00 16/11/2012 20:41

Capitolo 14

 

 

vv. 1-5. lettura

Notiamo l'incalzare delle visioni: dalla realtà terrena delle due bestie torniamo al cielo facendo tappa sul monte Sion che costituisce il cuore di Gerusalemme, il luogo sacro per eccellenza. Ciò significa che l'Agnello si trova in un contesto liturgico, nel massimo della sacralità possibile. E questo contesto è confermato dal suono delle arpe, dal canto che diventa "un cantico nuovo", misterioso a tal punto da essere compreso solo da centoquarantaquattromila persone.

Siamo davanti all'Agnello vittorioso, ritto sul monte Sion e circondato dai centoquarantaquattromila che "recavano sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo" (v.1). Costoro vengono descritti in modo più preciso nei vv. 4 e 5: "Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti fra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia.".

 

Alcuni interpreti ritengono che i centoquarantaquattromila siano coloro che hanno abbracciato lo stato di verginità (interpretazione letterale), quelli che fin dall'inizio della Chiesa sono vissuti in tale stato di vita. Sono i salvati, primizia di tutto il popolo di Dio.

Altri studiosi invece (interpretazione più valida), risalendo ai testi profetici che parlano dell'idolatria usando il termine prostituzione (vedere Osea), sostengono che ci troviamo di fronte al simbolo dell'idolatria. Quindi le donne indicate nel brano sono da intendere come prostitute, come simboli degli idoli.

Di conseguenza i centoquarantaquattromila sarebbero coloro che si sono mantenuti fedeli al Signore, che non hanno macchiato le loro vesti prostituendosi alle divinità, che non sono menzogneri - in senso biblico -. E' il caso di ricordare che essere menzogneri vuol dire l'opposto di essere puri di cuore, sinceri. E pura di cuore è la persona che ha accolto in sè il Signore e lo mostra all'esterno; sulla sua bocca non compare menzogna perché le parole pronunciate corrispondono alle idee, ai sentimenti. I puri di cuore sono coerenti. I farisei invece rappresentano l'ideale dell'ipocrisia e, quindi, della menzogna.

Il discepolo ideale resta fedele sempre al Signore, è puro e coerente, segue il suo Signore ovunque vada senza mai macchiare i suoi abiti.

Allora i centoquarantaquattromila sono gli unici che possono capire il cantico nuovo, ossia il cantico di lode all'Agnello vittorioso, quindi il cantico della resurrezione.

 

vv. 6 -13. lettura

"Gli angeli annunziano l'ora del giudizio."

Notiamo la parola "vangelo" ("buona novella"). E' l'unica volta che nell'Apocalisse compare questo termine.

"...un vangelo eterno..." viene proclamato da tre angeli e contiene:

a) un avvertimento;

b) un fatto (la buona notizia);

c) una minaccia.

In quanto "eterno" è immutabile e definitivo.

 

a) Leggiamo in proposito il libro della Sapienza 13, 1-9, che è parallelo a quanto scritto in Ap 14,7 cioè all'avvertimento (temere, adorare e dare gloria a Dio creatore del cielo e della terra).

La sapienza umana, con tutto il suo impegno di ricerca, può portare, perfino, ad adorare le creature al posto del creatore. Pensiamo al mito della scienza del giorno d'oggi, all'uomo che riesce a clonare un altro uomo. Le persone che sbagliano strada e bersaglio considerano la creatura come una divinità.

 

Proseguiamo la lettura del libro della Sapienza al cap.14, vv. 22-31 per conoscere le "conseguenze del culto idolatrico".

 

Questa tematica sapienziale è ripresa da S. Paolo nella Lettera ai Romani cap.1, vv. 18-32 ("I pagani oggetto dell'ira di Dio).

 

 

Capitolo 14 (continuazione)

 

 

Riprendiamo il Cap. 14, v. 6 in cui si parla del vangelo eterno che riguarda un avvertimento, un fatto, una minaccia. Mi riallaccio al punto a) della lezione precedente per dire che l'uomo colpito dal peccato non sa più riconoscere Dio e usa le creature come fine e non come mezzo per arrivare a Lui.

