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CRITICA STORICA ALLA BIBBIA

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    00 01/05/2013 18:29
    LOGICA ED ESEGESI BIBLICA 
    RAZIONALITÀ E COMPETENZA ESEGETICA SPECIFICA 

    L'approfondimento critico, nella scienza biblica come in ogni campo scientifico, richiede preparazione culturale specializzata ed è naturale che soltanto gli esegeti di professione possano affrontare, con piena competenza, certi problemi. Nessun approfondimento critico d'altra parte è possibile senza limpidezza intellettuale e rigorosa razionalità.

    Questa razionalità è necessaria tanto nelle scienze positive che nelle scienze speculative, pur avendo rispettivamente portata e tonalità diverse. La razionalità richiesta infatti dalle ricerche positive storiche, filologiche, testuali, ecc. ha un carattere più circoscritto e concreto ed esige più larghezza di erudizione che non la razionalità richiesta dalla speculazione. E' un po' come nel confronto tra la fisica sperimentale e quella razionale. I poderosi problemi ideologici e teologici implicati nella esegesi biblica impongono all'esegeta il doppio approfondimento della ricerca positiva e speculativa.

    La competenza specifica biblica però è primariamente caratterizzata dalla ricerca positiva, che deve garantire testi, materiale, generi letterari per la comprensione, le deduzioni, le sintesi, i confronti speculativi (con riflessi reciproci di questi ultimi sulla stessa ricerca positiva).

    La speculazione razionale sui testi e sui problemi biblici non richiede uguale specifica competenza biblica e può essere compiuta da ogni pensatore e studioso, che abbia ricevuto dai competenti biblisti la sostanziale informazione positiva. Gli ottimi esegeti di professione d'altra parte sanno bene quanto possa essere loro dannoso d'indebolire, in conseguenza del progressivo allenamento alla ricerca positiva, l'acutezza e completezza della abitudine speculativa.

    Mi propongo pertanto delle riflessioni puramente razionali, che, in linea logica, possono illuminare qualche problema e dirimere qualche controversia o per lo meno focalizzarla e precisarla nella sua reale portata.

    BIBBIA E LIBRI PROFANI: IDENTICO METODO CRITICO 

    Parlando dello studio critico della Bibbia intendo qui prescindere dalle finalità e dai significati spirituali del libro sacro, limitandomi a considerare il libro in sé, nel suo testo autentico e nel suo significato letterale (su cui debbono sempre appoggiarsi gli altri significati). Tale libro è stato scritto immediatamente da uomini, per gli uomini, ed è comparso nel corso della storia umana, come tutti gli altri libri. Debbono quindi valere per esso le medesime norme di critica scientifica che valgono per gli altri libri. Anzi il rigore critico, data l'importanza degli argomenti e i loro supremi riflessi nella vita, deve essere maggiore. 

    I capisaldi del giusto metodo critico consistono nella esatta ricostruzione del testo, nel suo ambientamento locale e temporale, nella comprensione del genere letterario, nell'approfondimento filologico, nella identificazione e nella piena conoscenza dell'autore, nella piena focalizzazione del protagonista, nell'ampia considerazione del contesto e nel ricorso alle altre solide testimonianze e autorità estrinseche. Ciò vale tanto per il Vangelo e per tutta la Bibbia, quanto per la vita di Napoleone. 

    Ma ecco che nel caso della Bibbia si scopre il fatto essenziale e originale che l'autoreprincipale è Dio, che il protagonista principale - prima adombrato e poi esplicitamente descritto - è il divino Redentore, che il pieno contesto dottrinale (al quale si ricollega lo stesso contesto storico) è l'armonia del dogma cattolico, che l'autorità estrinseca è la Chiesa infallibile. 

    Colpisce anche subito la perfetta coerenza logica di tale scoperta. Al libro che parla infatti di Dio, del Verbo Eterno Incarnato, dei segreti di Dio (in sé e in relazione all'uomo), non può convenire che un autore principale divino. Al libro, d'altra parte, fatto per parlare agli uomini, con linguaggio umano, conviene un autore strumentale umano. Alla sproporzione conseguente tra comunicazione divina e imperfetto strumento umano non può rimediare che un divino e infallibile magistero scritturale quale si ha solo nella Chiesa. 

    Fatta tale scoperta ne segue immediatamente un processo effettivo di indagine esegetica biblica profondamente e specificamente diverso da quello di ogni altro libro: profondamente diverso proprio perché identicamente critico, e quindi coerente alla speciale trascendenza dei suddetti capisaldi. Ne segue anche che i risultati per un cattolico e per un miscredente o non cattolico - ugualmente studiosi ed ugualmente dotati - non possono spesso essere i medesimi, essendo diversi per essi quei fondamentali capisaldi critici. Invece non vi può essere differenza, per es., per uno studio di matematica o di un fatto storico profano. 

    Non vi sarà differenza, anche quanto alla Bibbia, per le acquisizioni critiche sicure e di base, testuali, archeologi che, ecc., o anche ideologiche più generali (10), mentre potrà esservi, oltre che per la piena interpretazione, per le acquisizioni solo probabili anche di base, intervenendo rispettivamente per un cattolico e un non cattolico riferimenti contestuali ed ideologici e realtà obiettive diverse, capaci di modificare le valutazioni di probabilità. 

    Non vi è nessun pericolo, d'altra parte, per un critico cattolico, di cadere in un circolo vizioso assumendo come guida, per la interpretazione della Scrittura, quei dati soprannaturali e divini e quel Magistero che debbono fondamentalmente dedursi dalla S. Scrittura stessa. Infatti la deduzione di tale guida nasce da primordiali e sicure valutazioni sostanziali del testo, considerato ancora come puro documento storico. Tali valori di guida vengono poi utilizzati - logicamente quindi in un secondo tempo - per l'approfondimento e il completamento particolareggiato esegetico. 

    IMMUTABILE PRINCIPIO FONDAMENTALE DELL'ERMENEUTICA 

    Oltre settanta anni fa Leone XIII, riallacciandosi alle norme di S. Agostino, enunciò nella Enc. Providentissimus (18 nov. 1893) il seguente principio fondamentale della interpretazione biblica: «a litterali et veluti obvio sensu minime discedendum, nisi qua eum vel ratio tenere prohibeat vel necessitas cogat dimittere» (EB 112). Pio X, per tramite della Pont. Comm. Bibl. (1909) ribadì il principio (EB 328); e così Pio XII (EB 525). 

    Nonostante le prospettive enormemente allargate della scienza esegetica moderna e nonostante le apparenze contrarie, tale principio è restato e resterà immutabile: valeva al tempo della condanna di Galileo e dopo la chiarificazione dell'equivoco; valeva quando igiorni della creazione del mondo, narrata dal Genesi, si interpretavano in senso letterale, come vale oggi, e così via. Tale principio infatti non fa che esprimere il logico criterio che si segue sempre davanti al discorso di una persona seria e verace. Le parole vanno cioè intese secondo il loro senso proprio, finché non vi sia la fondata prova del contrario. La presunziore sta quindi sempre per il senso letterale: proprio l'opposto di quello che sarebbe se fosse il discorso di un noto commediante o mentitore. 

    La Chiesa non ha quindi propriamente modificato i suoi fondamentali principi esegetici. Solo che l'evoluzione scientifica e l'approfondimento degli strumenti critici hanno fornito le prove che prima mancavano - ossia la «ratio» e la «necessitas» - d'interpretare certe affermazioni in senso non letterale. La richiesta di Giosuè che si fermasse il sole non poteva essere interpretata se non in senso letterale - come cioè se il sole e non la terra fosse in movimento - nell'epoca in cui vigeva la scienza astronomica tolemaica, mentre oggi l'espressione resta vera nell'ovvio senso metaforico della apparenza sensibile, secondo il modo del parlare comune degli uomini. 

    Che dire dell'inconveniente che, frattanto, cioè prima dell'affiorare delle ragioni per abbandonare il senso letterale, tali testi avevano suggerito l'errore? E' un fatto accidentale del tutto naturale. Ciò è dipeso dalla normale limitatezza e ignoranza umana, che lo Spirito Santo non ha il compito di correggere su questioni estranee alla fede e al costume. Fuori di questo campo il pensiero umano doveva ovviamente essere lasciato alla normale evoluzione, affinché la Scrittura non si trasformasse - miracolisticamente e inopportunamente - in un trattato di scienze fisiche, tanto più che, anticipando i tempi della umana evoluzione scientifica, esso sarebbe risultato incomprensibile. 

    Quando invece le affermazioni riguardavano l'oggetto della rivelazione, come nella promessa dell'Eucaristia e nella sua istituzione, Gesù ebbe cura di usare quelle insistenti e chiare espressioni, che escludevano positivamente il senso figurato e garantivano il senso letterale. 

    Il medesimo fondamentale principio di ermeneutica vale identicamente per l'A. e il N.T. La ragione della più larga possibilità del senso non letterale, o non pienamente storico, o solo didascalico nelle narrazioni dell'A.T. sta nel genere e nelle circostanze di quelle narrazioni, ben diverse da quelle del N.T.

    In questo infatti la narrazione si concretizza, con particolare precisione, intorno alla figura storica e all'insegnamento di Gesù, fatta da testimoni oculari o molto vicini, con esplicita dichiarazione di esattezza - necessaria d'altra parte per dar credito a tutta quella storia - e mentre esistevano altri testimoni, amici e nemici, che avevano, per motivi opposti, tutto l'interesse, in caso di errore, o di nascosti rivestimenti didascalici, o di adornamenti puramente popolari, o di tacite e incontrollate citazioni, di smentirli. 

    POSSIBILITÀ, PROBABILITÀ, PRESUNZIONE 

    In tutti i settori della critica biblica, dalla ricostruzione del testo originale al problema dei singoli scrittori, alla determinazione del genere letterario più o meno storico, alla interpretazione miracolosa o meno di alcuni fatti, ecc., non sempre si può raggiungere la certezza. In tali casi si contrappongono sul piano ipotetico soluzioni opposte o per lo meno diverse, le quali si possono sempre fondamentalmente raggruppare in più favorevoli alle sentenze tradizionali o più innovatrici. Razionalmente le tesi più innovatrici debbono essere preferite solo quando rappresentano un progresso e un approfondimento nella conquista della verità biblica: non cioè il nuovo per il nuovo, ma il nuovo - almeno probabilmente - per il più vero. 

    Mentre però nel caso della certezza la scelta è fuori discussione, negli altri casi essa può essere influenzata da fattori talora imponderabili, non esclusi quelli psicologici e di tonalità mentale generale. In sede critica questo rilievo mi sembra di notevole importanza. La razionalità infatti richiede che anche tale tonalità psicologica e mentale rientri nella coerenza logica, tenuta ben presente la natura dell'oggetto di studio: altrimenti essa verrebbe a influenzare irrazionalmente e quindi erroneamente le preferenze e le scelte. 

    Ora un fatto da considerare con molta attenzione è il facile combaciamento di molte tesi innovatrici e nuove interpretazioni con le soluzioni meno soprannaturali. Soprattutto poi colpisce lo stato d'animo, talora esplicitamente manifestato, della soddisfazione per tali soluzioni, come per la bramata e riuscita evasione dalle strettoie dell'antica mentalità, troppo legata al prodigioso, al miracoloso, al soprannaturale: evasione che sarebbe vittoria della razionalità. E' l'orientamento ben noto e diffusissimo della demitizzazione

    Prescindendo pertanto dai singoli casi, ognuno dei quali andrebbe trattato a parte, e restando a tale orientamento generale, esso non risulta razionalmente coerente. L'oggetto infatti di tutta la Scrittura, prima preparato (A. T.) e poi descritto (N. T.), è, nel quadro della misericordia divina e della redenzione, il divino Redentore, Gesù, cioè la realtà più sublimemente soprannaturale e miracolosa che si possa immaginare: il Verbo Eterno Incarnato. Ora in un libro che ha così sublime principale protagonista è presumibiletrovare non scarsezza, ma piuttosto abbondanza di elementi soprannaturali e miracolosi.

    Non è questione - ripeto - dei casi particolari, ognuno dei quali andrà risolto a suo modo, ma è questione di presumibilità e di coerente orientamento mentale. Sotto tale aspetto l'esegesi antica, più favorevole alle interpretazioni soprannaturali, finisce per essere più razionale e coerente. 

    Il massimalismo soprannaturale nella Scrittura - quando sia poggiato ogni volta su solidi motivi - è presumibilmente più vero del minimismo naturalistico, armonizzando meglio con il sublime massimalismo della persona di Gesù. Se si propone una spiegazione naturale del passaggio del Mar Rosso, che salvò gli ebrei, della stella che guidò i Magi a Betlemme, della pesca inaspettatamente sovrabbondante nel mare di Tiberiade, e così via, non c'è che da studiare il testo ed il contesto per decidere. Ma l'errore sta nel fare tale studio con preconcetto atteggiamento preferenziale verso la spiegazione naturale e innovatrice, mentre invece l'orientamento preferenziale deve piuttosto essere razionalmente lo opposto.

    Per esemplificare questa erronea posizione psicologica e questo difetto di razionalità si rifletta al gaudio di alcuni dotti per la scoperta di una sorgente a diverso grado termico, nel fondo del lago di Gennesaret, vicino alla quale si sono trovati densi banchi di pesci. Subito è stata felicemente divulgata la notizia come scientifica conferma di Lc 5, 6 e Gv 21, 6, cioè delle pesche miracolose, compiute sovrabbondantemente dagli Apostoli, per indicazione e comando di Gesù, dopo i precedenti lunghi tentativi infruttuosi. La scoperta cioè doveva rendere testimonianza di verità alla narrazione evangelica, come se l'ipotesi miracolosa, più conforme al senso letterale e al contesto, potesse altrimenti creare difficoltà. Ma non era avvenuto il fatto per ordine dell'Uomo-Dio Gesù? 

    Si può obiettare che la preferenza delle soluzioni naturali, quando sia possibile trovarle anche con piccolo fondamento, è razionalmente fondata sul principio generale che la presunzione deve stare sempre per il naturale e che il soprannaturale non va affermato senza positive sicure prove: non è il naturale, ma il soprannaturale che va provato. 

    Ma la logica applicazione di questo giusto principio deve tener conto della diversità del protagonista. Quando si tratta di un semplice uomo e anche di un santo (tanto più se non ancora proclamato tale) la presunzione sta effettivamente sempre per la soluzione naturale. Ma quando si tratta della preparazione e della comparsa del Verbo Eterno Incarnato e poi della sua vita e delle sue opere la presunzione s'inverte, per la prevedibile coerenza tra le opere manifestative e la grandezza del divino protagonista («operatio sequitur esse»). In tale caso cioè si deve trovare difficoltà non ad ammettere il soprannaturale, sufficientemente presentato come tale, ma a non ammetterlo. Non debbono meravigliare i prodigi che accompagnarono la natività, ecc., bensì dovrebbe meravigliare che non vi fossero stati.

    Non è quindi logico abbandonare metodicamente le antiche soluzioni esegetiche, più favorevoli al miracoloso e al soprannaturale, ogni qualvolta si presenti la pura possibilità - talora anche scarsissima - di spiegazioni naturali. Anzi non è logico nemmeno quando la possibilità corrisponda a probabilità, a meno che si tratti di probabilità largamente maggiore. Ma anche in questo caso il vero rigore critico richiede di affermare tale misura di probabilità; non di trasformare - almeno praticamente - la probabilità in certezza, radiando definitivamente la tesi più soprannaturale e tradizionale. Questa resta invece ancora possibile, con il suo grado di probabilità, finché non risulti la certezza del contrario. 

    In tale valutazione delle tesi contrastanti si deve riconoscere quindi, per ragioni critiche, una posizione in qualche modo privilegiata e preferenziale per quelle più soprannaturali e tradizionali, così da avere per queste - logicamente - anziché diffidenza, benevolenza. 

    Ciò è vero anche per un altro motivo che si potrebbe dire di carattere giuridico pratico.Giuridicamente quelle tesi godono della condizione preferenziale di ciò che è posseduto,che ha maturato la riflessione di tanti Padri e scrittori cattolici, e che su materia di fede e morale (a prescindere dalla autenticità) può esprimere la dottrina universalmente posseduta dalla Chiesa e quindi infallibile (eventualmente non come Scrittura, ma come pensiero della Chiesa). Praticamente poi si deve attentamente osservare che l'abbandono di una interpretazione ritenuta antiquata, ma ancora possibile, è di solito irreversibile. Si crea il pericolo di perdere definitivamente un fatto e una conoscenza soprannaturali, che (non trattandosi per l'opposta tesi di prova certa) potrebbero in realtà essere veri. 

    A tale riguardo non v'è simmetria tra i due opposti pericoli, di mantenere cioè una erronea interpretazione soprannaturale o di perderne una vera. La seconda eventualità infatti costituisce la perdita di un tesoro vero, di divino valore e costituisce quindi una iniziativa e una perdita positive, praticamente irrimediabili; mentre la prima, conservando la illusione di avere un tesoro che non vi è, corrisponde a un difetto di iniziativa (con riflessi tuttavia per accidens vantaggiosi, per i più forti richiami ai valori divini, che superano sempre ogni nostra affermazione) difetto che comunque potrà essere sempre rimediato. 
     
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    00 01/05/2013 18:31
    LA OPINIONE DEGLI ALTRI: PADRI, ESEGETl 

    I Padri vengono sempre meno considerati nella moderna esegesi, o perché - si dice - raramente unanimi, o perché non hanno voluto affrontare il problema critico, o perché non intendono farsi eco del pensiero propriamente della Chiesa.

    Generalizzando troppo però questi concetti si può snervare praticamente il principio del magistero della Chiesa nell'interpretazione biblica. Per rispettare questo principio infatti non basta inchinarsi ai suoi interventi positivi e alle sue eventuali proibizioni, che sono ben rari, ma bisogna coerentemente tenere conto delle sue preferenze e dei suoi orientamenti, di cui i Padri costituiscono una eco particolare e qualificata.

    Più che guardare se i Padri intendevano esprimere il pensiero della Chiesa si deve guardare se la Chiesa ha riconosciuto nei Padri se stessa. E' la Chiesa che riconosce e addita i Padri come suoi figli particolarmente santi e illuminati e fedeli, il che costituisce appunto il titolo della loro autorità, che in certi casi è decisiva.

    Non è giusto ad ogni modo passare senz'altro dal caso della loro autorità decisiva alla noncuranza, quando manchino alcune condizioni. Vi è qualcosa di analogo in questo - con le ovvie e debite distinzioni con l'obbedienza dottrinale alla Chiesa, che è proporzionatamente doverosa anche negli insegnamenti non strettamente infallibili. Quanto alla svalutazione dei Padri, in base alla mancata impostazione critica, non si deve dimenticare che il valore della tradizione cattolica non si proporziona, per sua natura, all'uso del metodo critico scientifico - che va tuttavia opportunamente caldeggiato - ma all'assistenza dello Spirito Santo. 

    Un inverso atteggiamento, di immensa fiducia cioè verso la opinione degli altri, si nota invece modernamente nel campo esegetico riguardo agli eruditi della cultura esegetica più riformatrice. Talora sembra di assistere a un vero fenomeno di moda della cultura, quale si nota in tutti gli altri campi scientifici, non esclusa la fisica.

    Quando qualche dotto avanza sul terreno opinabile in posizioni particolarmenteardimentose - come son chiamate, non si capisce logicamente perché, quelle meno soprannaturali: mentre il massimo ardimento è di aderire pienamente al soprannaturale - in vari altri studiosi vi è un primo movimento di sorpresa. Si guarda poi se l'autorità ecclesiastica reagisce - il che essa, maternamente longanime, fa ormai tanto di rado - e in caso contrario ci si volge sempre più numerosi verso quelle posizioni, con la simpatia della novità e dell'ardimento, inteso nel suddetto senso, cioè come preferenza per le tesi meno soprannaturali ed antiche. Vengono poi i divulgatori a dire: «L'esegesi cattolica moderna oggi pensa così».

    Ma in realtà spesso non è il vero pensiero della esegesi cattolica, bensì di quel primo isolato e avventato iniziatore.

    Alla plenaria episcopale italiana dell'8 aprile 1967 il S. Padre lamentava - in una visione ancora più generale - che «persone e pubblicazioni, che avrebbero la missione d'insegnare e di difendere la fede, non mancano purtroppo anche da noi di far eco a quelle voci sovvertitrici, per la celebrità più che per il valore scientifico, dei loro fautori; la moda fa legge più della verità». 

    INTENZIONE E INFALLIBILITÀ DELL'AGIOGRAFO 

    Quando grandi biblisti dicono delle formule molto spinte, le concretizzano poi con chiarimenti ed esemplificazioni, che le delimitano e le possono rendere ammissibili. I divulgatori invece non hanno sempre tale accortezza e, con la migliore intenzione, possono giungere a posizioni generalizzate obiettivamente disastrose.

    Uno dei principi più pericolosi, se non bene inteso, è quello della ricerca della intenzionedello scrittore sacro, come indispensabile per comprendere quanto ha voluto dire e quindi quanto ha realmente detto, dietro la veste di una espressione letterale eventualmente fittizia.

    E' così che viene radicalmente risolta la questione dei generi letterari, ossia dei modi di narrazione biblici solo apparentemente storici. La verità biblica è salva - si dice - considerando l'intenzione dello scrittore, il quale può aver parlato metaforicamente, aver voluto narrare a scopo didattico delle pure storie popolari, aver voluto adornare per maggior efficacia dei fatti storici con episodi fittizi (armonizzanti però con la figura e il pensiero dei protagonisti reali), aver voluto filtrare i fatti stessi evangelici traverso la integrativa, comunitaria e personale meditazione teologica, ecc. 

    Tutto ciò, anche per i fatti storici, si afferma consono alla mentalità di quei tempi. L'infallibilità dell'Agiografo e della Scrittura riguarderebbe dunque solo ciò che lo scrittore ha voluto dire, nel modo come lo ha voluto dire. Se, per es., egli ha incorniciato alcuni fondamentali eventi di Gesù - come l'infanzia - con circostanze mitiche e favolose, l'infallibilità riguarda la sostanza dei fatti, di cui egli ha voluto solo facilitare psicologicamente la comprensione con quelle amplificazioni favolose e miracolose. Se un fatto storico è narrato con particolari raccolti da fantasiose tradizioni popolari - quasi come citazioni implicite - l'infallibilità riguarda il fatto, non quei particolari, che costituiscono soltanto un ripiego per fissare le idee: come chi dipinga una storica battaglia non intende certo riprodurre fotograficamente quegli episodi. E così via. 

    Questo principio, indiscriminatamente applicata, può distruggere in realtà ogni sicurezza della esegesi biblica, trasformando la rigorosa analisi del testo nella aleatoria ricerca delle talora inafferrabili intenzioni dello scrittore. Quando anche si raggiungesse una probabileconoscenza di tali intenzioni, la certezza del testo si declasserebbe in pura probabilità.

    Nessuna difficoltà possono creare certe forme metaforiche o paraboliche o altrimenti didascaliche, in cui le intenzioni dello scrittore sono chiaramente indicate dal testo e dal contesto. Ma la difficoltà è massima quando l'intenzione, modificatrice del senso ovviamente letterale, riguarda narrazioni storiche, scritte non a scopo didascalico, come alcuni libri dell'A. T., ma a scopo dimostrativo della verità storica di persone e del loro insegnamento e soprattutto della persona di Gesù. 

    La distinzione tra sostanza e accidenti è aleatoria ed essenzialmente indeterminata: nessuno potrà dire in molti casi fondamentali dove finiscono le accidentalità e dove comincia la sostanza. Inoltre la sostanza non può acquistare la sua veridica concretezza se non mediante i veridici accidenti. Quando le particolarità descritte della vita di Gesù - fatti e detti - possono essere elaborazione didascalica ed interpretativa dello scrittore, nessuno può escludere che la realtà stessa essenziale della vita di Gesù si dissolva in una creazione mitica, frutto magari della illusione in buona fede dell'Agiografo.

    Riprendo un precedente paragone. E' vero che una pittura riproducente una battaglia non ne fotografa certamente i particolari, ma è anche vero che il quadro creato dal pittore non prova per niente la verità storica della battaglia, potendo benissimo il pittore avere rappresentato un conflitto mitico o leggendario. E' per altra via che debbo conoscere la verità storica della battaglia. Mentre il Vangelo è un quadro che deve dimostrare la verità storica del divino Redentore. 

    Con questa concezione di una intenzione dell'Agiografo facilmente diversa dal sensoletterale, a ben riflettere, l'infallibilità dell'Agiografo, per assistenza dello Spirito Santo, non si traduce nell'inerranza scritturale, ma nella sincerità scritturale, ossia nella sincerità dello scrittore, nel senso che esso non voleva ingannare, ma soltanto edificare, o citare e così via. Non è più, in fondo, assistenza alla mente, ma solo al cuore dell'Agiografo, garantendone soltanto la retta intenzione.

