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IL DIALOGO CON I NON CREDENTI

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    00 13/10/2012 22:36

    IL DIALOGO CON I NON CREDENTI.
    FONDAMENTI TEOLOGICO-PASTORALI

    Carlo Maria MARTINI

    Mi limiterò ad alcuni cenni sul contesto in cui si pone l’odierno dialogo e su alcune piste di possibile confronto.

    1. Il contesto epocale. Al di là delle interpretazioni possibili della crisi delle ideologie, della fine della modernità e del profilarsi del tempo postmoderno, ciò che oggi in Occidente rende culturalmente più poveri è la mancanza di un orizzonte comune rispetto a cui porre l’ethos, non soltanto come prassi e costume, ma anche come radicamento e dimora, come ultimo fondamento del vivere, dell’agire e del morire umani. Questo senso di abbandono e di addio, questa fragilità e debolezza è terreno di cultura per ogni scetticismo o relativismo, ma può anche essere un luogo in cui credenti e non credenti si confrontano. Non però combattendosi muovendo da facili certezze o impugnando la clava della verità, con cui punire o giudicare l’altro, ma cercando di comprendere e interpretare questo spaesamento. Infatti un po’ tutti, sia gli orfani dell’ideologia come i credenti pensosi sul comune destino, si trovano, anche se per motivi diversi, interpellati e in parte spiazzati da quanto in questa crisi epocale andiamo vivendo. In questo senso, il "pensiero debole" o le varie forme di nichilismo – prima che atteggiamenti mentali – riflettono condizioni esistenziali di smarrimento, naufragio e caduta, in cui credenti e non credenti si trovano accomunati nello sforzo di interpretare il proprio tempo.

    2. La riscoperta dell’Altro. Questo senso di smarrimento, di disagio, di bisogno di patria, questo dolore dell’abbandono, può essere evaso, nascosto, fuggito: si può tentare di essere non pensanti, e dunque negligenti di fronte alla condizione del naufragio. Ma nel momento in cui si pensa e si è coscienti, la lama di questo dolore non può non interrogarci tutti, oggi, a proposito delle diverse manifestazioni di questa inquietudine. Fede e ragione più consce delle proprie tentazioni epocali. Meno ideologiche, non più rigidamente chiuse in se stesse, sono proprio per questo più aperte alla ricerca, e perciò accomunate nell’esperienza del pensiero dell’Altro. La categoria che tutti ci provoca non è l’identità, ma l’alterità, in quanto essa ci raggiunge nel bisogno d’altri, nell’urgenza della com-passione e nell’inquietante oscurità dell’ultimo orizzonte verso cui muovere il cammino.

    E’ forse per questo che il Dio crocefisso appare a molti dei nostri contemporanei più eloquente che l’Altissimo onnipotente, che sembra loro lontano dal dolore umano. Nell’Abbandonato della Croce si lascia riconoscere il volto dei tanti "abbandonati" della storia di questo Novecento, dalle vittime delle guerre mondiali e dell’Olocausto, a quelle della miseria e dei genocidi che continuano a perpetrarsi fino ai nostri giorni. E il grido di questo abbandono provoca un bisogno di trascendenza, di uscita da sé verso l’Altro, verso gli altri.

    3. La sfida dell’etica. È qui che si presenta con nuova rilevanza, come termine di comune interrogazione per tutti, la sfida dell’etica. Non si tratta infatti solo di un esistere davanti all’Altro e con l’Altro, ma anche di un esistere per gli altri: che non possono essere colti soltanto come produzione del nostro pensiero, o condizione del nostro operare, o limite o sfida della nostra libertà e delle nostre scelte, ma si offrono anche e soprattutto come esigitività radicale, come fondamento dell’esistere responsabile. E l’altro invocato da E. Lévinas come crisi della metafisica a favore di un suo superamento nell’etica. E ancora più radicalmente l’altro della caritas evangelica, del comandamento "simile" al primo, partecipativo e realizzativo di esso, che è il comandamento dell’amore. Glialtri sfidano fede e ragione a superare la falsa separatezza di teoria e prassi. La dimensione morale investe oggi la riflessione in maniera forte, come domanda di esistere e di pensare l’esistere non solo in sé, ma per gli altri. Se è molto difficile immaginare un’etica senza l’Altro ultimo e sovrano (la cosiddetta "etica di chi non crede"), non può esistere un’etica senza gli altri senza l’altro penultimo verso cui muovere nell’esodo da sé al di là del proprio tornaconto.

    Ed è proprio nel volto di questo altro prossimo e concreto che può affacciarsi la traccia dell’Altro misterioso e sovrano.