Per molte persone la creatura fondamentale è l'«io» in quanto si illudono di credere in Dio ma in realtà credono solo in se stessi. Quanto volte le creature prendono il posto del Creatore! In questo senso mi riferisco perfino ai sentimenti umani più alti, come possono essere l'amore per una persona, per gli stessi figli, per il proprio coniuge. Il nostro fine è il Signore: tutte le persone, quindi, fossero anche i nostri parenti più stretti, devono aiutarci a realizzarlo.

 

Tutto è relativo; Dio solo è assoluto.

Tutto passa e Dio solo resta (ricordiamo in proposito S. Teresa d'Avila). Passano la gioia e il dolore, passano le persone ma Dio resta sempre, per l'eternità. E' una certezza che ci consola.

Solo in un contesto come questo troviamo l'uomo autentico, quello che possiede una dimensione che lo porta a Dio. E stiamo ben attenti a non ridurre l'uomo alla sola dimensione materiale.

 

Il vangelo eterno che dobbiamo annunciare a tutti dice, prima di tutto, che noi siamo fatti per il Signore. Oggi questo discorso è abbastanza accettato, contrariamente a quanto avveniva qualche anno fa. Addirittura in passato la missione della Chiesa ad gentes era concepita puramente come promozione umana: aiutare l'uomo nei suoi bisogni materiali. E, allora, l'annuncio di Cristo avveniva in un secondo tempo, quando non era escluso a priori per non "violentare" la cultura, la tradizione, la religione di un altro popolo.

Stiamo attenti perché a volte ci comportiamo così anche noi. Se noi ci fermassimo alla promozione umana avremmo fatto la metà del lavoro.

Chi va in missione per portare Gesù Cristo evidentemente dovrà sostenere l'uomo anche da un punto di vista materiale ma dovrà soprattutto aiutarlo ad andare in Paradiso.

 

b) Il fatto - v. 8

Per leggere "il fatto" riandiamo a Geremia 51, 1-8 ("Il Signore contro Babilonia").

Tante volte ha ragione il libro del Qoèlet il quale sostiene che "...non c'è niente di nuovo sotto il sole." (1,9). Cambiano gli uomini, i regimi, le forme esteriori, ma il grande combattimento tra il bene e il male resta. E anche noi, oggi, ne siamo partecipi. "Oggi" è il cairós, il momento propizio, il tempo opportuno.

 

Inoltre appare utile leggere:

Isaia 13, 1-14 ("Oracolo contro Babilonia") e

Isaia 21 ("La caduta di Babilonia").

In Isaia 23, poi, la tematica diventa generale, per esempio attraverso l'Oracolo su Tiro.

Ci troviamo di fronte a un Dio che protegge il suo popolo e che, nonostante le apparenze, vince.

Allora, come abbiamo già visto, Babilonia è la città prostituta per eccellenza, che simboleggia Roma, la quale - secondo Tacito - era ricettacolo di tutte le nefandezze. Questa metropoli era vista a quei tempi da un lato come caput mundi e dall'altro come un luogo estremamente corrotto. Roma al culmine della sua potenza e della sua espansione territoriale, secondo l'Apocalisse, era già sconfitta. Giovanni è inesorabile: Roma-Babilonia è già caduta e non risorgerà più.

 

c) La minaccia. vv. 9-11

E' rappresentata da immagini bibliche: il fuoco, il vino, lo zolfo, il fumo. Il nostro brano ci rammenta subito l'episodio biblico della distruzione di Sodoma (Genesi 19). Al di là delle varie interpretazioni sull'evento che ne ha provocato la rovina, prendiamo atto che Sodoma, città peccatrice per antonomasia, è stata distrutta. E la minaccia, in Apocalisse, è proprio quella di provocare gli stessi guai a chi adora la bestia.

Non dobbiamo però interpretare in senso letterale le espressioni di Giovanni: "Chiunque adora la bestia...sarà torturato con fuoco e zolfo...", perché si tratta di immagini bibliche.

 

vv. 12-13 - lettura

Alla salvezza conducono la fede e le opere. "Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù." (v. 12). Sono beati, costoro, di una beatitudine che ci riporta al contesto della resurrezione: "....Beati d'ora in poi i morti che muoiono nel Signore... riposeranno dalle loro fatiche...".

"Riposeranno" va inteso nel senso che ci sarà per i santi il riposo dalla testimonianza faticosa (=martirio). Infatti essi raggiungeranno il premio perché non saranno più tormentati dal nemico che voleva costringerli ad abiurare. Da questo punto di vista i santi hanno finito di faticare.

