra tanti - può essere utile, sia per mostrare ancora la inconsistenza delle pretestuose difficoltà che si opporrebbero alla piena storicità di alcune narrazioni, sia per mostrare quali soggettive intuizioni si vorrebbero sostituire alla obiettività della affermazione del testo. Perché il colloquio e la glorificazione petrina di Mt. 16, 16-17 non sarebbero, così come sono narrati, storicamente ammissibili e la promessa del primato di Pietro (ivi, 18-19) non avrebbe potuto essere formulata così, in quel colloquio? Perché da un lato Pietro non poteva essere allora capace di quell'atto di fede in Cristo e dall'altro la glorificazione di Pietro da parte di Gesù contrasta con la opposta tonalità di rimprovero, che si trova nel corrispondente e più ristretto passo di Mc. 8, 29-30. 

Ma la prima difficoltà non tiene conto dell'opera della grazia (cui non contraddicono né i progressi di fede, né gli oscuramenti che poi ebbe Pietro); la seconda non tiene conto che il rimprovero riguarda tutt'altra cosa e soprattutto che esso c'è anche esattamente nel successivo v. 20 dello stesso Matteo, senza quindi alcuna contraddizione con Marco. A questo punto sentiamo alcuni autori di questa scuola sentenziare arbitrariamente che tale v. 20 è «intuitivamente» fittizio! Troppo comoda questa esegesi. 

Ma la più grave incoerenza logica di questa mentalità esegetica è il fatale uso dei due pesi e delle due misure per non infirmare gli altri testi scritturali dommatici più importanti. 

Infatti, se tali criteri fossero usati, per es., anche per testi fondamentali come quelli della istituzione della Eucaristia, che congiungono alla unità della descrizione alcune notevoli differenze, si avrebbero motivi molto più forti che negli esempi suddetti per infirmarne la obiettività storica e il loro significato realistico. Solo il sano concordismo sa vedere nella quadruplice descrizione dei sinottici e di S. Paolo l'identità storica della grande affermazione di Gesù, integrata e resa anzi tanto più sicura dalle diversità testuali, che danno un valore autonomo e quindi maggiore a ognuna delle quattro testimonianze e conseguentemente al loro complesso.