00 16/11/2012 20:37

Capitolo 7

 

 

vv. 1-8

Abbiamo letto precedentemente nel cap.6 al versetto 11: "...e fu detto loro di pazientare ancora un poco finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che devono essere uccisi come loro".".

Alla domanda: "Fino a quando...non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue..."? viene dato come risposta l'invito ad avere pazienza, perché deve essere prima completo il numero dei santi, di coloro che offrono fa vita per Cristo.

 

Ora un angelo arriva (v. 2) e grida a gran voce agli altri quattro angeli: "Non devastate né la terra ne il mare né le piante finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi." (v. 3)

"Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattro-mila..." (v.4). Si tratta di versetti molto difficili da interpretare.

 

Il sigillo di cui parla il v. 4 potrebbe avere un richiamo in Ezechiele 9, 1-4 ("...segna un tau sulla fronte degli uomini..." v. 4).

Ci troviamo davanti al numero dodicimila per ogni tribù d'Israele, ossia al numero dodici moltiplicato per mille. E mille è il numero della totalità massima, intesa in senso biblico.

Questa scena appare un po' misteriosa perché dopo l'elenco delle tribù, al v. 9, è scritto:"... apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua.".

 

I centoquarantaquattromila sono forse una élite dei salvati? E, del resto, tutti gli altri portano una veste candida ("...apparve una moltitudine immensa...." v. 9); ciò vuol dire che anch'essi sono dei salvati.

E se i primi provengono da ogni tribù di Israele, gli altri "...da ogni nazione, razza, popolo e lingua.".

 

La risposta alla prima domanda posta al v. 10 del cap.6 è "...finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi" (7,3), mentre la risposta alla seconda domanda è data da coloro che possono resistere e cioè "...centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele...." (7,4) e da "...una moltitudine immensa che nessuno poteva contare,...avvolti in vesti candide..." (7,9).

 

I primi tre versetti costituiscono una introduzione solenne al cap. 7: quattro angeli "...trattenevano i quattro venti perché non soffiassero sulla terra né sul mare né su alcuna pianta.". Qui notiamo una dimensione universale, perché quattro è il numero dei punti cardinali e il simbolo dell'universalità.

 

Qual è il simbolo che porta alla salvezza?

Nel libro dell'Esodo si parla del sangue dell'agnello steso sugli stipiti delle porte delle case degli Israeliti, mentre in Ezechiele 9, 4-6 è scritto: "...e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abominii che vi si compiono".

Qualcuno sostiene che il sigillo dell'Apocalisse, anche se non se ne fa menzione esplicita, sia ripresa di quel "tau" che nel libro di Ezechiele rappresentava il segno della salvezza.

 

Leggere Genesi 49, in cui vengono elencate le tribù di Israele e, per ogni figlio di Giacobbe, sono indicate le caratteristiche e le gesta.

 

Capitolo 7 (continuazione)

 

 

Nel v.5 leggiamo l'elenco dei dodicimila segnati da ogni tribù dei figli d'Israele.

 

Lettura di Genesi 49 - "Le benedizioni di Giacobbe" - in cui sono elencate le tribù che componevano il popolo di Dio.

Nelle benedizioni di Giacobbe notiamo delle singolarità. In particolare, noi sappiamo quanto fosse importante la primogenitura per la cultura ebraica, ma nel brano ora letto notiamo che Ruben viene spodestato per la sua cattiva condotta e che neppure il secondo e il terzogenito assumono la condizione preminente che sarebbe spettata al primogenito. Infatti, colui che riceve veramente la benedizione di Giacobbe è Giuda (v. 8) la cui tribù, al momento della composizione di questa parte della Genesi, si trovava al sud in situazione di preminenza. Si sa che in quel periodo storico la tribù di Ruben aveva ben poco potere mentre quella di Levi era diventata la tribù dei sacerdoti, ossia di coloro che non possedevano territorio e non avevano, quindi, alcun potere politico. Ricordiamo, in proposito, il salmo 16, il canto del levita, cioè di colui che ripone solo in Dio la sua sicurezza, il suo fondamento.

D'altra parte anche la tribù di Simeone aveva ormai un ruolo insignificante.

 

Inoltre sappiamo che al nord la tribù più potente era quella di Efraim, tanto che il suo nome divenne quello collettivo di tutta la popolazione, come è detto in vari salmi.