 

vv. 14-20 - lettura

"La messe e la vendemmia delle nazioni.".

In queste visioni notiamo elementi agricoli: la mietitura e la vendemmia. La mietitura ci richiama la zizzania (Mt. 13) che sarà bruciata al momento del raccolto dopo la sua separazione dal grano. Si tratta di una parabola decisamente apocalittica nel senso che ci parla del giudizio divino.

 

Nel nostro brano è descritta la sorte beata di chi resta fedele a Dio e all'Agnello ed inoltre sono presentati tre quadri: il trionfo dell'Agnello, l'annuncio del vangelo eterno con la caduta di Babilonia e "la messe e la vendemmia delle nazioni".

 

v. 20 - "...per una distanza di duecento miglia.".

La traduzione letterale del testo greco è: milleseicento stadi, numero che rappresenta il prodotto di quaranta per quaranta. Conosciamo, ormai, la pregnanza simbolica di questo numero (i quarant'anni di Israele nel Sinai, i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto...) che ci richiama immediatamente un momento difficile e bello allo stesso tempo. Difficile, come camminare nel deserto e subire tutte le prove attraversate dal popolo d'Israele; bello perché Dio guida il suo popolo.Ugualmente per Gesù è difficile reggere il confronto con satana, ma bello affrontare la difficoltà che prelude alla vittoria.

 

Le interpretazioni del brano sulla messe e sulla vendemmia sono tre:

1) per alcuni interpreti siamo in presenza di due elementi negativi, cioè la messe costituita dai malvagi e i grappoli della vite che si identificano ugualmente con i malvagi. Siamo di fronte a un drastico giudizio di Dio che sta sterminando gli empi;

2) per altri la mietitura costituisce la salvezza per i giusti e la vendemmia il castigo per i malvagi, spremuti "nel grande tino dell'ira di Dio". Per comprendere questi versetti dovremmo tenere sullo sfondo Gioele 4, 9-21. Siamo in un contesto di giudizio e di salvezza: giudizio che suona come castigo per gli empi e come sostegno per i giusti. Dio salverà il suo popolo.

In questo brano di Gioele è presente anche la tematica del Tempio, di cui si parla all'inizio del nostro capitolo 14;

3) secondo altri studiosi si evidenziano due elementi positivi, ossia la mietitura che riguarda la raccolta dei giusti e la vendemmia che si riferisce alla sorte del popolo perseguitato.

Quel vino che esce dal tino dell'ira di Dio non è altro che il sangue dei martiri che grida vendetta al cospetto del Signore. Devono, quindi, essere puniti coloro che l'hanno sparso.

 

L'interpretazione più valida sembra essere la terza.

 

La seconda parte del nostro brano, quella che riguarda la vendemmia, sembra parlare chiaramente di gente ammazzata fuori della città ("Il tino fu pigiato fuori della città..." v. 20), luogo dove normalmente venivano uccisi i martiri e dove Gesù stesso è morto (il Calvario, infatti, era fuori dalla cinta muraria di Gerusalemme).

 

Ecco allora che, prima di arrivare alle grandi vicissitudini de "I sette flagelli delle sette coppe" (cap. 15), ci apriamo ancora alla speranza: il giudizio di Dio sarà di salvezza per tutti i giusti.

La messe è il campo pronto per ricevere l'annuncio della parola (vedere, ad esempio, Gv 4 in cui Gesù paragona i Samaritani alla messe).

 

 

Capitolo 15

 

vv. 1-4 - lettura

"...un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli..." (i primi due segni apparsi erano la donna e il drago). La parola "segno" indica il momento finale della lotta.

 

In questi primi versetti notiamo diversi elementi interessanti. Ritorna il numero sette (gli angeli e i flagelli) nel v. 1, e al v. 2 troviamo un'immagine che anticipa la vittoria: "...coloro che avevano vinto la bestia...stavano ritti sul mare di cristallo." Costoro pertecipano già alla sorte dell'Agnello risorto e glorioso.

 

Al v. 3 si accenna al "cantico di Mosè".

In proposito leggiamo Esodo 15, 1-21, "Canto di vittoria" innalzato subito dopo il miracoloso passaggio del Mare dei Giunchi. E' interessante la domanda: "Chi è come te tra gli dei, Signore?" posta nel v. 11. Molti interpreti ritengono che gli ebrei siano arrivati gradualmente al monoteismo e che inizialmente credessero in varie divinità, la più importante delle quali era Jahwe. Si passò poi alla consapevolezza che esistesse un unico Dio, Jahwe, e che gli altri dei fossero un'invenzione dell'uomo.

