00 15/11/2012 23:45

Esame del primo Canto

Subito appaiono alcune difficoltà relative alla sua delimitazione. Ravasi fa terminare il primo Canto (cap. 42) al v. 4, Grelot, invece, al v. 7. Per la Bibbia di Gerusalemme il canto finisce con il v. 9, mentre secondo Schokel arriva fino al v. 13.

Il nostro Canto consiste nella presentazione del Servo e, secondo soprattutto 1'interpretazione data da Grelot , si divide in due parti.

II misterioso personaggio viene presentato con un oracolo: è Dio stesso che parla. Lettura di Is. 42,1

Sono evidenti due elementi: "servo" ed "eletto". a) "Servo di Dio".

È un termine abbastanza diffuso nella Bibbia e può indicare diverse persone.

Si trova, per esempio, in Geremia 7,25 e in 1Re 1,18 per indicare un profeta, mentre nel libro dell'Esodo definisce Mosè. Inoltre in 2 Samuele 7 il titolo di "ebed" è applicato a re Davide. Quindi il Servo potrebbe essere un profeta, un patriarca o un re. Questi richiami ci saranno utili per capire la funzione di questo personaggio e il motivo per il quale la qualifica di Servo è stata attribuita a Mosè;

b) "Eletto".

Questo termine, mai applicato a un profeta, è stato attribuito a Israele, ai Leviti, a Davide, a Mosè e a Gerusalemme. Anche in questi casi abbiamo un riferimento sia a persone singole che a comunità

Nel secondo Isaia è presente qualche accenno al termine "eletto" riferito al popolo; ma nello stesso libro il popolo d'Israele viene presentato come cieco e sordo (in senso spirituale), il che è esattamente 1'opposto di come debba essere il Servo.

Potremmo già affermare che il primo canto probabilmente non si riferisce a un profeta, ma ad un re. Proviamo allora a cercare di identificare il personaggio attraverso la missione affidatagli.

Lettura di Is. 42,1b-2

Il personaggio ha delle caratteristiche non propriamente profetiche ("... non griderà...", "... non farà udire in piazza la sua voce. . . "), a meno che non si cominci ad inserirlo nel contesto nuovo del Deutero­Isaia che considera il profeta come colui che porta la speranza.

Lettura di Is. 42.3

Ecco, il nostro misterioso personaggio dovrà esercitare una funzione giudiziaria, che è compito tipico del re, il quale deve fare rispettare il diritto di Jhave. (Ricordiamo il Salmo 2, regale.)

Il Servo per svolgere la missione di portare il diritto alle nazioni ha ricevuto lo Spirito ("Ho posto il mio Spirito su di lui" v. 1).

Leggiamo in proposito Is. 11,1-4. "Il discendente di Davide".

Questo grande testo messianico - della linea del messianismo regale - ci parla dello Spirito che si posa esattamente su un re affinché realizzi il diritto di Dio applicato nel mondo.. D'altra parte questo Servo possiede anche altre caratteristiche, elencate nei vv. 3b e 4 (rilettura). Si tratta di un uomo che, pur essendo molto comprensivo, è fermo, fedele alla sua missione. E, notiamo, i modi di questa missione possono apparire strani per 1'Antico testamento, ma la fedeltà e la fermezza del Servo sono assolute fino a quando non avrà conseguito il suo scopo.

Ancora: "... e per la sua dottrina saranno in attesa le isole." (v. 4)

Nel contesto profetico, e non solo, si intendono per "isole" le parti più lontane della terra, abitate da popolazioni misteriose, che vengono viste come il paganesimo per eccellenza. Allora potremmo affermare che 1'umanità - ben oltre il popolo di Israele - sarà in attesa della dottrina di quest'uomo.

Qui ha inizio una dimensione universalistica riservata a un uomo che è portatore della dottrina di Jahve alle isole.

Nei vv. 5-7 (lettura) viene delineato lo scopo della missione. Infatti la parte centrale di questi versetti indica ciò che deve realizzare in sé il Servo, che deve essere "... alleanza del popolo e luce delle nazioni" (v. 6).