Efraim era figlio di Giuseppe la cui tribù quasi subito di divise in due: Efraim e Manasse (vedi Genesi 48,20 in cui si narra di Giacobbe che adotta e benedice questi due figli di Giuseppe). Fondamentalmente potremmo dire che attraverso l'adozione il nonno fa suoi i nipoti Manasse ed Efraim, le cui tribù entrano così a pieno titolo fra quelle di Israele.

Di conseguenza le tribù diventano tredici, di cui dodici stanziate su proprio territorio, con relativi confini, e una, quella di Levi, senza territorio e con il compito del sacerdozio, della custodia dei santuario, dei sacrifici.

 

Leggere Genesi 48.

Nell'episodio dell'adozione narrato nell'ultima parte del capitolo è evidente una sostituzione: Manasse, il primogenito, viene soppiantato da Efraim per una precisa scelta di Giacobbe.

 

Constatiamo che la sequenza del cap. 7 dell'Apocalisse non rispetta l'ordine dell'elenco delle tribù contenuto in Genesi 49.

 

Le tribù più povere, più emarginate, sono collocate ai primi posti nell'elencazione del nostro cap. 7. E Giuda non può che essere la prima perché da questa tribù uscirà Davide e da Davide discenderà il Messia. Potremmo dire, allora, che dai vv. 5-8 emerge un Israele nuovo che è basato sulle dodici tribù moltiplicate per mille, numero che significa agli occhi di Dio la pienezza, la totalità.

Centoquarantaquattromila è evidentemente un numero simbolico, il quadrato di dodici moltiplicato per mille, ossia l'Israele perfetto.

 

 

vv. 9 - 17 - lettura

Notiamo che la prima scena del nostro brano è ambientata sulla terra, mentre la seconda scena avviene in cielo. Ancora una volta siamo di fronte a una liturgia celeste grandiosa, stupenda, che viene celebrata davanti al trono e all'Agnello.

Questa "moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (v. 9) partecipa già alla vittoria dell'Agnello.

 

E tutti erano "...avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani.". (v. 9b)

La veste candida è il segno della resurrezione, mentre la palma simboleggia la vittoria. Ciò significa che questa moltitudine immensa appartiene già tutta intera alla salvezza.

 

Ci troviamo di fronte alle due Chiese (che sono poi una Chiesa sola) che potremmo chiamare:

a) la prima, la Chiesa militante, ancora sulla terra in attesa del sigillo sulla fronte, che combatte (metaforicamente) per estendere il regno di Dio nel mondo (noi apparteniamo a questa Chiesa);

b) la seconda, la Chiesa trionfante, è composta da coloro che, esaurito il loro compito terreno, sono stati giudicati buoni, fedeli e vigilanti e si trovano in Paradiso.

Le due Chiese, le due scene, sono complementari: una ci dice che sulla terra il numero dei discepoli, segnati con il sigillo, è immenso; l'altra che il numero di coloro che hanno raggiunto la salvezza e che partecipano della vittoria di Cristo è ugualmente immenso.

Noi siamo la Chiesa militante e coloro che noi definiamo morti costituiscono la Chiesa trionfante e continuano a vivere in Dio per collaborare alla sua opera di salvezza.

 

Concludiamo la spiegazione del v. 9 soffermandoci su "...e portavano palme nelle mani."

La citazione delle palme potrebbe costituire un riferimento alla "Festa delle capanne" e, in particolare, al rito della processione dei pellegrini che salivano al tempio agitando appunto rami di palma in segno di tripudio e di gioia grande.

 

 

 

 

v. 10 - rilettura.

"La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello."

Erano le parole cantate dai pellegrini durante la processione (evidente è il riferimento al salmo 118 "Liturgia per la festa delle capanne").

 

v. 14

Come conferma che la festa delle capanne è presente nel nostro brano, notiamo il rito conclusivo dell'acqua, che darà poi a Gesù l'occasione di parlare dell'acqua che risana, come nell'episodio della guarigione del paralitico (Gv 5)

Si tratta di un rito importantissimo nella festa delle capanne. Il sacerdote, infatti, alle prime luci dell'alba andava ad attingere l'acqua, che veniva poi portata in grandi recipienti all'altare dove era benedetta in quanto sarebbe stata la fonte di vita per l'anno successivo.

