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VECCHIA E NUOVA ESEGESI 
 
Il ch.mo scrittore, nel primo articolo sopra citato, non aveva mancato anche di addurre, contro quella che chiama «la vecchia esegesi» sempre in cerca della «precisa concordia» tra i quattro Vangeli, il secolare accavallarsi di «soluzioni varie che lasciano più o meno insoddisfatti» e che per ciò stesso «invitano a tentare nuove vie». Egli cita, per es., le genealogie, i ciechi di Gerico, gli angeli della risurrezione, ecc.

Ma che forse le «nuove vie» conducono a soluzioni più sicure, univoche e soddisfacenti? Non ho mancato nei precedenti capitoli di darne dei saggi.

Perché, d'altra parte, meravigliarsi se, per concordare i testi, invece di una, vi sono più soluzioni? Anzi meglio.

Vi sono più strade di possibile concordanza. Questa cioè con l'una o con l'altra si può ottenere benissimo. Che vogliamo di più?

Resta l'insoddisfazione della incertezza? Si parli piuttosto di punti oscuri, che non potevano mancare in una quadruplice narrazione d'una storia così complessa, stesa in modo così breve ed episodico. La difficoltà è cioè criticamente scontata, anche alla luce della storiografia umana comune.

L'importanza è che la possibilità di concordanza, anche se ipotetica, vi sia: e c'è. E le disparità che tanto frequentemente richiedono tale lavoro di concordanza non fanno che confermare l'autonomia d'impostazione e di ricerca dei singoli evangelisti, moltiplicando la forza della loro complessiva testimonianza.

ALLA BASE DELLA FEDE: VANGELI STORICI, GESU' STORICO
 
BULTMANN 
 
E' appena credibile l'irragionevole involuzione fideista del famoso manifesto del 1941 di R. Bultmann sulla valutazione critica del kerygma, ossia della proclamazione della parola di Dio. Eppure è difficile negare l'influsso più o meno aperto della sua dottrina nell'esegesi moderna. Qualche riflessione in proposito, in quest'ultimo capitolo - preso lo spunto da un articolo della Civiltà Cattolica - chiuderà quindi opportunamente questa parte sulDramma della esegesi moderna.

Secondo il Bultmann «Cristo, il crocifisso e risorto, c'incontra nella parola della predicazione... Sarebbe un errore... fondare la fede nella Parola di Dio sulla ricercastorica... porre la domanda di legittimazione [della parola di Dio]... essa stessa domanda a noi se vogliamo credere o no». 
 
P. Silverio Zedda S. J. ha chiaro e facile gioco, in un denso articolo della Civiltà Cattolica(18 maggio 1968), nel rivendicare la esigenza di assicurarsi prima che si tratti veramente della Parola di Dio, che sia garantita cioè la sua verità storica, ossia la verità storica di Gesù. Tale esigenza - afferma limpidamente P. Z. - costituisce una ovvia riaffermazione del «valore della intelligenza umana nella ricerca di Dio e nell'accostarsi a Cristo con la fede» (355). 
 
STORICITA' RIDIMENSIONATA 
 
L'ultima parte dell'articolo però - ad essere sinceri - non dà la stessa soddisfazione. Proseguendo sul filo della logica la storicità di Gesù richiede la storicità dei Vangeli. Ma per il distinto scrittore, che si fa eco di una ben nota corrente, questa storicità è vera un poco sì e un poco no.

Ottima certo è l'idea di «procedere cautamente tra due estremi». Ma guai a trovare un preteso giusto mezzo tra la verità e l'errore, tra la solida critica ed idee preconcette: ciò specialmente su un punto così delicato e tanto più con la parvenza di seguire il Vaticano II. Vediamo un po' alcune interessanti argomentazioni. 

Secondo il Concilio dunque «i Vangeli trasmettono una predicazione orale, conservandone il carattere». 
Certamente. E questa è la ragione per cui la Tradizione ha, quanto al tempo e alla completezza, una precedenza sulla Scrittura (contro la tesi protestantica della sola Scrittura). Questa è pure la ragione del carattere frammentario, episodico e disparato (benché armonizzabile) delle multiple narrazioni evangeliche.

Il Concilio ricorda inoltre che nella predicazione gli Apostoli ebbero «quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano» (R 19: deh. 901): e ciò ovviamente si riflette sugli «scritti». Certissimo anche questo. 

Ma ecco ora una infondata deduzione. Secondo l'illustre biblista ciò indurrebbe a negare ai Vangeli il genere di «pura fonte storica», a negare cioè la piena obiettività di descrizione dei «detti» e «fatti» del Signore (R, ivi). 