Notiamo che il Servo non viene definito come Mosè "intermediario dell'Alleanza" (infatti Dio si era alleato con il suo popolo per mezzo di Mosè). Ma, Mosè non è 1'Alleanza. Il Servo, invece, diventa alleanza del popolo. Avvertiamo che qui in controluce si vede già Gesù. Lui è 1'alleanza del popolo. E il Servo non è soltanto "alleanza del popolo d'Israele; ma diventa anche "luce delle nazioni". Ecco, ci troviamo su un piano diverso rispetto a Mosè ed anche a qualunque re. Di conseguenza il personaggio misterioso non può sicuramente essere identificato con Ciro, re di un popolo straniero, del quale il Signore si serve soltanto per liberare il suo popolo.

Ciro esplica una funzione eminentemente socio-politica, mentre il servo personifica 1'alleanza.

 

Al v. 6 l'espressione "... ti ho stabilito come alleanza..." costituisce una forzatura perché la traduzione esatta sarebbe "ti ho dato come alleanza del popolo". Ciò significa che "il dare" è un dono di Dio: il Signore regala questo Servo che è alleanza per il popolo, anche se il popolo stesso non lo merita.

Lettura di Is. 42,8-9

La missione del Servo di Jahve porterà a qualche cosa di totalmente nuovo.

Alla luce di quanto detto, possiamo sostenere che si tratta di un personaggio singolo, quindi difficilmente identificabile con Israele, con delle caratteristiche strettamente regali - ma che sembra già superarle perché è già lui stesso 1'alleanza - e che inizia ad avere anche una missione, che va ben al di là del popolo d'Israele in quanto è "luce delle nazioni" e " per la sua dottrina saranno in attesa le isole".

Secondo canto del Servo di Jahve

Mons. Ravasi delimita questo Canto ai versetti da 1 a 6 del cap. 49; la Bibbia di Gerusalemme ai versetti da 1 a 7; Grelot ai versetti da 1 a 9. Per ultimo Schokel amplia ulteriormente il Canto fino al v. 13.

Nel I Canto il Signore presenta il suo Servo, mentre nel II canto il Servo si autopresenta nei vv. 1-4 ed espone le credenziali che legittimano la sua missione.

Lettura di Isaia 49, 1-3

I tratti della vocazione del Servo richiamano Geremia 1,5 ("Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo...") e Apocalisse 1,16 ("... dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio..."). È una vocazione dalle connotazioni chiaramente profetiche e non regali. L'autopresentazione del Servo sembrerebbe, infatti, portarci un po' lontano da quella fatta dal Signore nel I Canto. Il Servo di Jahve non si rivolge al popolo d'Israele, ma alle isole e alle nazioni lontane. In questa vocazione profetica è centrale il tema dell'annuncio, ma diventa anche essenziale la fiducia in Dio o, meglio ancora, la consapevolezza che il Signore protegge il suo Servo e lo ripone nella sua faretra. E se il servo è riposto nella faretra divina significa che la sua missione non è ancora iniziata; è come una freccia appuntita che il Signore non ha ancora scagliato.

II v. 3 risulta di difficile interpretazione per la presenza del termine "Israele", che per alcuni esperti è una glossa (un'aggiunta). Però va notato che tale parola è presente in tutti i manoscritti ebraici e nella traduzione dei "Settanta" e ciò significa che, se si trattasse pure di una glossa, sarebbe talmente antica da essere ormai entrata nel testo. La soluzione del problema non si presenta facile, perché indica una linea di interpretazione totalmente condivisa da sempre.

Di conseguenza il Servo del Signore si identificherebbe con tutto il popolo d'Israele. Quindi si tratterebbe di una comunità che svolge un ruolo profetico - stando al II Canto - oppure il ruolo regale di portare il diritto ovunque - stando al I Canto.

Secondo un'altra interpretazione, Israele potrebbe essere il capo del popolo che lo incarna totalmente, cioè sarebbe una persona con un ruolo talmente importante da diventare simbolo di tutta la comunità (per es. Giacobbe). Quindi in questa persona tutta la comunità si riconosce e viene riconosciuta.