Era quasi come una caparra: l'acqua benedetta avrebbe dovuto portare la vita, avrebbe dovuto essere una sorgente nuova:

... né avranno più sete,

né li colpirà il sole,

né arsura di sorta, ..." (v. 16)

Siamo di fronte a una sorgente, siamo in un clima particolare di festa di ringraziamento che ancora oggi celebrano i nostri agricoltori in autunno. E si tratta di un contesto liturgico tipico, secondo vari studiosi, della festa delle capanne.

 

v. 17

Ci immaginiamo "...l'Agnello che sta in mezzo al trono...". E rileggendo il v. 15, in particolare la sua ultima parte ("...e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro."), ci ritorna alla memoria il v. 14 del Prologo del Vangelo di Giovanni nella giusta versione dal greco:

"E il Verbo si fece carne

e pose la sua tenda in mezzo a noi,..."

Con il riferimento alla tenda abbiamo una ripresa di tutta la cultura ebraica e in particolare di quella dei primi tempi, i tempi del deserto, quando Jahwe viveva sotto una tenda, prima che fosse costruita per Lui una casa di legno di cedro. Ricordiamo che la maggior parte dei profeti era nemica del tempio, al quale attribuiva la mortificazione della religione autentica. Secondo costoro, infatti, il tempio aveva "incasellato" Dio e aveva reso superbi gli ebrei.

 

 

 

 

 

Le lodi che la moltitudine rende a Dio ci dicono che la salvezza viene da Lui, che la fonte della grazia non siamo noi, bensì il sacrificio di Cristo, sul quale si innestano le nostre opere buone che contribuiscono a renderlo ancora presente e ad essere salvezza per noi, per gli altri e per l'umanità intera.

Notiamo ancora una volta che gli attributi di Dio sono sempre sette (vedere v. 12) per significare la perfezione, la pienezza delle sue doti. Soffermiamoci poi su una bella immagine: l'Agnello del v. 17 sarà il pastore che condurrà il gregge.

 

Abbiamo visto così quale sarà la sorte di tutti coloro che passeranno attraverso la tribolazione e avranno il coraggio di restare fedeli e di partecipare al sacrificio di Cristo.

 

Cristo vive nel corpo mistico che è la Chiesa. Se leggiamo in Atti 9 il brano della conversione di S.Paolo, rimaniamo colpiti dalla frase pronunciata da Gesù: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (Atti 9,4). Ma Paolo non stava certamente perseguitando Gesù (che era già morto e risorto) ma la Chiesa. Siamo di fronte a una identificazione bellissima di Cristo con la sua Chiesa. Ciò significa che il sangue dei martiri si confonde con quello dell'Agnello e significa anche che le nostre sofferenze e i nostri dolori si fondono e si confondono con i dolori e le sofferenze di Cristo e che le nostre opere buone si fondono e si confondono con quelle di Cristo.

E' evidente la responsabilità che ricade così su tutti i membri della Chiesa (in positivo e in negativo) Pensiamo a questo quando partecipiamo alla Messa.

 

Capitolo 8

 

vv. 1 - 2 - lettura

Stiamo passando da una scena molto movimentata al silenzio totale. La venuta di Dio implica sempre nei profeti un momento di giudizio e di salvezza. Sottolineo: giudizio e salvezza.

Leggiamo in proposito: Zaccaria 2, 17

Abacuc 2,20

Sofonia 1,7-16.

Tutto quanto è narrato in quest'ultimo brano è stato preparato dal silenzio davanti a Dio che sta per arrivare.

 

"...e si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora."(v. 1)

Si tratta in una indicazione simbolica, di un tempo incompiuto. E' un tempo di attesa che ci introduce a uno dei settenari più famosi, quello delle trombe che entrano in scena per l'apertura del settimo sigillo.

 

vv. 3 - 5 - lettura

Ecco un altro angelo che regge un incensiere d'oro. I versetti che ce lo presentano fanno da parallelo ai capitoli 4 e 5, cioè fungono da introduzione a una solenne liturgia.

Leggiamo in proposito Esodo 30,1 e 30,7-10 in cui si parla di un altare che funge da luogo di lode perenne a Dio, con un incenso che brucia sempre. Ma è anche il luogo dove una volta all'anno il sacerdote compie il rito dell'espiazione per i peccati di tutto il popolo.

L'incenso, mischiato ai profumi e bruciato sull'altare d'oro e offerto insieme con le preghiere di tutti i Santi, rappresenta una ripresa dei riti di espiazione e di perdono. Il contesto è litugico ma ben delimitato: prima c'era la lode, adesso ci sono l'espiazione e il perdono. Sono tutti aspetti della liturgia che, a ben riflettere, sono presenti nella Messa.

