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Cosa significa questo in relazione al tema che stiamo trattando? Anche se non fosse confermata la retrodatazione di questo gruppo di lettere apostoliche ad un periodo antecedente all'81 d.C., tuttavia le prove addotte sono sufficienti ad indicare una data ampiamente antecedente al 200 d.C. Quindi, il lasso di tempo tra gli scritti originali (alcuni dei quali furono redatti evidentemente al più tardi nel 60/61 d.C.) e queste antiche copie ritrovate, è notevolmente ridotto. Se la tesi della Società Torre di Guardia, espressa nell'articolo della Rivista Biblica, fosse fondata, cioè se gli originali scritti apostolici avessero contenuto il Tetragramma e solo nei secoli successivi "scribi indemoniati" l'avrebbero tolto da quegli scritti, allora quest'antichissima copia degli scritti originali [il P46] dovrebbe supportare la tesi geovista: dovremmo aspettarci di trovare numerose presenze del Tetragramma nelle lettere apostoliche contenute in questo codice. Qual è la realtà dei fatti?

In effetti, nelle nove lettere apostoliche contenute in quest'antichissimo codice cristiano non troviamo un solo caso in cui compaia il Tetragramma o una sua forma abbreviata. In queste nove epistole l'autore apostolico fa numerose citazioni dall'AT, rifacendosi al testo della Settanta, tuttavia in nessuna di queste citazioni riporta il Tetragramma. Le sue citazioni seguono la prassi di sostituire il Tetragramma con le parole greche ky'rios (Signore) o theòs (Dio).

La Torre di Guardia sostiene che la presenza del Tetragramma in alcune delle più antiche copie (in effetti frammenti) della Versione dei Settanta dell'AT sarebbe una prova del fatto che, in origine, esso vi era riportato. Se questo principio è valido, allora, applicandolo al nostro argomento, avremo che l'assenza del Tetragramma in un'antichissima copia di nove delle epistole paoline è una prova del fatto che esso era assente anche negli scritti originali dell'Apostolo.

Infatti, quando il ricercatore svedese Rud Persson inviò al prof. Howard una copia del materiale pubblicato dal prof. Kim a proposito della retrodatazione delle lettere paoline contenute nel codice papiraceo P46, il prof. Howard rispose: "Se la datazione di Kim è corretta, ciò significherebbe che in un MS paolino del primo secolo il Tetragramma non era usato, come io ho supposto. Ciò indebolisce la mia teoria, per lo meno per quanto concerne le lettere di Paolo."

Ma c'è dell'altro. Una cosa è sostenere che qualche copia della Settanta conteneva il Tetragramma, tutt'altra cosa è pretendere che ciò dimostri che gli autori del NT lo abbiano sistematicamente utilizzato nei loro scritti! Infatti, riguardo all'uso del Tetragramma presso gli Ebrei al tempo di Gesù, il quadro offerto da diversi testi dell'AT è molto vario; all'inizio dell'era cristiana non troviamo un modo uniforme di porsi nei confronti del Tetragramma da parte dei redattori dei testi biblici. Le testimonianze testuali disponibili c'inducono a ritenere che i primi traduttori dell'AT in greco si sono trovati di fronte a varie scelte possibili, quando si è trattato di trascrivere il Tetragramma:

- riprodurre il "nome" con caratteri dell'alfabeto ebraico quadrato (P. Fuad 266, del I secolo a.C., in Deut. 18,5);

- riprodurlo con caratteri paleoebraici (Sal. 91,2 nella Versione di Aquila e Sal. 69,13.30-31 in quella di Simmaco, entrambe le versioni vengono fatte risalire al II secolo d.C.);

- abbreviare il Tetragramma con l'uso di due jod con un trattino in mezzo (P. Ossirinco 1007 di Genesi, del III secolo d.C.);

- sostituire il Tetragramma con le lettere greche IAO (Lev. 3,12 e 4,27 del P. 4QLXXLevb, risalente al II secolo a.C.)

- sostituire il Tetragramma col termine ky'rios (P. Chester Beatty).