Lettura di Isaia 49, 4-6

Al v. 6 leggiamo: " ... e ricondurre i superstiti di Israele" ma la traduzione più esatta sarebbe "... e ricondurre i preservati di Israele", il che darebbe all'espressione una connotazione spirituale. I "preservati" potrebbero identificarsi con il "resto di Israele".

Il Servo incontra delle difficoltà, ma non sappiamo se ciò avvenga prima o durante la sua missione. Se consideriamo letteralmente 1'espressione "mi ha riposto nella sua faretra" dobbiamo pensare a prima della missione, mentre se interpretiamo la faretra come protezione divina allora dobbiamo intendere il periodo della missione stessa.

Certamente le difficoltà precedono questo oracolo perché i verbi sono al tempo passato ("Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze..." - v. 4). Anche se il Servo ha fallito, il ~ignore rimane: "... la mia ricompensa presso il mio Dio." (v. 4). Di fronte alle difficoltà il Servo riafferma la propria fiducia assoluta nel Signore e nella Sua ricompensa. A1 v. 6 entra direttamente in campo Dio parlando al suo Servo, che ha la funzione di ricondurre al Signore Giacobbe non solo da un punto di vista socio-politico ma anche dal punto di vista della fede.

Secondo alcuni studiosi, Dio usa i due termini "Giacobbe" e "Israele" per ricomporre finalmente lo scisma dei regni del nord e del sud. Il popolo tornerà ad essere uno sia in senso socio-politico (finalmente riuniti in Palestina senza più divisioni) sia in senso spirituale e religioso (salvezza e luce per Israele ed anche per le nazioni). Ecco, allora, la duplice funzione del Servo di Jahve. Ma, soprattutto, Dio afferma che il compito del Servo torna ad essere una missione.

Le parole "luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino alle estremità della terra" (v. 6) diventano quasi una proposta di Dio, al di là di tutti i cedimenti umani.

Lettura di Isaia 49 7

È un oracolo di consolazione che comincia però ad introdurre il tema tremendo della sofferenza. La connotazione è chiaramente di una persona, ma certamente non si addice a Ciro (Mons. Ravasi, invece, sostiene che si riferisce proprio a re Ciro).

Nel nostro versetto appare evidente un misterioso connubio tra sofferenza e innalzamento. Nel "reietto delle nazioni" i re e i principi vedranno 1'opera di Dio che è fedele. Queste espressioni anticipano la vicenda di Gesù Cristo. Pensiamo al discorso di Gesù in Gv. 12,32: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me." e alle parole di Caifa in Gv. 11,49: "... come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera."

Attraverso la sofferenza del "reietto delle nazioni" si realizza ciò che Dio vuole: ricomporre il suo popolo, ma non più su un fondamento nazionale, bensì su base universale.

Lettura di Isaia 49 8-9

In questi versetti notiamo la riaffermazione di una missione che è in parte socio-politica ma, prima di tutto, spirituale.

Esiste il rischio di interpretare questo brano soltanto in chiave socio-politica, come è avvenuto, ad esempio con la deteriore "teologia della liberazione" che riteneva che la liberazione socio-politica dovesse coincidere con la realizzazione del regno di Dio sulla terra. E per giungere a tale fine erano giustificati anche i metodi violenti.

Teniamo ben presente che la liberazione fisica, sociale o politica non può mai essere il fine supremo.

XXV lezione

Deuterio - Isaia - continuazione Terzo canto del Servo di Jahve

Anche per il terzo canto si registrano diversità di opinioni riguardo alla lunghezza (per Ravasi vv. 4-7; per Grelot vv 4-9a e poi vv. 10-1 l, come per Sch~kel). Questo brano riprende una connotazione più strettamente profetica.

Lettura Is 50,4-11

Potremmo dire che il Servo parla ancora di sé. E questo parlare di sé ci fa pensare che ora - a differenza del I canto dove chiaramente il Servo era un re - il Servo stesso sia più vicino al profetismo. Infatti egli deve ascoltare la parola di Dio e, poi, comunicarla. Scopriamo, inoltre, che il Servo, mentre secondo i canti precedenti aveva incontrato delle difficoltà nello svolgimento della sua missione, adesso comincia ad essere perseguitato violentemente.