Allora è bello pensare e constatare attraverso il nostro brano che il "fuoco preso dall'altare" si riversa sulla terra "insieme con le preghiere dei santi" (vv. 4-5). E abbiamo subito sulla terra le condizioni tipiche delle teofanie, cioè della manifestazione del Signore: "...scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto." (v. 5) Ciò significa che esiste una comunicazione tra terra e cielo.

 

Ma la sottolineatura più importante è per "le preghiere dei santi". Questi versetti ci dicono proprio che il Signore tiene in considerazione tutte le nostre preghiere e le porta alla perfezione (notiamo l'aggiunta degli aromi). Quindi, non solo appare legittimo pregare, ma è doveroso pregare per chiedere qualche beneficio al Signore. Gesù stesso aveva detto: "...Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto." (Lc. 11,9). La preghiera di richiesta è una delle più belle, perché con essa riconosciamo l'esistenza di Qualcuno più grande di noi, che può operare ciò che a noi risulta impossibile.

Ugualmente importante è la preghiera di intercessione per gli altri, per i fratelli, per il mondo intero.

Il Signore quindi accetta le nostre preghiere e le purifica da tutti i nostri egoismi per farle poi ricadere sulla terra, manifestando così la sua divina presenza.

v. 6 - lettura

I sette angeli potrebbero essere definiti "gli angeli della faccia" perché stanno direttamente al cospetto di Dio e lo guardano quindi in faccia. Essi potrebbero costituire la categoria "angeli" più alta, essere cioè i capi.

Sappiamo che l'Antico Testamento ci presenta tre angeli molto importanti, che noi chiamiamo arcangeli: Gabriele (=forza di Dio), Michele (chi è come Dio?), Raffaele (= Dio è medicina oppure medicina di Dio).

Gabriele, famoso saprattutto per l'Annunciazione, nell'Antico Testamento è l'angelo che in Daniele rivela i progetti di Dio, il senso dei sogni e delle visioni.

Michele è l'angelo guerriero, il capo dell'esercito di Dio e tradizionalmente viene raffigurato a guardia de paradiso terrestre con la spada fiammeggisante.

Raffaele, invece, si incontra nell'episodio ben noto narratro nel libro di Tobia ed è l'angelo che toglie la cecità al protagonista.

 

Di solito gli angeli vengono presentati nell'Antico Testamento nei momenti cruciali della storia d'Israele (ossia nei tempi in cui sono stati composti i libri nei quali questi angeli sono nominati) come:

a) all'epoca dell'esilio babilonese;

b) durante la persecuzione da parte di Antioco IV Epifane.

 

Ecco, nel nostro v.6 compaiono i sette "angeli della faccia" con una tromba ciascuno.

In alcuni brani apocalittici da noi letti precedentemente si parla delle trombe. In S.Paolo (1 Corinzi 15,52) è scritto: "...suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati".

 

La tromba ("shofar") era ricavata da un grande corno d'ariete e il suo suono veniva udito a notevole distanza. Nell'Antico Testamento serviva essenzialmente per due scopi:

1) liturgico. Infatti questo strumento era usato per acclamare la regalità di Dio nelle liturgie solenni, tanto è vero che nelle teofanie dell'Esodo, quando Dio si presentava, si udiva sempre il suono delle trombe. Sappiamo anche che una grande tromba veniva adoperata per convocare il popolo alla liturgia nelle maggiori solennità;

2) guerresco. Le trombe chiamavano all'adunata e davano poi il segnale d'inizio dell'attacco.

Abbiamo una commistione di uso liturgico e guerresco in un episodio del'Antico Testamento che descrive la caduta delle mura e la successiva conquista della città di Gerico. In proposito è opportuno leggere Giosuè 6, 1-20.

Proprio nel settimo giorno, il sabato, il Signore manifesta la sua potenza dimostrando che il popolo di Israele può entrare nella città senza colpo ferire semplicemente facendo crollare le mura.

E le trombe, strumento liturgico, diventano il segno della presenza divina perché avanzano "davanti all'arca del Signore" (v. 12).

 

Nell'episodio della presa di Gerico appare evidente un giudizio per la città "votata allo sterminio per il Signore" (v. 17), ma è altrettanto evidente un momento di salvezza sia per il popolo che occupa la città sia per la prostituta Raab, la quale aveva ricevuto la promessa di avere salva la vita propria e dei suoi familiari purché esponesse alla finestra un filo rosso, come segno di riconoscimento per gli ebrei.