In siffatto contesto, quale fu il comportamento dei primi cristiani in relazione al "nome" divino nella compilazione del NT? In altre parole, come si regolarono questi scrittori cristiani? Leggendo il NT, troviamo a volte delle citazioni dall'AT, che presentano differenze rispetto alla fonte citata; come si spiegano queste differenze? Lo stesso Corpo Direttivo geovista ammette: "Ogni tanto le citazioni differiscono sia dal testo ebraico che dal testo greco che ora abbiamo. Alcune variazioni possono essere dovute al fatto che lo scrittore citava a memoria. O i cambiamenti possono essere stati intenzionali ... Gli scrittori sostituirono ogni tanto parole o frasi sinonime ... Talvolta i versetti delle Scritture Ebraiche furono parafrasati nelle Scritture Greche Cristiane" (cfr. Svegliatevi! del 22/7/1969, pp. 28-29).

Se la situazione è così diversificata, come si può assecondare la pretesa geovista di uniformare tutte le citazioni dall'AT, fatte dagli autori cristiani, includendovi il Tetragramma dove compariva nell'originale ebraico? E' evidente che l'ipotesi geovista presuppone che tutti gli scrittori del NT si sarebbero attenuti scrupolosamente a una trascrizione fedele dei versetti dell'AT contenenti il Tetragramma. Ma questa presunzione è smentita dalla varietà dei modi in cui veniva riprodotto il "nome" nell'AT e dal comportamento degli stessi scrittori neotestamentari, come si evince da altre evidenze testuali.

Infatti, qualche tempo fa è stato dato ampio risalto alle scoperte del prof. Thiede, rinomato papirologo, il quale avrebbe dimostrato che il Vangelo di Matteo fu scritto a distanza di una sola generazione dalla morte di Gesù o, addirittura, prima. Tale conclusione si basa su una rivalutazione della datazione del Papiro Magdalen (P64), che contiene tre frammenti del capitolo 26 di Matteo; in base agli studi di Thiede, tale Papiro risalirebbe alla metà del I secolo d.C. Una delle caratteristiche peculiari del Papiro Magdalen è la frequenza dei cosiddetti "nomina sacra" (Matteo 26,10.22.31), che rappresentano delle abbreviazioni delle parole greche "Signore" e "Gesù". Tali abbreviazioni divennero molto popolari tra i primi cristiani: abitualmente venivano usate la prima e l'ultima lettera di una parola, come facciamo noi quando abbreviamo il termine "dottor" con "dr". Evidentemente, dietro queste abbreviazioni, c'era un articolato sistema di codificazione, basato su contrazioni di nomi e parole legate a Gesù, Dio e Spirito santo. Pertanto, il Papiro Magdalen sarebbe la prova che, come scrive Thiede, "quasi d'un solo colpo, all'inizio della seconda fase della trasmissione, cioè la fase del codice, i nomina sacra cominciarono a essere abbreviati nei papiri cristiani". Ovviamente, se il Tetragramma fosse stato inserito inizialmente nel testo originale del Vangelo di Matteo, redatto al più presto verso il 40 d.C., in segno di pedissequa fedeltà al testo dell'AT - come sostengono i Testimoni di Geova - appare, a dir poco, anomalo che per i cosiddetti "nomina sacra" possa essere stato adottato così presto un sistema di abbreviazioni fin dalle primissime copie (come nel caso del Papiro di Magdalen), forse addirittura al tempo in cui alcuni Apostoli erano ancora in vita, se accettiamo la datazione di Thiede. Invece, il ricorso così precoce a un articolato sistema di codificazione rappresenterebbe un'ulteriore prova dell'autonomia degli scrittori cristiani.

E' evidente che i responsabili della letteratura geovista non hanno la stessa determinazione che aveva l'apostolo Paolo di non "adulterare la parola di Dio" (2 Cor. 4,2). In definitiva, mentre è lecito avanzare l'ipotesi di un'eventuale presenza del Tetragramma negli scritti originali del NT, sicuramente non è lecito alterare il testo del NT sulla base di una semplice ipotesi, peraltro molto improbabile. Perdendo di vista il ruolo del traduttore, il Corpo Direttivo si è sostituito all'Autore e ha realizzato libri che, sfruttando la reputazione della Bibbia, servono in realtà a divulgare opinioni personali molto discutibili.