    L'inerranza è reale ed operante invece non quando termina nell'onestà morale dello scrittore sacro, ma quando comunica la verità al lettore. Ora questa comunicazione veridica suppone che l'intenzione dello scrittore corrisponda, per sé, al senso letterale della descrizione e questa corrisponda ai fatti. Lo scostarsi per accidens da tale senso deve risultare non dalla nascosta intenzione dello scrittore, ma dal testo stesso e dal contesto (intendendo il contesto, in senso estensivo, come qualunque conoscenza estrinseca, come le conoscenze astronomiche per interpretare il fermarsi del sole, ecc.). 

    Tale discostarsi dal significato letterale non può nemmeno giustificarsi in base alle ovvie limitazioni umane e al temperamento dello scrittore sacro, che lascerebbero la loro traccia fatale, non essendo la infallibile ispirazione una dettatura. L'ispirazione infatti opera appunto sostenendo tali deboli forze umane contro l'errore, inteso, a prescindere dalla retta intenzione dello scrittore, come obiettiva discordanza dal significato ovvio letterale. Essa non può concepirsi che come assistenza all'Agiografo perché attinga alle fonti vere e dica le cose vere: ossia non soltanto perché non voglia ingannare, ma perché non inganni: ora, con la predetta concezione vi sarebbe effettivamente inganno. 

    Quando nella genealogia di Gesù si parla di 14 generazioni e poi ancora di 14 e ancora di 14 (Mt. 1, 17) apparisce subito dal contesto remoto scritturale stesso, ossia dalla conoscenza di altri personaggi, oltre quelli elencati, il valore puramente mnemonico e sintetico della così precisata numerazione. Ma quando fosse narrato particolareggiatamente un episodio di Gesù - per es. nella natività - non avvenuto, non si avrebbe che obiettiva falsificazione perché nessuna solida indicazione contestuale può suggerire il carattere puramente ornativo di tale particolare: a meno che lo si veda - incoerentemente, come si è visto sopra - nella soprannaturalità stessa dello episodio. 

    Quanto alle caratteristiche dei singoli stili degli scrittori ispirati sono invece ben naturali, non trattandosi di dettatura. Ma un conto è lo stile, o l'impiego di una narrazione didascalica invece che storica, o l'assenza del rigore cronologico e della precisione circostanziata al modo della cronaca e della scienza storiografica moderna e un conto è, in un quadro di narrazione certamente storica, inventare un fatto o un detto, mai avvenuto. Quella è impronta umana, questa è falsità.

    Si potrebbe obiettare che se, per es., un predicatore popolare, nel narrare un avvenimento storico, lo adornasse di macchiette e colloqui fittizi per renderlo più interessante, restando però fedele alla sostanza dello avvenimento, non lo si potrebbe tacciare di falsità. Non lo so. Nel mio piccolo ho avuto sempre molta ripugnanza a usare tale metodo. Certo, piena sincerità non è; e si può rendere il racconto molto interessante per il modo come si dice, senza ricorrere a tale ripiego.

    Ma, comunque, si deve vedere una netta differenza tra il caso del predicatore e il caso dell'Agiografo. Tali debolezze e ripieghi umani infatti, nel caso dell'Agiografo si inserirebbero proprio nella linea di comunicazione infallibile della verità, il che non è ammissibile e non può essere permesso dallo Spirito Santo.

    In tale linea di verità anzi la divina ispirazione potrebbe anche scavalcare la intenzione dell'Agiografo, come quando esso scriva un annuncio profetico, di cui può non essere consapevole, o anche quando egli intenda - senza adeguata indicazione testuale e contestuale - riferire una incontrollata tradizione popolare, che potrebbe, a sua insaputa, corrispondere tuttavia alla realtà. 

    È LA VERITÀ DOTTRINALE O ANCHE L'EPISODIO, IN SÉ, CHE CONTA? 

    La svalutazione dell'episodio in sé è frequente nei biblisti moderni. Se un adornamento favoloso o una totale creazione favolosa possono sottolineare e meglio chiarire una dottrina, la quale è lo scopo della narrazione, o se possono sottolineare la sublimità di un personaggio (per es. i prodigi della natività per sottolineare la divinità di Cristo) perché non sarebbero compatibili con la ispirazione dello Spirito Santo? Né similmente sembrerebbe che possa ripugnare ad essa l'elaborazione e l'approfondimento teologico che lo scrittore sacro abbia fatto, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, esplicitando e integrando quello che Gesù ha detto, o attribuendogli parole che, pur non essendo state pronunciate, armonizzano col suo pensiero. Ciò non sembrerebbe ripugnare anche perché attualmente la Chiesa stessa, sotto la infallibile assistenza dello Spirito Santo, sviluppa il dogma per approfondimento ed esplicitazione

    Ma, pur restando (nei giusti limiti) la possibilità del genere letterario non storico, in questa generalizzazione si dimenticano due cose. La prima è che si cade, quanto ai Vangeli, in un circolo vizioso, negando quella loro scarna e piena obiettività storica, che è il validopresupposto dimostrativo - come vedremo meglio tra poco - della realtà di Cristo e della Chiesa e quindi anche del dogma della infallibile ispirazione dottrinale, a cui ci si appella. 

    La seconda è che si dissolve in tal modo ogni differenza tra ispirazione biblica e infallibiletradizione. L'assistenza dello Spirito S. in questa infatti riguarda solo la dottrina, mentre in quella riguarda tutta la narrazione scritturale, episodi compresi. La Chiesa è infallibilmente assistita in quanto maestra di verità, l'Agiografo in quanto scrittore, come ha ribadito il Vaticano II (cfr. R 11; 19: deh. 890; 901): vi tornerò sopra in seguito.

    SENZA L'ARMONIA TRA I VANGELI È MINATA LA FEDE 

    Ammettere la piena storicità delle narrazioni evangeliche o ammettere la loro piena concordanza è la stessa cosa, perché se i Vangeli sono pienamente - e non soltanto sostanzialmente - storici, essi descrivendo la medesima realtà debbono andare d'accordo e le disparità debbono risolversi in diversi e integrativi aspetti di cotesta unica realtà. Le difficoltà, che possono sorgere in proposito, debbono essere sicuramente superabili, anche se talora possa essere incerto il modo. 

    Chi, nel campo cattolico, nega tale completa storicità, non intende certo infirmare la fede; anzi intende sottrarla ai colpi di tali difficoltà. Logicamente però, nonostante il nobile intento, tale posizione regge ben poco. 

    Logicamente infatti i Vangeli vanno considerati satta due aspetti, in due successivi tempi: prima come libri puramente umani, per trarne la prova storica fondamentale della verità di Cristo e della Chiesa; poi come libri divinamente ispirati, come tali presentati dalla Chiesa infallibile. Prima di aver provato la realtà storica e divina di Cristo e la rivelata sua infallibile assistenza alla Chiesa, non si può logicamente parlare d'ispirazione nemmeno sostanzialedei Vangeli; e inutilmente ci si appellerebbe alla primitiva infallibile tradizione a cui avrebbero attinto gli scrittori sacri o alla ispirata loro elaborazione teologica, perché questa infallibile tradizione e questa infallibile ispirazione suppongono già provata la divinità di Gesù e la sua perenne assistenza alla Chiesa. 

    Ora per pater trarre dai Vangeli - integrati con gli altri libri scritturali - la piena provastorica della divinità di Cristo (da cui la verità e infallibilità della Chiesa immediatamente dipendano) è necessario riconoscerne la piena storicità. E questa risulta infatti - secondo la pensosa critica tradizionale - dalla presenza o vicinanza degli scrittori agli eventi; dallo intento di precisione esplicitamente manifestato; dalle circostanze, dal tempo e dal luogo dove sono stati scritti e divulgati, in mezzo ai controlli degli altri interessati testimoni nemici ed amici; dalle mirabili conferme contestuali storiche; dalla semplicità disadorna e disinteressata con cui appariscono scritti, sottolineando anche gli aspetti meno favorevoli a Gesù; dalle loro diverse caratteristiche, che costituiscono, nella loro effettiva capacità di concordanza, un'alta conferma di spontaneità e veridicità; dal sigillo di verità del martirio dei narratori. 

    Ora la piena storicità, sola capace di garantire la realtà storica della persona di Gesù, delle sue opere e del suo insegnamento, reclama la obiettività delle circostanze concrete di tempo, di luogo, ecc. delle narrazioni. 

    Bisogna ricordare, a tale riguardo, che la difficoltà fondamentale contro il cristianesimo è la dissoluzione della figura di Cristo nella leggenda e nel mito, leggenda e mito che tanto più tentano gli studiosi quanto più essi considerano le strabilianti affermazioni di una religione, come il cristianesimo, adoratrice, addirittura, di un Uomo-Dio. Ora il mito si dissolve solo quando la nascita, l'attività pubblica, i miracoli, la morte, la risurrezione del grande protagonista si sanno avvenuti lì, in quel tempo, così e così. 

    Togliete da tali narrazioni tale concretezza e la loro attendibilità perderà solida consistenza. Non potrò coerentemente prestare solida fede alla notizia del concepimento miracoloso di Gesù per opera di Spirito S. quando tale notizia mi venga data da un Evangelista che abbia pareneticamente creato o ingenuamente riportato pradigiose circostanze di tempo, di luogo e di eventi, prive di realtà. Non potrò coerentemente fidarmi di chi mi comunichi la promessa del primato petrino, quando egli incornici l'episodio in un circostanziato, fittizio colloquio tra Gesù e Pietro, in una circostanziata e fittizia apologia di Pietro fatta da Gesù. 

    E come credere sicuramente alla prova fondamentale della divinità di Cristo, che è la risurrezione, e alla prova fondamentale della risurrezione, che sono le apparizioni, quando gli Evangelisti me le avrebbero narrate sbagliando, o gli uni o gli altri, circostanze essenziali di luogo e di tempo, poiché, per es., non sarebbero conciliabili le apparizioni a Gerusalemme narrate da S. Giovanni con quelle in Galilea narrate dai sinottici ?

    Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Quegli esegeti infatti che hanno ritenuto di dover abbandonare criticamente il principio della piena storicità dei Vangeli, quando si trovano davanti a qualunque difficoltà nel concordare diverse descrizioni particolari dei medesimi fatti, negano subito e metodicamente la storicità di tutti i particolari apparentemente discordanti. 

    Essi dicono: è difficile conciliarli, quindi non possono essere storici. Mentre dovrebbero dire: sono storici e quindi debbono essere conciliabili: e, messi coerentemente su questa strada, vi riuscirebbero, pur restando nel rigoroso piano critico. Ciò di fatto è possibile in tutti i casi in discussione: e mai con stiracchiature, anche se talora con qualche residua difficoltà, derivante dalla insufficiente informazione sulla complessa realtà. 

    Molte sono le illusioni logiche di questi atteggiamenti esegetici. Si afferma che abbandonando la piena storicità e i vani tentativi di armonizzazione dei vari testi i fatti vengono sfrondati dal rivestimento secondario, emergendo così nella loro più robusta e profonda sostanza. Per es., nel caso delle apparizioni, facendo cadere la circostanza accidentale che alcune siano avvenute a Gerusalemme, resta che secondo tutti gli Evangelisti, Gesù è apparso, gli Apostoli in un primo tempo non credettero e poi l'hanno riconosciuto. Ma non si tiene conto del rilievo suddetto, che cioè le circostanze di luogo, di tempo e di modo sono fondamentali per dare solidità concreta alle apparizioni e per escludere il dubbio di ingannevoli suggestioni (che costituiscono la difficoltà principale contro di esse). 

    Quello sfrondamento delle accidentalità dalla sostanza dei fatti potrebbe avere qualche significato costruttivo solo quando già si sapesse la esistenza dei fatti stessi. Ma invece la loro prova pende proprio da quelle descrizioni, solo capaci di esprimere la concretezza e quindi la realtà dei fatti. 

    Tali descrizioni risultano fondamentalmente snervate da tale pretesa inesattezza dei narratori. Essi infatti, come sarebbero caduti in inganno su quelle precise circostanze, così potrebbero esservi caduti anche per la sostanza del fatto. 

    Si afferma anche che tale abbandono della preoccupazione concordista libera la via al processo di approfondimento critico, ossia alla scoperta del vero genere letterario dei testi, attraverso la storia delle forme che permette di identificare i successivi strati e i rispettivi generi della tradizione evangelica, rendendo con ciò possibile di raggiungere le prime fonti, di comprenderne il carattere e di chiarirne meglio il significato. 

    Ma in ciò si delinea una idea preconcetta e una illusione. L'idea preconcetta è che il genere letterario dei Vangeli non sia pienamente storico. L'illusione è di cercare la chiarificazione e la sicurezza critica in quella storia delle forme notoriamente regolata da criteri di congettura e di sola e talvolta limitatissima probabilità, variabile da autore ad autore e da mentalità a mentalità. Si abbandona cioè - in base a considerazioni generali preconcette (e ben poco consone al dogma della ispirazione) e per risolvere difficoltà particolari di concordanza tutt'altro che insuperabili ­il principio chiaro della piena storicità, per assumerne un altro molto meno chiaro, meno conforme al dogma e capace di moltiplicare le difficoltà particolari. Si vuol consolidare la casa fondata sulla roccia, fabbricandola sulla rena. 

    In definitiva quelle considerazioni generali, ispiratrici di tali criteri esegetici, si risolvono nella già vista sopravvalutazione della limitatezza umana dello scrittore sacro, che - non trattandosi di dettatura - deve lasciare la sua traccia. Si dimentica però che l'influsso dell'autore principale, che è Dio, mirando essenzialmente alla verità, deve correggere e vincere tale defettibilità umana nella linea appunto della verità, ossia della storicità. 

    Quanto alle difficoltà particolari che si opporrebbero alla piena storicità è veramente sintomatico notare la loro minima consistenza, per cui si è indotti a pensare più che a una motivazione veramente obiettiva, a una errata impostazione mentale, troppo ristretta e naturalistica. Un esempio classico è dato dal fondamentale fatto delle apparizioni. Perché non sarebbero avvenute veramente quelle narrate da S. Giovanni, nel cenacolo di Gerusalemme, il giorno stesso della risurrezione e la settimana dopo? Perché Gesù - dicono - aveva precedentemente ammonito i discepoli di andare dopo la risurrezione in Galilea (Mt. 26, 32) e le donne corse al sepolcro ebbero l'incarico di ricordarlo loro (Mt. 28, 7-10). 

    Ma basta riflettere allo stato d'animo depresso e incredulo in cui i discepoli erano caduti - tanto che presero per vaneggiamento il messaggio delle pie donne (Lc. 24, 11) - e le apparizioni immediate nel cenacolo si spiegano benissimo come meraviglioso gesto della divina misericordia, per rincuorarli e far loro adempiere poi il prestabilito viaggio in Galilea, dove Gesù sarebbe più a lungo apparso. 

    Un altro esempio - tra tanti - può essere utile, sia per mostrare ancora la inconsistenza delle pretestuose difficoltà che si opporrebbero alla piena storicità di alcune narrazioni, sia per mostrare quali soggettive intuizioni si vorrebbero sostituire alla obiettività della affermazione del testo. Perché il colloquio e la glorificazione petrina di Mt. 16, 16-17 non sarebbero, così come sono narrati, storicamente ammissibili e la promessa del primato di Pietro (ivi, 18-19) non avrebbe potuto essere formulata così, in quel colloquio? Perché da un lato Pietro non poteva essere allora capace di quell'atto di fede in Cristo e dall'altro la glorificazione di Pietro da parte di Gesù contrasta con la opposta tonalità di rimprovero, che si trova nel corrispondente e più ristretto passo di Mc. 8, 29-30. 

    Ma la prima difficoltà non tiene conto dell'opera della grazia (cui non contraddicono né i progressi di fede, né gli oscuramenti che poi ebbe Pietro); la seconda non tiene conto che il rimprovero riguarda tutt'altra cosa e soprattutto che esso c'è anche esattamente nel successivo v. 20 dello stesso Matteo, senza quindi alcuna contraddizione con Marco. A questo punto sentiamo alcuni autori di questa scuola sentenziare arbitrariamente che tale v. 20 è «intuitivamente» fittizio! Troppo comoda questa esegesi. 

    Ma la più grave incoerenza logica di questa mentalità esegetica è il fatale uso dei due pesi e delle due misure per non infirmare gli altri testi scritturali dommatici più importanti. 

    Infatti, se tali criteri fossero usati, per es., anche per testi fondamentali come quelli della istituzione della Eucaristia, che congiungono alla unità della descrizione alcune notevoli differenze, si avrebbero motivi molto più forti che negli esempi suddetti per infirmarne la obiettività storica e il loro significato realistico. Solo il sano concordismo sa vedere nella quadruplice descrizione dei sinottici e di S. Paolo l'identità storica della grande affermazione di Gesù, integrata e resa anzi tanto più sicura dalle diversità testuali, che danno un valore autonomo e quindi maggiore a ognuna delle quattro testimonianze e conseguentemente al loro complesso.
     
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    00 01/05/2013 18:33
    INCOERENZA DEL MINIMISMO EVANGELICO 

    C'è un minimismo nei riguardi del miracoloso e del soprannaturale - già considerato precedentemente - che consiste nella metodica preferenziale interpretazione naturalisticadei fatti, secondo la moderna tendenza della demitizzazione. Esso manca, come si è visto, di coerenza, specialmente per la vita di Gesù, che attua nella sua persona la vertiginosa soprannaturalità della unione ipostatica e giustifica quindi, nei casi dubbi, la presunzione in favore del meraviglioso, o per lo meno proibisce di sentenziare con sicurezza in senso naturalistico e minimista. 

    Ma c'è un altro minimismo, più diffuso ancora dell'altro, che come l'altro non sembra logico. E' la tendenza ad unificare i fatti e i detti del Signore, appena si vedano rassomiglianti, quando siano narrati, pur talora con notevole diversità, dai diversi Evangelisti e talora anche dallo stesso. E' chiaro che questa tendenza moltiplica anche, in certi casi, le difficoltà della concordanza, dovendosi conciliare tra loro differenze, che sarebbero invece naturali nell'ipotesi di episodi diversi.

    Un esempio tipico è la doppia cacciata dei venditori dal tempio, allo inizio della vita pubblica (Gv. 2, 13-17) e alla fine (Mt. 21, 12-12; Mc. 11, 15 -17; Lc. 19, 46-46). Nonostante vari particolari diversi e la netta diversa localizzazione dei due clamorosi fatti, la sostanziale rassomiglianza induce non pochi ad unificarli nell'unico episodio narrato da Giovanni all'inizio. 

    Eppure uno spostamento così netto del giusto posto cronologico da parte dei sinottici non è facile ad ammettersi anche per la grande diversità psicologica ed ambientale dei due momenti. D'altra parte, se l'episodio non fosse effettivamente avvenuto due volte, dato che i sinottici parlano esplicitamente della sola ultima pasqua passata da Gesù a Gerusalemme (quella della morte) sarebbe stato naturale che omettessero totalmente quello avvenuto, come risulta da Giovanni, nella prima. 

    Ciò tanto più che essi non riferiscono le parole, riportate da S. Giovanni, dette in quella occasione da Gesù nella contestazione seguita al suo gesto: «disfate pure questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere» (Gv. 2, 19): parole che i sinottici, se si fosse trattato nel loro racconto del medesimo episodio di Giovanni, avrebbero avuto particolare interesse di riportare poiché ad esse si riferiscono nella narrazione della passione (Mt. 26, 61; 27, 40). 

    Questa tendenza alla unificazione non tiene sufficientemente conto della molteplice ricchezza della vita e dell'insegnamento di Gesù - di cui gli episodi evangelici sono soltanto una limitata espressione (Gv. 21, 25) - e della presumibile ripetizione di parole e di gesta che il divino Maestro deve aver fatto per inculcare il suo insegnamento, secondo il principio della buona pedagogia: «repetita iuvant». 

    Nel caso quindi di episodi un po' diversi e diversamente collocati, l'affrettata tendenza alla unificazione non è razionalmente fondata. Ci si dovrebbe anzi meravigliare che di ripetizioni ve ne siano così poche. Tanto meno quella tendenza è ammissibile quando si tratta di ripetizioni del medesimo Evangelista. Dando logico peso a tale presumibile ripetizione anche molte difficoltà di concordanza - come dicevo - si risolvono. 

    Entrambe queste tendenze di minimizzazione producono il grave inconveniente di impoverire la ricchezza della vita e del messaggio di Gesù, ricchezza alla quale la mentalità umana - ristretta, spontaneamente incline al naturalismo e propensa a ridurre tutto alla propria misura ­dura già tanta fatica ad adeguarsi.

    Nell'alternativa quindi o di interpretare dei testi in modo troppo naturale ed unificato o d'interpretarli in modo troppo soprannaturale e molteplice - quando l'indicazione del testo non sia certa - è preferibile la seconda, perché essa contribuirà per accidens al migliore adeguamento alla realtà, ossia al migliore adeguamento conoscitivo alla superiore ricchezza di Gesù, sempre al di sopra di qualunque immaginazione e concezione. Tutto l'opposto si dovrebbe dire se il protagonista fosse una limitata comune persona umana. Ma qui si tratta della divina persona di Gesù. 

    Niente vieta naturalmente che, quando si presenti il serio fondamento, nei singoli casi, della più probabile interpretazione ristretta, tale probabilità - senza trasformarla arbitrariamente in certezza - sia imparzialmente presentata: anzi ciò è criticamente necessario. Ma ciò che appare non criticamente fondata è la metodica preferenza per tale tipo d'interpretazione e il suo avallo come di cosa certa. 

    Il danno che può derivare da tale tendenza preferenziale alla adeguata conoscenza di Gesù, rimpiccolendone ingiustamente la figura, è grande: tanto più - per tornare su una riflessione precedente - in quanto una volta affermatasi - sul piano della pura probabilità - una interpretazione minimista, difficilmente si riesumerà la più ricca interpretazione ­ forse più vera - potendosi quindi perdere per sempre importanti luci della divina grandezza. Tornando all'esempio suddetto è facile intuire quale portata immensamente maggiore acquista il gesto di Gesù, sia come insegnamento ascetico e religioso, sia come drammatica rivelazione del cuore di Gesù, sia come rivelazione della sua potenza umano-divina, ammettendo la doppia cacciata dal tempio, proprio una all'inizio e una alla fine; e, alla fine, proprio nella cornice dell'ingresso trionfale e della passione. 

    Dunque, si debbono scegliere le tesi massimaliste per partito preso e al solo scopo di amplificare la vita di Gesù? Chi ha seguito i precedenti ragionamenti comprenderà che si deve stare ben lontani da tale criterio. E si deve anche essere ben lontani dal pensare che ciò sia necessario per comprendere sostanzialmente la persona di Gesù. Si tratta invece di usare la vera critica razionale, affermando come certo ciò che è certo e come probabile ciò che è probabile. Ma dovendo, in questo secondo caso, fare una scelta, il criterio preferenziale più logico è quello massimalista. 

    Non si tratta che di un criterio prudente per sbagliare il meno possibile e per aderire alla verità e comprendere Gesù il meglio possibile.

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    00 01/05/2013 18:35
     IL VANGELO DELL'INFANZIA

    UN ARBITRARIO GENERE LETTERARIO

    Nel quadro generale del problema critico della storicità dei Vangeli, è sorto il problema particolare della storicità del così detto Vangelo della infanzia di Gesù, ossia dei primi due capitoli di S. Matteo e di S. Luca, che narrano la storia dell'infanzia del Signore. Particolarmente chiamato in causa è Luca, più diffuso e circostanziato. In Francia una recente vita di Gesù ha saltato a piè pari la storia dell'infanzia. A Roma un illustre esegeta proclamava solennemente che gli studi fervono ancora in proposito: la cosa quindi è ancora sub iudice, la Chiesa non si è pronunciata. Un altro biblista riferendosi, in particolare, all'ultima Istruzione della Pont. Comm. Bibl. sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile 1964), ha affermato che essa non aveva ritenuto opportuno esprimersi sulla storicità dei dettagli dei racconti dell'infanzia, il che andrebbe interpretato - secondo tale biblista, che è passato tranquillamente dal silenzio alla negazione - come ammonimento a non dare peso a quei particolari storici. 

    Non faccio nomi perché dovrei elencarne troppi. Dirò solo, quasi a modo di sintesi, che anche per Karl Rahner «possiamo senza timore tener conto che nella storia dell'infanzia è contenuto un pezzo di Midrash, l'illustrazione trasfigurante [ossia romanzesca] dell'inizio del Messia» (in Concilium, 3, 1968, p. 45). 