Il filo rosso, secondo i Padri della Chiesa, simboleggia il sangue di Cristo che salva coloro che si affidano a Lui.

 

Nel libro di Isaia è presente una dimensione escatologica, che poi sarà ripresa da S.Paolo: Alla fine dei tempi "...suonerà la grande tromba..." (27,13) per radunare tutti i figli d'Israele. Quindi la tromba costituisce un richiamo all'unità del popolo ebraico.

 

vv. 7-13 - lettura

I flagelli evocati da Giovanni, e descritti nei versetti ora letti, sono tipicamente biblici e richiamano sicuramente alla nostra memoria le piaghe d'Egitto (Esodo 7-11) che sono servite a colpire gli empi e a liberare, a salvare il popolo.

Ci troviamo ancora in quel duplice contesto di giudizio e di salvezza che conosciamo fin dall'inizio del libro. Il fatto che Giovanni ci trasporti nel clima del Vecchio Testamento ci aiuta a non interpretare letteralmente questi flagelli che hanno, invece, la funzione teologica di presentarci un Dio che giudica e che, nello stesso tempo, salva.

 

Notiamo una progressione nella durezza di questi flagelli. Difatti nell'episodio della prima tromba non vengono colpiti gli uomini, mentre nel secondo episodio sono toccate altre creature viventi. Soltanto con il suono della terza tromba sono interessati gli uomini. Con la quarta tromba viene coinvolto tutto il cosmo. C'è proprio un crescendo: si va dai vegetali, dagli esseri viventi, all'uomo, all'universo intero.

Vale la pena di sottolineare che tutti i flagelli menzionati sono finalizzati alla conversione degli uomini e che i primi quattro hanno, potremmo dire, una funzione pedagogica.

E in tutto questo si cela una verità molto bella: Dio vuole portarci a tutti i costi in Paradiso. Il che significa: costi quel che costi a noi.

 

 

 

Io credo che per alcune persone la sofferenza rappresenti l'estremo segnale che Dio manda per indurlo alla conversione. Il Signore ci vuole vicini. Egli sa che la peggior sorte che ci può capitare non è la sofferenza terrena ma quella eterna. Infatti Gesù Cristo è morto per liberarci dall'inferno.

 

I flagelli colpiscono soltanto una parte dei vegetali, delle acque, degli animli della terra, del cosmo. Ciò vuol dire che il mondo non viene distrutto totalmente ma soltanto una terza parte. E riguardo al genere umano è scritto addirittura "molti uomini". Ciò significa che qui Giovanni riprende un tema bellissimo del profeta Michea che parla del "resto di Giacobbe".

 

Michea 5, 6-7 - lettura.

In questo brano abbiamo prima un'immagine molto bella (la rugiada e la piogga) e poi un'altra meno poetica (il leoncello che sbrana).

Nel giorno del giudizio Dio terrà per sé i bravi, i buoni, coloro che accompagneranno il Messia (secondo le varie concezioni dell'ebraismo). Il Signore vaglierà il suo popolo e troverà che alcuni, pochi, saranno rimasti fedeli. Questi pochi sono definiti con il termine tecnico "il resto d'Israele".

 

Nei primi quattro quadri delle trombe il "resto" non è poi così esiguo se costituisce i due terzi. Ciò significa che la misura che il Signore usa non è stretta come quello del Dio dell'Antico Testamento. Un terzo di quanro esiste nel mondo perisce ma i due terzi restano.

Emerge ora anche il tema della ricapitolazione universale in Cristo: "...tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto..." (S.Paolo - Romani 8,22) in attesa di essere restituita al suo candore, alla sua bellezza. Tutto partecipa alla salvezza con un criterio misterioso, che sappiamo però più largo di quello dell'A.T.

Basterebbe questa osservazione: nell'Antico Testamento la salvezza si pone non per tutti gli ebrei ma soltanto per "il resto d'Israele", mentre in Apocalisse la dimensione appare universale ("...ogni nazione, razza, popolo e lingua." Ap.7,9).

Per avere una riprova della ristrettezza del "resto" si può leggere Zacc. 13, 8-9.

 

v.13 - lettura

Con questo versetto Giovanni introduce i "guai" che saranno descritti nel successivo capitolo.