Le espressioni del terzo canto sembrano poter essere indirizzate difficilmente a una comunità in quanto qui il Servo ha una decisa connotazione personale; è una persona ("Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi." v. 6 .

Nei vv. 9 e 10 torna un oracolo profetico che termina con una minaccia, con 1'invettiva contro i nemici del Servo. Ecco, il Servo viene perseguitato ed il profeta ne prende le difese.

Quarto canto del Servo del Signore

Questo canto, sulla cui lunghezza concordano tutti gli studiosi, inizia al cap. 52, v. 13, e termina al cap. 53, v. 12.

Si tratta di versetti altamente drammatici. Infatti, nonostante le minacce del profeta, la persecuzione fisica raggiunge il suo apice nella morte del Servo.

In questo canto è evidente 1'unità fra due realtà apparentemente molto contrastanti: 1'umiliazione e la glorificazione. Anzi, proprio nell'umiliazione consiste la glorificazione. Proprio perché umiliato ed ucciso il Servo del Signore viene glorificato da Dio.

In questo brano sono riassunte, in pratica, le due grandi teologie presenti nel Nuovo Testamento:

1) la teologia giovannea (la Croce è il trono di Gesù, è il momento della gloria in cui Egli attira tutti a sé e riunisce tutti í dispersi d'Israele);

2) la teologia paolina che raggiunge uno dei suoi vertici nel cap. 2 della "Lettera ai Filippesí" (la "chenosis ", cioè 1'abbassamento, 1'umiliazione che in realtà diventa gloria).

Leggeremo in seguito i passi del N.T. in cui sono più esplicitamente citati i canti del servo.

Il nostro canto, privo della consueta introduzione, potrebbe essere diviso in due parti: la prima sembra un discorso pronunciato direttamente dal Signore, mentre la seconda contiene un discorso del profeta.

La prima parte si suddivide a sua volta in due parti: la prima costituita dai vv. 13-15 del cap. 52 e la seconda dai vv. llc-12 del cap. 53. Fra queste due parti si colloca il discorso profetico che sembra chiaramente un elogio funebre, un discorso pronunciato in onore di un morto.

Nel discorso di Dio il Servo ha funzione di intercessione per i peccatori e di espiazione in sé dei loro peccati. Ricordiamo a questo proposito 1'atto di offerta di S. Teresa di Lisieux che si offre, appunto, a Dio quale vittima di olocausto per la salvezza del mondo.

II nostro personaggio diventa come il capro espiatorio, del quale si parla nell'Antico Testamento, su cui venivano caricati tutti i peccati del popolo.

Lettura Is. 52, 13-15

Siamo nella glorificazione di un personaggio quasi irriconoscibile ("...tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto..." - v. 14) e nella dimensione universale dell'espiazione.

Lettura di Is. 53, 1lc_-12

"...egli si addosserà la loro iniquità...": ecco il capro espiatorio.

In proposito consiglio la lettura dei capp. 4 e 5 dell'esortazione apostolica "Salvifici doloris" nei quali Giovanni Paolo II commenta il quarto canto anche dal punto di vista del valore della sofferenza, che resta un mistero. Solo alla luce di Gesù possiamo dire qualche cosa sulla sofferenza. L'amore deve essere la nostra chiave di lettura del mistero della sofferenza perché Dio è amore.

La seconda parte del Canto contiene il discorso del profeta che si immedesima con il popolo (parla, infatti, in prima persona plurale). Si tratta di un discorso, più che altro sotto forma di elogio funebre del Servo che è morto, che ci aiuta a capire il significato autentico di questa morte che, apparentemente, sembrava una punizione divina.

Se leggiamo il libro di Giobbe notiamo che, a quell'epoca, la sofferenza in questa vita era considerata come la conseguenza del peccato in quanto non c'era ancora 1'intuízíone della risurrezione e, quindi, dell'Aldilà.

E' un discorso profetico: la sofferenza del Servo non rappresenta una punizione, ma un evento di salvezza, di gloria e non di umiliazione e di distruzione.