    Si vorrebbe un pronunciamento autorevole, positivo, sui racconti della infanzia? Perché? Non si possono pretendere continue decisioni della Chiesa su tutti i punti particolari, mentre esistono e sono sufficienti quelle generali, tante volte ripetute sull'inerranzia biblica, anche nel settore storico.

    Ricordiamone alcune. «L'ispirazione divina è incompatibile con qualsiasi errore... Coloro che ritenessero che nei passi autentici dei libri sacri possa contenersi qualche cosa di falso... farebbe Dio stesso autore dello errore» (Leone XIII, Providentissimus, 18 nov. 1893). «Sbaglieranno miseramente... quei recenti che... restringono... l'immunità da errore e la verità assoluta all'elemento primario o religioso» (Benedetto XV, Spiritus Paraclitus, 15 sett. 1920). «Questa dunque è la dottrina che il nostro predecessore Leone XIII con tanta gravità ha esposto, e che noi... inculchiamo perché sia da tutti scrupolosamente mantenuta» (Pio XII, Divino afflante Spiritu, 30 sett. 1943). 

    «Con audacia alcuni pervertono il senso delle parole del Concilio Vaticano, con cui si definisce che Dio è l'autore della S. Scrittura; e rinnovano la sentenza, già più volte condannata, secondo cui l'inerranza della S. Scrittura si estenderebbe soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione o la morale» (Pio XII, Humani generis, 12 agosto 1950). La stessa suddetta Istruzione della Pont. Comm. Bibl. ribadisce, in particolare, contro coloro che mettono «in dubbio la verità dei detti e dei fatti contenuti nei Vangeli», che questi «furono scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, il quale ne preserva gli autori da ogni errore» (Instructio de historica Evangeliorum veritate, 21 apr. 1964); il che fu confermato da Paolo VI, secondo cui tale Istruzione «difende in modo speciale con calma e vigorosa chiarezza la verità storica dei santi Vangeli» (Discorso ai partecipanti alla XVII settimana biblica, 26 sett. 1964). 

    Anche il Vaticano II ha riaffermato «senza alcuna esitazione la storicità» dei Vangeli, i quali hanno bensì scelto «alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o anche in iscritto... sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» (R 19: deh. 901); il che rientra nella riaffermazione generale dello stesso Concilio, della divina ispirazione di tutta la Sacra Scrittura, la quale riporta «tutte e soltanto quelle cose che Dio voleva fossero scritte», insegnando «con certezza, fedelmente e senza errore la verità, che Dio per la nostra salvezza [scopo di tutta la Scrittura] volle fosse consegnata nelle sacre lettere» (R 11: deh. 890). 

    Dispiace il tentativo di chiudere la bocca al profano con la prospettiva dei misteriosi «studi che fervono ancora in proposito». Che ele­menti nuovi si spera di trarne, se, agli effetti del nostro problema, è ormai tutto noto? Vogliono scoprire il manoscritto di S. Luca? Sarebbero, quanto al nostro problema, allo stesso punto di prima! 

    In realtà si vorrebbe giustificare e, in pratica, si crede già di aver giustificato criticamente, il diritto d'interpretare il Vangelo dell'infanzia di Gesù come un genere letterario di annunzio teologico, valorizzato didatticamente da una veste narrativa più o meno immaginaria. 

    Ma proprio qui sta l'errore critico, sia di esegesi, sia di teologia, sia anche di pratica pastorale. 

    Esegeticamente, si sa come sia necessario, per un solido studio, di approfondire il genere letterario delle rispettive narrazioni (cfr. R. 13: deh. 892). Un genere puramente didatticodi una narrativa biblica può perfettamente armonizzare con la inerranza biblica; ma esso può essere affermato solo quando vi siano proporzionati argomenti per farlo (si consideri, per es., la storia di Giona, secondo l'opinione, anche se molto discutibile, di non pochi esegeti). Nel caso invece dei due primi capitoli di S. Luca (e similmente dei due primi di S. Matteo) la circostanziata narrazione storica fa strettamente corpo con la storicità del supremo fatto dogmatico che è l'incarnazione del Verbo, creandone l'armonico contesto e la necessaria base. 

    Dire che quel che conta è la sostanza del fatto (ispirazione divina alla Madonna e concepimento del Salvatore per opera di Spirito Santo) è come dire di una cattedrale che quel che conta è la costruzione esterna, distruggendone però le fondamenta. Le solide fondamenta storiche del supremo divino evento sono precisamente costituite dalla verità di tutte le altre prodigiose circostanze, pienamente armoniche alla straordinari età divina dell'evento e segno dell'accurata ricerca storica dello scrittore. Quanto cioè all'autenticità della narrazione lucana, se si dovesse dubitare di quelle precise circostanze si potrebbe analogamente dubitare dell'autenticità dell'evento principale. 

    E si noti la differenza con altre narrazioni sintetiche del Vangelo, che possono prendersi a senso: qui invece si tratta di circostanze straordinarie, accuratamente precisate. In questi casi è illusorio quindi distinguere i «dati storici da una parte e gli elementi destinati a coglierne il significato dall'altra parte» (cfr. J. Daniélou, Les Évangiles de l'Enfance, Paris, 7), e di pretendere anzi in tal modo di cogliere «la profondità della realtà storica» (ivi 9): la sicurezza di questa dipende infatti dalla verità di quelle circostanze. 

    Teologicamente inoltre è incongruente appellarsi all'importanza del solo evento sostanziale, sia perché le altre circostanze lo illuminano e inquadrano convenientemente, sia perché - come dicevo - esse ne concretizzano la base storica. Si può, d'altra parte, estendere agli eventi dell'infanzia quanto la suddetta Istruzione della Pont. Comm. Bibl. dice della vita pubblica: «la fede si fondava su ciò che Gesù aveva [realmente] fatto e insegnato». Particolarmente inesatta è poi l'analogia tratta dall'ispirazione data dallo Spirito Santo agli Apostoli, a integrazione della rivelazione, dopo la dipartita di Gesù, fino alla morte dello ultimo Apostolo; come cioè se Luca avesse, per divina ispirazione, potuto usare pure una certa libertà di narrazione. 

    Quella ispirazione agli Apostoli infatti riguarda la dottrina e il completamento della verità, mentre questo ipotetico rivestimento favoloso che Luca avrebbe dato al suo racconto riguarderebbe dei puri fatti irreali, strettamente e sconvenientemente mescolati alla realtà del fatto principale, svalutandone l'autenticità. 

    Pastoralmente infine il solo gettare il dubbio su quelle celebri descrizioni contrasta all'ammonimento della predetta Istruzione del 1964 (eco di tanti altri simili ammonimenti della Chiesa): «[I divulgatori] si facciano scrupolo di non dipartirsi mai dalla comune dottrina o dalla tradizione della Chiesa neanche in minime cose». 

    Impressionante è poi l'inconsistenza delle difficoltà addotte dai negatori della piena storicità. - La differenza delle narrazioni di Luca e Matteo? Sarebbe come dubitare della unicità di un individuo perché un cronista dice che è alto tanto e un altro dice che è biondo. I due evangelisti hanno semplicemente narrato lati diversi della stessa realtà sto­rica. E' anzi una bellissima conferma di autenticità la perfetta complementarietà delle due narrazioni. Si noti, per es., l'identità del carattere pensoso e interiore di Maria che, sotto aspetti diversi, emerge dalle due narrazioni. 

    Il contenuto estraneo alla primitiva predicazione apostolica? Era naturale che questa facesse perno soprattutto sul dramma finale di Gesù a tutti noto; ma niente di più naturale che Matteo e Luca siano voluti risalire all'inizio, essi che, infatti, hanno anche riportato le famose genealogie (Mat. 1, 1-17; Lc. 3, 23-38). 

    La lunghezza eccessiva dei primi due capitoli di Luca, contrastante con la restante concisione del suo vangelo? Ciò è dovuto al dichiarato proposito di San Luca di attendere con particolare impegno alla storia dell'infanzia, proprio, probabilmente, perché meno nota e non usata nella comune, primitiva predicazione: «ho investigato accuratamente ogni cosa sin dall'inizio» (Lc. 1, 3). 

    L'impossibilità di conoscere quei particolari segreti? C'era la Madonna, alla quale Luca ha avuto la comoda possibilità di rivolgersi. Gli aramaismi e l'impronta semitica che caratterizzano i primi due capitoli, nei confronti dei seguenti, confermano tale fonte, di prima mano, di Luca. 

    Il concentrarsi di tutti gli inni in questi due capitoli (come di tante profezie nei primi due di Matteo)? Lo portava la natura degli eventi. 

    La rassomiglianza con la storia della nascita e dell'infanzia di altri grandi personaggi biblici, come Isacco, Mosè, Sansone, Samuele? Niente di più naturale di un procedere analogo di Dio a riguardo di altri personaggi che avevano una speciale missione, tanto più che il V.T. è ombra e figura del N.T. Comunque alle analogie si aggiungono per Gesù essenziali e sublimi differenze. 

    Stranezza di un puro spirito angelico che si presenta in forma umana e possibilità d'interpretare, senza inutile miracolismo, l'annuncio come una pura ispirazione interiore? Nessuna difficoltà che l'angelo possa miracolosamente assumere apparenze umane per entrare in colloquio con gli uomini, come tante volte è narrato nella Bibbia (nel N. T.: ai pa­stori, al sepolcrd, all'ascensione). Nessuna amplificazione miracolistica eccessiva, nel quadro coerente del più strabiliante miracolo, quale l'incarnazione del Verbo. Solo così, d'altra parte, poté aversi il dialogo con l'angelo (si noti la differenza con S. Giuseppe) che è essenziale per lo inserimento libero di Maria nel mistero dell'opera divina di redenzione. Anche il dialogo con Zaccaria consentì preziosi insegnamenti. Comun­que i particolari della descrizione non lasciano ragionevoli dubbi in proposito. 

    Un grande giornalista italiano mi diceva che queste a lui sembravano discussioni inutili. 

    Gli era sufficiente considetare lo stile spersonalizzato, scheletrico, freddo, di Luca, senza alcuna glorificazione pubblica dell'eroe (descrivendo anzi, dopo i fugaci bagliori del canto angelico e dei Magi, estrema povertà, persecuzione e morte) con l'attenzione volta solo a riportare fatti e precise parole, come proprio se Luca le avesse colte e annotate dalle labbra di Maria. V'è lo stile del sincero cronista. 

    Avrebbe voluto far proclamare Luca patrono dei giornalisti, per la obiettività della sua informazione. 
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    00 01/05/2013 18:37

    ALLA RICERCA DEL SIGNIFICATO PROFONDO 

    Un libretto, edito dalla Paideia di Brescia (1966), sul Vangelo dell'In­fanzia - tra i tanti scritti sul delicato argomento - costituisce un'utile occasione di approfondimento del problema particolare e di critica generale a un moderno tipo, alquanto sbrigativo, di esegesi biblica. 

    Essendo edito a Brescia, mi aspettavo che il libretto portasse l'Imprimatur di là. Tale recente Introduzione ai Vangeli dell'Infanzia, del dotto biblista Cappuccino Prof. Ortensio da Spinetoli, ha scelto invece l'Imprimatur di Loreto. Persona seria mi ha detto che a Brescia esso non gli sarebbe stato concesso. Ciò, se fosse vero, farebbe onore a quel revisore, soprattutto per il fatto che l'argomento stesso e l'agile edizione ne fanno prevedere una rapida e disorientante diffusione nei Seminari e tra il Clero. Dopo la lettura ripenso con sorpresa alla lusinghiera presentazione dell'Osservatore Romano (le cui recensioni di S. Scrittura avevano la fama di essere molto ponderate e sicure) e dellaSettimana del Clero (ma questa veramente senza molta sorpresa) (11). 

    Arditezze stimolanti. - L'Editore, ad apertura del libro, spiega i criteri che animano la sua collana biblica: «Novità di impostazione... arditezza delle soluzioni vogliono solo stimolare il benevolo Lettore a un ripensamento personale... delle soluzioni prospettate... invito alla ricerca...». Quanto alla benevolenza del lettore - che egli onora con la lettera maiuscola - ne sia pur sicuro perché oggi é di moda il conformismo dell'antitradizionalismo. Quanto al vezzo invece di chiamare ardite le soluzioni che con disinvolta superficialità (come farò vedere) fanno un fascio delle più solide dottrine, mi chiedo se non abbiano più diritto di chiamarsi tali le soluzioni che sanno invece approfondire e sviluppare la sana dottrina tradizionale, con coraggiosa e leale adesione al magistero ecclesiastico.
     
    Sono queste che esprimono il vero anticonformismo e ripensamento personale, contro lamoda di allinearsi ai così detti progressisti, i quali spesso non fanno che copiarsi e citarsi tra loro, che riesumare antiche difficoltà e antichi errori tante volte confutati, che preoccuparsi di «togliere dalla nostra fede quanto il pensiero moderno, privo spesso di luce razionale, non comprende e non gradisce» (Paolo VI a Fatima, 13 giugno 1967). Certo non possono chiamarsi nobilmente ardite «persone e pubblicazioni, che avrebbero la missione d'insegnare e di difendere la fede [e che] non mancano purtroppo anche da noi di far eco a quelle voci sovvertitrici, per la celebrità più che per il valore scientifico dei loro fautori; la moda fa legge più della verità» (Paolo VI, alla riunione plenaria Episcopale Italiana, 8 aprile 1967). 

    Arricchimento del Vangelo. - Anche l'Autore mette le mani avanti. E' una caratteristica costante in questi scrittori: prevenire la reazione dei lettori e velare le reali distruzioni che essi compiono, con espressioni di grande ossequio e fede in ciò che colpiscono e con prospettive di approfondimento, dove non si trova invece che svuotamento. Sono espressioni continuamente capovolte (12). Eccone dei saggi. 

    «Sono le pagine più edificanti di tutto il N. T.... delizia dei nostri primi anni... indelebili...intramontabili» (7). - Romanticismo inutile, che nasconde l'urgente quesito: Tali pagine sono vere o no? Perché non sappiamo che farcene di pagine «intramontabili» false. 

    «I primi a essere colpiti dalla soavità del mistero natalizio furono... i narratori evangelici. I fatti... erano troppo grandi per essere trasmessi come semplici note di cronaca... Attraverso i continui ripensamenti... il profondo significato... si è venuto svelando. Le scene hanno preso pian piano... ad arricchirsi... di riflessioni teologiche, di note polemiche e apologetiche... Mentre la tradizione apostolica si arrestava a questa approfondita, ma sobria ricomposizione degli avvenimenti, la predicazione... devozionale (gli Apocrifi) continuava ad arricchire il quadro» (7-8). ­ 

    In parole povere l'arricchimento e l'approfondimento consisterebbero nella adulterazionedei fatti, i quali, mentre sono da Matteo e Luca presentati con spiccato tono di impersonale obiettività (sottolineata dalla scarna semplicità della descrizione e dalla esplicita assicurazione di S. Luca di avere «investigato accuratamente ogni cosa sin dall'inizio», di volerne «scrivere per ordine», per fornire «esatta cognizione dei fatti»: Lc 1, 3-4), risulterebbero invece una mescolanza, praticamente inestricabile e priva quindi di autenticità documentaria, di fatti obiettivi e di invenzioni didascaliche dei narratori. Va anche notato che queste ultime sono poste nella stessa linea degli Apocrifi, i quali avrebbero soltanto proseguito ad «arricchire il quadro». 

    Tutto ciò soprattutto equivale praticamente a dimenticare che gli agiografi si trovavano nella privilegiata posizione di autori infallibilmente ispirati, così da trasmettere, come ha ribadito il Vaticano II, «con certezza, fedelmente e senza errore la verità» (R, 11: deh. 890), e precisamente, nei Vangeli, trasmettere «fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò...» «in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» [senza distinzione di parti e quindi anche la fondamentale fase dell'infanzia] (R, 19: deh. 901). 

    «La nostra preoccupazione è quella di leggere i racconti della infanzia senza lasciarci fuorviare dalle sue segnalazioni superficiali, ma anche senza perdere nulla del suoprofondo contenuto» (8), «a meglio comprendere, non a distruggere il contenuto del Vangelo dell'infanzia» (63). - Nell'ingannevole linguaggio di questi illustri scrittori, i pochi, ma circostanziati episodi narrati per es. da S. Luca, dopo «accurata investigazione» (proprio quelli che danno alla narrazione dei fatti fondamentali la concretezza, illuminano i fatti stessi, svelano i meravigliosi disegni e interventi di Dio, e costituiscono il sigillo caratteristico della veridicità del narratore) sono catalogati tra le «segnalazioni superficiali». 

    E' invece catalogata come costituente il «profondo contenuto» del quale non si deve «perdere nulla» la pura sostanza del fatto dogmatico, mentre in realtà questa risulta enormemente impoverita e anzi obiettivamente perduta, sia perché non si sa dove cominci questa sostanza, variamente interpretata, a sentimento, dai vari autori, sia perché essa viene privata della sicurezza storica. In cambio viene proposto tutto un complesso di ipotetiche interpretazioni delle presunte amplificazioni dello Evangelista, estremamente incerte: esse vengono irragionevolmente preferite alla certezza dei dati storici. 

    «Accanto ai testi della passione, i racconti dell'infanzia sono le parti più omogenee e piùdistanti dal resto del vangelo di cui fanno parte... Il primitivo annunzio evangelico... si apriva... con la presentazione del Battista» (11). - Tutto ciò è naturale conseguenza della natura di tali racconti. Le fonti accuratamente ricercate da S. Luca, di prima mano - avendo attinto, probabilmente, alla Madonna stessa - spiegano anche benissimo le particolarità filologiche e stilistiche. Era anche naturale che nella prima predicazione fosse presentata la parte pubblica della vita di Gesù, a tutti nota (cfr. At 1, 22; 2, 22; Me 1, 2). 

    L'INFANZIA IN S. MATTEO 

    A p. 19 del libretto di P. O. troviamo un riassunto degli argomenti che porrebbero «in termini seri il problema del genere narrativo di Mt 1-2 ». Ivi si troverebbero «tratti che non si addicono a un'opera strettamente storica». - Nel prossimo paragrafo vedremo, anche per S. Luca, vari altri sorprendenti rilievi. Ecco ora gli argomenti sinteticamente presentati dal ch.mo Autore contro la piena storicità di questi due primi cap. di S. Matteo. Si tratta cioè di alcune caratteristiche di questa narrazione che in firmerebbero tale storicità. Dopo i singoli enunciati porrò immediatamente le facili risposte. 

    «Colorito aneddotico». - E' la prima difficoltà, addotta da P. O. Ma chi ha mai detto che il genere aneddotico suggerisca poca obiettività? Quando specialmente gli aneddoti si riferiscono a persone o eventi di grande importanza essi mirano a caratterizzare tali persone e cose, e proprio per questo il narratore coscienzioso (anche a prescindere dalla ispirazione) cerca con cura di evitare ogni inesattezza. 

    Comunque il carattere aneddotico o episodico è comune a tutti i Vangeli. Esso riflette bensì una certa disorganicità e rudimentalità di metodo storico; ma non inganno. Anzi tale rudimentalità sottolinea la spontaneità della stesura e accresce la garanzia di veridicità. 

    «Abbondanza di meraviglioso (sogni, apparizioni angeliche)». ­ Questa è un'obiezione degna del modernismo razionalista di A. Loisy (ripetutamente citato da P. O.) e dei moderni esegeti «indipendenti» (come P. O. chiama i non cattolici, quasi che essi non abbiano la stretta dipendenza dalla loro pregiudiziale anticattolica) e demitizzatori. Non si tratta, in realtà, che di una cornice di circostanze mirabili, opportunamente volute dalla Provvidenza per il ben più meraviglioso quadro dell'incarnazione del Verbo.

    Anche le analogie, su alcuni punti, con altri avvenimenti vetero testamentari, suggerivano per questo culminante divino evento (non più in qualche modo prefigurato, ma reale) il rinnovamento e l'amplificazione di quelle circostanze prodigiose (tali analogie sono una conferma, anziché una difficoltà, come vorrebbero questi esegeti). 

    Apparisce inoltre l'opportunità che la congiunzione tra cielo e terra, avvenuta nell'Incarnazione, fosse incorniciata da incontri premonitori, anch'essi tra cielo e terra; e ciò, convenientemente, secondo gradi diversi. Essi avvennero infatti nel sonno per S. Giuseppe. Avvennero invece in apparizione angelica visibile per Zaccaria, essendo capitato durante la sua azione sacerdotale, e in apparizione pure visibile per Maria, in vista della sua dignità di preordinata Madre di Dio, e anche (come per Zaccaria) per permettere il dialogo. 

    «Inverosimiglianze (soprattutto nel racconto dei Magi)». - Tra queste inverosimiglianze il ch.mo P. O. elencherà, in seguito, per es. il contegno di Erode, ma soprattutto la stella, la cui apparizione rientrerebbe nella suddetta, criticata «abbondanza di meraviglioso». Ma abbondante sembra che sia piuttosto la solita incoerenza della obiezione: dovrebbero infatti ritenere tanto più inverosimile l'Incarnazione di un Dio (13). E' vero quanto osserva P. O., che anche nelle manifestazioni miracolose Iddio segue sapienti criteri di discrezione. Ma chi può pretendere, antecedentemente ai fatti, di stabilire la giusta misura di discrezione? Se non si vuol cadere in una esegesi acritica e puramente guidata da elastiche e arbitrarie intuizioni personali, bisogna partire dal dato scritturale per scoprire tale misura giusta. Questi autori invece partono da una personale valutazione di essa per mettere in forse il dato scritturale. 

    Quanto, in particolare, alla stella, è ovvio che non va intesa come una vera stella del cielo, bensì come un fenomeno miracoloso, che abbia avuto tale apparenza, ma che sia avvenuto a non molta altezza dalla terra, così da poter guidare i Magi. 

    Tale genere di miracolo rientra, d'altra parte, ottimamente nel simbolismo scritturale (cfr. Nm 24, 17), essendo stato il Messia profetizzato come luce che sorge (cfr. Is 42, 6; 49,6; 60, 1-3; Gv 1, 5). Gesù stesso si è chiamato «stella splendida e mattutina» (Ap 22, 16). Nella scrittura cuneiforme il re e la divinità sono espressi con una stella. Anche la cultura pagana guardava ai segni dal cielo. Comunque - e questo è il rilievo più importante - questo tipo di difficoltà non nasce minimamente da nuovi apporti critici dell'esegesi, ma da considerazioni generali già accuratamente vagliate dagli antichi esegeti, che le avevano ottimamente superate. Solo la moderna, preconcetta ripugnanza al soprannaturale le ripropone. Ma questa ripugnanza, essendo preconcetta, tradisce la ristrettezza di vedute di questo tipo di esegesi di moda. 

    «Scarsezza di segnalazioni storico-topografiche». - Ciò conferma la spontaneità della narrazione, fedele alle fonti d'informazione, in una concezione della storia, quanto all'inquadramento narrativo, conforme ai tempi. 

    Sono istantanee episodiche: la fotografia non riproduce nomi e inquadramenti topografici. 

    «Preoccupazioni apologetiche (ogni avvenimento accade in ordine alle profezie del V. T.)». - Non è che la conferma teologica, scritturale e profetica della verità storica, che doverosamente lo storico ha voluto sottolineare. 

    «Assenza di intento informativo (la stessa nascita del Salvatore è appena affermata, v. 18 o solo interpretata, v. 20-25). Il v. 18, per es. dice: Ora la nascita di Gesù avvenne così. La Madre di lui, Maria, ecc.». - E questa non è informazione? Come si sa tuttavia i Vangeli non sono una storia organicamente e completamente svolta, avendo un carattere prevalentemente episodico. Ma da ciò si può solo logicamente dedurre che proprio su tali circostanziati episodi si è concentrato l'impegno di esattezza obiettiva del narratore. 

    Questa obiezione è un tipico saggio delle evanescenti considerazioni, apparentemente sottili, ma in realtà insignificanti, con cui spesso questi esegeti pretendono infirmare il «genere letterario» pienamente storico del Vangelo, con noncuranza della vecchia e fondamentale norma di S. Agostino, riportata nella Enc. Providentissimus: «a litterali et veluti obvio sensu minime discedendum, nisi qua eum vel ratio tenere prohibeat vel necessitas cogat dimittere» (EB 112; cfr. 328, 525). 

    «Infine totale divergenza da Lc. 1-2». - L'affermazione è grave e riflette la suddetta caratteristica di questo tipo di esegesi progressista, di riesumare cioè ed accogliere vecchie difficoltà, già tante volte risolte. 

