00 25/05/2019 10:22
Come comportarsi in presenza di persone che si dichiarano atee le quali ritengono che Dio non esiste?
Da credente, cosa dire loro? Grazie per la risposta che vorrete fornire.

Giovanni Frosali

Il lettore chiede un suggerimento in generale ma propriamente è una questione personale, sia perché l’interlocutore ateo può essere sensibile al ragionamento e non ad altro, sia al contrario potrebbe essere sensibile a racconti di miracoli e esperienze varie e non a ragionamenti, e così via all’infinito dato che ogni persona è sensibile solo a ciò che lo convince. Per questo motivo io cambierei la domanda: perché, caro lettore, credi in Dio? Che cosa ti porta a credere che esista un Essere trascendente che sia, tra l’altro, come immagini tu e non possa essere diverso? Che cosa ti convince della dottrina di fede che professi? Che cosa di quanto vivi del tuo mondo quotidiano ti spinge ad affidarti a un’Essere, che chiami Dio, che non hai mai visto né incontrato?

Se riesci a essere convincente per te stesso in queste domande, probabilmente l’interlocutore ateo ti sta a sentire, altrimenti perdi tempo, o tutt’al più, come spesso capita, si fa quattro chiacchiere su differenti modi di pensare la vita e l’esistenza tutta.

Il motivo che sta dietro a questa mia posizione sono due considerazioni.

La prima è che l’ateo ha un vantaggio logico: Dio non è un dato di esperienza, non c’è un luogo dove si possa vedere Dio, parlarci e passarci un pomeriggio insieme. Perciò, è il fedele che deve in qualche modo dare ragione della sua fede (1Pt 3,15) e dimostrare che esista un Dio, e non, viceversa, che debba l’ateo dimostrare la sua non-fede. L’ateo insomma basta che dica: dimmi dov’è e dove s’incontra il tuo Dio e io ci credo… e il credente cosa gli risponde? È costui capace di mostrare che un Dio esiste? E anche se lo facesse, non è detto che provocherebbe la fede nell’ateo.

La seconda è che, in genere, il credente è abbastanza sprovveduto e non ha ben considerato che cosa sia un «atto di fede». Possedere una fede, credere in un Dio, avere fiducia in una religione è un atto enorme, sul quale pochi ci riflettono e pochi se ne rendono conto. Di fronte a un ateo radicato, dire «credo in Dio» ha lo stesso valore di «credo nell’Ippogrifo». Che cosa distingue «Dio» dall’«Ippogrifo»? E perché «Dio» ha valore e l’«Ippogrifo» no? Prima di tutto, che cosa il credente risponde a se stesso? È capace il credente di darsi la spiegazione di questa sua fiducia in Dio e non nell’Ippogrifo? Chi è Dio per il credente, cosa risolve della sua vita, e perché affida la sua esistenza a un Essere che è addirittura trascendente il mondo in cui il fedele vive? Come può un Dio di tal fatta essere di aiuto a uomo di un’altra dimensione? Tra l’altro sono convinto che se ogni cristiano e cattolico riuscisse a definire e ben dipingere il suo Dio non ci sarebbe un Dio uguale a un altro.

L’atto di fede che noi facciamo verso Dio è di una profondità tale che forse è meglio non considerarlo fino in fondo, ma se, come il lettore chiede, vogliamo convincere un altro a fare lo stesso atto, a mio avviso è necessario prima indagare la fede che noi stessi professiamo. Nietzsche (detto in breve) afferma: il Rimedio (Dio) è stato peggiore del male. E ci vuol dire che l’uomo si è inventato l’esistenza di un Dio per liberarsi dal male di cui soffriva. Poi coll’andare del tempo questo «Dio-Rimedio» è diventato così gigantesco nelle sue religioni, morali, teologie, politiche, ecc. che ha schiacciato l’uomo togliendogli la libertà, la creatività, l’arbitrarietà di vivere come meglio e gioiosamente crede. Cosa possiamo rispondere a una critica così feroce per il credente?

Come il lettore può capire è allora necessario deantropomorfizzare il Dio in cui si crede, cioè ripulire Dio di tutti le qualità umane che gli attribuiamo, poi dobbiamo chiarire che cosa sia l’essere umano e il suo ruolo nell’essere tutto, infine è possibile cominciare a comprendere il grandissimo dono che è la fede e il valore di avere una fede. In altri termini il Dio in cui si crede non è lì fuori, nel Cielo, Dio è la nostra stessa struttura ma concretizzata in forma umana. Dice M. Eckhart che quando riusciamo a eliminare la distinzione tra l’io umano e il Dio che ci ama, allora avviene quell’identificazione salvifica in cui l’io e il Dio non riescono più a distinguersi.

Questo è l’atto di fede: non si crede in un Dio che ci viene a salvare, ma la fede è la presa di coscienza che il Dio, che è in noi, deve emergere pienamente nella nostra persona e vita, e in questo ci libera dal male. Se questo è vero, allora il fedele non ha bisogno di parlare di Dio e di dimostrarlo e di convincere l’ateo dell’esistenza… Dio diventa visibile nel fedele stesso che è il testimone della presenza di Dio. Senza questo assunto, io penso, che parlare di fede e di religioni è pura esercitazione dialettica di quanto siamo capaci di maneggiare il linguaggio e i suoi contenuti. Gesù ci ha comandato: sarete miei testimoni. Dopo 2000 anni c’è qualcuno che può dire io c’ero al tempo di Gesù? Perciò all’oggi nessuno potrebbe dire: io sono testimone, perché alla resurrezione del Signore io c’ero. Eppure si parla di testimonianza. Cosa vuol dire? Questo: su Gesù non ha senso discutere e ragionare, perché quanto ci insegna sarebbe logicamente assurdo: chi può pensare che la povertà o il dolore siano fatti salvifici? E infatti Gesù non vuol discutere su se stesso, ma invita a vivere e incarnare, per es., la povertà, come fece s.Francesco, e Francesco da dentro la povertà e il dolore vissuti (e non discussi) può dire: sì io sono testimone che Gesù non c’ingannava, io c’ero sotto la croce, e io c’ero dopo la resurrezione, perché ho visto e vissuto in me stesso quel Gesù esistito 1200 anni prima. Una volta che il fedele ha fatto questo cammino esperienziale di fede, allora troverà le parole, i concetti e le argomentazioni per convincere qualsiasi genere di ateo, fosse anche sotto forma di statua.