    4. Due lotte, due fedi. Nel raccogliere la sfida dell’alterità, credenti e non credenti si scoprono più vicini di quanto si potrebbe supporre: il credente, nella sua lotta interiore per aprirsi al Dio dell’avvento, si riconosce in certo modo come un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, e il non credente pensante si riconosce come il credente che ogni giorno vive la lotta di cominciare a non credere. Non si tratta quindi qui dell’ateo banale, negligente e in fuga da se stesso, ma di chi vive le tensioni profonde che agitano una coscienza retta, in ricerca di coerenza globale; si tratta di chi, avendo cercato e non avendo ancora trovato, patisce l’infinito dolore dell’assenza di Dio. Questo tipo di ateo può considerarsi in qualche modo l’altra parte di chi crede. E’ quella parte – evidenziata dal noto apologo rabbinico – che oppone alla fede la voce interiore "ma se poi non fosse vero?" e che oppone alla non fede la voce "ma forse è vero!".

    Questo riconoscere nell’altro, nel diverso, non un pericolo, ma un dono, un incontro, è una forma esigente di eticità sulla quale si possono sintonizzare anche credenti e non credenti. Si tratta di amare l’altro come è, per quello che è, cercando in lui la verità di noi stessi e offrendogli umilmente, ma al tempo stesso fiduciosamente, la verità di noi stessi. E non ne viene forse da tutto questo un no condiviso, il no alla negligenza della fede, il no ad una fede indolente, statica ed abitudinaria, fatta di intolleranza comoda che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore? E non ne viene il sì ad una fede interrogante, tentata anche dal dubbio, ma capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, a vivere l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola?

    5. Pensanti, non pensanti. Da quanto detto fin qui appare che, dal punto di vista della metodologia dell’incontro, la differenza da marcare non sarà tanto quella tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. La sfida pastorale che ne deriva è allora quella di ascoltare le domande vere del pensiero davanti al mistero dell’esistenza, ponendosi insieme, credenti e non credenti pensosi, a capire ciascuno le ragioni dell’altro. Per chi crede ciò potrà significare una purificazione delle motivazioni dell’atto di fede e al tempo stesso una nuova possibilità di proporle a chi non crede con la fedeltà del testimone e il rispetto del compagno di strada, che si riconosce nell’altro e scopre l’altro in sé.

     

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    00 11/09/2013 12:58
    DOMANDE DI EUGENIO SCALFARI AL PAPA

    Papa Francesco ha deciso di rispondere alle domande che gli avevo indirizzato in due articoli, rispettivamente pubblicati sul nostro giornale il 7 luglio e il 7 agosto scorsi. Francamente non mi aspettavo che lo facesse così diffusamente e con spirito così affettuosamente fraterno. Forse perché la pecora smarrita merita maggiore attenzione e cura? Lo dico perché negli articoli sopra citati ho precisato al Papa che io sono un "non credente e non cerco Dio" anche se "sono da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di David". E più oltre scrivo che "Dio, secondo me, è un'invenzione consolatoria della mente degli uomini". Mi permetto di ricordare questa mia posizione di interlocutore anche perché essa rende ai nostri occhi ancor più "scandalosamente affascinante" la lettera che Papa Francesco mi ha inviato, una prova ulteriore della sua capacità e desiderio di superare gli steccati dialogando con tutti alla ricerca della pace, dell'amore e della testimonianza.


    Ciò detto, riassumo le domande e le riflessioni che ho fatto e alle quali il Papa risponde, affinché i lettori abbiano ben chiaro il quadro entro il quale si svolge questo dialogo.
    1 - La modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell'"assoluto", a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascuno individuo ne configura?
    2 - I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l'Unigenito di Dio si è fatto carne non certo indossando un abito e imitando le movenze degli uomini e restando Dio, bensì assumendone anche i dolori, le gioie e i desideri. Ciò significa che Gesù ha avuto tutte le tentazioni della carne e le ha vinte non in quanto Dio ma in quanto uomo che si era posto il fine di portare l'amore per gli altri allo stesso livello d'intensità dell'amore per sé. Di qui l'incitamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Fino a che punto la predicazione di Gesù e della Chiesa fondata dai suoi discepoli ha realizzato questo obiettivo? 
    3 - Le altre religioni monoteiste, l'ebraica e l'Islam, prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto Allah?
    4 - Il Dio incarnato ha sempre affermato che il suo regno non era e non sarebbe mai stato di questo mondo. Di qui il "Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". Questo "limite" ha avuto come logica conseguenza che il cristianesimo non avrebbe mai dovuto avere la tentazione della teocrazia, che invece domina nelle terre islamiche. Tuttavia anche il cristianesimo soprattutto nella sua versione cattolica, ha sentito fortemente la tentazione del potere terreno, la temporalità ha spesso superato la pastoralità della Chiesa. Papa Francesco rappresenta finalmente la prevalenza della Chiesa povera e pastorale su quella istituzionale e temporalistica? 
    5 - Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell'orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque mantenuto la sua promessa?
    6 - Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?
    7 - Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista alcun "assoluto" ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato? 
    8 - Il Papa ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie finirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Ma quando la nostra specie sarà scomparsa anche il pensiero sarà scomparso e nessuno penserà più Dio. Quindi, a quel punto, Dio sarà morto insieme a tutti gli uomini?
    I lettori troveranno in queste pagine le risposte del Papa contenute nella sua lettera, della quale ancora con grande affetto e rispetto lo ringrazio. Nel nostro giornale di domani formulerò alcune riflessioni per approfondire i temi e portare avanti un dialogo che penso anch'io, come il Papa, sia utile ed anzi prezioso per i lettori, credenti in Gesù Cristo o in altre religioni o in nessuna, ma animati dal desiderio di conoscenza e dalla buona volontà di collaborare al bene comune
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    00 11/09/2013 13:01