    Anziché divergenza, ogni lettore imparziale non può non rilevare tra Matteo e Luca, pur così diversi, una mirabile complementarietà, che trasforma la diversità da apparente difficoltà in mirabile conferma e sicurezza di obiettività. Se infatti i due racconti si affiancassero nella narrazione dei medesimi episodi, combaciando perfettamente, ciò farebbe pensare ad una unica fonte d'informazione, riducendo il valore della duplice testimonianza ad una sola. Notandosi invece che un racconto segue una trama e l'altro un'altra, ma che le due trame, sovrapposte, armonizzano perfettamente, una integrando l'altra, così da fornire un coerente succedersi degli eventi, si ha un doppio segno di obiettività delle rispettive narrazioni e un doppio valore di autenticità. 

    Le diverse fonti testimoniali che le hanno ispirate non possono infatti armonizzare così tra loro se non perché entrambe combaciano con la realtà. La ragione del perché un evangelista ha preso un itinerario e l'altro un'altro è del tutto secondaria e non crea alcuna difficoltà in un genere di narrazioni come quelle evangeliche, nessuna delle quali ha la pretesa della completezza, limitandosi ognuna a descrizioni episodiche. Il caso massimo è quello di S. Giovanni che ha inteso integrare le narrazioni dei sinottici. Nei vangeli dell'infanzia si nota che S. Luca ha integrato S. Matteo, sviluppando gli aspetti più intimi e mariani, avendo Matteo presentato invece gli aspetti più esteriori e giuseppini. La delicatezza degli aspetti toccati da Luca, che altrimenti sarebbero restati nascosti, è, d'altra parte, quanto mai conforme all'intento di chi «ha investigato accuratamente ogni cosa fin dall'inizio» (Lc  l, 3). Darò ora qualche esempio di questa complementarità di narrazioni. 

    Quanto al verginale concepimento, da Mt 1, 18 si sa solo il fatto: «Si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo». Tutto quanto poi Matteo ulteriormente dice in 1, 18-25 è agaranzia del fatto: «prima che venissero a stare insieme»; ansie di S. Giuseppe e assicurazione dell'angelo: «ciò che in lei è stato concepito è opera dello Spirito Santo»; «non la conosceva finché diede alla luce un figlio». Niente però Matteo dice dello svolgimento storico circostanziato. Ora ecco che Lc 1, 5-80.2, 6-7 dà il prezioso e particolareggiato racconto inedito di tali circostanze, a cominciare dal Precursore.

    Quanto alla sorprendente nascita a Betlemme (tanto sorprendente che tale luogo sembrerà poi nei Vangeli dimenticato), Mt 2, l presenta ancora il fatto, incidentalmente. Lc 2, 1-6 ne dà la particolareggiata motivazione storica. 

    Quanto al modo e alle circostanze relative alla nascita e ai primi quaranta giorni della vita di Gesù, Matteo non aggiunge parola, passando subito alla narrazione degli eventi avvenuti molti mesi (oltre un anno) dopo, a cominciare dalla venuta dei Magi fino al ritorno dall'Egitto e alla sistemazione definitiva a Nazaret (Mt 2, 1-23). Lc 2, 7-38 descrive invece particolareggiatamente proprio gli avvenimenti dei primi quaranta giorni. Luca omette poi tutti gli avvenimenti successivi fino alla dimora di Nazaret, riassumendo tutto quell'ulteriore periodo, analizzato da S. Matteo, con la semplice affermazione: «ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret» (Lc 2, 39). 

    Quanto alla vita nascosta a Nazaret, Matteo non dice niente, riprendendo la narrazione con la predicazione del Battista (3, l ss.). Le. 2, 40-­52, coerentemente al suo intento, ne dà invece poche, ma preziose, intime notizie. 

    Suggestivi sono pure i confronti dei particolari episodici e di carattere. Per es. in entrambi v'è l'intervento angelico, che si proporziona tuttavia rispettivamente alla personalità di Giuseppe (in sogno, Mt) e di Maria (visibilmente, Lc). La pensosità della vergine che tace con S. Giuseppe (adeguatamente corrisposta, in Mt stesso, da quella di Giuseppe) e la sua fede nel rimettere la soluzione del dramma alla Provvidenza (Mt), corrispondono alla medesima pensosità del suo colloquio con l'angelo e del suo ascolto di Gesù dodicenne e alla sua fede nel grande annuncio, glorificata da Elisabetta (Lc). La prontezza della fuga in Egitto (Mt) corrisponde alla prontezza della visita a S. Elisabetta (Lc). E così via. 

    Dov'è dunque la «totale divergenza»? Apparisce solo una meravigliosa armonia. 

    Questa Introduzione ai Vangeli dell'Infanzia del P. Ortensio da Spinetoli per le proprie affermazioni e per le numerose citazioni, è ricca inoltre di ben altri motivi di riflessione. Restiamo ancora nei primi due capitoli di Matteo. 

    Genere «storico-artistico-midrashico». - Ecco come viene scoperto il genere letterarionon storico, ma «storico-artistico-midrashico» [cioè di libera investigazione - secondo il significato del vocabolo ebraico «midrash» - meditazione e interpretazione dei fatti, come facevano i rabbini per l'A. T.] (22). (Come al solito i sottolineati sono miei). 

    «Se per storia si intende una narrazione impersonale, disinteressata, in questo sensoobiettiva dei fatti, i racconti di Mt 1-2 non appartengono al genere storico... le mire polemiche e apologetiche... parenetiche trapelano di tanto in tanto... è un libro di fede» (22). - Se l'obiezione fosse giusta se ne dedurrebbe questa incredibile dottrina: un testimone che, alla luce dei fatti personalmente constatati, abbia aderito pienamente a Gesù e senta tutto l'ardore e tutta la responsabilità di comunicare agli altri quei fatti stessi per far conoscere la verità di Gesù, un tale testimone, dico, anche se, come nel caso degli evangelisti, sottolinei la sua imparzialità con la scarna modestia della narrazione (che, in definitiva, anche P. O. riconosce: 23) tutt'altro che caldamente parenetica, sarebbe nell'impossibilità di fare una storia obiettiva! 

    Invano egli potrebbe dire come S. Giovanni: «Quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che abbiamo osservato e toccato con le nostre mani... lo annunziamo anche a voi, affinché anche voi siate in comunione con noi» (l Gv l, 1-3). Anzi, proprio col dare questa assicurazione, egli rivelerebbe «mire apologetiche» e quindi non sarebbe un obiettivo narratore e, più o meno, ingannerebbe i lettori! 

    L'affermazione è sorprendente, anche prescindendo del tutto dalla garanzia di obiettività data dalla ispirazione dello Spirito Santo. 

    P. O. incalza e spiega: «Se uno storico ha bisogno di fatti e di obiettività, un apologeta,... un pastore ha bisogno di... pathos, di immaginazione... tratti commoventi e sconvolgenti al posto della precisione episodica. La preoccupazione principale di un evangelista non è quella di cercare i particolari più obiettivi quanto quelli più idonei a... stimolare...» (ivi). CosÌ pensano, pur con diverse gradazioni, gli esegeti che non ammettono la piena storicità dei Vangeli, assimilandone, più o meno, il «genere letterario» a quello realmente ammissibile (per ben diversi motivi) in certe narrazioni dell'A. T. 

    Ma l'errore di tale concezione sta proprio in quella assimilazione d'un evangelista a un qualunque approssimativo predicatore e «pastore» (alle cui inesattezze si può indulgere, anche se non si possono lodare nemmeno in lui). Il predicatore parla di cose già storicamente, nella loro sostanza, garantite; l'evangelista invece le garantisce con la suatestimonianza, la quale traballerebbe tutta se non fosse tutta veritiera. I precisi episodi che l'evangelista adduce vogliono costituire ovviamente una garanzia della verità della narrazione, proprio in quanto particolareggiati e obiettivi. D'altra parte quel modo dimesso di esporli esclude qualsiasi ragionevole sospetto che siano stati narrati per ottenere il colpo di effetto. 

    Il genere artistico tuttavia risulterebbe - spiega P. Ortensio: 25 ss. - dalla scoperta di una preordinata disposizione dei fatti, collegati ad altrettanti testi dell'A. T.: genealogia, nascita verginale, nascita a Betlemme, fuga in Egitto, strage degli innocenti, ritorno a Nazaret, con i rispettivi richiami profetici dell'A. T.: Mt 1, 22-23; 2, 5-6. 15.17-18. 23. Questo sarebbe il segno di qualcosa di artificioso, al di fuori della pura obiettività storica. 

    E perché? Niente invece di più naturale che in una narrazione episodica pienamente obiettiva, ma molto ristretta, il narratore scelga e ordini le sue descrizioni e, sapendo che l'A. T. è preparazione del Nuovo, cerchi in esso il preannuncio profetico dei nuovi eventi e, trovatolo, lo enunci. 

    Il carattere midrashico - così chiamato dal suddetto vocabolo ebraico «midrash» che esprime il concetto di «investigare» e si riferisce al ripensamento della Scrittura, fatto dai rabbini, con libere analogie, interpretazioni e amplificazioni, a scopo di ammaestramento - risulterebbe infine dalle analogie con i fatti dell'A. T. e con i relativi commenti rabbinici (29 ss.). Per es. i sogni di Giuseppe trovano riscontro nei patriarchi del V. T., la venuta dei Magi ricorda quella della regina di Saba a Gerusalemme, i drammatici eventi che ne seguirono ricordano quelli dell'Esodo, ecc. (e tutto ciò tanto più nei commenti rabbini ci midrashici). 

    Ma questo modo di ragionare riflette la vecchia tentazione sempli­ficatrice dell'esegesi, di identificare le cose rassomiglianti. Chi è che non può trovare, volendo, grandi rassomiglianze tra personalità ed eventi pur diversissimi? Tanto più è da attendersi che vi siano analogie tra gli eventi dell'A. T. e del N. T., di cui l'Antico è preparazione e figura. Insieme comunque alle analogie vi sono spiccate differenze, ben concretizzate nelle circostanziate descrizioni.

    Ogni sospetto quindi sulla natura fittizia delle narrazioni evangeliche, come se fossero fatte a modello prestabilito, risulta privo di fondamento. 

    Circa le obiezioni per le pretese inverosimiglianze e per la sovrabbondanza del meraviglioso, già ne vedemmo l'infondatezza e l'incoerenza. 

    Questi esegeti si preoccupano però - come è noto - di avvertire che da tutto ciò non segue alcun danno per la sicurezza del messaggio evangelico. Esso anzi ci guadagnerebbe. Ma questa non è che una involuzione logica, la quale costituisce l'aspetto più drammatico e penoso di tale tipo di esegesi moderna. Non si tratta solo di P. O., ma di tutti gli autori, non di minor grido, che egli largamente cita. 

    Si stia tranquilli - essi dicono -: le integrazioni immaginate dall'evangelista hanno il solo scopo di far risaltare l'«avvenimento storico fondamentale» (23). Matteo è «quindisostanzialmente storico. Alla base dei racconti vi è un nucleo... che non può essere messo seriamente in discussione... Perfino il racconto dei Magi... non viene rigettato,almeno in blocco» (ivi). Si tratta di una «storia che nelle sue linee essenziali è intrinsecamente probabile» (24). «Storia vera, senza dubbio, ma popolare e religiosa... gli abbellimenti... pseudo-soprannaturali (sogni e apparizioni) ecc. .. non compromettono l'essenza dei fatti» (ivi). 

    E' vero, «la fuga in Egitto e il ritorno in patria fanno pensare alla fuga di Mosè dalla presenza del Faraone... richiamano avvenimenti ancora più antichi... la partenza in massa del popolo dell'Esodo... [e le tradizioni, ossia invenzioni edificanti midrashiche] che illustrano ulteriormente il racconto di S. Matteo [così la immaginaria persecuzione di Labano a Giacobbe può avere ispirato la figura di Erode che perseguita Gesù, ecc.]... Così il fondo di Matteo 1-2 va spostandosi dalla vita di Mosè agli avvenimenti... di Israele [con il risultato di] arricchire, approfondire la portata dei fatti che apparentemente non eccedono le dimensioni di un comune aneddoto... acquistando le proporzioni dell'intera fase preparatoria della salute... La preoccupazione dell'autore... è che l'episodio si accosti aimodelli preesistenti oltre e più che alla realtà [ricollegandosi] alla esegesi edificante, omiletica, teologica, folcloristica degli scrittori ascetici, degli oratori sacri, dei Padri, dei maestri medievali, come con le ricostruzioni dei narratori popolari... [il che] non contrasta con la dignità del libro sacro e non compromette la realtà dei fatti annunziati» (37 ss.).

    «Questa introspezione del fondo di Mt 1-2 sorprenderà più di uno, ma non può essere... rigettata a priori, soprattutto perché si è ancora ai primi tentativi. [Ma, come è logico, il metodo non può restare riser­vato a questi due soli primi capitoli). Anche nel resto del vangelo di S. Matteo si hanno esempi del genere (cfr. il racconto delle tentazioni, della trasfigurazione, della morte di Giuda, del sogno della moglie di Pilato, ecc.)» (42).

    Certo non se ne sorprende il ch.mo Léon Dufour, citato in nota dal P. O. (p. 42), il quale, circa i racconti di Mt 1-2, con disinvolta sicurezza afferma: «senza dubbio... appartengono a questo genere edificante ed esplicativo, strettamente riallacciato alla Scrittura»; «senza timore di errare si può affermare che il midrash di Mosè ha suscitato un reale influsso sulla fonte del racconto di Matteo».

    A me sorprende invece soprattutto un fatto: che questi studiosi facciano mostra di non accorgersi che con tali criteri - a parte il loro con­trasto con la bene intesa ispirazione biblica - quella famosa base, quel famoso fondo, quel famoso nucleo della narrazione evangelica si dissolvono, in realtà, nella indeterminatezza di valutazioni elastiche e incerte quanto elastiche e incerte sono le presunte intenzioni, i presunti spunti scritturali o favolosi, che l'uno o l'altro esegeta, in modo diverso, sulla scorta di pure analogie e di personali intuizioni e preferenze, crede di potere attribuire all'agiografo. 

    Con questi criteri, come si può sicuramente affermare che in un certo punto finisce l'amplificazione favolosa e comparisce il nucleo storico? Perché, più coerentemente, non affermare che il tutto rientra nel genere letterario mitico? Perché mai, infatti, per es., ritener favoloso l'intervento angelico e non la maternità verginale (che infatti il nuovo catechismo olandese non ha voluto proclamare), o non, addirittura, la incarnazione del Verbo? 

    Non è quindi ragionevole qualificare come approfondimenti e arricchi­menti esegetici queste analisi disgregatrici. E si dimostrano di ben facile accontentatura quei critici che, chiamati «comuni aneddoti» da svalutare (cfr. 41) le poche, ma precise e preziose circostanze dell'infanzia di Gesù, si appagano poi d'un fondo storico essenziale soltanto «intrinsecamente probabile» (24) e argomentano su così grandi eventi soprannaturali in base a evasivi concetti come quelli di «inverosimiglianza» o «verosimiglianza» (36, 48, 49, ecc.). 

    Ma terminerò il paragrafo con qualche saggio particolare di questi  esegeti. Il citato M. Iglesias (37) non potendo ammettere che la stella dei Magi sia stata «una vera costellazione che si sposta da una parte all'altra del cielo» ne deduce senz'altro che l'«astro è un elemento immaginario, un simbolo». Metodo molto sbrigativo. Ci voleva tanto a supporre invece che si sia trattato di un fenomeno miracoloso presentatosi vicino alla terra, che aveva l'apparenza di una stella? 

    Léon Dufour, pure citato in nota da P. O., per difendere la verità essenziale dei fatti osserva che per negare la storicità di un racconto bisognerebbe dimostrare che esso è storicamente impossibile e che sia stato inventato integralmente dall'autore. Benissimo. Ma perché ciò dovrebbe valere solo per il racconto integralmente considerato e non ano che per le circostanze così accuratamente descritte? Almeno si limitasse a dubitare della non autenticità di queste circostanze! Macché! Egli abbandona al riguardo ogni moderazione critica, e dice: «senza dubbio», «senza timore di errare» (42).

    Ecco ora un saggio critico di P. O., a riguardo del «racconto della concezione e nascita del Salvatore» (44 s.). Egli vuol dimostrare che la drammatizzazione, ossia l'adornamento fittizio, non può aver «creato di sana pianta l'intero racconto». Il famoso fondo storico sembra dunque potersi ridurre a una piccola radichetta (essendo esclusa solo la «sana pianta» fittizia). Di fatto però questa radichetta corrisponderebbe a tutto «il fatto centrale», ossia a «la genesi miracolosa del Messia», sulla quale «nessun dubbio è possibile». 

    Tale dubbio sarebbe invece possibile quanto ai «contorni descrittivi» (come «la crisi di Giuseppe, il sogno, l'apparizione angelica, ecc.») dei quali si potrebbe escludere la storicità. Questo significa che la certezza storica può essere esclusa da tutta l'ampia descrizione, eccetto l'affermazione primaria del v. 1, 18. Ma tutta la descrizione non rientra organicamente in un chiaro intento di precisazio­ne, espresso dall'evangelista con queste esplicite parole: «la nascita di Gesù avvenne così»? Esclusa l'autenticità per quei «contorni descrittivi», perché essa andrebbe invece affermata per quel «fatto centrale»? Quali sono le misteriose ragioni per affermare la privilegiata autenticità di quel «fatto centrale»? 

    Sarebbero due. La prima è che l'evangelista «ribadisce la notizia [della miracolosa nascita]ripetute volte (1, 16. 18. 20. 23. 25)»: ma non si capisce perché il ribadire la notizia, mescolandola con fantasiosi racconti, aggiunga valore alla notizia stessa, anziché infirmarla. La seconda è costituita dalle «prove» addotte, tra cui, in prima linea, la particolareggiata «esperienza di Giuseppe» (45): proprio quella esperienza la cui autenticità P. O. afferma di potersi mettere in serio dubbio! Sicché la prova principale del fatto nascerebbe da una invenzione! 

    P. O. insiste tuttavia su questo punto. L'evangelista - dice P. O. - vuole effettivamentedimostrare la soprannaturale nascita di Gesù, senza preoccuparsi della verità del raccontocirca S. Giuseppe. Il fatto è garantito «dalle affermazioni dell'evangelista» e non da quelle di San Giuseppe e d'altra parte «una dimostrazione può basarsi anche... su fatti fittizi». Questi, nel caso, servirebbero solo a confermare l'«affermazione dell'evangelista». Similmente la verità storica della «caduta dei progenitori... non perde nulla... se è basata su una ricostruzione immaginaria». 

    Qui le confusioni si accavallano alle confusioni. L'analogia con la narrazione della caduta è infondata. A parte che quella narrazione non viene fatta - a differenza dei Vangeli - da testimoni diretti o quasi diretti (da cui è ovvio che si debba aspettare la precisione dei particolari), un ipotetico simbolismo di alcune circostanze della caduta originale non sarebbe che un modo popolare per affermare semplicemente il fatto, senza alcun valore diprova del fatto stesso. 

    L'«esperienza di Giuseppe» invece è presentata con il carattere di una probante con­ferma della verità del concepimento verginale, sicché una sua ipotetica finzione costituirebbe un gravissimo inganno per il lettore. Si tratta cioè di sapere se il miracoloso concepimento può appoggiarsi o meno sulla importantissima esperienza e testimonianza di S. Giuseppe. In caso affer­mativo, questa rientra in maniera fondamentale nei piani della Provvidenza per la sicura rivelazione al mondo della Incarnazione del Verbo e fa indissolubile blocco con il fatto essenziale stesso; in caso negativo, la sua affermazione sarebbe un gravissimo falso. E un tale ipotetico gravissimo falso distruggerebbe ogni ragionevole fiducia nella veridicità del narratore e quindi nell'autenticità del fatto stesso essenziale: l'«affermazione dell'evangelista», a riguardo del fatto stesso essenziale, non avrebbe cioè più alcun peso di valida «dimostrazione». 

    Inutile d'altra parte sarebbe, in sede critica, rivendicare la validità dell'essenziale affermazione dell'evangelista, in base alla infallibile tradizione e all'infallibile ispirazione. E' ciò che questi esegeti sembra che stentino a comprendere. 

    L'accettazione di tale infallibile tradizione e ispirazione suppone, infatti, in sede critica, l'antecedente dimostrazione della verità dell'Uomo-Dio Gesù, della sua rivelazione e della sua Chiesa, intesa, quest'ultima, come infallibile trasmettitrice della rivelazione, e come capace di definire l'infallibilità della ispirazione biblica. Ma la verità storica di Cristo, dalla quale tutto dipende, suppone la veridicità dei testimoni e dei biografi, sintomaticamente garantita dall'obiettività dell'inquadramen­to circostanziato degli eventi. Se un testimone, diretto o quasi, narrasse un fatto senza alcun inquadramento circostanziato, potrebbe ancora meri­tare fede, pur dando minore segno della sua testimonianza di prima mano; ma se lo narra con un inquadramento circostanziato essenzialmente falso, criticamente, non merita più fede. 
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    00 01/05/2013 18:38


    L'INFANZIA IN S. LUCA 

    Il dramma della esegesi moderna, puntualizzato
    . - Tale dramma non consiste nella mancanza di buona esegesi e di maestri di sicurissima dottrina (altro che ci sono!); ma nel fatto della crescente diffusione di una disgregatrice esegesi progressista, alimentata, con le migliori intenzioni, da una catena di dotti biblisti che scrivono molto, che si citano a catena, che si presentano come gli unici «à la page». Il dramma consiste soprattutto nel fatto che tale esegesi sta trovando sempre maggior credito nel campo cattolico, che ha la massima responsabilità, di fronte a Dio e agli uomini, per la difesa della verità scritturale. 

    Questo sintomatico libretto del Rev.mo P. Ortensio affronta, da p. 66, con criteri perfettamente uguali a quelli usati per i primi due capitoli di S. Matteo, la valutazione della portata storica dei primi due di S. Luca. Potrei ripetere tante cose già dette per Matteo. 
     
    Ma innanzi tutto interessano le pp. 67-69, nelle quali P. O. nel trattare di Lc 1-2 inquadra tutto il problema della esegesi moderna, ricapitolandone e puntualizzandone il dramma: egli infatti ricapitola e giustifica le posizioni di questa nuova esegesi. Secondo il suo riassunto, nel secolo scorso esplose la radicale critica razionalista hegeliana dello Strauss (1808-1874) e degli altri indipendenti (come P. O. chiama pur tanti che furono schiavidella pregiudiziale anticattolica e antireligiosa), critica che rifiutò ogni contenuto soprannaturale del Vangelo, ritenuto come inve­rosimile e leggendario, a cominciare, naturalmente, dal Vangelo della Infanzia. 

    «Nonostante la faziosità e gli estremismi» tale «critica indipendente» aveva «scoperto un problema reale sino allora sconosciuto» circa il «concetto di storicità evangelica». Ma purtroppo il problema restò ancora chiuso per un secolo ai cattolici, incapaci di vera «obietti­vità» [gratuita accusa al campo cattolico!] perché, anziché trarre insegnamento dall'impostazione critica degli «indipendenti» [essi obiettivi!], restarono «arroccati» nelle posizioni tradizionali, seguitando ingenuamente [Lagrange compreso] ad attenersi al «senso ovvio dei racconti evangelici». 

    Ma finalmente anche i cattolici acquistarono «maggiore obiettività», facendo attenzione alle «questioni di forma» e considerando [per es. in Lc 1-2) gli schematismi artificiosi della trattazione, il ricco substrato biblico veterotestamentario, le inverosimiglianze di pura finalità didascalica, gli intenti apologetici di Lc 1-2. A distanza di un secolo dalla non bene risolta, ma utile problematica del razionalista Strauss, finalmente cattolici e indipendenticominciarono, da alcune de­cine di anni, a camminare a braccetto, «quasi di comune accordo», nella strada della nuova esegesi critica, mirando a cogliere sempre meglio la verità di «fondo», nascosta sotto la forma verbale, materiale, esteriore, ossia a scoprire «l'esattezza cronistorica e cronologica delle notizie e delle affermazioni dell'evangelista» (112).
     
    Non fa alcuna meraviglia la consueta ultima affermazione. Questi volonterosi esegeti, quanto più svuotano e rendono incerto il contenuto evangelico, tanto più parlano di approfondimento, di arricchimento, di esattezza. Eufemismi? Difetto logico? Insincerità? Basta ricordare quanto notai per S. Matteo; e altro vedremo per S. Luca. 
     