Nell'elogio funebre appena letto tutti i verbi sono espressi al passato per significare che il nostro personaggio è realmente morto e, quindi, si identifica con una persona ben precisa e non con una comunità.

Un'altra intuizione molto bella: la morte del Servo risulta necessaria per il compimento del progetto di salvezza di Dio. Anche questa constatazione ci apre qualche orizzonte perché il nostro vedere è molto limitato. Infatti, più ci si avvicina al Signore e più si riesce a vedere le cose in modo diverso. Se è vero che qualcuno può commettere anche dei delitti in nome di Dio, è altrettanto vero che costui non sa nemmeno dove abiti Dio. Ancora una riflessione: portare la fede significa umanizzare sempre di più la nostra vita. La Gaudium et Spes "recita: chi guarda a Cristo uomo perfetto diventa egli stesso più uomo "

Il Nuovo Testamento non ha il minimo dubbio sull'interpretazione dei quattro canti del Servo del Signore. E' un'interpretazione strettamente messianica, nel senso futuro del termine! ma è un futuro non indefinito ed escatologico, ma ben preciso che si realizzerà in Gesù Cristo. Quindi, secondo questa interpretazione, quando il profeta scriveva i canti intendeva riferirsi a Gesù Cristo.

Noi sappiamo che Giovanni cita ben raramente in modo esplicito 1'Antico Testamento, anche se, in realtà, il suo Vangelo ne è una citazione continua. In particolare ricordiamo che nei racconti della passione appare in filigrana il Salmo 22.

Lettura di alcuni brani del Nuovo Testamento che contengono citazioni dei Canti del Servo del Signore riferite a Gesù Cristo:

1 - Mt. 12, 15-21 "Gesù è il servo del Signore."

I farisei stanno già complottando contro Gesù perché guarisce gli ammalati ed è un po' polemico sul riposo del sabato.

Il brano di Isaia riportato viene chiaramente applicato a Gesù.

2 - Mt. 8, 16-17

L'interpretazione dell'evangelista è bellissima, molto profonda, non tanto in chiave spirituale sul peccato, ma proprio in chiave materiale con Gesù che elimina la malattia prendendola su di sé.

3 - Lc. 22, 37

Siamo nel contesto dell'Ultima Cena.

"E fu annoverato fra i malfattori..." - Qui Gesù applica a se stesso questa espressione.

4 - Atti 8, 26-38. "Filippo battezza un ministro etiope."

Notiamo la citazione di Is. 53, 7-8 che serve a Filippo per annunciare all'etiope la buona novella e per battezzarlo.

S - Prima lettera di Pietro 2, 18-25

Pietro in questo brano indica un ideale altissimo.

Troviamo ancora una serie di passi del N.T. in cui la terminologia usata da Isaia nei Canti viene applicata a Gesù:

1 - Mt. 3, 16-17 "Il Battesimo di Gesù."

Notiamo che "prediletto" ho lo stesso significato di "eletto" e "mi sono compiaciuto" corrisponde all'espressione contenuta in Isaia 42, l.

2 - Mc. 10, 45

Gesù dice di sé, parlando in terza persona: "Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere

servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti...".

3 - Lc. 9, 35 "La trasfigurazione." "Questi è il Figlio mio, l'eletto..."

Constatiamo che in tutti i brani citati Gesù viene indicato come colui che realizza le profezie contenute nei Canti del Servo del Signore.

Per inciso ricordiamo quanto detto nella lezione precedente sulla presenza del termine "Israele" nei Canti. Molto probabilmente i brani in cui si parla di Israele possono essere applicati ai discepoli e alla Chiesa, cioè al popolo messianico di oggi. Allora 1'interpretazione diventa messianica sia in senso personale (Gesù) sia in senso comunitario in quanto la Chiesa continua la missione di Cristo.

Lettura di altri passi del Nuovo Testamento:

1 - Mt. 5, 14 . 16 . 39

"Voi siete la luce del mondo..." (v. 14) e il Servo è "luce delle nazioni".

Notiamo, poi, al v. 391'applicazione ai discepoli della tematica della persecuzione.