    Papa Francesco scrive a Repubblica:
    "Dialogo aperto con i non credenti"

    Il Pontefice risponde alle domande che gli aveva posto Scalfari su fede e laicità. "E' venuto il tempo di fare un tratto di strada insieme". "Dio perdona chi segue la propria coscienza"
    di FRANCESCO

    Papa Francesco scrive a Repubblica:  "Dialogo aperto con i non credenti"
    REGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
    La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
    Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo. 

    Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

    La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

    La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

    Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
    Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

    Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

    Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda,così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

    Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

    Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

    La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.

    Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
    L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.

    Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

    Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

    Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

    In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
    Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti". Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).

    Con fraterna vicinanza 

    Francesco
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    00 24/09/2013 18:07
    Ratzinger: "Caro Odifreddi
    le racconto chi era Gesù"

    "La fede, la scienza, il male". La lettera di Benedetto XVI al matematico Odifreddi

    “La fede, la scienza, il male”. Gli argomenti di una lunga lettera del Papa emerito Benedetto XVI - pubblicata oggi parzialmente sul quotidiano La Repubblica - inviata allo scrittore e matematico Piergiorgio Odifreddi, con accanto un suo commento. Ce ne parla Roberta Gisotti: 

    Tutto è iniziato dal libro di Odifreddi “Caro Papa ti scrivo” edito da Mondadori nel 2011, ispirato dalla lettura del saggio di Joseph Ratzinger “Introduzione al Cristianesimo”. La risposta di Benedetto XVI è arrivata per posta a casa del matematico il 3 settembre scorso. In una busta sigillata, 11 pagine protocollo, datate 30 agosto dal Papa emerito, che ringrazia per il confronto “leale” e premette di avere un giudizio piuttosto contrastante sul libro di Odifreddi, letto – scrive - in alcune parti con godimento e profitto”, ma pure meravigliato in altre parti “di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione”. E’ d’accordo Benedetto XVI con Odifreddi che la matematica sia la sola ‘scienza’ nel senso più stretto della parola, ma chiede al matematico di riconoscere che la teologia ha prodotto risultati notevoli “nell’ambito storico e in quello del pensiero filosofico”, sottolineando che funzione importante della teologia “è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione”, tenuto conto che “esistono patologie della religione e - non meno pericolose – patologie della ragione”. Puntualizza poi il Papa emerito che “se non è lecito tacere sul male della Chiesa non si deve però tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli.” Ed “ è vero anche che oggi la fede spinge molte persone all’amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia”. Ma lo scontro intellettuale tra Ratzinger e Odifreddi si consuma su altro. “Cio che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del suo rango scientifico”, scrive il Papa emerito al matematico. C’è poi il tema dell’abuso di minorenni da parte di sacerdoti, di cui “posso prenderne atto solo con profonda costernazione”, afferma Ratzinger, rivendicando: “mai ha cercato di mascherare queste cose”. E “che il potere del male penetri fino al tal punto nel mondo interiore della fede”, non dovrebbe in ogni caso portare “a presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo”, sebbene non sia “motivo di conforto” sapere che “la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili.” Riconosce infine Benedetto XVI che la sua critica al libro di Odifreddi “in parte è dura”, “ma del dialogo fa parte la franchezza”, perché conclude “solo così può crescere la conoscenza”.


    Radio Vaticana 
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    Credente
    00 24/09/2013 19:18

    Odifreddi: «finalmente qualcuno mi ha preso sul serio»

    BenedettoXVI scriveSolitamente non amiamo commentare immediatamente le notizie che escono perché ci piace verificarne la fondatezza, la loro resistenza nel tempo e sopratutto osservare le varie reazioni, così da poter presentare un quadro completo. Questa volta faremo un’eccezione: Benedetto XVI ha scritto a Piergiorgio Odifreddireplicando al libro di quest’ultimo intitolato “Caro Papa ti scrivo” (Mondadori 2011).

    Iniziamo subito smontando una falsa notizia: la lettera inviata dal Papa emerito è stata protocollata in data 30 agosto, ovvero cinque giorni prima di quella inviata da Papa Francesco a Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica”. Dunque prima ha scritto Benedetto XVI e poi Papa Francesco e se è stata pubblicata solo ora è per un insolitogesto di lealtà di Odifreddi, ovvero voleva essere sicuro che il Papa emerito non volesse mantenerla privata.