 

Lettura di Deuteronomio 32, "Canto di Mosè dopo la liberazione dal nemico".

Mentre il "Canto di Mosè" in Es. 15 canta la liberazione dagli egiziani, qui si narrano le meraviglie compiute da Jahwe durante l'esodo, cioè durante il tragitto compiuto nel deserto.

Dio non si è limitato a liberare il popolo dalla schiavitù ma ha continuato a seguirlo amorevolmente con la sua Provvidenza.

Entrambi i cantici sono da tenere sullo sfondo per poter comprendere il cap. 15 dell'Apocalisse.

 

 

Capitolo 15 (continuazione) e Capitolo 16

 

 

Il breve cap. 15 ci dice che l'Agnello, cioè Gesù, è il vero Mosè e che la Pasqua dell'Agnello è il vero Esodo.

Nel brano della trasfigurazione, letto nella Messa della scorsa domenica, Luca (9,28-36) racconta che Gesù parlava con Mosè ed Elia della sua "dipartita" verso Gerusalemme.

Nel testo greco il termine usato è escodos, l'esodo, (e non "dipartita", quindi) perché la Pasqua viene colta con la sua precisa valenza di esodo, di passaggio, di cammino dal peccato alla grazia. Ricordiamo anche che in Gv 6,32 Gesù afferma: "...non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero..." e prosegue dicendo: "Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno..." (v. 51). Questo significa che Gesù realizza pienamente le promesse dall'Antico Testamento. Direbbero i Padri della Chiesa: ciò che lì era in figura, adesso è realizzato, diventa realtà.

La manna che aveva nutrito il popolo d'Israele era semplicemente un segno che andava compreso ben milleduecento-millequattrocento anni dopo. Era il segno del pane vero disceso dal cielo che "...è la mia carne per la vita del mondo." (Gv 6,51). Nell'opera giovannea torna spesso il paragone fra il Nuovo Testamento e l'Antico, soprattutto con personaggi cardine come Mosè, Abramo e Giacobbe.

Teniamo presente, allora, che l'Agnello, Gesù, porta a compimento quanto l'Antico Testamento aveva presentato in modo figurato.

Ci accorgeremo, adesso e in seguito, che il protagonista della vicenda è Dio con una conseguenza che la nostra sensibilità fatica ad accettare: vengono da Lui anche i flagelli che conosceremo leggendo i prossimi versetti.

 

Lettura cap. 15,5-8 e cap. 16.

La "Tenda della testimonianza" (15,5) ci riporta chiaramente all'esodo.

Notiamo che quanto scritto nei versetti 5-6-7 è presente a stralci nella Liturgia delle ore, soprattutto negli inni dei vespri.

 

 

Con il capitolo 16 inizia il terzo settenario, quello delle sette coppe, dopo gli altri già incontrati (i sette sigilli e le sette trombe).

 

Vediamo che al v. 15 il settenario viene interrotto in modo anomalo: "Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante...". Si tratta nella terza beatitudine contenuta nell'Apocalisse.

 

All'inizio abbiamo notato che dalla prima coppa vengono colpiti solo coloro "...che recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti alla sua statua." (v. 2). Però già con la seconda coppa si parla della morte di "ogni essere vivente che si trovava nel mare.".(v. 3). Con le successive coppe il coinvolgimento degli esseri viventi è apparentemente totale. Non si distingue più tra buoni e malvagi.

 

Cap. 15 - vv. 5-8.

Innanzi tutto appare la centralità di Dio con la sottolineatura di vari luoghi sacri ("...il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza...", denominata in Esodo "Tenda del convegno").

"...dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli..."(v. 6): ciò significa che i flagelli vengono direttamente da Dio. Potremmo dire in proposito che la mentalità antica non attribuiva molta importanza alle cause secondarie in quanto faceva riferimento alla causa ultima che era il Signore.I sette angeli escono dal tempio e ricevono da uno dei quattro esseri viventi le sette coppe d'oro "colme dell'ira di Dio...". Il Signore ha perso la pazienza e sta entrando nel combattimento con tutta la sua potenza.