2 - Atti 14, 19 in cui si parla della persecuzione di Paolo.

3 - Atti 26, 17 e segg. con citazioni esplicite di Isaia 42 (I Canto)

Ancora una volta constatiamo che i canti del Servo sono applicati dal N.T. sia a Gesù sia ai discepoli e alla comunità. Quindi, è chiaro che viene data un'interpretazione dei Canti stessi in chiave messianica, riferita sia alla persona di Gesù sia alla Chiesa, cioè alla comunità che rende oggi presente Gesù.

Nel prossimo incontro concluderemo questo ciclo di lezioni bibliche con un commento al libro di Giona, profeta del post-esilio. Vi anticipo che i profeti di quel periodo avevano atteggiamenti estremamente nazionalisti, senza alcuna apertura verso gli altri popoli.

 

Giona

Diamo per letto il libro di Giona e ci domandiamo se si tratti o meno di un racconto storíco. Non è un libro storico (nonostante la parvenza di storicità che gli è stata data) per diversi motivi, come:

1 - il protagonista, cioè il profeta Giona, in reattà potrebbe essere storico: infatti è nominato in 2 Re 14,23 e segg. (lettura).

Notiamo che Giona, di per sé, è riferibile all'epoca del re Geroboamo II (VIII sec. a.C.), ma vediamo anche che sono evidenti delle incongruenze: nel nostro libro, infatti, Ninive non è indicata come la capitale dell'Assiria;

2 - inoltre, a livello di pensiero sono presenti notevoli influssi di Geremia - profeta di un'epoca posteriore al sec. VIII - e di Gioele (anch'egli di epoca posteriore);

3 - in ogni caso non ci sarebbe molto da dire, per esempio, sull'estensione della città di Ninive "...di tre giornate di cammino..." (Gn 3,3) che appare del tutto irreale, come, del resto, sul pesce che ingoia Giona perché si tratta indubbiamente di una figura retorica molto usata, ma assai più tardi e, cioè, all'epoca di Alessandro Magno (IV sec. a.C.);

4 - per ultimo, notiamo un fatto storico di cui non abbiamo alcun sentore: la conversione di Ninive.

Tutti questi elementi inducono a pensare che non sia possibile dare un'interpretazione storica al nostro libro.

Alcuni studiosi considerano la narrazione di Giona come un'allegoria (vedremo in seguito attraverso la lettura di brani evangelici la differenza tra allegoria e parabola). Sappiamo che ogni elemento dell'allegoria ha una sua trasposizione nella realtà; è un simbolo che ci rimanda ad un altro anche nei minimi particolari.

Allora, Ninive diventa il mondo pagano; Giona la rappresentazione di Israele che si rifiuta di essere missionario e rifugge dalla missione che Dio gli affida; il malessere di Giona è il disagio del popolo che si ripiega su se stesso e non accetta che il perdono sia esteso ai pagani (siamo in un periodo di nazionalismo puro); il pesce rappresenta l'esilio che divora il popolo d'Israele. Il libro di Giona potrebbe però essere anche una parabola, cioè un racconto didattico (che vuole dare un insegnamento) in cui non necessariamente ogni elemento corrisponde alla realtà.

Per comprendere bene la differenza fra allegoria e parabola leggiamo in Mt. 13, 24-30 la "Parabola della zizzania" raccontata da Gesù, dal significato abbastanza preciso: fare capire che la zizzania e il grano cresceranno insieme fino alla consumazione dei tempi. Non dobbiamo scandalizzarci, quindi, per 1'esistenza dei malvagi in quanto arriverà anche per loro il momento del giudizio finale.

Sia per la "Parabola del seminatore" (Mt. 13, 3-9) sia per la "Parabola della zizzania" si tratta di un racconto fatto da Gesù e di una interpretazione autentica data dalla comunità alla parola del Signore. Ma questa interpretazione è allegorica; la "Parabola della zizzania" viene trasformata in allegoria.

Leggiamo, allora, in Mt. 13, 36-43 la "Spiegazione della parabola della zizzania". Questo brano ci dice che una parabola può essere interpretata legittimamente anche in chiave allegorica.