La logica conseguenza apparisce invece opposta, perché l'illuminazione dello «Spirito di verità» non può non aver garantito sia i primi trasmettitori, sia gli scrittori evangelici (selezionatori delle fonti), da ogni errore, sensibilizzandoli anche alla estremaresponsabilità di riportare i «fatti» e «detti» del divino Redentore, così da non mescolare particolari fittizi a quelli veri e divini di Gesù e da non presentare, senza farlo comprendere, le proprie interpretazioni, anche se giustissime, come direttamente date da Gesù. 

Ciò era imposto dal rispetto sia della verità, sia della persona stessa di Gesù. 
Tali scritti - si insiste - non sarebbero comunque equiparabili a puri «documenti di archivio che presentano i fatti nella loro spoglia realtà, con l'esattezza e la freddezza della cronaca, senza un soffio d'interpretazione, di collegamento tra i fatti».

Certo. I Vangeli, per l'epoca e per le loro caratteristiche episodiche ed occasionali, non hanno la struttura tecnica di moderni, completi «documenti di archivio». Ma ciò non può confondersi con mancanza di piena obiettività di narrazione. Questa anzi si deve nei Vangeli attendere, più che in qualsiasi cronaca umana (sia pur moderna e tecnicamente perfetta), per la speciale garanzia dello «Spirito di verità».

Quanto alla scarna freddezza del racconto, anziché mancare nei Vangeli, ne costituisce proprio una caratteristica (preziosa conferma della loro obiettività), giacché le gesta più drammatiche, dalla natività alla passione, vi sono narrate in sorprendente forma semplice, spersonalizzata c dimessa.

E quanto al soffio d'interpretazione, dovremo stare ben attenti a non confondere lacomprensione dei «fatti» e «detti», il loro eventuale riassunto pienamente obiettivo, con l'interpretazione personale, sia pure esattissima, che gli agiografi si sarebbero permessi di presentare come parole direttamente pronunciate da Gesù. Questo sarebbe inammissibile offesa alla verità e mancanza di rispetto alla persona stessa del Signore. In realtà quando gli agiografi parlano con proprie riflessioni lo fanno capire (anche se qualche volta si può restare in dubbio).

Nei Vangeli, proprio la mancanza di una tecnica di cronaca moderna di documenti d'archivio, mentre da un lato non infirma minimamente l'obiettività delle narrazioni di testimoni diretti o quasi, dall'altro costituisce la più bella garanzia della spontaneità e veridicità dei narratori. 

IL VATICANO II 
 
P. Z., come era da attendersi, adduce ad avallo della tesi della «non pura fonte storica» dei Vangeli il celebre testo conciliare che esplicitamente dichiara: «Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o anche in iscritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con riguardo alla situazione delle Chiese, conservandone infine il carattere di predicazione» (R, ivi). Secondo P. Z. «questo modo di raccontare i fatti non si iscrive certo tra i metodi con cui procede chi stila un documento d'archivio, che debba servire di fonte per una storia a tendenza positivista».
 
D'accordo, ma solo quanto alla tecnica e alla completezza di stile moderno per una cronaca di stile moderno, non quanto alla piena obiettività di ciò che è narrato. 

Nessuna delle caratteristiche metodologiche dei Vangeli che il Concilio ha sottolineato - «scegliendo», «sintetizzando», «spiegando», «predicando» - può legittimamente intendersi come interpretazione e integrazione personale, compiuta dal narratore, dei fatti e delle parole di Gesù. E anche quanto alle illuminate spiegazioni eventualmente date dagli agiografi non si può criticamente ammettere che essi le abbiano potute presentare come direttamente pronunciate da Gesù. Sarebbe stato un inganno su un fatto di estrema importanza quale la realtà dei discorsi esplicitamente e direttamente risuonati sulle divine labbra. Un conto sono, per es., le spiegazioni delle parabole date da Gesù e un altro conto le riflessioni dell'agiografo, come quando cita le profezie realizzate o riferisce le riflessioni dei discepoli, per es. dopo la prima cacciata dal tempio (Gv 2, 17), ecc.
 
Che gli agiografi effettivamente non abbiano trascurato tali essenziali differenze è confermato dal proseguimento (omesso da P. Z.) del suddetto testo conciliare: «sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità». Affermazione assoluta. Chiara preoccupazione del Concilio di non fraintendere le caratteristiche enunciate. 

Equivoca, in particolare, è quella ripulsa di una «storia a tendenza positivista». Se questa tendenza s'intende come materialista è ovvio che non si trova nei Vangeli. Ma quanto alla piena obiettività della narrazione l'esigenza positivista s'identifica con l'esigenza del rigore critico, pienamente reclamato dall'esegesi cattolica.