 

" Il tempio si riempì del fumo..." (v. 8a): è la classica immagine della teofania.

Appare significativa l'espressione "...nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli." (v. 8b).

Siamo ormai alla conclusione. Poi si potrà nuovamente accedere al tempio e arrivare alla piena comunione con il Signore.

 

Con i flagelli delle sette coppe sono riprese sostanzialmente alcune delle piaghe d'Egitto.

La prima coppa produce un effetto parziale in quanto la piaga "dolorosa e maligna" (che può essere una pestilenza) colpisce solo gli adoratori della bestia.

Anche la seconda coppa è indirizzata in particolare contro la bestia, perché ne colpisce il regno, il mare. Infatti, la bestia era uscita proprio dal mare. La potenza di Roma, che si identifica con la bestia, si fondava proprio sul dominio dei mari, conquistato dopo aver sconfitto Cartagine. Anche ai nostri giorni chi domina il mare ha la supremazia sulle altre nazioni e la vittoria.

La terza coppa venne versata nei fiumi e nelle sorgenti delle acque che diventarono sangue. Questo castigo ci richiama la piaga del Nilo e di tutte le altre acque d'Egitto trasformate in sangue.

 

Chi è l'angelo delle acque? (v. 5)

Al tempo della stesura dell'Apocalisse era diffusa l'opinione che gli angeli presiedessero ai vari elementi (come l'acqua, il fuoco, la terra, eccetera).

 

 

In questo brano (vv. 5-6 del cap. 16) l'angelo delle acque proclama l'inno alla giustizia divina. Ci troviamo così di fronte per la terza volta alla descrizione del giudizio di Dio (i sette sigilli, le sette trombe e le sette coppe), che è ternario. Questa continua ripresa dello stesso tema richiama le encicliche di Papa Giovanni Paolo II, che sono strutturate secondo il tipico modo ciclico di ragionare dei teologi orientali. E anche qui avviene la stessa cosa con la descrizione del giudizio

 

Nel v. 6 Dio ci viene presentato come il Dio del taglione:

"Essi hanno versato il sangue di santi e di profeti,

tu hai dato loro sangue da bere..."

Hanno versato il sangue; il loro sangue sarà versato. Questa è la giustizia retributiva in senso stretto, in base alla quale la pena viene commisurata al reato commesso. Tale giustizia è lodata dalla voce che viene dall'altare:

"Sì, Signore, Dio Onnipotente;

veri e giusti sono i tuoi giudizi!" (v. 7)

Dio ci provoca alla conversione, ad avere consapevolezza del male commesso e, di conseguenza, a pentirci e a convertirci.

Credo che da questo punto di vista l'Apocalisse abbia ragione: il nostro è un Dio che ad ogni costo vuole portarci in paradiso. Purtroppo gli uomini di cui si parla nel nostro brano, anziché convertirsi, bestemmiano il nome del Signore. Anche alcune persone che noi conosciamo si ribellano e muoiono disperate perché non riescono a trovare un senso alla loro sofferenza. Dio ci perseguita con la sua grazia. Queste brevi considerazioni non esauriscono certamente il discorso sulla sofferenza, che è complicato ed ha molte sfumature. Perciò vi rimando a uno stupendo documento del Papa, la Salvifici doloris, in cui veramente troviamo tutte le possibili risposte al problema della sofferenza.

 

v. 8 - rilettura

Entra in scena il quarto angelo (quarta coppa).

Il sole, che è una delle creature bellissime di Dio, appare quasi come una potenza malefica perché "...gli fu concesso il potere di bruciare gli uomini con il fuoco.". Il sole inverte il suo ruolo e da benefico diventa malefico. E' quasi un ribaltamento della creazione. Ci troviamo di fronte, anche nel v. 9, al tema della conversione: gli uomini, invece di ravvedersi per rendergli omaggio, bestemmiano Dio perché manda il flagello. In sostanza questa è gente che non guarda le cose con gli occhi della fede e non si chiede il motivo del flagello e neppure se non debba cambiare la propria vita. Si tratta di uomini sempre sicuri di sè, disposti persino a contraddire se stessi pur di non dare ragione agli altri. (In realtà sono persone insicure).

 

 

 

La quinta coppa arriva addirittura a colpire, con la piaga delle tenebre, la sede della bestia, il cui trono è in concorrenza con quello di Dio. Ma, anche qui, gli uomini che "...si mordevano la lingua per il dolore..." continuano a bestemmiare il Signore anziché pentirsi delle loro azioni.