    Per molti può essere stato un secondo choc scoprire che i destinatari di due lettere scritte da due Papi, uniche nel loro genere, siano persone come Scalfari e Odifreddi ovvero i più violenti e aggressivi atei e anticlericali italiani. Perché non si sono rivolti ai “soliti” non credenti moderati (o atei devoti) come Marcello Pera, Giuliano Ferrara, Massimo Cacciari o Giulio Giorello? Riteniamo ci sia dietro un intento educativo per noi fedeli, ovvero quello di invitarci ad andareincontro a chiunque, prendendo sul serio anche le manifestazioni più feroci e offensive senza scandalizzarci del basso livello argomentativo o impaurirci per la violenza dell’esposizione.

    Lo si capisce leggendo la risposta di Odifreddi alla lettera ricevuta, quando si commuove nel«veder finalmente presi sul serio e non rimossi, benché non condivisi, i miei argomenti a favore dell’ateismo e contro la religione in generale, e il cattolicesimo in particolare». Finalmente qualcuno lo ha preso sul serio, si è interessato alla sua rabbia, per una volta i suoi argomenti, seppur spesso inconsistenti e banali, non sono stati accantonati e dimenticati. Questo, crediamo, ha voluto insegnarci l’amato Benedetto XVI, non può non venire alla mente il famoso brano evangelico su Gesù e Zaccheo.

    Avremo modo di tornare sul bellissimo contenuto della lettera di Benedetto XVI, per ora ci limitiamo a sottolineare la chiusura di Odifreddi nel suo articolo di “risposta” al Papa emerito:«un dialogo fra un papa teologo e un matematico ateo. Divisi in quasi tutto, ma accomunati almeno da un obiettivo: la ricerca della Verità, con la maiuscola». Odifreddi cerca la Verità? E’ un bellissimo segno di contraddizione da parte sua.

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    Credente
    00 25/09/2013 13:18
    Benedetto XVI scrive a Odifreddi: «La teologia è scienza, l'ateismo è fantascienza»
    di Massimo Introvigne25-09-2013
    Papa scrive

    A ciascuno la sua lettera. Se Eugenio Scalfari ha ricevuto posta da Papa Francesco, il matematico e propagandista dell'ateismo Piergiorgio Odifreddi, dopo avere pubblicato un libro intitolato «Caro Papa ti scrivo», si è visto arrivare una risposta dal Papa Emerito Benedetto XVI. Le undici pagine saranno pubblicate in integro da Mondadori in una nuova edizione del libro di Odifreddi: le leggeremo con interesse, non senza rilevare che il matematico diventerà il primo ateo che farà un po' di soldi vendendo la lettera di un Papa. Ma intanto Odifreddi ha pubblicato un corposo estratto - non un riassunto, tutte le frasi sono di Papa Ratzinger -  sulla casa madre di tutti gli atei che si rispettino, Repubblica, che di questi tempi ogni tanto assomiglia all'Osservatore Romano.

    Al di là del dato curioso, la lettera è una piccola lezione di apologetica.Benedetto XVI ringrazia Odifreddi per avere letto «fin nel dettaglio» i suoi libri su Gesù di Nazaret - non è poco, considerando quanti criticano senza leggere -, comunica al matematico che anche lui, Ratzinger, ha letto il suo testo, e gli confessa che  «il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione». Di questa sorta di recensione critica di Benedetto XVI al libro di Odifreddi, «Repubblica» pubblica quattro parti.

    La prima attiene alla teologia, che per Odifreddi non sarebbe scienza ma fantascienza. Dopo un bonario commento ironico su perché mai, se si tratta di mera fantascienza, Odifreddi passa tanto tempo a occuparsene, il Papa emerito sviluppa la sua replica su due piani. Anzitutto, osserva che se pure
    «è corretto affermare che “scienza” nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l’aritmetica e la geometria»,  in senso ampio parliamo di scienza per qualunque disciplina che «applichi un metodo verificabile, escluda l’arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità». La teologia corrisponde a questi criteri, e dunque è scienza. Inoltre, ha contribuito in modo notevole alla cultura occidentale, e ha mantenuto vivo il dialogo fra fede e ragione. Questo dialogo è essenziale anche per i non credenti: «esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia».

    In secondo luogo, Papa Ratzinger osserva che «la fantascienza esiste, d’altronde, nell’ambito di molte scienze». Esiste «nel senso buono»: Benedetto XVI cita scienziati come Werner Heisenberg (1901-1976) e  Erwin Schrödinger (1887-1961) che hanno proposto «visioni ed anticipazioni», «immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà», una fantascienza che però è stata utile alla scienza. Ma gli scienziati, afferma il Papa emerito, producono talora «fantascienza in grande stile» in senso meno buono, per esempio «all’interno della teoria dell’evoluzione» usata per cercare di fornire un'impossibile prova scientifica dell'ateismo. 

    Con un po' di malizia Papa Ratzinger cita le teorie del biologo e divulgatore scientifico Richard Dawkins, infaticabile propagandista dell'ateismo e amico di Odifreddi, come «un esempio classico di fantascienza» spacciata per scienza. Uno dei padri dell'evoluzionismo, Jacques Monod (1910-1976), nota ancora non senza umorismo Benedetto XVI, nel suo fin troppo famoso «Il caso e la necessità», «ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza». Papa Ratzinger ne cita una: «La comparsa dei Vertebrati tetrapodi... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari...». Non potendo dimostrare questa storiella, Monod, come tanti evoluzionisti, ha prodotto tecnicamente fantascienza, e neppure della migliore qualità.