    Cattolici e miscredenti. - Il dramma è tutto svelato, alle sue radici, in quel procedereinsieme - «quasi di comune accordo» - credenti e miscredenti. Ciò significa avere ceduto alle obiezioni della miscredenza di un secolo fa. Oggi infatti è quasi inutile, specialmente nelle introduzioni bibliche, guardare se il libro porta l'Imprimatur, perché cattolici e non cattolici li vediamo in gran parte confluire nelle medesime tesi antitradizionali.

    Ci si guardi bene dallo svalutare lo shldio del «genere letterario» della narrazione evangelica, la cui importanza è stata felicemente messa in evidenza nell'esegesi moderna: esso è infatti indispensabile per comprendere quello che l'agiografo ha voluto dire (ed è stato perciò novamente raccomandato dal Concilio: R, 12: deh. 892). Neanche si deve negare l'apporto documentario e problematico che può venire anche da studiosi miscredenti. 

    Ma è impossibile, in via ordinaria, procedere affiancati nei risultati esegetici. E ciò proprio supposto l'impiego dei medesimi rigorosi criteri d'indagine, come già notai nel primo cap. di questa parte (cfr. 181 s.). 
     
    Infatti - per fare qualche esempio - l'inverosimile andra bensì, da tutti, criticamente scartato. Ma il razionalista, negatore, a priori, di ogni realtà soprannaturale, considererà come inverosimile ogni miracoloso intervento divino; il cattolico invece sarà libero di affermarlo o negarlo secondo i casi e, nel contesto scritturale di supremi avvenimenti divini (l'Incarnazione) circostanziatamente descritti, dovrà logicamente essere tutt'altro che facile ad ammetterlo. 

    Le analogie con le narrazioni veterotestamentarie potrebbero indubbiamente anche tradire delle artificiose elaborazioni devozionali e didascaliche. Ma, mentre il razionalista è praticamente obbligato ad affermarlo, il cattolico può invece scoprirvi un riflesso della provvidenziale colleganza e unità del Vecchio e del Nuovo Testamento, essendo il primo preparazione al secondo. 

    Il ripetersi di rassomiglianti schemi narrativi delle due annunciazioni può spiegarsi sia come artificioso montaggio, sia come armonia di fatti reali, sapientemente così regolati da Dio, per due eventi tra loro strettamente congiunti. Il razionalista non può ammettere che la prima soluzione, mentre il cattolico ha buone ragioni per preferire la seconda.

    Un succedersi di circostanze narrative dimostrative e convalidatrici del fatto principale, potrebbe certo far criticamente prospettare l'ipotesi che ciò costituisca un artificioso espediente apologetico. Il razionalista preferirà senz'altro tale ipotesi, mentre il cattolico troverà invece molto ragionevole che la Provvidenza abbia obiettivamente fatto maturare gli eventi in un quadro dimostrativo che li garantisca. 
     
    Ma, più in generale, la disparità di valutazione tra credenti e miscredenti si avrà inevitabilmente quanto alla basilare determinazione del genere letterario. L'ipotesi, per il Vangelo dell'Infanzia, di un genere che sia storico soltanto quanto al fondo e non quanto alle circostanze esteriori, infirma, in realtà, tutto il valore della narrazione. Infatti, come già feci notare, nessuno potrà mai dire con sicurezza dove termina l'esteriore e dove comincia il fondo; inoltre, e principalmente, in una narrazione testimoniale come quella dell'infanzia, scritta da chi «ha investigato accuratamente ogni cosa fin dall'inizio» (Lc 1, 3), la verità dei vari circostanziati episodi è l'unica solida garanzia della verità della sostanza. A differenza pertanto del miscredente, che non avrà difficoltà ad ammettere tale invalidazione della testimonianza evangelica, l'esegeta cattolico non può supporre che alla base della rivelazione storica di Gesù vi sia una tale imponderabile e incoerente documentazione; né può supporre che lo Spirito Santo abbia ispirato una così inefficace narrazione documentaria.
     
    Lo Spirito Santo, rispettando le caratteristiche personali e culturali dell'Agiografo e dei tempi, non ha fatto scrivere certamente una storia documentaria, minutamente e rigorosamente circostanziata e inquadrata, nel tempo, nei luoghi, nelle cose e nelle persone, secondo il raffinato stile moderno. Ma non può aver fatto scrivere nemmeno una storia così mescolata alla fantasia da distruggere se stessa, annullando la sua essenziale funzione documentaria e testimoniale. 
     
    Antico e Nuovo Testamento. - Nessun confronto può essere fatto con la storia, per es., dell'Esamerone e dei primi capitoli del Genesi, che è informativa, ma non testimoniale. In essa la strutturazione artistica e la parte simbolica non costituiscono alcun inganno e non infirmano l'insegnamento, bensì costituiscono solo un modo di presentazione popolare. Nella storia dell'infanzia invece le supposte artificiosità si risolverebbero in inganno, e infirmerebbero la validità di tutto il racconto, il che è incompatibile con la infallibile verità della ispirazione biblica. D'altra parte il modo di narrazione di S. Luca ed i suoi intenti esplicitamente dichiarati non giustificano affatto tali supposizioni.

    Si rifletta anche, nel confronto con i primi capitoli del Genesi, al significativo diverso linguaggio del Magistero. Pio XII nella Hum. Gen.) a proposito dei «primi undici capitoli del Genesi», afferma che «appartengono al genere storico in un vero senso», precisando però che, con un «parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere umano e del popolo eletto» (39). 

    Quanto ai Vangeli invece il Vaticano II ha ribadito «senza alcuna esitanza la storicità» e nello spiegare di che genere di storia si tratti, ha puramente precisato che essi «trasmettono fedelmente quanto Gesù Cristo Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza» (R, 19: deh. 901; cfr. 890). Nessun accenno a un «parlare semplice e metaforico... popolare, ecc.». 

    Né si può cavillare su una pretesa distin­zione tra Vangelo dell'infanzia e restante Vangelo, anche se nel primo vi sono caratteristiche proprie spiegabili con l'oggetto della narrazione. Il testo conciliare infatti ignora totalmente tale distinzione, parlando soltanto e integralmente dei «Quattro Vangeli». D'altra parte la natività rientra come principale atto nella «vita di Gesù tra gli uomini»; e tra le cose che egli «operò» vi sono quelle compiute fin dal seno materno, descritte da Luca. 
     
    Gravità del dramma. - La gravissima portata di queste posizioni di buona parte dell'esegesi moderna emerge riflettendo al conseguente crollo della granitica sicurezza della veridicità del libro ispirato. A tale sicurezza si sostituisce la dissolvente illusione di raggiungere lo strato veramente sicuro di «fondo», strato che essendo invece investigato con un tipo di analisi estremamente elastico e mutabile e con diversissime valutazioni - fatte a intuizione e a sentimento dai diversi studiosi  non può che restare incerto. Ed è un'analisi, come si sa, che viene estesa a tutto il Vangelo.
     
    Quando poi i cattolici rifiutano tale elastica analisi solo quanto ai testi essenziali attinenti ai dommi definiti (come quelli, per es., relativi alla Eucaristia), si condannano all'incoerenza. Se coerentemente l'applicassero anche a quei testi li dissolverebbero. E non pochi purtroppo, proprio per coerenza al metodo esegetico ormai adottato, varcano il fosso. Quando, poco dopo che era uscito, lessi l'articolo del brillante biblista F. J. Schierse S.J., inBibel und Leben del dic. 1960, sul Vangelo dell'Infanzia, tutto ispirato a questi princìpi, segnai in nota: «con questa dottrina crolla la fede». Alcuni mesi dopo purtroppo il P. S., invano richiamato dai superiori, gettò l'abito. E si sa in questi ultimi anni quanti illustri nomi lo hanno seguito. Un giovane, brillante professore, dichiarò apertamente: «Mi hanno tolto la fede». 
     
    Scardinata la storicità sostanziale di Lc l, 2. - Ecco, per es., a cosa si ridurrebbe la verità di «fondo» dei primi due capitoli di S. Luca. Seguo, rapidamente, il libretto di P. Ortensio.

    Egli parte da una premessa che vorrebbe essere rassicurante: «La storicità sostanziale di Luca 1, 2 non può essere messa in serio dubbio» (71). Si ha in realtà subito l'impressione che l'assicurazione non sia sufficientemente recisa. Che vuol dire: sostanziale? E poi unqualche dubbio (bensì: non serio) sembra ammesso. Ma passi. 

    A p. seguente però sembra già crollar tutto. Tale narrazione infatti non sarebbe «una cronaca oggettiva... senza artificiosità, sovrastrutture, abbellimenti». Ora, se manca l'oggettività non si vede davvero che valore abbia la riconferma che «non ne compromettono il carattere storico» (72): storicità significa oggettività. 
     
    Le affermazioni effettivamente scardinatrici di ogni oggettività seguono poi, l'una dopo l'altra. Ne riporto alcune.

    «Le annotazioni cronologiche dei mesi e dei giorni... difficilmente, afferma Zerwick. .. rivelano una preoccupazione di esattezza cronologica o biografica» (77). - Così una caratteristica nota di concretezza e di obiettività viene arbitrariamente dissolta.

    Luca «nel raccontare le esperienze dei suoi protagonisti o nell'annunziare la loro missione [nel che consiste tutta la sostanza del Vangelo dell'Infanzia] invece di affidarsi ai soli... fatti [come aveva promesso in 1, 3] o alle risorse della propria fantasia [che già infirmerebbe ogni sicurezza di autenticità]... si ispira largamente anche alle narrazioni analoghe del V. T. [cioè a fatti diversi di quelli che Luca ha dichiarato di narrare] o della letteratura giudaica contemporanea [non storica]» (77). - Impossibile in questa ipotesi sceverare i fatti dalle invenzioni

    «Secondo P. Benoit... l'annuncio della nascita di Giovanni [si modella] sui racconti giudaici del tempo... Per Audet, seguito da Iglesias... il modello... nell'annuncio della Vergine è il racconto della vocazione di Gedeone» (81). - Le narrazioni essenziali dunque sono artificiosamente modellate

    «Il Magnificat (come dice lo stesso Laurentin) è posto sulle labbra della Madonna dall'agiografo... rivela la medesima cultura del resto del vangelo... si presenta come un prodotto del medesimo ambiente... in cui è nato il racconto dell'Infanzia... è un midrash» (85). - Il tutto cioè è una libera meditazione esegetica edificante (85).
     
    Luca «cerca una coincidenza più profonda tra la storia passata e la recente... e poiché i modelli antichi sono irreformabili, l'evangelista è costretto ad adattare i fatti recenti che ha in mano» (89). - Mirabile coincidenza davvero, come quella delle vittime del brigante Procuste, che venivano amputate o stirate fino a combaciare col prestabilito letto; la povera vittima sarebbe il deformato vangelo.

    Così, non sembrerebbero oggettivi, più o meno, la «fretta» di Maria, l'annunciazione conclusasi «prima» della visitazione (93, 103), l'«accorrere» dei pastori, il «grido» di giubilo di Maria «subito» dopo l'incontro, l'«incredulità e la punizione di Zaccaria», il «ritiro di cinque mesi» di Elisabetta (94), la «reale» apparizione dell'angelo (96), la «sterilità» di Elisabetta (97), il «proposito verginale» di Maria (97 s.), la profezia di Simeone fatta personalmente a Maria, essendo stata forse nominata Maria (P. Benoit) solo come «simbolo della comunità messianica» (104), e così via.
     
    Che resta di sicuro? E sono tutte affermazioni superficialmente dedotte da «inverosimiglianze» arbitrariamente affermate e da «analogie» spiegabilissime con la verità dei fatti. (Ne analizzerò alcune, particolareggiatamente, in seguito). 
     
    Perché non chiamare allora senz'altro S. Luca un metodico ingannatore? Perché seguitare a presentare come un utile «espediente stilistico» la sua gravissima calunnia - che P. O. non manca di riconoscere tranquillamente come «sconveniente» (105) - di «tacciare d'incredulità» il povero Zaccaria, soltanto per mettere in risalto la fede di Maria? Con quale coerenza affermare (come la fede impone) che «la verginità di Maria è un fatto indiscusso» (98), dopo avere infirmato le caratteristiche essenziali del colloquio dell'annunciazione, dopo aver affermato che «nella trama del Vangelo tutto è funzionale» (100), dopo avere definito la «sterilità» di Elisabetta come «finzione letteraria» per sottolineare l'«opera esclusiva di Dio nel piano salvifico» (97)? Perché non far rientrare nella pura «finzione letteraria» per sottolineare più efficacemente tale «opera esclusiva di Dio», anche il concepimento di Gesù per sola opera dello Spirito Santo (cfr. Cat. Olandese); anzi perché non farvi rientrare addirittura (vero massimo sottolineamento) l'Incarnazione del Verbo? 
     
    Eppure tutto ciò - seguitano a ripetere - «non compromette il carattere storico» del libro; «i fatti sottostanti [quali?] a Luca 1, 2 sono veri [perché?], ma l'autore li ha ricomposti con criteri personali» (72). - Come una macchina arbitrariamente e falsamente rimontata, tale racconto non funziona più. 

    «Il contenuto dottrinale risulta determinato nel modo più sicuro» (91). - In realtà, dissolvendone il sicuro fondamento storico, esso perde ogni valore. 
    Un «principio teologico» può essere ugualmente «dimostrato attraverso fatti reali» o «attraverso una finzione» (97). - Affermato, sì, dimostrato, no

    «L'intento principale del Vangelo dell'Infanzia è... annunziare un alto messaggio cristologico» (102). - No, è annunciare il fatto dell'incarnazione, che andava garantito con obiettive circostanze. 

    «La migliore teologia di Lc. 1, 2 è confinata nelle profondità [ossia nelle oscure, incertissime ed esteriori analogie] del sustrato veterotestamentario, nascosta oltre il suono materiale delle parole... e degli artifici stilistici» (107). - Dunque a questi si ridurrebbe «ogni cosa accuratamente investigata fin dall'inizio» (Lc 1, 3); dunque ciò che Luca chiaramente ha detto è falso, ciò che non ha detto, ma che oscuramente avrebbe additato, è vero. Frasi di questo genere sembrano una presa in giro del lettore. 

    In questo modo «la figura e l'opera (del Salvatore) si precisano e si definiscono del modo più convincente» (109). - Dopo avere arbitrariamente dissolto ogni ragionevole fiducia nella obiettività storica della sua esistenza! (109). 
     
    Punizione di Zaccaria. - L'analisi di questa pretesa inverosimiglianza è particolarmente istruttiva. «L'incredulità e la punizione di Zaccaria afferma P. O. - rimangono difficilmentespiegabili se presi come dati obiettivi» (94). «Quando si pensa ai casi analoghi del Vecchio Testamento... non si vede perché non sia legittima la domanda di Zaccaria» (ivi). Inoltre «Maria chiede ugualmente una prova che la convinca ad accettare la divina proposta» (76 n. 35). 

    Se la domanda fu legittima in lei, perché non in Zaccaria? E' dunque probabile che si tratti di un «espediente stilistico per esaltare la fede di Maria» (106 n. 87). Infatti «la poca fede del sacerdote fa meglio risaltare e ammirare la pronta accettazione della Madre di Gesù. Per accentuare questa superiorità... l'evangelista oltrepassa perfino i limiti dellaconvenienza. Per esaltare la fede di Maria non teme di tacciare di incredulità Zaccaria» (105).

    Tutte queste riflessioni perdono in realtà ogni mordente davanti allo elementare rilievo che il credere o non credere di Zaccaria non dipende solo dalle sue parole, ma dagli interni sentimenti che le dettarono; e questi, per testimonianza dell'angelo, illuminato da Dio, furono di incredulità: «perché non hai creduto» (Lc 1, 20). Dunque non difficile, ma chiarissima spiegazione. L'episodio è rivelatore dello stato d'animo di Zaccaria e come tale va criticamente preso. Si potrebbe parlare di inverosimiglianza se qualsiasi ipotetica crisi di fede del santo sacerdote fosse da escludere, il che ovviamente non è. Il rigore critico non consente di rettificare il valore obiettivo della narrazione di S. Luca, in base a una presupposta e ipotetica piena rettitudine di Zaccaria, ma viceversa insegna a dedurre i sentimenti interni di Zaccaria in base alla narrazione. O così o Luca sarebbe un riprovevole calunniatore. 
     
    Però anche le stesse parole di Zaccaria indicano abbastanza apertamente il dubbio: «Da cosa potrò conoscere questo?» (ivi 18). Le parole della Madonna invece non chiedono - come dice il P. Ortensio - «una prova che la convinca» (come Zaccaria), bensì chiedono ilmodo, in relazione alle iniziative da prendere, secondo il divino volere: «Come avverrà questo?» (ivi 34). 

    Che ciò sia vero per la Madonna è confermato dal fatto che la pretesa «prova» sarebbe stata insignificante, giacché Maria avrebbe dovuto prima andare ad accertarsi del fatto da S. Elisabetta e poi tornare a dar l'assenso. Il ch.mo autore, in realtà, in piena coerenza con questa fantasiosa esegesi, non manca di prospettarsi la probabile inversione dei due episodi. Dio infatti non può avere «imposto a Maria un atto di fede irragionevole, cioè senza basi storiche adeguate» (103, n. 83); e queste le sarebbero state date proprio dalla visita a Elisabetta. Pertanto il «chiudere l'Annunciazione [subito] con l'Incarnazione» può essere stato un puro adattamento di Luca, affinché la visita a S. Elisabetta «ripetesse il tragitto dell'Arca verso Gerusalemme», il che richiedeva che «Maria fosse presentata già Madre di Dio» (93, n. 65), mentre in realtà lo sarebbe divenuta dopo. Così facendo però - ecco le mani avanti che questi illustri esegeti sogliono sempre mettere, con disinvoltura - S. Luca non «inventa, ma solo armonizza, dà una personale forma agli avvenimenti...» (ivi). 
     
    Ma, di fatto, più invenzione di così! Si tratta infatti di una inversione che addirittura capovolgerebbe lo stato d'animo di Maria e la renderebbe oggetto infondato delle parole di elogio di Elisabetta. 

    Ammessa invece l'obiettività del racconto, la ragionevolezza della risposta di Maria apparisce perfettamente fondata. Essa ebbe infatti l'evidenza della soprannaturale natura del messaggero celeste (che doveva essere chiara tuttavia anche a Zaccaria). Il merito della fede, a sua volta, è dato dall'immediata adesione alla inaspettata e strabiliantemissione comunicatale (immediata adesione provata dalla richiesta del modo, che suppone la già avvenuta accettazione del fatto). Era infatti una missione così sublime e un evento così meraviglioso, che, nonostante la certezza della comunicazione angelica, non avrebbe potuto non suscitare in qualunque altro, in ordine pratico, un movimento per lo meno di sospensiva perplessità, per non dire di pratica incredulità. 

    In questa era caduto infatti (e per tanto meno) Zaccaria, che perciò fu punito (v'è un'analogia con la punizione di Mosè che colpì ripetutamente per difetto di fiducia, la rupe dalla quale, per divina promessa, doveva scaturire l'acqua: cfr. Nm 20, 8-12), mentre non vi era caduta minimamente Maria. E fu fede eroica perché la missione implicava una maternità, in terra, dolorosissima, in relazione allo straziato figlio, vittima di Redenzione (convenientemente nota a Maria per le profezie e la speciale illuminazione che eventualmente ella dovette avere, affinché desse un responsabile assenso). Tutto nel racconto lucano si spiega dunque perfettamente. 
     
    Perché, allora, fu comunicata a Maria la miracolosa maternità di Elisabetta? Non fu per dare una prova di ciò a cui Maria aveva già pienamente creduto; bensì per accostare tra loro i due meravigliosi interventi divini, i quali, essendo obiettivamente e strettamente congiunti, era bene che fossero entrambi conosciuti dalla Vergine. Ciò costituì anche un implicito invito a recarsi caritatevolmente «con premura» (come meglio si può tradurre il testo greco, anziché «con fretta»: cfr. Lc 1, 39) dalla parente.

    La sua carità sarebbe poi stata premiata dalle ben note fecondissime manifestazioni di grazia. 
     
    Il ritiro di S. Blisabetta. - «Un altro rebus per gli esegeti - dice ancora P. O. in quel libretto - è questo ritiro improvviso e immotivato di Elisabetta dopo la concezione del bambino» (94, n. 69). Esso sarebbe «storicamente inspiegabile, al pari del prolungato ammutolimento eli Zaccaria» (106, n. 88). Probabilmente sarebbe un'invenzionedell'evangelista, che se ne serve per «tener celato il miracolo di Elisabetta fino alla prossima apparizione angelica [alla Madonna]»: e ciò allo scopo eli sottolineare «lafunzionalità di segno che ha la gravidanza di Elisabetta» e di mettere «in rilievo la parte che ha Dio in tutta la storia» (ivi). 

    Proprio così? Ma allora sarebbe stato alquanto malaccorto e contraddittorio il povero S. Luca. Egli infatti - secondo questa esegesi - per far rassomigliare il viaggio della Madonna a quello «dell'Arca verso Gerusalemme», avrebbe anticipato la risposta conclusiva della Vergine, ossia posticipato la visita a S. Elisabetta (93, n. 65). Ma con ciò veniva compromessa proprio quella «funzionalità di segno» che egli voleva sottolineare nella gravidanza di Elisabetta: essa infatti sarebbe stata controllata soltanto dopo l'assenso. 

    Che fare? Rimettere l'assenso a dopo la visita? Sarebbe stata la via più semplice per valorizzare quella «funzionalità di segno», ma ne veniva compromessa la non meno amata equazione Madonna-Arca. Un vero supplizio di Tantalo. Allora pensò di mantenere quella posticipazione della visita, sottolineando però mediante quell'antecedente artificiosaclausura la scoperta fatta da Maria della maternità di Elisabetta. Ma non si accorse che questa clausura sarebbe comparsa ai lettori come «inspiegabile», e che quel famoso «segno» sarebbe restato ancora del tutto inoperante per la suddetta ragione di manifestarsi quando era stato già dato l'assenso. Quanto poi a quel voler anche mettere «in rilievo la parte che ha Dio in tutta la storia», Luca prese una vera gaffe perché «la parte di Dio» è fatta di cose vere, non inventate. 
     
    Abbandonando invece queste pretese acutezze esegetiche e restando alla pura obiettività della narrazione, tutto risulta chiaro. Naturalmente non si potrà fare lo studio di questi episodi sulla sola base delle consuetudini e degli stati psicologici umani puramente naturali e comuni. Ciò sarebbe anticritico, perché si dimenticherebbero i fattori storici fondamentali, quali sono la natura dei personaggi e degli eventi. 

    L'occultarsi pertanto di Elisabetta (opportunamente preceduto dal silenzio imposto a Zaccaria) anziché circostanza inspiegabile, costituisce, nel quadro concreto di questi divini avvenimenti, un prezioso sigillo di autenticità e di armonia tra le due narrazioni dell'Infanzia, di Matteo e Luca. Esso svela l'identica ispirazione dello Spirito Santo, che, mentre suggerì gli impenetrabili silenzi di Maria con S. Giuseppe (Matteo), sollecitò Elisabetta a sottrarsi all'altrui curiosità (Luca). In entrambi i casi si trattava di non anticipare minimamente i tempi voluti dallo Spirito Santo per la manifestazione di questi grandi avvenimenti: e ciò con tanto più premurosa cura in quanto erano appunto avvenimenti di divina manifestazione. In particolare lo Spirito Santo ispirando tale silenzio e ritiro a Maria e a Elisabetta, fece svolgere le cose in modo che nella visita della Madonna il Precursore, si manifestasse, per la prima volta, alla presenza del Salvatore, che egli aveva il compito di additare. 

    Un elementare senso critico, del resto, avrebbe dovuto far riflettere che proprio la «inspiegabilità» di tali comportamenti, visti in chiave umana comune, esclude che siano stati artificiosamente inventati (chi mai avrebbe proposto situazioni inspiegabili?). Essi invece suggeriscono subito una profonda realtà, del tutto coerente con questi misteri divini.
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    00 01/05/2013 18:42

     ESEGESI SCOTTANTE SUL MISTERO PASQUALE

    Cerco un bel commento moderno sulla passione e risurrezione di Gesù. Il libraio dice che di attualità non ha altro di pregevole da consigliare che il volume Passione e resurrezione del Signore dell'illustre domenicano Pierre Benoit, direttore della Scuola Biblica di Gerusalemme (trad. Gribaudi ed., 1967). Nel catalogo delle Editions du Cerf sono riportati infatti vari calorosi giudizi sull'originale francese. J. J. Weber, Arcivescovo di Strasburgo: «Questo libro di esegesi è un libro di vita spirituale e di formazione pastorale. Quante visioni commoventi... quante osservazioni sagge su come deve essere un apostolo del nostro tempo!... Un libro di luce e di pace per le intelligenze». In Verbum Caro: «Un ammirabile libro di meditazione». 