 

Il sesto angelo, versando la coppa (sesta coppa) sul fiume Eufrate, lo prosciuga.

L'Eufrate costituiva il confine naturale dell'impero romano verso oriente ed impediva alle orde barbariche di sconfinare. Il prosciugamento delle sue acque sarebbe servito "...per preparare il passaggio ai re dell'oriente." (v. 12).

Comincia ora a delinearsi il grande scontro finale. Per la prima volta compaiono insieme il drago, la bestia e il falso profeta (v. 13). Adesso il potere delle tre forze malefiche (cioè del male e dei suoi due derivati) si riunisce.

Con l'immagine delle rane viene richiamata una delle piaghe d'Egitto. Teniamo presente che era allora diffusa la convinzione che le rane avessero una particolare predisposizione ad incarnare gli spiriti immondi.

 

Al v. 15 appare chiaramente un'interruzione ("Ecco, io vengo come un ladro...") che ci rimanda sia al Cap. 3 dell'Apocalisse sia a un brano di Luca (12,35 e 39-40) che si legge frequentemente nelle liturgie funebri: "Siate pronti con le cinture ai fianchi e le lucerne accese..." e "...se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell'uomo verrà nell'ora che non pensate." Il v. 15 ci vuole proprio invitare alla vigilanza: "Beato chi è vigilante...".

L'autore di queste parole non è né Giovanni né un angelo e neppure uno dei quattro vegliardi, ma Gesù stesso. Ed era dal Cap. 14 che il Cristo non parlava più. Ciò significa che dobbiamo prestare attenzione alle cose importanti, a ciò che "sta dietro" e non alle apparenze.

La vigilanza à tipica di colui che è sempre pronto all'incontro con Dio realtà eterna. Chi non vigila si fa attirare dalle realtà contingenti e dimentica spesso la realtà suprema (Dio) e la sua azione.

 

Proseguiamo la lettura del v. 15: "Beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non andare nudo e lasciar vedere le sue vergogne.".

In una precedente lezione avevamo parlato delle vesti candide lavate nel sangue dell'Agnello. Coloro che indossavano quelle vesti erano associati alla vittoria di Cristo. La veste simboleggiava proprio la fedeltà estrema, fino alla morte. Chi è vigilante è sempre fedele e non accetta compromessi con la realtà del mondo.

In una parabola del Vangelo di Matteo (22, 1-14) si insiste moltissimo sulla veste degli invitati al banchetto. Colui che è privo della veste nuziale viene gettato "...fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.". Indossare la veste significa esse pronti per la grande festa del regno dei cieli.

 

v. 16

Armaghedòn. Si tratta, per la verità, di una parola composta che non esiste nella lingua ebraica. Tra l'altro, è il secondo termine ebraico citato nell'Apocalisse (il primo si trova al Cap. 9,11: "Perdizione").

Scomponiamo Armaghedòn in due parti. "Ar" significa "monte" mentre "maghedòn" potrebbe essere una forma diversa o dialettale di "Megghido". Secondo questa ipotesi, il significato del termine sarebbe: "monte di Megghido".

Megghido era una città che dava il nome a una pianura, era situata al centro delle vie di comunicazione del territorio cananeo e aveva perciò grande importanza strategica. Di conseguenza era contesa dai vari re e veniva considerata la città della guerra per eccellenza. In particolare, Megghido era nota per un famoso episodio della storia d'Israele: la sconfitta e la morte di Giosia, un re giusto e pio, autore della riforma deuteronomica. Costui venne sconfitto perché commise l'errore di cercare di fermare il faraone Necao che si recava con il suo esercito a combattere contro i babilonesi.

Dopo quell'episodio, Megghido divenne il luogo simbolo dell'oppressione di Israele, ma anche dei tentativi di questo popolo di affrancarsi; luogo di scontro tra le forze demoniache che animavano gli egiziani e le forze del bene che sostenevano gli israeliti e che nella battaglia citata vennero sconfitte.

 

Capitolo 16 (continuazione)

 

Suggerisco di rileggere, ovviamente in chiave sapienziale, le descrizioni delle piaghe d'Egitto e degli avvenimenti più importanti dell'esodo in Sapienza, 15-16-17-18-19.