    Secondo capitolo della risposta di Benedetto XVI. Odifreddi insiste sui preti pedofili. È una tragedia che da Pontefice Ratzinger, dice, ha affrontato «con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall’altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano». Per quanto questo non consoli né le vittime né il Papa emerito, questo fa però osservare a Odifreddi che «secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili». 

    Dunque «non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazionecome se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo». E, se «non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli» e continua a lasciare oggi. Basti pensare alle «grandi e nobili figure della Torino dell’Ottocento» che, insegnando a Torino, Odifreddi dovrebbe conoscere.

    Terzo estratto: Papa Ratzinger bacchetta Odifreddi per «quanto dice sulla figura di Gesù [che] non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico». Benedetto XVI fornisce al matematico un po' di bibliografia accademica, neppure cattolica, da cui Odifreddi potrà facilmente ricavare che «ciò che dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere». 

    Forse lo studioso ateo si è fatto fuorviare, insinua il Papa emerito, dalle «molte cose di scarsa serietà» pubblicate da esegeti progressisti, i quali - il Pontefice emerito cita un commento di Albert Schweitzer (1875-1965), che non fu solo un missionario protestante della carità ma anche un celebre teologo - confermano solo che spesso «il cosiddetto “Gesù storico” è per lo più lo specchio delle idee degli autori». Ma «tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l'annuncio e la figura di Gesù». E Odifreddi ha capito male Benedetto XVI se pensa che egli proponga un rifiuto del metodo storico-critico: al contrario, per il Papa emerito «l'esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico». 

    Il quarto estratto va al cuore della visone del mondo atea. Per Odifreddi, come per Dawkins, non c'è bisogno di Dio perché tutto si spiega con la Natura. La risposta di Benedetto XVI è antica, ma sempre persuasiva: «Se Lei, però, vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla». Ma soprattutto nella religione atea di Odifreddi «tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male». Dell'amore e del male Odifreddi non parla, e la libertà è liquidata come un'illusione che sarebbe smascherata come tale dalla neurobiologia. Ma «qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione». E un religione che rifiuta la libertà e non dà risposte sull'amore e sul male «resta vuota». 

    Interessa anche a pochi: le statistiche sociologiche confermano che Odifreddi potrà anche vendere tanti libri, ma queste vendite e tutto il foklore dei vari autobus atei non fanno aumentare il numero degli atei. A Odifreddi interessano solo i fatti misurabili. È un fatto misurabile che Papa Francesco, e anche Papa Benedetto, persuadono molte più persone degli atei militanti.

    [Modificato da Credente 25/09/2013 13:18]
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    Credente
    00 25/05/2019 10:17

    La provocazione di Gesù a credenti e non credenti



    «Si dà spesso troppo poca importanza alla ricerca del Dio che Gesù ha predicato. Si crede di sapere ormai anche senza Gesù chi sia Dio e che cosa esiga dall’uomo»: questa constatazione, fatta più di quarant’anni fa dal teologo J.F. Schierse, toglie ogni dubbio sulla legittimità d’introdurre e illustrare la figura di Gesù qualora si intenda entrare in dialogo con i non credenti. Non solo. Gesù Cristo è spesso e volentieri sconosciuto tra i suoi, in casa propria, e la recita a ritmo di marcia del Credo domenicale non garantisce adesione piena e consapevole a verità per altro non facili da comprendere. Eppure Gesù è del cristianesimo il fondatore e il fondamento, e la sua vicenda terrena va letta e riletta per carpire lo stile di Dio, per entrare in sintonia con il suo mistero di trascendenza e condiscendenza, per guardare volti, cose, vicende terrene, contraddizioni e slanci dell’umano con gli occhi stessi dell’Eterno. Ha ragione don Armando quando avvisa il lettore che «due occhi non bastano», perché troppo facilmente il nostro sguardo si arrende di fronte al labirinto sempre più impressionante della complessità, e non riuscendo a reggerla imbocca scorciatoie, finendo col vedere quello che tutti vedono: idoli piccoli e grandi che si lasciano apparentemente addomesticare infondendo false sicurezze; basta allungare la mano e per un po’ la novità — non raramente high tech — anestetizza la fame di vita.