    In Prétres diocésains: «Si raccomanda nel modo più caloroso quest'opera magistrale, che illumina il mistero pasquale e quindi tutta la liturgia» . Nella Civiltà Cattolica (21 sett. 1968: G. De Rosa): «I vantaggi di questo metodo sono evidenti... Questo volume... ha anche un alto valore spirituale... raccomandiamo vivamente la sua lettura». Immagino pertanto che il libro vada a ruba. Quanto a La Scuola Cattolica (3 - 1967, 389 ss.), nel recensirlo, dice che esso «interessa la sempre più scottante esegesi dei Vangeli... si muove secondo i binari della più recente e critica esegesi moderna... è pure fortemente sconcertante». Lo sconcerto non sembra preoccupare però il recensore che augura al libro «larga fortuna anche in Italia». 

    Riconosco che nel libro vi sono belle pagine. Quanto al resto sono del sommesso parere che non sia per niente utile sconcertare i lettori; tanto meno con questi sistemi esegeticisbrigativi, che è quanto dire superficiali; e ancor meno sul culminante mistero della morte e risurrezione di Gesù. 

    Scorrendo queste pagine si può cogliere un interessante florilegio, metodologicamenteassai istruttivo. Ne dò alcuni saggi. 
     
    BACIO DI GIUDA 
     
    Al saluto e al bacio, secondo Mt 26, 50, Gesù rispose: «Amico, a che sei venuto?»; secondo invece Lc 22,48, Gesù ha risposto: «Giuda, con un bacio tradisci il Figliolo dell'uomo?». P. B. ritiene (68 s.) che sia «vano» chiedersi cosa realmente Gesù abbia detto. Non si tratta infatti di frasi «registrate col magnetofono» - egli dice - ma che hanno voluto solo esprimere «lo spirito della scena», secondo «la psicologia e la teologia» dei rispettivi evangelisti. Di fronte alla prospettiva poi che le due frasi siano state dette successivamente, B. si chiede: «Ma è necessario che siano state pronunciate realmente tutt'e due?».

    Ora, di contro, io mi chiedo se è necessario il contrario - cioè che non siano state pronunciate entrambe - e su che base critica questo contrario venga preferito. In tale preferenza si vede solo il preconcetto esegetico moderno di unificare le cose simili, mentre razionalmente il trascendente contesto della storia evangelica giustifica piuttosto una moltiplicità di arricchimento.

    Nel dubbio, comunque, la presunzione sta per la verità dei testi, salvo positiva prova in contrario. 

    Nessuna difficoltà, d'altra parte, può sorgere qui dal fatto che un evangelista abbia riportato una frase e l'altro un'altra. La verità di entrambe e il loro succedersi è quanto mai naturale: la prima può essere stata detta subito nei pochi istanti tra il saluto e il bacio, la seconda dopo il bacio. 
    Certo, non si chiede l'esattezza da «magnetofono». Si deve contare però sulla notoria abitudine degli orientali, sostenuta dalla loro forte memoria, di riportare esattamente i testi. Tanto più ci si deve contare il riguardo di una così solenne circostanza. In questo caso si può anzi supporre che siano state riferite proprie le precise parole, non soltanto ilpensiero (e tanto meno il solo «spirito della scena» come gratuitamente afferma il B.). Quanto al pensiero, esso è notevolmente diverso nelle due frasi, secondo una diversità psicologicamente comprensibilissima di intensificazione: la seconda sottolinea che il tradimento è avvenuto proprio nell'atto della espressione dell'amicizia. 

    CATTURA 

    «Come i pittori circondano di un'aureola le teste dei santi, così Giovanni avvolge volentieri Gesù di questa maestà divina» (74). - C'è questa differenza però, che l'aureola dei pittori è puramente simbolica e fittizia, mentre le narrazioni giovannee debbono criticamente ritenersi storiche, fino a prova in contrario. 

    La ciurma stramazzata a terra. - Al famoso «io sono» di Gesù «diedero indietro e stramazzarono a terra» (Gv 18, 6). B. esclude il «prodigio». «Basta che, impressionati dalla maestà di Gesù, essi retrocedano un po', urtino nelle radici degli olivi e qualcuno di loro cada all'indietro». Marco e Matteo «non hanno ricordato questo dettaglio» perché esso è, in sé, insignificante. Giovanni invece vi vede un valore «simbolico... questi uomini sono caduti a terra dinanzi al Signore». - Tutto ciò non sembra davvero convincente. Sa di barzelletta. 
    Quanto infatti al silenzio di Mt e Mc (e Lc) esso non dimostra la pochezza dell'episodio più di quanto il silenzio di Gv dimostri la pochezza, per es., dell'agonia dell'orto.

    La supposta esterna «maestà di Gesù», inoltre, non è storicamente verosimile, perché egli aveva invece il viso sfigurato dall'agonia e dal sudore di sangue. D'altra parte se tale esteriore e suggestiva maestà vi fosse stata già avrebbe dovuto produrre questo supposto effetto dominatore al primo incontro con la ciurma e alle prime parole di Gesù: «Chi cercate?». E poi, stiamo criticamente al testo: Giovanni collega il fatto con le parole di Gesù e non con la sua presenza.

    Il retrocedere a quelle parole (che ricordavano il divino «io sono» dell'Es 3, 14) non si può spiegare quindi che come effetto di una miracolosa potenza emanante da Dio, che sospinse gli sgherri fino a farli cadere. D'altra parte l'ipotesi che quei nerboruti soldati, su quel terreno pianeggiante, appena incespicati siano caduti, è inverosimile. Solo il prodigio spiega l'indietreggiamento e la caduta. 

    I TRE RINNEGAMENTI 
     
    Un solo rinnegamento. - Dai quattro Vangeli risulterebbe - secondo B. (106 ss.) - una «moltiplicazione [di rinnegamenti] inverosimile quanto ridicola... s'arriva in tal modo a costruire un piccolo romanzo. Meglio sarebbe riconoscere che gli scrittori sacri, come qualsiasi altro scrittore, hanno fatto uso di una certa libertà narrativa». «Lo Spirito Santo - ribadisce B. - non ha modificato queste condizioni umane e naturali, che non interessano la teologia». Per es. quando Mc dice che Pietro «uscì fuori», mentre poi lo ritroviamo dentro perché viene ulteriormente interrogato, «la contraddizione è lampante»; e se Mc precisa che uscì nel «vestibolo», «queste parole potrebbero essere state aggiunte proprio allo scopo di attenuare questa incoerenza». Sulla linea dell'esegeta protestante Masson, B. prospetta infine l'ipotesi - che egli definisce «intelligente» - di un solo effettivo rinnegamento (108).

    Viene così fatto un crocione su un bellissimo esempio di racconti alquanto diversi, ma ottimamente armonizzabili, che, proprio per la loro diversità, costituiscono una valida conferma della autonoma obiettività dei singoli testimoni. Niente di più naturale, invece, che avendo Pietro attirato l'attenzione in mezzo a tante gente, una volta iniziate le contestazioni contro di lui, esse si siano moltiplicate, pur potendosi raggruppare in tre momenti fondamentali. Per chi conosce poi la pianta di quelle case signorili con il cortile interno allo scoperto e l'androne di accesso, non costituisce alcuna «contraddizione lampante» l'uscita dal cortile per entrare in quell'androne. 
     
    E' pertanto da domandarsi cosa sia più «romanzo» e meno «intelligente»: se il concordare le varie narrazioni stando puramente al testo o se vagare con incontrollabili ipotesi sulla «combinazione» di diverse tradizioni, fino a prospettare un possibile unico rinnegamento. In particolare, come si potrebbe conciliare questa ipotetica unicità con il preannunzio di Gesù circa il triplice rinnegamento (Mt 26, 34 e parall.: tutti e quattro i vangeli) e con il significato allusivo del triplice interrogatorio sulla sponda del lago (Gv 21, 15-17)? 
     
    Dettagli imrnaginari. - B. equipara gli evangelisti a «qualsiasi altro scrittore» per la libertà narrativa dei dettagli, dato anche che ogni testimone «non ricordando più il dettaglio, se lo immagina a modo suo» e che «lo Spirito Santo non ha modificato queste condizioni umane e naturali, che non interessano la teologia».
     
    Ora io mi chiedo in quale documento del Magistero è detto che la divina ispirazioneriguarda soltanto le verità teologiche. Sappiamo invece che essa riguarda «tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono» (R. 11: deh. 890) per cui gli evangelisti «trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio... effettivamente operò e insegnò» (R. 19: deh. 90 l), «in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» (ivi). Certo, tutto ciò al fine della «eterna salvezza» (ivi). Ma, proprio per questo fine, i fatti debbono essere descritti con la caratteristica impronta di autenticità che consiste precisamente nella obiettività di certi dettagli, i quali garantiscono la «verità sostanziale» (di cui vorrebbe accontentarsi il B.). D'altra parte, dove finiscono i dettagli imprecisi e comincia la sostanza? 

    Nessuna difficoltà ad ammettere un genere letterario non storico, ove vi fossero i motivi per ammetterlo. Ma quando si tratta evidentemente di genere storico e di dirette fonti testimoniali, la ispirazione potrà ben lasciare l'impronta delle diverse personalità dei narratori, eccetto quella che contraddistingue i narratori puramente umani: l'errore. E infatti nell'esporre tali impronte personali degli agiografi il Concilio dice: «sce­gliendo... sintetizzando... spiegando» (ivi); ma non parla in alcun modo di invenzione di dettagli, come se ogni testimone se li lmmagml «a modo suo». 
     
    DINANZI AL SINEDRIO 
     
    «Non bisogna cercare nelle narrazioni evangeliche un processo verbale strettamentefedele della seduta del Sinedrio» (163).
     
    Che non si debba cercare un processo verbale tecnicamente condotto come si farebbe oggi, è evidente: basta ad escluderlo la frammentarietà delle narrazioni evangeliche. Ma nonostante ciò dagli ispirati scrittori si deve ugualmente attendere, soprattutto per questi culminanti episodi, grande fedeltà. Anche in questo caso invece B. nega questa fedeltà, facendo fulcro sul presupposto, gratuito, del combaciamento della descrizione di Mt 26, 59 ss. (e Mc 14, 55 ss.) con quella di Lc 22, 66 ss. E' presumibile invece che esse si riferiscano rispettivamente al processo notturno e mattutino davanti a Caifa (probabilmente. secondo e terzo, essendovi prima l'incontro notturno con Anna: cfr. Gv 18. 13. 24), come risulta dall'esplicito ricordo della riunione mattutina, dopo quella notturna in Mt 27, 1 (Mc 15, 1) e dalla corrispondente precisazione di Lc 22, 66: «Fattosi giorno...».
     
    Le divergenze delle rispettive narrazioni trovano nella diversità delle due adunanze la più logica spiegazione, senza che d'altra parte le rassomiglianze possano giustificare l'identificazione. Tali rassomiglianze sono infatti molto naturali, giacché l'ultima riunione aveva lo scopo di confermare e sigillare ufficialmente le risultanze della precedente (il che spiega anche la forma maggiormente esplicita delle domande). Ma per B. bastano, nonostante gli espliciti testi contrari, da un lato il silenzio di Lc sulle altre sedute e dall'altro la rassomiglianza della sua narrazione con quella notturna di Mt e Mc per identificarle: metodologia esegetica di troppo facile accontenta tura.
     
    Che «Luca abbia omesso una delle sedute» B. non manca di prospettarselo, ma poi subito lo esclude con questa pura e semplice affermazione: «Appare chiaramente nel suo testo che la seduta del mattino è identica a quella che Matteo e Marco raccontano come avvenuta durante la notte» (118). Questo «chiaramente» poche righe dopo si trasforma in «si ricava l'impressione». Tutto ciò significa affermare, gratuitamente e leggermente, non dimostrare
     
    Un tentativo di dimostrazione intrinseca contro la esistenza della seduta notturna B. lo riduce a questo: essa sarebbe «contro la verosimiglianza psicologica: è difficile immaginare i membri del Sinedrio che escono di casa loro durante la notte per questo affare. Sembra più logico... dopo aver passato una notte tranquilla... non sembra naturale» (ivi); ma alcune pagine dopo ammette che «alcuni capi del Tempio» potevano avere di notte «atteso con Anna il risultato dell'arresto». Non si vede pertanto perché essi non potevano essere anche numerosi, mossi dal medesimo grande interesse per il preordinato evento, così da giustificare, in senso morale, l'espressione «tutto il Sinedrio» di Mc 14, 55. 
     
    ASSOLUZIONE DEGLI EBREI 
     
    «Gli ebrei sono scusabili perché non hanno saputo quello che facevano, come dice Gesù stesso» (223).

    Piano! Attenuanti si possono ammettere scusanti, soprattutto quanto ai capi, no. Lo ha detto esplicitamente Gesù, davanti a Pilato: «Chi mi ha consegnato nelle tue mani è ben più colpevole» (Gv 19, 11). 
    Quegli ebrei avevano ben coscienza di essere mossi dall'odio. Dell'accecamento circa la verità di Gesù erano responsabili in causa, per cui meritarono tante volte le più severe apostrofi di Gesù, che non mancò anche di precisare: «Come potreste credere voi, che andate in cerca di gloria gli uni dagli altri... c'è già chi vi accusa, Mosè» (Gv 5, 44. 45). Anche S. Stefano, che pur chiese per loro il perdono (At 7, 60), disse: «Voi resistete continuamente allo Spirito Santo» (ivi 51).

    Gesù disse bensì la misericordiosa e meravigliosa prima parola dalla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno» (Lc 23, 34). La disse, però, propriamente, non solo degli ebrei, ma di tutti i suoi carnefici. Tuttavia, se chiedeva per essi perdono, vuol dire che la loro colpa c'era: e la richiesta del perdono equivaleva alla richiesta al Padre di donar loro la grazia del pentimento e della conversione.

    Quel «non sanno» va riferito a una conoscenza adeguata o almeno sufficiente in quel momento: molti di essi non l'avevano, ma perché avevano resistito alla grazia e quindi non senza loro colpa. 
     
    PRODIGI ALLA MORTE DI GESÙ 
     
    B. non intende «negare in linea di principio gli avvenimenti portentosi». Di fatto però li dissolve quasi totalmente, pressoché a priori (291 ss.). Il grande argomento generale è il simbolismo biblico dei profeti nel descrivere il grande giorno di Jahvé. Questo era caratterizzato da grandi prodigi nella natura; anche Gesù usò quelle immagini nel discorso escatologico; esse si ritrovano anche nelle narrazioni ebraiche, laudative della morte di celebri rabbini. Anche gli evangelisti avrebbero dunque tenuto presente tale simbolismo. 

    Ma diversissimi invece sono i casi della simbolica previsione profetica della libera storia edificante, e della scarna e quasi spersonalizzata narrazione testimoniale della morte di Gesù, supremo evento storico divino. In questo secondo caso è da attendersi, sia per un sommo senso di responsabilità umana del narratore, sia per l'assistenza dello Spirito Santo, una grande cura di non adulterare con mescolanze simboliche la storica realtà del divino evento; è da attendersi che vi sia bensì un simbolismo in certi dettagli, in armonia a quelle figure bibliche, ma espresso dalla realtà dei dettagli prodigiosi stessi.
     
    Ciò è criticamente tanto più da attendersi in un contesto così umiliante per l'eroe del racconto - Gesù -, contesto che fa escludere qualsiasi preoccupazione letteraria glorificatrice da parte dei narratori. 
     
    In particolare - secondo B. - le tenebre si potrebbero spiegare come un grigiore dovuto a noti venti sciroccali carichi di sabbia. Il velo del tempio sarebbe stato squarciato da un potente colpo di vento. Tali prodigi consisterebbero, in fondo, soltanto nella coincidenza di tempo: un po' poco, a considerare la solennità dei testi. Quanto al terremoto, B. si limita ad ammettere che «non è proibito pensare ad esso».

    Circa i «numerosi corpi di santi», risuscitati al momento della morte di Gesù, i quali dopo la risurrezione del Signore «apparvero a molti» (Mt 27, 52- 53), la narrazione pare al B. così incoerente (sarebbero risuscitati subito, ma restati nella tomba fino alla risurrezione di Gesù; inoltre dopo essersi mostrati a Gerusalemme, sarebbero nuovamente morti?) che egli interpreta la notizia di Mt come simbolo della pura liberazione delle sole anime dal limbo; i corpi risusciteranno soltanto alla fine dei tempi; frattanto le anime sarebbero entrate non nella città santa terrena, ma in quella celeste. L'affermazione è fatta con questa acritica sicurezza: «E' chiaramente questo che Matteo vuole qui insegnare».

    Ora ciò significa semplicemente negare quello che Mt dice e che, in realtà, è tanto più attendibile quanto più è inaspettato e sorprendente e meno facile ad essere inventato: l'evangelista parla infatti esplicitamente di corpi e della Gerusalemme terrena, giacché apparvero a molti. Solo la risurrezione dei corpi costituiva, d'altra parte, l'adeguata associazione alla risurrezione del corpo di Cristo.

    Le pretese incoerenze poi spariscono pensando che si tratta di corpi gloriosi (analogamente al corpo di Gesù risorto). Quei giusti risorti sarebbero poi ascesi al cielo insieme a Gesù. Nell'attesa, essendo corpi gloriosi, non crea difficoltà il problema dove si sarebbero nascosti, come non la crea per il corpo di Gesù nei quaranta giorni che restò in terra: si fecero vedere quando vollero e poi attesero in qualche luogo misterioso, vicino o lontano quanto si vuole, finché piacque al Signore. 
     
  • OFFLINE
    Credente
    00 01/05/2013 18:43
    LE GUARDIE AL SEPOLCRO 
     
    Il fatto risulterebbe anch'esso dubbio a causa di varie «inverosimi­glianze» (330). Ma con questo criterio delle inverosimiglianze e difficoltà, anche a prescindere dal Vangelo, quante narrazioni storiche resterebbero indenni? In quante situazioni complesse del passato non si trovano, a ricostruirle, delle difficoltà? Queste potrebbero infirmare o diminuire la probabilità di narrazioni incerte, non di precise e autorevoli informazioni come questa, i cui aspetti oscuri possono avere tante spiegazioni. 

    Inverosimile sarebbe per es. - secondo B. - che «i farisei pensino [ossia ricordino quello che Gesù ha detto] alla resurrezione di Gesù mentre i discepoli non ci pensano [ossia mostrino di non ricordarlo] affatto». Ora il paragone così posto è criticamente ingenuo, data la totale disparità dei rispettivi stati d'animo. Il fatto di quell'oscuramento di fede e di quella dimenticanza dei discepoli di Gesù è un celebre dato sorprendente, permesso dalla Provvidenza per rendere più certa la successiva loro testimonianza. Esso ha comunque una spiegazione nella depressione morale in cui erano caduti, di fronte a così disastrosi eventi. Nei farisei, d'altra parte, il ricordo della promessa di Gesù ha una spiegazione nella loro furbizia e nel loro interesse. 
     
    LA TOMBA VUOTA 
     
    Visite al sepolcro, constatazioni, apparizioni di Gesù e degli angeli sono variamente narrate dai quattro vangeli. A chi crede alla veracità delle narrazioni e tiene presente da un lato il carattere episodico e saltuario di esse e dall'altro la complessità di quel momento storico e psicologico della storia evangelica, non può recare alcuna meraviglia tale varietà. Essa costituisce solo uno stimolo ad integrare reciprocamente e armonizzare le narrazioni stesse, per scoprire tutta la ricchezza dell'evento, ricchezza che nasce proprio da quella multipla descrizione. Ed è noto che tale accordo si può senz'altro fare - anche se talora con inevitabili incertezze - risultando un'armonia di disparate testimonianze che si risolve, in definitiva, in una tanto più valida prova della loro veridicità, estesa proprio a tutte le particolari circostanze. Nessuna prova critica si può addurre in favore d'un ipotetico genere letterario che intenda trascurare l'obiettività di queste circostanze.

    B. invece (351 ss.) è metodologicamente avverso a tale integrazione e armonizzazione. Egli raccomanda di «non mescolare i Vangeli tra loro, come si è fatto troppo [!] spesso; Giovanni va letto da solo» (359). Ma se proprio il quarto Vangelo è sistematicamente integratore degli altri! 

    La realtà profonda. - Abbandonata la sicurezza dei testi e amputandoli svuotandoli, sulle ali di vaghe intuizioni («ci si accorge», «si ha l'impressione», «a me par di sentire», ecc.) B. afferma - al solito - di scoprire in tal modo lo «strato profondo» e primitivo della narrazione, la «realtà profonda» degli eventi: Gesù che esce dalla tomba chiusa e entra nello stato di gloria. Questa affermazione della scoperta del profondo, spesso ripetuta, crea la illusione che tali criteri esegetici portino a un consolidamento della documentazione evangelica.
    Ma è una posizione che specula su un ben noto equivoco. A parte infatti l'impoverimento descrittivo degli eventi che ne deriva, il compito di tale documentazione non è l'enunciatodel fatto, bensì la garanzia della sua verità. Ora tale garanzia viene enormemente snervata dalla supposizione che le importanti circostanze, presentate dall'agiografo come storiche allo stesso modo della sostanza del fatto, siano invece artificiose, come sarebbe per es. delle apparizioni evangeliche. E' un puro sofisma dire che la narrazione così artificiosamente adornata dall'agiografo sarebbe «vera in profondità, perché esprime nelmiglior modo un avvenimento soprannaturale autentico» (353). Nel piano della veritàdocumentaria infatti, il miglior modo è precisamente costituito dalla esclusione di qualsiasi sovrapposizione artificiosa.

    Secondo il B., «numerosi critici indipendenti - come, col solito eufemismo di moda, anche egli chiama gli esegeti dipendenti, in realtà, da pregiudiziali anticattoliche e antitradizionali - respingono questi racconti a causa del carattere artificiale delle apparizioni angeliche»; ma ora la riscoperta della pura tradizione della «tomba vuota» dissiperà «le loro obiezioni». E perché tali critici non dovrebbero allora considerare come artificioso e simbolico anche il preteso fatto sostanziale della uscita di Gesù dalla tomba chiusa e del suo ingresso nello stato di gloria? 

    Gli angeli al sepolcro. - Ed ecco qualche saggio particolare della solidità critica delle obiezioni del P. Benoit, cominciando dalle apparizioni angeliche. 
    «Dobbiamo credere all'esistenza del mondo angelico». Ma non sempre quando «i racconti biblici mettono in scena un angelo, egli è stato realmente visto», essendo noto «l'uso letterario» biblico di esprimere «un messaggio di Dio» mettendolo «sulla bocca di un angelo» (373). - Gratuita affermazione, quando si tratta, come in questo caso, di apparizioni presentate, come circostanziati fatti visibili, sul piano di una chiara documentazione storica.

    Mentre Lc e Gv - obietta pure il B. - parlano di due angeli, Mt e Mc parlano di uno. - Questi non dicono uno solo. Forse si riferiscono a quello che parlò.

    In Mt e Mc l'angelo nomina la Galilea solo per dare ai discepoli un appuntamento; Lc invece la nomina soltanto per ricordare il preannuncio della passione e risurrezione che là essi ricevettero. Dunque - secondo Benoit - «Luca ha cambiato il discorso sulla Galilea, pur conservando la frase»; siccome egli non parlerà delle apparizioni in Galilea, appositamente «gira la sua frase... abile scrittore... sa trarsi d'impaccio con acutezza» (356 s.). - Sarebbe l'acutezza del cosciente falsificatore. E' molto semplice invece: Mt e Mc hanno detto una parte e Lc l'altra parte del discorso dell'angelo. 

    Pietro e Giovanni. - Lc 24, 12 parla della sola corsa di Pietro al sepolcro; Gv 20, 3-10 parla invece di Pietro e Giovanni. Nel quarto vangelo si vedrebbe pertanto - secondo B. - un riflesso della «concorrenza tra Pietro e l'Altro»; si intuirebbe l'influsso dei «discepoli giovannei, che desiderano collocare il loro Maestro... a fianco di Pietro, per vantare la sua chiaroveggenza»; ciò spiegherebbe «il movimento scenico qui [in Gv] descritto» (360 s.). Per quanto un po' evasivo (ma abbastanza chiaro a p. 367) B. sembra cioè presentare questo binomio Pietro-Giovanni come una artificiosa messa in scena dell'evangelista (B. infatti parla di «amplificazioni» di Gv, non di «integrazioni»: 366).