Sono state formulate alcune ipotesi sull'insegnamento contenuto nel libro di Giona, che può essere considerato come una parabola:

1 - indicare quale atteggiamento dovrebbe avere Israele nei confronti dei pagani;

2 - chiarire quale rapporto sia possibile fra 1'elezione del popolo e 1'universalismo. Se tutti i popoli sono chiamati alla salvezza, qual è il ruolo di Israele?

Un problema analogo, anche se per certi aspetti diverso, sarà affrontato da S. Paolo nella "Lettera ai Romani": ora che c'è la Chiesa, che senso ha il popolo d'Israele? L'elezione e la fedeltà alle promesse possono adesso venir meno? Certamente no;

3 - proporre con un invito quasi sapienzale, più che profetico, un universalismo contrapposto allo stretto nazionalismo.

Se quanto detto prima corrisponde a verità, possiamo datare il libro di Giona e collocarlo sicuramente nel post-esilio e molto probabilmente in un periodo immediatamente successivo ai libri di Esdra e di Neemia (sec. V a .C.), cioè nel tempo della ricostruzione materiale dello Stato d'Israele e della ricostruzione spirituale del suo popolo.

E' evidente, comunque, che "Giona" costituisce anche una reazione al sistema nazionalistico estremo di quell'epoca. A questo riguardo leggiamo Esdra cap. 9 "La rottura dei matrimoni con gli stranieri".

Il popolo d'Israele, i sacerdoti e i leviti, che avrebbero dovuto mantenere la purezza della stirpe, hanno contratto matrimoni con donne straniere e da queste hanno avuto figli, profanando "...la stirpe santa con le popolazioni locali" (v. 2 .

In questo capitolo è bello sottolineare come Dio resti accanto al popolo anche nei momenti difficili: "Nella nostra schiavitù il nostro Dio non ci ha abbandonati..." (v.9), anzi ha riportato il popolo alla libertà.

Notiamo, per inciso, come sia pericolosa anche oggi una lettura fondamentalista della Bibbia, il prendere - per esempio - questo brano (Esdra 9, 10 e segg.) alla lettera estrapolandolo dal contesto storico in cui è stato scritto.

Lettura di Esdra cap. 10

Si narra della cacciata, su iniziativa di Esdra, delle mogli straniere e dei figli da loro avuti.

Per molti commentatori il libro di Giona rappresenta proprio una reazione all'esasperato nazionalismo dell'epoca.

Lettura di due brani del Vangelo in cui viene citato Giona:

Mt. 12, 38-41 ("Il segno dí Giona") e

Lc. 11, 29-33 ("Il segno di Giona").

Due annotazioni a margine del primo brano:

- l'immagine del profeta che "...rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce..." (Gn. 2,1) diventa l'immagine della permanenza di Gesù nel sepolcro e, quindi; della sua morte e della sua resurrezione;

- la predicazione di Giona e la sua accoglienza da parte dei Niniviti diventano 1'esempio, per opposizione, della predicazione di Gesù, rifiutata non dai pagani ma dai suoi stessi concittadini.

Abbiamo, allora, un duplice segno:

1 - segno di ciò che Gesù farà e dirà;

2 - segno - al contrario - di ciò che Gesù sta vivendo, cioè 1'opposizione dei suoi.

Riprendiamo Luca 1l, 29-33 in cui manca il segno di Giona nel ventre del pesce, ma compare il secondo segno: "...come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell'uomo lo sarà per questa generazione" (v. 30).

Giona predica la conversione e viene ascoltato, mentre Gesù non è ascoltato anche se Egli è sicuramente superiore al nostro profeta. Di conseguenza, il peccato dei contemporanei di Cristo appare infinitamente più grande di quello commesso da Niniviti.

Il messaggio

Superficialmente potremmo affermare che quello di Giona è un messaggio molto bello di conversione e, conseguentemente, di perdono rivolto ai popoli pagani. Ma sostenere semplícemente questo significherebbe impoverire il nostro libro. Ninive non è solo il simbolo del paganesimo, ma da sempre è anche il simbolo dell'oppressione. La città con il suo re Sennacheri diventa la capitale dell'Assiria e, di conseguenza, 1'incarnazione

dell'oppressione. Quindi, i Niniviti e il loro re non sono soltanto dei pagani, ma gli oppressori del popolo eletto.