In considerazione dell'abbondante presenza, valutata in migliaia di casi, del Tetragramma nell'AT, questo mutamento è indubbiamente rimarchevole. Passiamo, quindi, all'aspetto più significativo dell'intera questione: quale designazione Gesù adoperò rivolgendosi al suo Dio? Che esempio lasciò ai discepoli circa il modo migliore per rivolgersi al Creatore?

L'esempio del Cristo

In paragone con gli oltre 6.800 riferimenti a "Jahvé", l'AT "usa il termine padre quasi esclusivamente (circa 1180 volte) in senso profano e solo raramente (15 volte) in senso religioso. Allo stesso modo dell'AT, anche la letteratura dell'antico giudaismo palestinese dimostra un chiaro riserbo nell'uso religioso del termine. Solo negli scritti del giudaismo della diaspora diventano più frequenti le citazioni con l'uso del titolo di padre nei confronti di Dio. ... La qualifica di Dio come padre, nell'AT, è usata solo in riferimento al popolo d'Israele oppure al re d'Israele. ... A differenza dell'AT, in cui il nome di padre nei confronti di Dio appariva in pochissimi passi, nel NT il numero delle citazioni con l'uso religioso del termine (254 volte) supera di gran lunga quello profano (157 volte). ... Il fatto che Gesù chiami Dio suo padre ha un preciso fondamento nella particolarissima rivelazione concessagli da Dio e nella sua singolare posizione di figlio" (cfr. Dizionario dei Concetti Biblici del NT, Bologna 1976, pp. 1136-1139). Quindi, solo con la venuta del Figlio di Dio e con la rivelazione che Gesù fece riguardo al Creatore, venne alla ribalta, effettivamente, la possibilità di un'intima relazione con Lui. La Traduzione del Nuovo Mondo delle Scritture Greche Cristiane (il NT geovista) riporta il nome "Geova" in 237 passi senza alcuna ragionevole base. Eppure, perfino in presenza di quest'arbitrario inserimento di qualcosa che non compare in alcun antico manoscritto del NT, il riferimento a Dio come "Padre" è sicuramente prevalente: Egli è chiamato "Padre" 254 volte in questi scritti cristiani, senza dover ricorrere ad arbitrari inserimenti del termine ad opera dei traduttori.

Contrariamente alla prassi in voga tra i Testimoni di Geova, quando Gesù si rivolgeva a Dio in preghiera, Lo invocava non come "Geova", ma sempre come "Padre" (adoperando questo termine ben sei volte nella sola preghiera finale con i discepoli). Perfino nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture non si dice mai che Gesù si sia rivolto al Padre chiamandolo "Geova". Come osserva C. Savasta (cfr. "Il Nome Divino nel NT" in Rivista Biblica n. 1/1998, p. 90), "Gesù evita accuratamente di pronunziare il nome divino. Infatti, ad esempio, dinanzi al sinedrio, al sommo sacerdote che gli chiede se fosse lui «il Cristo, il Figlio del Benedetto», Gesù risponde (Mc 14,61-62; cf. Mt 26,63-64): «... vedrete il Figlio dell'Uomo seduto alla destra della Potenza...», invece che «alla destra di JHWH» del Salmo 110,1, qui citato assieme a Dn 7,14, adeguandosi così all'uso ebraico di astenersi dal pronunziare il nome JHWH, come aveva fatto appunto il sommo sacerdote che lo interrogava, e questo proprio nell'occasione più adatta per dissociarsi pubblicamente da quest'uso, se non si fosse a sua volta conformato a esso. E' del tutto improbabile quindi che egli lo pronunziasse in altre occasioni".

Perciò, è evidente che, quando - in preghiera - disse: "Padre, sia santificato il tuo nome", il termine "nome" fu usato in un senso più profondo, più ampio, per intendere la Persona stessa; altrimenti sarebbe incomprensibile la totale assenza di un appellativo specifico, come "Geova", nelle preghiere di Gesù. La notte prima della sua morte, sia parlando direttamente con i discepoli sia nella lunga preghiera che fece, Gesù parlò del "nome" di Dio per quattro volte; eppure per tutta la notte, sia nei consigli e nell'incoraggiamento ai discepoli sia in preghiera, non troviamo un solo caso in cui si faccia uso del nome "Geova". Invece, egli adoperò significativamente l'appellativo "Padre" per circa cinquanta volte! Il giorno seguente, in punto di morte, non invocò il nome "Geova", ma disse: "Mio Dio, Mio Dio", e le sue ultime parole furono: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito".