    «Il cristianesimo è la religione che parte da e torna sempre daccapo a Gesù», sostiene don Armando cogliendo la necessità e l’urgenza di baricentrare la vita cristiana e di offrirne a quelli di fuori una visione meno dispersiva e depressiva, nel senso di un genericismo che fa rima con buonismo e di un’insistenza sul negativo — i ripetuti «no» della Chiesa — che qualcuno legge come spietata diffida nei confronti dell’umano e volontà di potenza. Partire da Gesù e a lui tornare sarebbe a dir poco sconvolgente a fronte di una situazione, come quella di oggi, di omologazione trasversale: «Non è vero che tutti i membri della Chiesa, tutti i cristiani battezzati, vivono la loro esistenza come l’ha vissuta Gesù Cristo — annota il teologo milanese Giuseppe Colombo —. È vero il contrario; e il contrasto è evidente e clamoroso. Oggi il modello di vita dei cristiani non è quello fornito da Gesù Cristo, ma generalmente quello imposto dalla cultura ambientale, che omologa tendenzialmente cristiani e non-cristiani nelle medesime forme e nel medesimo stile di vita». Accettando come vera questa disincantata analisi, non vi è che da prenderne stimolo per individuare percorsi in grado di rivitalizzare il discorso su Gesù, senza piegarlo subito a corrispondenze troppo facili — sia consolatorie che meritorie o miracolistiche — e mettendolo al sicuro da strumentalizzazioni anche raffinate: se, infatti, veniamo da tempi nei quali l’affermazione «Cristo sì, Chiesa no» ci lusingava nella prima parte e come cristiani ci spingeva a fare meglio nella seconda, oggi c’è chi afferma «Cristo no, Chiesa sì», posizione sospetta anche solo nella formulazione, visto che ogni cortocircuito del linguaggio è preludio di poco chiare conclusioni.


    Per parlare di Gesù a credenti e non, l’autore sceglie un leitmotivintrigante, vale a dire la presentazione del Figlio come uomo «infinitamente contento di stare al mondo». Togliendo ogni dubbio sul fatto che la fede, la vita vissuta al cospetto di Dio, sia una sorta di «dopo lavoro dell’esistenza», quasi un suo doppione, fatto di culto dovuto, riti e opere buone, collocato in parallelo alla vita vera — insomma uno dei retro-mondi, esangui e malati, di cui parla Bonhoeffer. Inoltre, quella di Gesù è un’amabilità che attesta come l’uomo è sotto la benedizione divina che ripete per ognuno la formula originaria della creazione: «Tu sei buono!». Per cui l’amabilità di sé, che oggi i più faticano a recuperare e che vanno cercando in molte direzioni (dal wellness fatto religione — che mette insieme well being fitness — alla chirurgia estetica estrema, dal viaggiare compulsivo e cosmopolita ai tradizionali percorsi psicanalitici) ha radici in cielo e in Cristo attestazione e concreta visibilizzazione. «L’intera vicenda di Gesù — troviamo a circa metà del libro — può essere riletta alla luce del suo tentativo di riattivare l’autorizzazione ad amarsi in ogni uomo e in ogni donna che ha incontrato. E non ha lasciato fuori nessuna possibilità dell’umano: il peccatore, il malato, il ricco, il povero, il potente, il ferito, l’uomo in ricerca, lo straniero. Nessun umano è a-teo, cioè privo di quella benedizione divina che autorizza la benedizione di sé». C’è da dire che quello della gioia, quindi della vita piena e buona, è un tema che la Chiesa italiana ha lanciato come cifra del nuovo decennio pastorale, consapevole che su questo punto si giocano le chances di un cristianesimo in evidente contrazione più qualitativa che numerica. Gesù non è solo portatore della gioia e della «vita buona», ma la sua è innanzitutto una vita contenta di esistere e una vita ben vissuta. Senza questa convinzione potrebbe prevalere la proclamazione di una pienezza di vita della quale gli stessi annunciatori sono i primi a diffidare, incapaci di tenere in unità ciò che in Gesù si salda e armonizza: l’umano e il divino. Mentre ogni evangelizzazione non può che scaturire — come dice ancora Giuseppe Colombo — dal riferimento all’esistenza umana «felice» di Gesù, alla Chiesa come «“luogo” nel quale l’esistenza umana ha la possibilità di essere vissuta nel modo più felice». Pretesa facile da contestare, non si può che ammetterlo, senza che questo induca a escludere la messa a frutto del fattore «possibilità», di cui nella Chiesa non mancano preclari esempi. Tutto questo gran parlare di gioia, vita buona, pienezza, rimanda spontaneamente a considerare i tempi anche lunghi in cui la vita è segnata dallo smacco e dal fallimento, abbrutita dal male morale e fisico, schiacciata nell’angolo dal vuoto e dal non senso. Inutile nascondersi il fatto che l’esistenza umana, che pure ha spalle forti, è accerchiata d’ogni parte dalla contingenza. Ora, scrive il teologo domenicano Edward Schillebeeckx, «l’esperienza della contingenza umana può portare a Dio come a negarlo, a non sentirlo affatto. Sia il teismo che l’ateismo non possono essere provati. Appartengono all’esperienza interpretativa della realtà. Mi rifiuto di dire che gli atei non credono e che solo i membri di una religione sono credenti. Tutti sono credenti, ma la credenza ha un altro contenuto. C’è chi coglie attraverso l’esperienza della contingenza la gratuità di Dio e c’è chi nella contingenza fa l’esperienza del nulla, del vuoto. L’esperienza della contingenza pone l’uomo di fronte alla scelta: o la fede nella gratuità di Dio o il rifiuto di un Dio, che tace». Questo sfondo propizia una delle domande più serrate nei confronti del cristianesimo di ieri e di oggi: questi ha saputo e sa accompagnare gli uomini nell’affrontamento dell’esperienza del dolore e della croce? Oppure la croce e una certa retorica che ne consegue hanno prevalso sul Crocifisso, sulla proclamazione di una totale fedeltà a Dio e al bene degli uomini che per coerenza non ha potuto sottrarsi alla via crucis che attende al varco ogni amore per inverarlo? L’autore è chiaro sul fatto che non la croce rende grande Gesù, ma anzi che quest’ultimo riscatta infine — ed è il passaggio esistenzialmente e teologicamente più duro — la croce stessa. Non la addomestica né la subisce: la sua è una consegna nella libertà, che perciò smaschera ogni processo troppo umano di vittimizzazione e ogni giustificazione doloristica della sofferenza. «La croce di Gesù — attualizza don Armando — non è dunque una sorta di pedaggio necessario per la sua risurrezione o per la salvezza dei peccati del mondo. È rivelazione! Non guarda a un passato remoto, da cui deve liberarci, ma punta a un futuro possibile, per il quale ci rende liberi e disponibili: è l’incrocio da cui passa il possibile avvenire dell’umanità e la possibile umanità dell’avvenire». La croce che tiene inchiodati al passato, che alimenta barriere e prigioni, che non libera energie vitali, che non apre futuro, non è la croce di Cristo.