    Grave e gratuita presentazione. La imparzialità critica impone invece di ritenere che Lc abbia parlato soltanto del principale protagonista, mentre Gv di tutti e due. Cosa c'entrano poi i «discepoli giovannei» in un testo scritto da Gv? B. stesso riconosce poi che vi sono tanti altri punti che presentano tale af.fiancamento (Gv 13, 23-26; 18, 15-16; 21, 7; 21, 21): li ha scritti o no Giovanni? Essi non fanno che esprimere la realtà storica di quel binomio. Con quale diritto tale ripetuto affiancamento si deve attribuire a un riflesso della «concorrenza tra Pietro e l'Altro», invece che alla verità storica di quella unione? Con questi criteri si può capovolgere qualsiasi documentazione. 

    La Maddalena. - L'improvvisa ricomparsa della Maddalena al sepolcro in Gv 20, Il fa dire al B. che «si tratta di un altro pezzo letterario, la cui tradizione ignorava ciò che precede». Egli sentenzia inoltre che «è inutile cercare di combinare questo passo con la pericope precedente» (367). 

    Ma è tanto inverosimile pensare che la Maddalena, dopo l'annuncio dato a Pietro e Giovanni (Gv 20, 2) e dopo averli visti partire di corsa verso la tomba (ivi 3) li abbia seguiti, non con la loro velocità, arrivando là un po' dopo? Anzi inverosimile parrebbe il contrario: che non abbia cioè pensato di tornare al sepolcro. 

    Quanto alle apparizioni a Maria Maddalena, quella degli angeli «sembra mancare di fondamento» (371); essi «sono come gli angeli di cartapesta degli altari», dei «travicelli», essendo il loro intervento pressoché inutile, limitandosi a dire «la stessa parola» che dirà poi Gesù (368 ss.). 
    Ora io mi chiedo se sia criticamente serio selezionare i testi sicuri con queste aleatorie e irriverenti motivazioni. Mi chiedo poi se si possano considerare inutili presenze e parole che preparano quelle di Gesù e che servono inoltre a sottolineare, con la risposta della Maddalena, il perdurante stato d'animo di essa. 

    La successiva apparizione di Gesù alla Maddalena, narrata da Gv, è senz'altro identificata - secondo B. in ciò «le critiche sono d'accordo» - con quella delle altre donne, narrata da Mt 28, 9-10.
    Troppa fretta. Questa pretesa certezza non risulta dai testi. E non so che farmene delle «critiche tutte d'accordo», quando sembrano campate in aria e nascere dal preconcetto di identificare le cose simili. L'apparizione di Gesù alle altre donne avvenne al loro nuovo ritorno al sepolcro, visto che non ne parlarono al primo annuncio che esse diedero ai discepoli (Mt 28, 8; Lc 24, 22); quanto alla Maddalena, dopo essere corsa dagli apostoli, vi era presumibilmente tornata prima di esse. L'incontro descritto da Gv ha inoltre un carattere molto personale e Mc 16, 9 lo presenta come anteriore ad ogni altro. Anche il messaggio affidato è diverso: Gv 20,17; Mt 10. 

    Ma ecco, secondo B., un'altra difficoltà: secondo Gv 20, 14. 16, Maria si volterebbe indietro «due volte, cosa difficile [!] a spiegarsi» (372); si vedrebbe perciò qui la riunione di «due strati letterari differenti» (ivi).

    Strano però che chi li avrebbe riuniti insieme non si sia accorto di tale difficoltà. Ma io penso che invece di una difficoltà vi sia qui un tratto veristico meraviglioso, che svela la testimonianza diretta della protagonista. La Maddalena, in lacrime, restando con la persona rivolta al sepolcro (verso cui la comparsa degli angeli aveva ancor più attirato la sua attenzione), si voltò una prima volta con la testa per rispondere allo sconosciuto che le si era avvicinato alle spalle e subito dopo, per una comprensibile reazione psicologica allo sforzo compiuto per dominarsi nel rispondere (tanto più per la prospettiva delineatasi nelle parole che le erano uscite dal cuore: «io lo prenderò!»), riabbassò la testa in un più intenso singhiozzo. Dopo qualche istante, sentitasi chiamare per nome, di scatto voltò nuovamente la testa verso colui in cui aveva riconosciuto Gesù, rispondendogli: «Rabbuni!»; e subito si alzò per gettarsi ai suoi piedi. Sembra una registrazione! 

    «Non sono ancora asceso al Padre... Ascendo al Padre mio e Padre vostro...». Questa - afferma il B. - è «una importante lezione di teologia sul suo cambiamento di stato». Tale ascesa - precisa B. - avverrà subito. «Era carne, diventa spirito... totalmente spiritualizzato, in modo particolare nell'Eucaristia». E' «un grande insegnamento che Giovanni... pone sulle labbra di Gesù» (369). 
    Qui mi domando perché deve essere Giovanni a porre questo insegnamento sulle labbra di Gesù e non Gesù proprio in questa occasione a dirle. Comunque la verità teologica è alquanto diversa. Quella ascensione al Padre si riferisce all'ascensione che avverrà tra quaranta giorni. Non si riferisce al cambiamento di stato, perché questo era già avvenuto (non: «avverrà subito») nell'istante stesso della risurrezione in cui Gesù aveva assunto lo stato e il corpo glorioso. Ma questo restava corpo e non si può propriamente dire che fosse «totalmente spiritualizzato», come non lo si può dire nell'Eucaristia, avendo Gesù affermato: «questo è il mio corpo... questo è il mio sangue». 

    SECONDA APPARIZIONE NEL CENACOLO 

    La professione di fede di Tommaso: «mio Signore e mio Dio», sarebbe - secondo B. - «anacronistica» non potendo gli apostoli avere la piena fede nella divinità di Gesù prima della Pentecoste (408 ss.). E l'agiografo che ben conobbe e visse il dramma della maturazione della fede non si sarebbe accorto di tale anacronismo nel descrivere una scena così circostanziata e precisa? In realtà anche Pietro aveva già fatto a Cesarea di Filippo la sua bella professione di fede (Mt 16, 16); così ora Tommaso. Ciò non toglie che questa fede si sia accesa nella Pentecoste con una luce ancor più piena.
     
    Il B. osserva anche che Gesù, in quella apparizione, disse: «Beati quelli che non hanno visto hanno creduto». Questo riferirsi di Gesù al passato confermerebbe che il Signore non ha veramente detto quelle parole, perché avrebbe dovuto, caso mai, riferirsi all'avvenire. Ma il passo può benissimo essere tradotto: «Beati coloro che credono...». 
     
    Come al solito, dopo questa nuova e gratuita svalutazione del testo, B. minimizza l'inconveniente: se Tommaso non ha detto tale espressione, ciò riguarderebbe solo «i particolari verbali», mentre «il valore profondo [eccoci alle consuete profondità sotto le... macerie] non ne risulta diminuito... egli ha riconosciuto il Signore [ma non come Dio: e questo sarebbe un trascurabile «particolare verbale?»]. A sua volta, Gesù ha esaltato la rede di coloro che credono senza avere visto». Visione critica paradossale. Sicché il riconoscimento della divinità di Gesù sarebbe un trascurabile elemento delle profondità. Strana profondità del testo che snerva tutte le testimonianze e i valori. Strani enunciati e fittizi valori che sta­rebbero tutti alla superficie, mentre quelli veri starebbero tutti in fondo.
     
    LA PESCA MIRACOLOSA 

    Quella narrata in Gv 21, 1-14, dopo la risurrezione, non sarebbe ­secondo B. (427 ss.) - che un trasferimento redazionale, compiuto da Gv, di quella narrata in Lc 5, 1-11, all'inizio del ministero di Gesù.

    Ecco un altro bell'esempio di psicosi della unificazione, un altro caso tipico di metodologia preconcetta.

    Per una tale mentalità esegetica, a nulla valgono: il circostanziato, diversissimo inquadramento temporale e psicologico dei due rispettivi episodi; le diversità di svolgimento; le notevoli diverse finalità, pur nella rassomiglianza; la giustificazione delle rassomiglianze per la rassomigliante finalità, che in Lc è la vocazione definitiva di quegli apostoli, connotando anche il primato di Pietro, e in Gv è il conferimento di questo primato a Pietro; il fatto che in entrambi i casi la pesca era il sim­holo più adatto e, d'altra parte, la ripetizione del miracolo era un oppor­tunissimo richiamo alla iniziale vocazione. A nulla vale tutto ciò. Per tale metodologia, le rassomiglianze significano senz'altro identità. 

    Lo svolgimento argomentativo del B. dà poi un vero senso di disagio.
    L'illustre biblista inizia domandandosi «se non si tratti qui della medesima tradizione che ha trovato due differenti espressioni». Poi subito abbandona tacitamente questa alternativa: essa non verterà più sulla unificazione o meno delle due narrazioni, essendo senz'altro abbandonata, gratuitamente e senza disputa, l'ipotesi della duplicazione. L'alternativa sarà ridotta solo all'autenticità da riconoscere o alla narrazione di Luca o a quella di Giovanni. Tra le due opinioni «è molto difficile decidersi», ma B. «è tentato [!] di pensare che ha ragione Luca», anche se «è difficile giustificare dettagliatamente tale opinione» (430-431). E una tale confessata somma incertezza viene preferita alla sicurezza di testi chiarissimi.

    In particolare, quel ritorno al lavoro della pesca dopo la risurrezione non sarebbe «facile a comprendersi». - Ma è molto semplice. Come campavano? 
    Essi - insiste B. - avrebbero dovuto senz'altro «partire per la predicazione universale che Gesù ha comandato». - Niente affatto. Essi, invece, avevano avuto l'ordine di andare in Galilea per incontrarsi con Gesù e non per fare dell'apostolato (Mt. 28, 7-10). E prima della ascensione Gesù impose loro di attendere a Gerusalemme il «dono promesso dal Padre» (Lc 24, 49; At 1, 4), che avranno appunto alla Pentecoste.

    Per la soluzione proposta della identificazione (che B., con tale peso di argomenti, osa chiamare «critica») basterebbe [e dico poco!] «togliere il brano sulla rete e sulla pesca miracolosa (Gv 21, 5-6)... tutto il resto rimane» (432). - Confusione su confusione. Già infatti al v. 3 si parla del lavoro di pesca che B. aveva presentato come poco verosimile; e il miracolo ricompare al v. 11 quando vengono contati i pesci. 

    L'ASCENSIONE 
     
    «Secondo Luca, l'avvenimento ha luogo la sera... di Pasqua. Non si nota alcun intervallo nel racconto di Luca» (485). - E da ciò? Si sa bene che i Vangeli saltano anche lunghi periodi di tempo e che la cronologia non si può fare senza la loro mutua integrazione. In questo caso poi è Luca stesso che integra se stesso in At l, 3: «si diede a vedere vivente... per quaranta giorni».

    Comunque - aggiunge B. - questa della immediata Ascensione «teologicamente è l'unica soluzione giusta. Gesù non aspetta in una grotta di Gerusalemme che la porta del cielo gli venga aperta» (486). - Qui si confonde,. come ho già notato, l'Ascensione, che significa la fine degli incontri terreni di Gesù, con il passaggio allo stato glorioso (pur velato nelle apparizioni prima dell'Ascensione) che avvenne non la «sera» di quel giorno, ma nell'istante stesso della risurrezione. E per lo stato glorioso non ha senso di parlare di grotte o di alberghi come di luogo in cui uno sia rinserrato e vincolato al modo terreno.
     
    «Luca... molto discreto, si limita a sottolineare... elementi presi dall'Antico Testamento... dice dunque che Gesù sale su una nube. I due angeli (At 10-11) sono lì per dare laspiegazione teologica della scena... Luca ci offre un insegnamento teologico, non un reportage» (486-487).
     
    Mi hanno contestato di vedere ovunque ambiguità. Quanto sarei lieto di non vederle! Le vedo perché ci sono; e purtroppo abbondano. Ecco anche qui, per es., che nuovamente questo parlare è oscuro e ambiguo. Luca non ha preso quegli elementi, bensì li ha trovatirealizzati in Gesù. Né logicamente, né secondo il Magistero si può concepire il Vangelo come elaborazione teologica della comunità e dell'agiografo, bensì va inteso come racconto ispirato dei «detti» e «fatti» del Signore, che costituiscono (insieme alla Tradizione) il fondamento di tale elaborazione
     
    FACILONERIE BIBLICHE DI ALTRI AUTORI 
     
    Una bella riprova della pressione psicologica d'un certo clima esegetico di moda - tanto diffuso quanto criticamente infondato - si ha considerando le strane superficialità di altri autori pur così dotti e profondi. Restando sull'argomento di questo capitolo si veda, per es. l'articolo, ricco, del resto, di tante belle considerazioni, del P. E. Gutwenger S. J., su La tomba vuota, riportato dal tedesco in Rassegna di teologia (2, 1968). Ecco qualche saggio. 
    «Né si deve negare quel che di leggendario, secondo la mentalità di oggi, si è in filtrato nel racconto. Si pensi alle apparizioni di angeli alla tomba» (124). - Se il criterio della esegesi e della teologia dovesse essere la «mentalità di oggi», a parte che sarebbe sempre mutabile, si potrebbe fare un crocione sulla stessa divinità di Cristo. 
     
    Contro la verità di questi angeli l'articolo tenta addurre tuttavia degli argomenti.

    Nel quarto Vangelo «innanzi tutto - contrariamente a quanto dicono i sinottici - non si fa menzione di angeli». - A parte che un eventuale silenzio non costituirebbe una affermazione contraria, non si può parlare di silenzio, bensì di episodi diversi. Gv parla della sola Maddalena ed i sinottici delle altre donne, alle quali soltanto inizialmente comparvero gli angeli. Successivamente però Gv stesso farà menzione di angeli, apparsi alla Maddalena (Gv 20, 12-13). 

    «Soltanto dopo che Pietro e il discepolo prediletto sono tornati a casa vengono introdotti due angeli [dunque Gv ne parla]... non hanno fatto altro che domandarle [alla Maddalena] perché pianga... Si ha l'impressione [male a fare della critica solida con le impressioni!] che i due versetti... provengano... da altra fonte. Ad ogni modo il testimone oculare [Gv] non aveva percepito nessun angelo. Nella sua narrazione gli angeli servono solo a formare un collegamento piuttosto barocco tra la tomba vuota e l'apparizione di Gesù alla Maddalena». - Conclusione netta, sicura, benché fondata soltanto su pure «impressioni» e su un irresponsabile ossequio alla «mentalità di oggi»! Invece è chiaro che gli angeli potevano apparire e sparire in apparenti sembianze umane quando e come volevano, davanti a chi volevano. E il fatto che ne parli lo stesso Gv che direttamente non li aveva visti è una conferma che egli se ne era bene informato. 
     
    La presenza dei soldati di guardia al sepolcro (Mt 28, 11-15) sarebbe un'invenzione apologetica dei primi cristiani (126). Certo le strade erano pattugliate in quella Pasqua di notte, rendendo impossibile il trafugamento. Il fatto ebbe poi dalla primitiva comunità quell'«ampliamento secondario». Il grande motivo di ciò, secondo il Gutwenger, sarebbe che «gli altri evangelisti non ne parlano», cosa inammissibile se il fatto fosse stato vero, costituendo una «importante prova della risurrezione». - In realtà, il silenzio degli altri evangelisti non significa proprio niente in narrazioni così brevi e saltuarie, che riportano ben piccola parte - chi l'una e chi l'altra - di quei complessi e ricchissimi avvenimenti. La circostanziata narrazione di Mt, d'altra parte, non può esser nata da una primitiva invenzione cristiana puramente apologetica perché essa sarebbe stata facilmente smentita dalle parti interessate e dagli altri testimoni presenti o vicinissimi.
    «Le aggiunte posteriori dei sinottici saltano subito all'occhio». - Quando un'esegesi è fatta con questi «salti agli occhi...» la serietà critica è finita.

     
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    00 01/05/2013 18:45
    PRECISAZIONI DA PRECISARE 

    Hanno fatto un certo rumore alcuni densi articoli biblici, di precisazione, di S.E. Salvatore Baldassarri. Uno l'ho visto riportato in un vivace foglio parrocchiale di Bracciano, gli altri li ho letti direttamente nella Settimana del Clero n. 29-30, 1967. V'è chi li ha ammirati e chi li ha criticati; e penso che niente meglio desideri l'illustre studioso che alimentare la utile riflessione e problematica. Subito, ad ogni modo, vi si coglie la stringata chiarezza dell'antico dotto professore. Ma la concisione talora ha forse impoverito il pensiero. Mi riferirò a qualche affermazione che ha fatto più impressione e che è più significativa, nel quadro del dramma della esegesi moderna. 
     
    ESAMERONE 
     
    In questo periodo postconciliare di ripensamento - si chiede S.E. B. - «che cosa resta?». E' una domanda pressante, soprattutto in relazione alla Bibbia.

    Quanto all'Esamerone: «La Bibbia espone nel modo popolare del suo tempo e del suo ambiente le cosiddette questioni scientifiche. Unica preoccupazione che rientra nel mistero della salvezza: tutte le cose provengono da Dio». - Troppo poco. Le parole da me sottolineate esprimono una verità fondamentale, ma c'è ben altro nel Genesi di «importanza sostanziale» per «il mistero della salvezza»: e il Magistero si è pronunciato più volte in tal senso, come nella Humani generis di Pio XII e nella ivi citata «Lettera... inviata all'Arcivescovo di Parigi dalla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici». 

    «Questa Lettera infatti ­dice la H. g. - fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi... con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere umano e del popolo eletto» (H. g. 39). Tra tali «verità fondamentali» v'è il monogenismo e il peccato originale (38). Si veda in proposito anche il Tridentino (D-S 1511, 1512, 1513, 1514, 1523), il Vaticano II (CM 24: deh. 1393; cfr. ivi 22, 29: deh. 1385, 1409; C 2: deh. 285), Paolo VI (Oss. R. 16 luglio 1966; Professione di Fede, 30 giugno 1968). Già ne parlai, trattando dell'evoluzionismo. 

    Il dotto articolista cita bensì la suddetta Lettera all'Arcivescovo di Parigi (riportata nella H. g.) nel secondo articolo di Sett. d. Cl.; ma si riferisce soltanto a «la storia primitiva in genere», mentre avremmo letto volentieri e con tanta utilità una chiara riaffermazione sulpeccato originale
     
    STORICITÀ DEI VANGELI 
     
    Ecco poi come nel primo art. di Sett. d. Cl. è presentata la importantissima problematica attuale sulla storicità dei Vangeli: «E' difficile oggi per il Sacerdote ordinario distinguere fra ciò che si riferisce realmente a fatti avvenuti e ciò che è elaborazione dell'Evangelista... In particolare sui Vangeli dell'Infanzia ci si chiede: se la tradizione sinottica inizia con la vita pubblica di Gesù, che cosa pensare del valore storico dei ricordi di ciò che la precede?... anche sulla vita pubblica di Gesù: che cosa pensare della storicità dei detti e fatti di Gesù? E' possibile una elaborazione evangelica delle parole di Cristo che ne abbiamutato il senso?». 

    Ho sottolineato le parole che lasciano perplessi e richiedono spiegazioni. L'elaborazione dell'Evangelista sembra contrapposta, come sovrastruttura non storica, ai fatti avvenuti(come infatti una certa esegesi progressista afferma). So bene che vi sono esegeti che moltiplicano in tal senso gli esempi. Ma io nego che vi sia un solo caso provato. Anzi una esegesi veramente critica sarà sempre più portata a negarlo (14). 
     
    La tradizione sinottica inizierebbe con la vita pubblica? E allora dove li mettiamo i primi due capitoli di S. Matteo e di S. Luca? Non fanno parte della sinossi? Se si vuol parlare dellapredicazione apostolica iniziale, allora sì, poteva essere ben naturale che partisse dai fatti più recenti e notori. Ma tanto essi quanto i fatti dell'Infanzia venivano tratti da ricordi e testimonianze ugualmente sicure, garantite ugualmente dalla probità degli scrittori e dalla infallibile assistenza dello Spirito Santo. Quanto ai ripetuti documenti del Magistero circa la verità dei «detti» e «fatti» di Gesù (fino agli ultimi, ossia alla Intructio della P. C. Biblica del 1964, n. 2 e alla Cost. conciliare Dei verbum del 1965, n. 19: deh. 901; cfr. 11: deh. 890) è chiaro che l'Infanzia vi rientra, con importanza fondamentale. 
     
    In merito all'elaborazione dell'evangelista e agli autentici fatti e alle autentiche parole di Cristo, l'Ecc.mo autore risponde nel secondo articolo del medesimo settimanale, opportunamente appellandosi ai suddetti due ultimi documenti del Magistero. Sottolineo le espressioni che non eliminano però le perplessità, su un punto tanto delicato. 

    «I vangeli... partendo dalla vita e predicazione di Gesù, passano per la predicazioneapostolica [salvo probabilmente, quanto alla primitiva predicazione, per il racconto dell'Infanzia, non meno però accuratamente attinto da sicure testimonianze: cfr. Lc 1, 3] e sono messi in iscritto secondo i diversi punti di vista dei singoli autori». 

    Purtroppo quell'indeterminato «passano» e soprattutto quella generica espressione «diversi punti di vista» possono indurre a temere chi sa quale contributo personale dell'agiografo nella narrazione evangelica, capace di porre un invalicabile diaframma tra il Vangelo e i veri «detti» e «fatti» di Gesù.

    E' inutile aggiungere, per tranquillizzare, come fanno tanti esegeti, che anche le elaborazioni didascaliche e teologiche degli agiografi sarebbero state assistite dallo Spirito S. e sarebbero quindi infallibilmente vere. Resterebbe il falso di presentare tali fatti e detti come direttamente e storicamente compiuti e pronunziati da Gesù. Ciò, mentre da un lato ripugna alla infallibile verità dello Spirito Santo, dall'altro minerebbe la sicurezza storica di base della verità di Cristo e della conseguente infallibile assistenza dello Spirito S. Questa infatti non può essere logicamente affermata prima della documentazione evangelica, la cui sicurezza è condizionata alla piena obiettività della narrazione; e questa a sua volta è caratterizzata dalla obiettività delle concrete e circostanziate affermazioni. 
     
    Molto più precisi sono i due supremi documenti del Magistero opportunamente citati. NellaIstruzione si parla solo ripetutamente di «variis dicendi modis» e si enumerano soltanto questi tipi di elaborazione, del resto ovvi, da parte degli evangelisti e dei primi predicatori: «seligentes», «synthesim», «explanantes», «alio contextu», «diverso ordine», «non ad litteram, sensu tamen retento», «variis condicionibus fidelium et fini a se intento accommodata [scelta di ciò che era adatto]». Nella Costituzione conciliare poi figurano solo le espressioni: «seligentes», «synthesim», «explanantes», «formam praeconii», insieme alla ribadita condizione che «semper ut vera et sincera de Iesu [tutto, dunque anche l'Infanzia)... communicarent».
     
    Solo così possono ammettersi quei «diversi punti di vista» dell'articolo. Solo così la storicità obiettiva è salva e il Vangelo è sicuro, secondo la logica, la critica imparziale, la fede. 
     
    Nell'articolo sono esposte poi varie conseguenze, che meritano riflessione. 
    «Nei Vangeli hanno fondamentale valore storico principalmente i fatti della vita pubblica, della passione, morte e risurrezione di Gesù, di cui gli Apostoli furono diretti testimoni e che essi ripeterono nella predicazione. I fatti della vita nascosta, pur essendo anch'essibasati certamente su alcune tradizioni, sono più aperti alla elaborazione teologicadell'evangelista, non avendo avuto nel kerygma una forma fissa di trasmissione». - Ora, v'è innanzi tutto da notare che il principio della ispirazione biblica e i documenti del Magistero che hanno ribadito, come fa la suddetta Costituzione conciliare, che i Vangeli riportano «vera e sincera de Iesu», non fanno alcuna distinzione tra vita pubblica e vita nascosta. Noi, quindi, come possiamo farla? 

    Non è d'altra parte criticamente ragionevole il farla. E' chiaro che gli Apostoli non poterono essere testimoni diretti della storia dell'Infanzia di Gesù; ma vi era per lo meno il testimone più autorevole di tutti, la Madonna. Comunque gli evangelisti (che non furono tutti Apostoli) furono identicamente assistiti dall'infallibile Spirito Santo ad attingere alle sicure testimonianze dirette degli Apostoli e a quelle di altri testimoni sicuri (cfr. Luca 1, 3). La stessissima infallibilità si estende quindi per tutto l'arco della vita del Signore, a cominciare dall'Annunciazione sua e del Precursore. 