D'altra parte, "lodare il suo santo nome" o "santificare il suo nome" non significa semplicemente lodare un particolare termine o un'espressione, infatti come si potrebbe 'lodare una parola' o 'elogiare un titolo'? Piuttosto, quelle espressioni significano lodare la Persona stessa, parlare con riverenza ed ammirazione di Lui e delle Sue qualità ed azioni, stimarLo e riverirLo come Santo in modo superlativo.

Come cristiani, quale esempio dovremmo dunque seguire? Quello di una denominazione religiosa del ventesimo secolo o quello del Figlio di Dio, dato in un momento cruciale della sua esistenza terrena?

Quando insegnò ai suoi discepoli come pregare, se avesse seguito la prassi diffusa tra i Testimoni di Geova, Gesù avrebbe dovuto insegnare loro o a rivolgersi a "Geova Dio" o avrebbe comunque incluso quel nome nella preghiera. Invece, egli insegnò a seguire un esempio, invocando il "Padre nostro nei cieli".

Nelle relazioni familiari, di solito, non ci rivolgiamo a un padre chiamandolo per nome, abitualmente ci si rivolge a lui chiamandolo "padre" o, in modo più intimo, "papà" o "babbo". Gli estranei non possono adoperare tali termini così familiari, costoro devono limitarsi all'uso di appellativi più formali, riferendosi a un nome proprio. Perciò, rivolgendosi a quelli divenuti figli di Dio mediante Cristo Gesù, l'apostolo dice: "Poiché‚ voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù che causi di nuovo timore, ma avete ricevuto uno spirito di adozione come figli, mediante il quale spirito gridiamo: 'Abba' (espressione aramaica per "papà"), Padre!" (Romani 8,15). Questo fatto svolge sicuramente un ruolo importante nel chiarire perché avvenne l'innegabile cambiamento dall'enfasi precristiana sul Tetragramma al risalto cristiano sul "Padre" celeste, giacché Gesù espresse la propria opzione per questo termine non solo quando pregò. Come si comprende dalla lettura dei Vangeli, in tutti i discorsi rivolti ai discepoli, Gesù si riferisce costantemente e principalmente a Dio come "Padre". Possiamo correttamente asserire di conoscere il "nome" di Dio nel senso più profondo e autentico solo grazie alla disponibilità e al profondo beneficio dell'intima relazione con il Padre, resa possibile dal Figlio.

In base all'evidenza biblica e, in particolare, all'esempio di Gesù e degli apostoli, il risalto e l'enfasi eccessiva al nome "Geova" sono di scarso peso nel provare la validità della pretesa di una religione di far conoscere e santificare il "nome di Dio" nel modo più importante possibile. Contrariamente a quanto viene speciosamente sostenuto nell'articolo pubblicato dal Testimone di Geova sulla Rivista Biblica,

- il NT, come ci è stato preservato mediante migliaia di antichi manoscritti, in nessun punto enfatizza il Tetragramma;

- il NT dimostra che il Figlio di Dio non diede risalto a tale designazione, né nei discorsi né in preghiera, rivelando invece la sua opzione per l'appellativo "Padre"; Il NT dimostra che apostoli e discepoli, nei loro scritti, seguirono lo stesso esempio.

La riluttanza ad adeguarsi al loro modello, forse temendo addirittura di imitarlo, è segno di un erroneo intendimento, di un errore di valutazione. Il nome rappresentato dalle lettere del Tetragramma è degno di profondo rispetto, giacché compare con grande rilevanza nella lunga storia del rapporto di Dio con gli uomini in età precristiana, in particolare con il popolo del patto, Israele. Tuttavia, il Tetragramma, comunque lo si pronunci, resta solo un simbolo della Persona. Commetteremmo un serio errore, se attribuissimo a una parola - anche se adoperata come nome divino - un'importanza equivalente a quella spettante a Colui che essa designa; sarebbe ancora peggio, se considerassimo la parola in sé come una sorta di feticcio, talismano o amuleto capace di proteggerci da danni e sofferenze, da forze demoniche. Agendo in tal modo, dimostreremmo di aver perso effettivamente di vista il vero e vitale significato del "nome" di Dio.

Achille AVETA