Allora il messaggio di Giona diventa sconvolgente: Dio ama e perdona anche gli oppressori e vuole la salvezza di chi opprime il popolo eletto.

Il racconto del profeta ci dice di una Chiesa (ovvero del popolo d'Israele) che deve portare la salvezza proprio a coloro che fino ad un momento prima, e magari ancora adesso, uccidono i suoi figli o li riducono in schiavitù.

Uno degli atteggiamenti peggiori di Giona - e qui questo personaggio potrebbe essere il simbolo del popolo d'Israele, ma anche di certe frange della Chiesa - consiste nel non accettare il perdono degli oppressori. Infatti si adira perché si sono convertiti i Niniviti che considerava meritevoli esclusivamente del castigo divino. Notiamo che gli abitanti di Ninive non si convertono al Dio d'Israele, ma si convertono nella loro condotta. Ai Niniviti il Signore non chiede di cambiare religione, ma di far cessare le ingiustizie sociali, di fare penitenza per i peccati commessi.

Sarebbe molto bello usare il libro di Giona per cercare di trovare dei valori comuni (Mt. 25) come 1'amore per il prossimo, la solidarietà fra gli uomini, un mondo di giustizia in cui non ci sia chi possiede troppo e chi ha meno di nulla.

Io credo che il nostro libro sia profetico sotto il punto di vista della possibilità di costruire un'umanità nuova, diversa.

"Giona" è 1'unico libro profetico scritto sotto forma di parabola, con un contenuto inaudito per 1'Antico Testamento. Infatti, ci vorrà Gesù con la sua vita e il suo insegnamento per portare esplicitamente alla chiarezza questi concetti.

In tal senso il nostro racconto, se pur breve, non appare secondario per un cattolico che vuole leggere 1'Antico Testamento e che vuole trovare quei semi che Gesù porterà poi a completa maturazione. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi, sia i buoni che i cattivi. Ed Israele e la Chiesa, popoli eletti, non possono che accettare questa logica divina.

Ma, soprattutto, Giona è duro di cuore, cioè non vuole convertirsi alla logica della Croce, alla logica di un Dio che perdona i suoi crocefissori. E, allora, il libro in questione ci interpella non solo in quanto popolo di Dio (o come Chiesa), ma in quanto persone davanti all'amore "folle" del Signore.

Come reagiamo al pensiero che chiunque con un atto di pentimento all'ultimo momento può andare in paradiso?

Prendendo Giona come simbolo di ciascuno di noi, come ci comportiamo davanti alla missione che il Signore ci affida?

Ci saranno sicuramente tornati alla mente, leggendo questo racconto, i grandi "resistenti" della Bibbia, come Mosè e Gedeone.

Vediamo il libro di Giona come una sollecitazione che il Signore ci offre per essere portatori del suo amore che non ha limiti.

Il perdono di Dio su quale base sarà elargito? L'aderire a Cristo che significa?

Significa abbracciare il cristianesimo oppure avere quel riferimento ultimo all'Amore che sembrerebbe trasparire da diversi brani del vangelo, ma anche dal libro di Giona?

Io credo che la dottrina della Chiesa non opti (vedere il Concilio Vaticano II) tanto per un sincretismo religioso, quanto piuttosto intenda che i riferimenti a Cristo - che è il "dixit" del Padre - possano essere molteplici e anche impliciti. Ciò significa che dobbiamo continuare ad essere missionari perché la Chiesa ha ricevuto da Cristo un messaggio preciso, 1'evangelizzazione del mondo. Dobbiamo aiutare chi appartiene ad una cultura diversa ad arrivare già quaggiù alla pienezza di Cristo e ad attingere ai canali privilegiati di grazia di cui la Chiesa dispone, ossia i sacramenti.

Nei documenti del Concilio Vaticano II sicuramente si notano tali orientamenti.