    Il terzo e ultimo capitolo del libro è dedicato alla verità. Mai tema è stato più controverso, trasformandosi ai nostri giorni in materia di accalorati duelli — anche la parola può farsi randello — tra laici e credenti: solo ammettendo che l’uomo è destinato alla verità la fede cristiana sta in piedi, pensano i cristiani; solo riconoscendo i cedimenti della fede che portano alla sua contraffazione — quando il Vangelo si irrigidisce in dottrina, l’etica diventa un prontuario di regole, l’appartenenza alla Chiesa scade in lobby — si può cominciare a dialogare seriamente, pensano i laici. L’autore, che non ama le contrapposizioni, ancor meno quelle semplicistiche, conduce il lettore a compiere un viaggio per recuperare alla radice il senso della categoria di verità, da intendere sempre in modo analogico. Il sostantivo verità e l’aggettivo vero hanno significati disomogenei a seconda dell’ambito del sapere in cui sono utilizzati: scienza, filosofia, storia, arte, poesia, teologia, letteratura hanno a che fare con la verità a titolo diverso. Per cui è bene essere avvertiti del fatto che ogni volontà d’affermazione in termini assoluti della verità rischia il più delle volte di essere una sua pacchiana mistificazione. Ma voglio chiudere questa breve introduzione, che con gentilezza — atteggiamento di casa nel «cortile dei gentili» — don Armando mi ha richiesto il 31 dicembre 2010 come regalo per l’anno nuovo, con una considerazione. È di Dostoevskij la frase che dice: «Meglio essere nell’errore con Cristo che nella verità senza Cristo». Evidente l’utilizzo magistrale del paradosso, anche se per gusti e attitudini personali la mia preferenza va al convergere di Cristo e verità, senza costrizioni e forzature. Come noterete, anche don Armando predilige, nelle pagine del libro, detta convergenza. Che per questo mi abbia affidato di accordare fin dall’inizio la tonalità del discorso?


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    Credente
    00 25/05/2019 10:22
    Come comportarsi in presenza di persone che si dichiarano atee le quali ritengono che Dio non esiste?
    Da credente, cosa dire loro? Grazie per la risposta che vorrete fornire.

    Giovanni Frosali

    Il lettore chiede un suggerimento in generale ma propriamente è una questione personale, sia perché l’interlocutore ateo può essere sensibile al ragionamento e non ad altro, sia al contrario potrebbe essere sensibile a racconti di miracoli e esperienze varie e non a ragionamenti, e così via all’infinito dato che ogni persona è sensibile solo a ciò che lo convince. Per questo motivo io cambierei la domanda: perché, caro lettore, credi in Dio? Che cosa ti porta a credere che esista un Essere trascendente che sia, tra l’altro, come immagini tu e non possa essere diverso? Che cosa ti convince della dottrina di fede che professi? Che cosa di quanto vivi del tuo mondo quotidiano ti spinge ad affidarti a un’Essere, che chiami Dio, che non hai mai visto né incontrato?

    Se riesci a essere convincente per te stesso in queste domande, probabilmente l’interlocutore ateo ti sta a sentire, altrimenti perdi tempo, o tutt’al più, come spesso capita, si fa quattro chiacchiere su differenti modi di pensare la vita e l’esistenza tutta.

    Il motivo che sta dietro a questa mia posizione sono due considerazioni.