 

 Capitolo 9

 

 

vv. 1-20 - lettura

La quinta tromba. La sesta tromba.

 

Siamo di fronte, probabilmente, alla visione più complicata del libro dell'Apocalisse.

E' tutto un intrecciarsi di strane situazioni in queste visioni. Le cavallette in alcuni momenti sembrano cavalli di guerra e in altri paiono cavalieri con sembianze umane. L'angelo dell'Abisso nell'episodio della quinta tromba compare all'inizio e alla fine del brano,mentre nella scena riguardante la stessa tromba vengono "...sciolti i quattro angeli..." (v.15) "...incatenati sul gran fiume Eufrate..."(v.14).

In proposito si possono fare delle osservazioni:

1 - in primo luogo notiamo che il potere di tutti questi esseri è limitato. Al v.3, per esempio, è scritto "..e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra." e al v.4 viene concesso alle cavallette di danneggiare"...soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte." e "Però non fu concesso loro di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi..." (v.5).

Il potere di queste creature è sempre limitato. Torna così il tema del male che non ha un potere assoluto.

 

Che cosa rappresentano le visioni delle cavallette e dei cavalieri? Sicuramente la prima richiama la piaga delle cavallette d'Egitto.

Lettura di Esodo 10, 1-6 in cui sono descritti dei fenomeni, naturali all'epoca. Il senso del miracoloso dato dall'autore del testo sta nell'abilità, di aver riunito tutte insieme la piaghe. Ecco il sottofondo teologico della piaga delle cavallette: come nel libro dell'Esodo si parla di un faraone che ha il cuore indurito (come i suoi ministri e i suoi funzionari), così nel libro dell'Apocalisse si presenta un mondo che ha il cuore indurito e non si vuole convertire.

 

2 - Quale interpretazione dare a questo brano? Certamente non un significato letterale.Vediamo, allora, gli avvenimenti come realmente accaduti e trasfigurati dai simboli oppure come dei fatti che dovranno verificarsi alla fine del mondo?

Direi che tuttta la narrazione sia da interpretare secondo l'idea della strada: il cammino della storia umana è come un strada, per cui uno stesso avvenimento si ripete durante il persorso. Per esempio, potremmo dire che, dietro queste immagini, davanti agli occhi di Giovanni erano presenti le scorrerie tremende dei Parti e delle orde barbariche che da nord (Caucaso) premevano sui confini dell'impero.

 

 

 

L'importante è tener presente che la situazione di pericolo e di minaccia non è circoscritta a quel momento, ma si ripeterà durante tutta la storia dell'umanità. La guerra, le scorrerie dei barbari (chiamiamoli pure con nomi di attualità) con il procedere delle storia continueranno a verificarsi. Leggiamo il brano con le valenze teologiche date dall'Apocalisse: le forze del male possiedono un potere limitato e, perciò, non prevarranno.

Il nostro è un libro di speranza e, quindi, interpretiamo quanto narrato anche come un invito alla conversione, alla purificazione del nostro cuore.

 

L'Apocalisse non ci racconta come sarà la fine del mondo bensì ci offre i criteri d'interpretazione della storia odierna.

 

La sesta tromba trova un paragone molto significativo in uno dei brani apocalittici più antichi (Ezechiele 38 e 39), che ci parla di Gog, mitico re simbolico, che regnava su Magog, luogo della malvagità.

Si tratta, in conclusione, di avvenimenti reali di ogni tempo, da non prendere alla lettera, e trasfigurti dai simboli. Sottolineamo ancora una volta il crescendo dei flagelli: nell'episodio della quinta tromba gli uomini vengono tormentati per cinque mesi - quindi un breve periodo - mentre nella scena della sesta tromba un terzo dell'umanità è ucciso.

 

vv. 20-21 - lettura.

Sono versetti importanti perché danno il senso delle due visioni. I flagelli descritti (quinta e sesta tromba) accadono perché gli uomini praticano l'idolatria e di conseguenza operano in modo malvagio. E allora tutti questi guai dovrebbero servire a portare gli uomini al vero Dio e ad aiutarli a compiere le opere buone.

 

 

Capitolo 9 (continuazione)

 

 

Ribadiamo il concetto più volte espresso: l'Apocalisse ci fa ripercorrere a ritroso tutta la Sacra Scrittura.