Lettura, come saggio, di Sap. 18, 5-19. Vi troviamo una rilettura dell'episodio della morte degli innocenti.

Teniamo presente che il libro della Sapienza è il più recente dell'Antico Testamento essendo stato scritto pochi decenni prima della venuta di Gesù (e non accettato dal Canone ebraico perché scritto in greco) ed è quello in cui chiaramente appare l'idea della resurrezione. Per questo motivo alcune letture della liturgia dei funerali sono tratte proprio dalla Sapienza.

 

Sono particolarmente importanti i vv. 14 e 15 del brano appena letto per capire il perché della celebrazione a mezzanotte della Messa di Natale:

"Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,

e la notte era a metà del suo corso,

la tua parola onnipotente dal cielo,

dal tuo trono regale, guerriero implacabile,

si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio...".

Nel Prologo di Giovanni leggiamo che il logos,""il Verbo si fece carne". Il momento dell'incarnazione di Gesù dalla liturgia è stato stabilito in base al nostro v. 15. Allora, c'è un tempo preciso in cui la Parola diventa carne, si manifesta visibilmente? Sì, quando "la notte era alla metà del suo corso" (anticamente la notte iniziava alle sei di sera e terminava alle ore sei del mattino: quindi la mezzanotte ne era il momento centrale).

Ecco perché a Natale si celebra la Messa di Mezzanotte che, peraltro, è meno importante della veglia pasquale che rappresenta la "celebrazione madre" di tutte le celebrazioni dell'anno liturgico.

Comprendiamo, allora, che i capitoli citati del libro della Sapienza consentono una rilettura storica, cioè applicata ai fatti odierni, delle difficoltà, delle vicende di quei tempi. Rileggiamo, dunque, il passato per cogliere il significato dell'oggi.

 

Armaghedon- Al riguardo leggiamo:

a) 2 Re 9, 22-26 "Assassinio di Joram"

b) 2 Re 9, 27-28 "Assassinio di Acazia"

Come sappiamo, un re riceveva l'investitura in quanto inviato di Dio. Il Signore conferiva il potere e poteva toglierlo quando il sovrano si fosse dimostrato peccatore e, perciò, indegno. E non sempre Dio aspettava la morte di un re per ungerne un altro (vedasi il caso di Davide, unto da Samuele quando era ancora ragazzo, prima della morte del re Saul).

Nel secondo brano abbiamo notizia della morte di Acazia, re di Giuda, a Meghiddo.

c) Leggiamo ora: 2 Re 23, 29-30 "Fine del regno di Giosia". Vi si descrive la morte di Giosia che per una valutazione politica errata attaccò il faraone Necao a Meghiddo, dove venne ucciso in combattimento.

d) Altri riferimenti a Meghiddo in:

Giudici 5

Zaccaria 12.

 

Abbiamo già visto che Ar-Maghedon significherebbe "morte a Meghiddo". Ma Meghiddo è una località situata in pianura e nodo stradale di importanza strategica. Probabilmente Giovanni vuole mettere in relazione questo monte con il monte Sion dove si erano radunati i centoquarantaquattromila. In seguito vedremo la contrapposizione fra due città: Roma, la prostituta, e Gerusalemme, la città santa.

E gli ultimi capitoli dell'Apocalisse sono costruiti proprio sulla contrapposizione fra una realtà malefica e una benefica.

Allora Meghiddo, luogo dello scontro in cui le potenze infernali daranno il meglio di sè, diventa come un contraltare al monte Sion dove invece sono radunate le potenze dei vittoriosi (i centoquarantaquattromila).

 

Ap. 16, 17-21 - lettura (la settima coppa)

In questi versetti vengono ripresi diversi elementi della visione inaugurale descritta nel cap. 4. Innanzi tutto notiamo che quanto annunciato nel cap. 4 ora è compiuto.

La teofania (manifestazione di Dio) è sostanzialmente uguale nei nostri due capitoli.

 

In questo brano Giovanni annuncia qualche cosa che è già avvenuto ("E' fatto!" v. 17) e che descriverà nei capitoli successivi. Per ora l'autore crea un'atmosfera di attesa: "Dio si ricordò di Babilonia la grande per darle da bere la coppa di vino della sua ira ardente" (v. 19b). Notiamo che il flagello terribile è proporzionato alla città: Babilonia la grande merita un grande flagello.