    La prima è che l’ateo ha un vantaggio logico: Dio non è un dato di esperienza, non c’è un luogo dove si possa vedere Dio, parlarci e passarci un pomeriggio insieme. Perciò, è il fedele che deve in qualche modo dare ragione della sua fede (1Pt 3,15) e dimostrare che esista un Dio, e non, viceversa, che debba l’ateo dimostrare la sua non-fede. L’ateo insomma basta che dica: dimmi dov’è e dove s’incontra il tuo Dio e io ci credo… e il credente cosa gli risponde? È costui capace di mostrare che un Dio esiste? E anche se lo facesse, non è detto che provocherebbe la fede nell’ateo.

    La seconda è che, in genere, il credente è abbastanza sprovveduto e non ha ben considerato che cosa sia un «atto di fede». Possedere una fede, credere in un Dio, avere fiducia in una religione è un atto enorme, sul quale pochi ci riflettono e pochi se ne rendono conto. Di fronte a un ateo radicato, dire «credo in Dio» ha lo stesso valore di «credo nell’Ippogrifo». Che cosa distingue «Dio» dall’«Ippogrifo»? E perché «Dio» ha valore e l’«Ippogrifo» no? Prima di tutto, che cosa il credente risponde a se stesso? È capace il credente di darsi la spiegazione di questa sua fiducia in Dio e non nell’Ippogrifo? Chi è Dio per il credente, cosa risolve della sua vita, e perché affida la sua esistenza a un Essere che è addirittura trascendente il mondo in cui il fedele vive? Come può un Dio di tal fatta essere di aiuto a uomo di un’altra dimensione? Tra l’altro sono convinto che se ogni cristiano e cattolico riuscisse a definire e ben dipingere il suo Dio non ci sarebbe un Dio uguale a un altro.

    L’atto di fede che noi facciamo verso Dio è di una profondità tale che forse è meglio non considerarlo fino in fondo, ma se, come il lettore chiede, vogliamo convincere un altro a fare lo stesso atto, a mio avviso è necessario prima indagare la fede che noi stessi professiamo. Nietzsche (detto in breve) afferma: il Rimedio (Dio) è stato peggiore del male. E ci vuol dire che l’uomo si è inventato l’esistenza di un Dio per liberarsi dal male di cui soffriva. Poi coll’andare del tempo questo «Dio-Rimedio» è diventato così gigantesco nelle sue religioni, morali, teologie, politiche, ecc. che ha schiacciato l’uomo togliendogli la libertà, la creatività, l’arbitrarietà di vivere come meglio e gioiosamente crede. Cosa possiamo rispondere a una critica così feroce per il credente?

    Come il lettore può capire è allora necessario deantropomorfizzare il Dio in cui si crede, cioè ripulire Dio di tutti le qualità umane che gli attribuiamo, poi dobbiamo chiarire che cosa sia l’essere umano e il suo ruolo nell’essere tutto, infine è possibile cominciare a comprendere il grandissimo dono che è la fede e il valore di avere una fede. In altri termini il Dio in cui si crede non è lì fuori, nel Cielo, Dio è la nostra stessa struttura ma concretizzata in forma umana. Dice M. Eckhart che quando riusciamo a eliminare la distinzione tra l’io umano e il Dio che ci ama, allora avviene quell’identificazione salvifica in cui l’io e il Dio non riescono più a distinguersi.

    Questo è l’atto di fede: non si crede in un Dio che ci viene a salvare, ma la fede è la presa di coscienza che il Dio, che è in noi, deve emergere pienamente nella nostra persona e vita, e in questo ci libera dal male. Se questo è vero, allora il fedele non ha bisogno di parlare di Dio e di dimostrarlo e di convincere l’ateo dell’esistenza… Dio diventa visibile nel fedele stesso che è il testimone della presenza di Dio. Senza questo assunto, io penso, che parlare di fede e di religioni è pura esercitazione dialettica di quanto siamo capaci di maneggiare il linguaggio e i suoi contenuti. Gesù ci ha comandato: sarete miei testimoni. Dopo 2000 anni c’è qualcuno che può dire io c’ero al tempo di Gesù? Perciò all’oggi nessuno potrebbe dire: io sono testimone, perché alla resurrezione del Signore io c’ero. Eppure si parla di testimonianza. Cosa vuol dire? Questo: su Gesù non ha senso discutere e ragionare, perché quanto ci insegna sarebbe logicamente assurdo: chi può pensare che la povertà o il dolore siano fatti salvifici? E infatti Gesù non vuol discutere su se stesso, ma invita a vivere e incarnare, per es., la povertà, come fece s.Francesco, e Francesco da dentro la povertà e il dolore vissuti (e non discussi) può dire: sì io sono testimone che Gesù non c’ingannava, io c’ero sotto la croce, e io c’ero dopo la resurrezione, perché ho visto e vissuto in me stesso quel Gesù esistito 1200 anni prima. Una volta che il fedele ha fatto questo cammino esperienziale di fede, allora troverà le parole, i concetti e le argomentazioni per convincere qualsiasi genere di ateo, fosse anche sotto forma di statua.