 

vv. 20-21 - lettura

Abbiamo rilevato che la parziale distruzione (v. 18) aveva come scopo la conversione dell'umanità, che però rivela un cuore duro. La mancata conversione ci ricorda lo sfondo delle piaghe d'Egitto: il faraone non cambia l'atteggiamento del cuore e resta sulle sue posizioni. Ma questa è anche la logica del prologo del Vangelo di Giovanni, in cui il logos, nonostante tutti i tentativi, non viene accettato dal mondo. In particolare leggiamo:

"... la luce splende nelle tenebre

ma le tenebre non l'hanno accolta." (Gv 1,5)

"Venne fra la sua gente

ma i suoi non l'hanno accolto." (Gv.1,11)

 

Alla fine, ecco la presenza di Gesù che però pochi accolgono e tanti rifiutano (e su questo il Vangelo di Giovanni è chiarissimo).

 

La causa dei flagelli è l'idolatria; perciò bisogna indurre l'uomo a convertirsi ed ad allontanarsi dagli idoli.

Come classico esempio di idolatria leggiamo il brano "Il vitello d'oro" narrato in Esodo 32, 1-6. Si tratta di un episodio che influirà molto sulla spiritualità di Israele tanto da essere richiamato, per la sua drammaticità, in diversi salmi, come nel salmo 106 v.20:

"...scambiarono la loro gloria

con la figura di un toro che mangia fieno".

 

Evidenziamo due aspetti dell'idolatria:

 

1 - la degradazione di Dio.

Hai un Dio che parla, agisce e ascolta, ma ti accontenti di un idolo che ha bocca e non parla, ha orecchi e non ascolta. Ci troviamo in un clima molto diffuso anche oggi. Come conferma, pensiamo, ad esempio, alla superstizione, che è degradazione di Dio. Il mondo è ancora affollato di persone che credono negli idoli e per questo vanno tanto di moda certe "filosofie" orientali, che non sono vere e proprie religioni. In fondo l'uomo ha un idolo fondamentale, sintesi di tutti gli idoli: se stesso.

 

 

 

L'uomo cerca se stesso.Ed ecco, allora, che quando vuole trovare se stesso è disposto a crearsi anche un "dio-fantoccio" che inventa le cose: "lui" è tua immagine, non tu immagine sua

Ti dichiari credente ma in che cosa credi? E' terribile l'odierna forma di idolatria perché, in fondo, esprime un bisogno di Dio, purtroppo colmato male. Una idolatria che ti accontenta perché hai trovato te stesso come idolo.

Pensiamo, ad esempio, alle teorie della reincarnazione, così di moda, e alla "New age", quell'eresia moderna che dona la tranquillità di aver trovato Dio in se stessi. Trova te stesso e avrai trovato Dio. (Anche S.Agostino affermava che nell'interno dell'uomo abita Dio, ma con un significato molto diverso).

 

Le filosofie e le tecniche di meditazione che non sono finalizzate a Cristo rendono l'uomo idolatra di se stesso.

 

Proviamo a leggere in chiave critica quell'ossessionante ricerca della forma fisica tanto in auge oggi: cos'è se non la ricerca di se stessi? Si fa pressante l'invito a valutare non superficialmente quanto ci circonda.

 

2 - il rifiuto di Dio.

Lettura del salmo 10, vv. 24-25.

In questo salmo, come in altri, è evidente il rapporto di contrasto fra i buoni e i cattivi, tra gli umili e gli empi. E ci ritroviamo con un "trattato" di psicologia religiosa in una riga. Siamo di fronte all'idolatria nel senso di rifiuto di Dio.

Notiamo la finezza psicologica del v. 25b. L'empio comincia a dire:"Dio non se ne cura..."

Quante persone, quanti giovani, diventano atei constatando, ad esempio, la presenza del male nel mondo o l'incoerenza dei cristiani. Sono fatti che fanno loro sostenere: "Dio non se ne cura" e, se anche esiste, non glie ne importa nulla. E avviene così il passaggio successivo: "Dio non esiste" (v.25).

Con il rifiuto di Dio l'uomo troverà altri idoli: il successo, il potere, il denaro, il lavoro, la famiglia, il volontariato....: sintesi di tutti questi idoli è l'io. Ci troviamo allo stesso punto: l'uomo sta idolatrando se stesso. Siamo in un clima individualista.

Stiamo attenti a valutare con la "griglia" del Vangelo e, soprattutto, dell'antropologia cristiana (cioè del significato che la parola "uomo", "persona", ha per noi cristiani) certe idee che ci vengono proposte come sacrosante.