    L'unica elaborazione teologica ammissibile è quella che poté fare meglio ordinare, sintetizzare, spiegare (come, per es., nei richiami alle profezie o nei brevi commenti personali, chiaramente indicati nel quarto Vangelo). Presentare invece come diretti fatti e detti di Gesù quelli che direttamente non lo furono, costituirebbe non una elaborazione, ma semplicemente un inganno; e quando si tratta dei fatti e detti di un Dio, che sono alla base di tutto, l'inganno sarebbe gravissimo. 

    Non si vede poi che importanza avrebbe, a garanzia della autenticità e obiettività della narrazione, la concretizzazione in una forma fissa di trasmissione, quale avrebbe avuta la primitiva predicazione, a differenza della storia dell'infanzia. Se si trattasse infatti di una elaborazione di puro peso storico umano resterebbe da chiedersi se tale forma si fossefissata o no nella verità; trattandosi invece di infallibile assistenza divina, nella scelta delle autentiche testimonianze, sia quella, sia la storia della infanzia e della vita nascosta debbono ritenersi identicamente certe. 
     
    Anche per la vita pubblica si afferma poi: «In alcuni elementi appare già la interpretazione ispirata e la spiegazione che la Chiesa dava di essi... Tali elementi, pur non appartenendo alla storia cronistica, non si possono dire inventati, ma sono anch'essi vera storia, nel senso modernamente inteso di penetrazione della sostanza dei fatti del passato». Talielementi «risalterebbero da un esame minuzioso». - Il guaio è che tale «senso modernamente inteso della storia» non lo era per niente in quei tempi, dove era caratteristica anzi, specialmente presso gli Ebrei, secondo la mentalità orientale, la concretezza narrativa dei fatti esteriori e dei dialoghi. 

    Gli agiografi quindi che avessero attribuito direttamente a Gesù fatti e pensieri derivanti invece da elaborazione teologica o da artificio didascalico, senza farlo in qualche modo comprendere, o avevano la coscienza d'ingannare o erano stati ingannati: in entrambe le ipotesi non dicevano la verità, il che ripugna all'infallibile ispirazione. Gli esegeti che rifiutano questa conseguenza o dimenticano il fatto dell'ispirazione o equivocano sul concetto di verità storica evangelica. 

    Questa - ripeto - non riguarda la verità del pensiero, come può essere vero anche il pensiero di un moderno e ortodosso trattato di teologia (aggiunta solo, per i Vangeli, la infallibilità), ma riguarda la verità della narrazione in quanto tale, in cui la concreta attribuzione di atti e parole a chi li ha veramente compiuti è essenziale, tanto più quando si tratta della divina persona di Gesù.

    E' vero che la stesura dei quattro libri s'inserisce nella nascita e crescita della comunità ecclesiale sostenuta dallo Spirito Santo. Ma mentre tale divina assistenza nella comunità ecclesiale ha operato in vista della integra trasmissione della rivelazione, negli agiografi ha operato invece in vista della fedele narrazione dei fatti che sono all'origine della rivelazione e ne costituiscono il fondamento. Mescolare le due fasi sarebbe illogica confusione.
     
    Quanto all'«esame minuzioso» che nei singoli casi permetterebbe la scoperta, nel quadro della esteriore narrazione, dei profondi elementi d'«interpretazione», ne ho dato più volte dei ben significativi esempi. Sul cavallo apparente della sottigliezza si galoppa, in realtà, troppo spesso nel mondo della superficialità e della fantasia. 
     
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    00 01/05/2013 18:47
    VECCHIA E NUOVA ESEGESI 
     
    Il ch.mo scrittore, nel primo articolo sopra citato, non aveva mancato anche di addurre, contro quella che chiama «la vecchia esegesi» sempre in cerca della «precisa concordia» tra i quattro Vangeli, il secolare accavallarsi di «soluzioni varie che lasciano più o meno insoddisfatti» e che per ciò stesso «invitano a tentare nuove vie». Egli cita, per es., le genealogie, i ciechi di Gerico, gli angeli della risurrezione, ecc.

    Ma che forse le «nuove vie» conducono a soluzioni più sicure, univoche e soddisfacenti? Non ho mancato nei precedenti capitoli di darne dei saggi.

    Perché, d'altra parte, meravigliarsi se, per concordare i testi, invece di una, vi sono più soluzioni? Anzi meglio.

    Vi sono più strade di possibile concordanza. Questa cioè con l'una o con l'altra si può ottenere benissimo. Che vogliamo di più?

    Resta l'insoddisfazione della incertezza? Si parli piuttosto di punti oscuri, che non potevano mancare in una quadruplice narrazione d'una storia così complessa, stesa in modo così breve ed episodico. La difficoltà è cioè criticamente scontata, anche alla luce della storiografia umana comune.

    L'importanza è che la possibilità di concordanza, anche se ipotetica, vi sia: e c'è. E le disparità che tanto frequentemente richiedono tale lavoro di concordanza non fanno che confermare l'autonomia d'impostazione e di ricerca dei singoli evangelisti, moltiplicando la forza della loro complessiva testimonianza.

    ALLA BASE DELLA FEDE: VANGELI STORICI, GESU' STORICO
     
    BULTMANN 
     
    E' appena credibile l'irragionevole involuzione fideista del famoso manifesto del 1941 di R. Bultmann sulla valutazione critica del kerygma, ossia della proclamazione della parola di Dio. Eppure è difficile negare l'influsso più o meno aperto della sua dottrina nell'esegesi moderna. Qualche riflessione in proposito, in quest'ultimo capitolo - preso lo spunto da un articolo della Civiltà Cattolica - chiuderà quindi opportunamente questa parte sulDramma della esegesi moderna.

    Secondo il Bultmann «Cristo, il crocifisso e risorto, c'incontra nella parola della predicazione... Sarebbe un errore... fondare la fede nella Parola di Dio sulla ricercastorica... porre la domanda di legittimazione [della parola di Dio]... essa stessa domanda a noi se vogliamo credere o no». 
     
    P. Silverio Zedda S. J. ha chiaro e facile gioco, in un denso articolo della Civiltà Cattolica(18 maggio 1968), nel rivendicare la esigenza di assicurarsi prima che si tratti veramente della Parola di Dio, che sia garantita cioè la sua verità storica, ossia la verità storica di Gesù. Tale esigenza - afferma limpidamente P. Z. - costituisce una ovvia riaffermazione del «valore della intelligenza umana nella ricerca di Dio e nell'accostarsi a Cristo con la fede» (355). 
     
    STORICITA' RIDIMENSIONATA 
     
    L'ultima parte dell'articolo però - ad essere sinceri - non dà la stessa soddisfazione. Proseguendo sul filo della logica la storicità di Gesù richiede la storicità dei Vangeli. Ma per il distinto scrittore, che si fa eco di una ben nota corrente, questa storicità è vera un poco sì e un poco no.

    Ottima certo è l'idea di «procedere cautamente tra due estremi». Ma guai a trovare un preteso giusto mezzo tra la verità e l'errore, tra la solida critica ed idee preconcette: ciò specialmente su un punto così delicato e tanto più con la parvenza di seguire il Vaticano II. Vediamo un po' alcune interessanti argomentazioni. 

    Secondo il Concilio dunque «i Vangeli trasmettono una predicazione orale, conservandone il carattere». 
    Certamente. E questa è la ragione per cui la Tradizione ha, quanto al tempo e alla completezza, una precedenza sulla Scrittura (contro la tesi protestantica della sola Scrittura). Questa è pure la ragione del carattere frammentario, episodico e disparato (benché armonizzabile) delle multiple narrazioni evangeliche.

    Il Concilio ricorda inoltre che nella predicazione gli Apostoli ebbero «quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano» (R 19: deh. 901): e ciò ovviamente si riflette sugli «scritti». Certissimo anche questo. 

    Ma ecco ora una infondata deduzione. Secondo l'illustre biblista ciò indurrebbe a negare ai Vangeli il genere di «pura fonte storica», a negare cioè la piena obiettività di descrizione dei «detti» e «fatti» del Signore (R, ivi). 

    La logica conseguenza apparisce invece opposta, perché l'illuminazione dello «Spirito di verità» non può non aver garantito sia i primi trasmettitori, sia gli scrittori evangelici (selezionatori delle fonti), da ogni errore, sensibilizzandoli anche alla estremaresponsabilità di riportare i «fatti» e «detti» del divino Redentore, così da non mescolare particolari fittizi a quelli veri e divini di Gesù e da non presentare, senza farlo comprendere, le proprie interpretazioni, anche se giustissime, come direttamente date da Gesù. 

    Ciò era imposto dal rispetto sia della verità, sia della persona stessa di Gesù. 
    Tali scritti - si insiste - non sarebbero comunque equiparabili a puri «documenti di archivio che presentano i fatti nella loro spoglia realtà, con l'esattezza e la freddezza della cronaca, senza un soffio d'interpretazione, di collegamento tra i fatti».

    Certo. I Vangeli, per l'epoca e per le loro caratteristiche episodiche ed occasionali, non hanno la struttura tecnica di moderni, completi «documenti di archivio». Ma ciò non può confondersi con mancanza di piena obiettività di narrazione. Questa anzi si deve nei Vangeli attendere, più che in qualsiasi cronaca umana (sia pur moderna e tecnicamente perfetta), per la speciale garanzia dello «Spirito di verità».

    Quanto alla scarna freddezza del racconto, anziché mancare nei Vangeli, ne costituisce proprio una caratteristica (preziosa conferma della loro obiettività), giacché le gesta più drammatiche, dalla natività alla passione, vi sono narrate in sorprendente forma semplice, spersonalizzata c dimessa.

    E quanto al soffio d'interpretazione, dovremo stare ben attenti a non confondere lacomprensione dei «fatti» e «detti», il loro eventuale riassunto pienamente obiettivo, con l'interpretazione personale, sia pure esattissima, che gli agiografi si sarebbero permessi di presentare come parole direttamente pronunciate da Gesù. Questo sarebbe inammissibile offesa alla verità e mancanza di rispetto alla persona stessa del Signore. In realtà quando gli agiografi parlano con proprie riflessioni lo fanno capire (anche se qualche volta si può restare in dubbio).

    Nei Vangeli, proprio la mancanza di una tecnica di cronaca moderna di documenti d'archivio, mentre da un lato non infirma minimamente l'obiettività delle narrazioni di testimoni diretti o quasi, dall'altro costituisce la più bella garanzia della spontaneità e veridicità dei narratori. 

    IL VATICANO II 
     
    P. Z., come era da attendersi, adduce ad avallo della tesi della «non pura fonte storica» dei Vangeli il celebre testo conciliare che esplicitamente dichiara: «Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o anche in iscritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con riguardo alla situazione delle Chiese, conservandone infine il carattere di predicazione» (R, ivi). Secondo P. Z. «questo modo di raccontare i fatti non si iscrive certo tra i metodi con cui procede chi stila un documento d'archivio, che debba servire di fonte per una storia a tendenza positivista».
     
    D'accordo, ma solo quanto alla tecnica e alla completezza di stile moderno per una cronaca di stile moderno, non quanto alla piena obiettività di ciò che è narrato. 

    Nessuna delle caratteristiche metodologiche dei Vangeli che il Concilio ha sottolineato - «scegliendo», «sintetizzando», «spiegando», «predicando» - può legittimamente intendersi come interpretazione e integrazione personale, compiuta dal narratore, dei fatti e delle parole di Gesù. E anche quanto alle illuminate spiegazioni eventualmente date dagli agiografi non si può criticamente ammettere che essi le abbiano potute presentare come direttamente pronunciate da Gesù. Sarebbe stato un inganno su un fatto di estrema importanza quale la realtà dei discorsi esplicitamente e direttamente risuonati sulle divine labbra. Un conto sono, per es., le spiegazioni delle parabole date da Gesù e un altro conto le riflessioni dell'agiografo, come quando cita le profezie realizzate o riferisce le riflessioni dei discepoli, per es. dopo la prima cacciata dal tempio (Gv 2, 17), ecc.
     
    Che gli agiografi effettivamente non abbiano trascurato tali essenziali differenze è confermato dal proseguimento (omesso da P. Z.) del suddetto testo conciliare: «sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità». Affermazione assoluta. Chiara preoccupazione del Concilio di non fraintendere le caratteristiche enunciate. 

    Equivoca, in particolare, è quella ripulsa di una «storia a tendenza positivista». Se questa tendenza s'intende come materialista è ovvio che non si trova nei Vangeli. Ma quanto alla piena obiettività della narrazione l'esigenza positivista s'identifica con l'esigenza del rigore critico, pienamente reclamato dall'esegesi cattolica. 
     
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    00 01/05/2013 18:48
    «NOSTRAE SALUTIS CAUSA» 
     
    Contro la «pura fonte storica» vi sarebbe poi «la ragione generale che vale per tutti i libri della Bibbia» e si troverebbe in quest'altro celebre testo: «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità, che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (R 11: deh. 890).
     
    Secondo P. Z. pertanto «domandare ai Vangeli (e in genere alla Bibbia) un insegnamento certo, fedele e senza errore circa altre cose che non siano la verità che ha ordine (è utile, necessaria, indirizzata) alla nostra salvezza, è domandar loro quello che non hanno voluto dire». 
     
    Pur trattandosi di un'affermazione sfumata (essendo considerato, in modo molto estensivo, che potrebbe anche essere indiretto, tutto ciò che ha «ordine alla nostra salvezza»), quelle parole che ho sottolineato delineano un'interpretazione inammissibile di questo testo: nei Vangeli cioè vi sarebbero cose erronee, al di fuori delle verità attinenti alla nostra salvezza. Di tali cose infatti nel proseguimento dell'articolo vengono date delle esemplificazioni. Si noti che non si pada di generi letterari non sto­rici (ammissibili prudentemente nell'Antico Testamento e non nelle nar­razioni evangeliche di «fatti» e «detti» del Signore, che si appellano ad accurate ricerche e a testimonianze dirette o quasi: cfr. Lc 1, 3; Gv 19, 35; 1 Gv 1, I), ma di errori

    Questa interpretazione infatti, a parte il suo contrasto con il dogma della totale ispirazione divina della Scrittura (che la rendono «ab omni affinino errore immune»: Leone XIII, Enc.Provid., EB 127), toglierebbe ogni valore al ben noto diretto intervento del S. Padre perché nel testo conciliare non si padasse soltanto, quanto all'esclusione di ogni errore, di «ve­rità salutari». E si tornerebbe praticamente alla tesi, ripetutamente condannata dal magistero, di una ispirazione divina limitata soltanto alle «res fidei morumque» (cfr. Leone XIII, Enc. Provid., EB 124; Benedetto XV, Enc. Spir. Par., EB 455; Pio XII, Enc. Div. affl. Sp., EB 539). 
     
    Il testo effettivamente si riferisce a tutte le asserzioni della Scrittura (intese nel loro «genere letterario») e quindi a tutto il contenuto, di cui si afferma la «verità». Basta anche solo guardare alla prima proposizione con cui inizia questo capoverso della Costituzione. Esso dice: «Tutto ciò [senza alcuna eccezione], che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo». L'affermazione sulla veritàprosegue poi come conseguenza di ciò, con riferimento sempre a tutto, secondo questo filo logico: «per conseguenza... i libri della Scrittura insegnano [in tutto il loro contenuto] con certezza, fedelmente e senza errore [essendo tutto asserito dallo Spirito Santo] la verità, che Dio... volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere [non cioè tutto lo scibile, ma solo quanto è contenuto nelle Scritture]». 

    Va aggiunto l'inciso: «per la nostra salvezza». Ma esso non può contraddire all'affermazione totalitaria precedente, bensì solo additare la finalità ultima ed essenziale di tutta la Scrittura. Un conto è il contenuto (di cui è garantita la verità), un conto lafinalità di tale contenuto. Quando per es. è detto che Gesù nacque a Betlemme e dimorò poi a Nazareth, tale notizia è data allo scopo di inquadrare e garantire storicamente la persona di Gesù e ricordare i riferimenti profetici, non di insegnare una pagina di geografia: il contenuto della notizia è il fatto geografico, il fine è la precisazione storica del Messia. E così di seguito.

    Del resto il medesimo inciso si ritrova, al medesimo scopo, nel testo parallelo, relativo strettamente ai Vangeli, dei quali si afferma: «senza alcuna esitanza la storicità [senza alcuna riserva]». Essi «trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, per la loro eterna salvezza [scopo di tutta la sua attività]effettivamente operò e insegnò»: trasmettono cioè i veri fatti e detti del Signore (R 19: deh. 901). L'inciso evidentemente non delimita questi fatti e detti, ma addita, di tutti, le finalità. 

    Quando pertanto P. Z, deduce che «domandare ai Vangeli un insegnamento... senza errore, circa altre cose non... ordinate alla nostra salvezza, è domandar loro quello chenon banno voluto dire», identifica arbitrariamente ciò che i Vangeli hanno voluto dire (in sé anche fatti geografici, ecc.) con il loro fine ultimo (soltanto salvifico); e non tiene abbastanza presente la dignità intrinseca di tutta la parola scritturale, che, quale parola di Dio, non può mai essere contaminata dall'errore. 
     
    Tuttavia la inesatta tesi stessa dello Z. (comune a notevole parte della esegesi moderna), pienamente e coerentemente sviluppata, finirebbe indirettamente per ricadere nella totaleimmunità da errore. Basta che quell'ordine alle verità salutari si consideri non soltanto immediatamente e direttamente, ma anche indirettamente. Ciò risulterà chiaro da qualche ulteriore riflessione.
     
    In base alla sua inesatta tesi lo Z. così esemplifica (anche qui pongo dei sottolineati miei): «L'esattezza cronistica dei particolari, per esempio della successione dei fatti geografica e cronologica, si può certo esigere da una pura fonte storica, ma non dai Vangeli, se non nella misura in cui consti che la verità voluta insegnare poggia appunto sull'esattezza, sulla realtà oggettiva, di quei particolari. Almeno per parecchi casi la scienza critica sembra dimostrare (o almeno dare come la ipotesi migliore) che questa esattezza di realtà oggettiva non è il supposto necessario, inteso dall'evangelista, per il suo insegnamento di verità che hanno ordine alla salvezza». 
     
    Questo enunciato seguita, innanzitutto, a identificare poco felicemente la «pura fonte storica» con una narrazione completa ed ordinata, la quale certo nelle narrazioni saltuarie ed episodiche dei Vangeli non si può trovare. In queste la piena storicità, ossia la piena esclusione di errore, richiede invece solo che i detti e i fatti, con tutte le circostanze positivamente affermate, siano vere. Così se è descritto il luogo e il tempo di un evento (in tale luogo, dopo tanti giorni, ecc) essi debbono essere veri. Niente invece impedisce che, senza affermare positivamente la identità di tempo e di luogo, si accostino, per analogia e per sintesi, a un evento po­sitivamente presentato in un luogo e in un tempo, altri di cui non si dicono luogo e tempo. Sarebbe erroneo invece se anche di questi altripo­sitivamente si affermasse tale luogo e tempo, mentre sono avvenuti altrove, e in altro momento. Similmente, oltre le circostanze di luogo e di tempo debbono ritenersi obiettive le altre circostanze concrete, positivamente affermate. 
     
    Ma, soprattutto, il problema è male impostato perché implicitamente ed esplicitamente si riferisce a un «supposto necessario» della verità salvifica soltanto intrinseco e diretto. Questo può quasi sempre essere negato, per tutte le circostanze episodiche che sono accidentali, da chi restringa la verità ispirata alla sola dottrina. 

    Vi è anche invece un «supposto necessario» indiretto, che consiste nella garanzia della veridicità dei detti e dei fatti del Signore, che solo può nascere dalla obiettività del narratore: obiettività il cui sigillo caratteristico è dato - quando si tratta di testimoni diretti o quasi - dalla realtà delle circostanze concrete affermate. 

    Un testimone e un narratore che su eventi così grandiosi come quelli divini (e con intenti talora anche esplicitamente professati di precisione: «ho investigato accuratamente ogni cosa», Lc 1, 3) si permettesse tacitamente liberi abbellimenti e integrazioni, non avrebbe più diritto alla fiducia critica del lettore sulla sostanza stessa della sua narrazione, se non altro perché mai si potrebbe sapere quando finiscono gli adornamenti e comincia la sostanza. 

    Qualche esegeta suol rispondere che questa libertà dell'agiografo deve essere necessariamente ammessa per superare le difficoltà di interpretazione e di concordanza di alcuni passi. Ma io sfido a citarmi nei Vangeli una sola di tali difficoltà veramente insuperabile: non c'è. E non ci può essere. 
     
    QUESTIONI DI BUON SENSO 
     
    Tornando all'articolo che sto considerando, non potevo anche non attendermi e infatti ho trovato, il solito alibi che non manca nemmeno nelle esegesi anche ben più disgregatrici della piena verità storica dei Vangeli. Si afferma cioè che questa storicità ridimensionata, anziché menomare, tornerebbe a vantaggio della ricchezza del messaggio evangelico. Dice P. Z.: «Il Gesù storico di alcuni moderni scrittori, che vogliono dare... come degli altri personaggi... un ritratto di Gesù psicologico storico, con tutti i particolari di cronologia e di geografia ecc., rischia di nascondere il... Cristo Figlio di Dio... che è quello che gli evangelisti soprattutto ci vogliono dare». 

    Certo una descrizione soltanto naturalistica di Gesù come di ogni altro uomo ne distruggerebbe la suprema grandezza. 

    Ma ciò non ha niente a che vedere con le accurate precisazioni di modo, tempo, luogo, ecc., quali si possono avere dall'esame critico dei testi, perché esse non servono che agarantire la storicità di Gesù, senza la quale la sua divina grandezza si dissolverebbe nel sogno.
     
    E' una riflessione di semplice buon senso. 
     
    Vorrei concludere rilevando che nelle ottime intenzioni di tale esegesi questa ridotta nozione di storicità dei Vangeli dovrebbe costituire anche un modo per andare incontro alle obiezioni degli avversari. 

    Ma a quali avversari si pensa: logici o illogici? Non sarebbe certo raccomandabile di subordinare la nostra linea critica a pretese illogiche. 
    Se si tratta pertanto di avversari logici, questa presentazione della storicità non potrà invece che allontanarli (15).
     
     
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    Credente
    00 26/10/2014 21:29

    Storicità del cristianesimo:
    andare oltre Bultmann

    Attraverso il suo metodo (il metodo della scuola tedesca) definito“critica delle forme”, egli riteneva gran parte dei Vangeli un mitoe questa è l’idea che si sono fatti generazioni di studiosi e milioni di persone influenzate dai loro studi. Fortunatamente, nella fase recente degli studi, l’autenticità storica dei Vangeli è stata riaffermata dalla maggioranza degli studiosi e il pensiero di Bultmann, inevitabilmente, è stato decisamente superato.

    Proprio in questi giorni viene pubblicato in America il volume Beyond Bultmann: Reckoning a New Testament Theology (Baylor University Press 2014), curato da tredici studiosi. Lo storico del cristianesimo Larry Hurtado, professore emerito di New Testament Language, Literature and Theology presso l’University of Edinburgh, ha presentato il volume spiegando«Sono fortemente critico verso il lavoro di Bultmann. Lo critico per aver avvicinato gli antichi testi cristiani con un criterio teologico, una particolare formulazione di “giustificazione per fede”, con la quale ha poi giudicato se gli scritti fossero validi o meno».

    Sono molti altri gli studiosi critici verso il suo lavoro: John P. Meier, docente di Nuovo Testamento presso il dipartimento di Teologia della University of Notre Dama (e considerato da molti il più importante studioso vivente della storicità del cristianesimo), ha scritto: egli aveva un «modo sconcertante di risolvere complesse questioni con poche ed evasive frasi, i suoi argomenti non reggono anche se sono stati tramandati per generazioni» (J.P. Meier, “Un ebreo marginale”, volume 2, p.9).

    Per Bart D. Ehrman, presidente del Department of Religious Studies dell’Università della Carolina del Nord, «tra le nostre fila non vi sono più critici delle forme che concordano con le formulazioni di Bultmann, il pioniere di tale interpretazione» (B.D. Ehrman, “Did Jesus Exist?”HarperCollins Publishers 2013, p. 86).

    Perfino il biblista e storico Mauro Pesce, studioso minore ma sorprendentemente noto in Italia per un suo libro contro la storicità del cristianesimo (scritto con il presentatore televisivo anticattolico Corrado Augias), ha affermato: «Mi sembra anche superata quella corrente di studiosi (fra cui Bultmann) che riteneva impossibile avere su Gesù, su ciò che egli pensava e faceva, conoscenze storiche sufficientemente certe. Negli ultimi trent’anni la convinzione che si possa ricostruire un’immagine storica di Gesù si è molto rafforzata»(C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006 p. 65).