L’apocalittico è un uomo in crisi di fronte alla storia del suo tempo. Nel frammento di storia nel quale vive non vede segni di speranza, né appigli per una soluzione. E allora si immerge in una visione universale della storia che egli legge con una fondamentale certezza: questo mondo è votato alla rovina, ma sulle rovine di questo mondo ne sorgerà un altro: Dio ha creato due eoni, due tempi, non uno. Questo mondo, che sembra solido, è in realtà fragile, e Dio sta per farlo crollare. Anche l’Apocalisse di Giovanni si muove in questa atmosfera. Riassumiamo quanto abbiamo visto finora.
Le lettere alle sette chiese (cap. 2-3) avevano lo scopo di preparare i cristiani a una prova terribile che Giovanni vedeva avvicinarsi: in seguito abbiamo capito che si trattava della persecuzione dell’impero romano, che avrebbe costretto la comunità cristiana a scegliere fra l’adorazione del "Signore Gesù" e l’adorazione del "Signore Cesare". Abbiamo anche capito che la donna e il bambino e i loro seguaci sono "protetti" da Dio, ma non tolti dal mondo; e che satana è sconfitto in cielo, ma è ancora attivo in terra e si incarna nelle potenze idolatriche che di volta in volta dominano la scena del mondo e pretendono di sostituirsi a Dio.
Di qui la domanda: il popolo di Dio saprà resistere? La risposta è una descrizione anticipata della vittoria del popolo di Dio. Questa visione dei 144.000 va letta insieme alla precedente visione di 7,18. Sembra una ripetizione, ma qui ci sono delle indicazioni più precise. I 144.000 vittoriosi sono definiti "vergini": "Non si sono contaminati con donne: sono vergini" (14,4). La verginità va qui intesa, come anche altrove nella Bibbia (Os 2,14-21; Ger 2,2-6), in senso metaforico: vergine è colui che rifiuta di prostituirsi all’idolatria. Non si tratta dunque di un gruppo di celibi, ma del popolo di Dio che si è sottratto al fascino dell’idolatria del drago e delle due bestie. E difatti portano il nome dell’Agnello e non della bestia: loro Signore è il Cristo, non il Cesare. "Seguono l’Agnello dovunque vada": vivono la "sequela" del Cristo. E nella loro bocca non c’è "menzogna": la verità non è semplicemente l’assenza di bugie e la sincerità nelle parole, ma la sincerità dell’esistenza. Menzognero è colui che imposta la vita su falsi valori, sincero è colui che imposta la vita sui valori veri, quelli evangelici.
Le caratteristiche che definiscono i vittoriosi sono dunque le caratteristiche evangeliche dei discepoli: nulla di più e nulla di meno. I 144.000 sono definiti come "primizie": "sono stati riscattati tra gli uomini quali primizie per Dio e per l’Agnello" (14,4). Le primizie sono i frutti maturati per primi e indicano che anche il resto della mietitura è prossimo a maturazione. I 144.000 sono dunque un numero "limitato" che fa presagire una moltitudine molto più grande.
L’Apocalisse è tutta pervasa da inni liturgici. Essi svolgono diverse funzioni (un po’ come il coro nella tragedia greca): sono la risposta di fede e di ringraziamento nei confronti dell’azione salvifica di Dio, della sua vittoria su satana; sono professione di fede in Dio e in Cristo (e quindi un rifiuto dell’idolatria); sono anticipazioni del risultato finale della storia.
In questo brano non è indicato il contenuto del canto: sarà trascritto soltanto alla fine del libro (19,1-10). La visione è soltanto un’anticipazione del compimento futuro e come tale va letta. Si tratta di un canto "nuovo".
Di un canto nuovo si era già parlato in 5,9. Ma è soprattutto nel cap. 21 che il motivo della novità si presenterà con una certa insistenza: "Vidi un nuovo cielo e una nuova terra" (21,1); "E vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, discesa dal cielo" (21,2); "E colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, faccio nuove tutte le cose"" (21,5).
Si tratta della novità del mondo di Dio: un mondo che in pienezza è nel futuro, ma che già ora è anticipato. È la novità escatologica, che al mondo sfugge e che solo i discepoli scorgono, che è promessa ai vittoriosi e che è rifiutata agli idolatri ("cantavano un canto nuovo e nessuno poteva impararlo se non i 144.000, quelli che sono stati riscattati dalla terra").
Dopo questa prima visione, Giovanni riprende la visione del "piccolo libro" (10,1-11). Ma mentre là si parlava del "mistero di Dio", qui si parla di un "vangelo eterno".
La scena non intende essere soltanto una ripresa di motivi già accennati, ma un’anticipazione di temi che occuperanno tutto il resto del libro: la caduta delle idolatrie, il giudizio, il mondo nuovo.
Il messaggio della scena risulta di tre parti: un avvertimento: "Temete Dio, dategli gloria, adorate colui che ha creato il cielo e la terra"; poi un fatto: "È caduta Babilonia"; infine una minaccia: "Chi adora la bestia e la sua immagine berrà il vino del furore di Dio". "Vangelo" non è l’uno o l’altro di questi tre elementi, ma il loro insieme. E questo "vangelo" è "eterno", cioè immutabile e definitivo: le vicende degli uomini non possono annullarlo."Vangelo" significa "notizia consolante". Esso non può perciò esaurire il suo significato in un avvertimento, né tanto meno in un giudizio; ci deve essere un fatto che possa dirsi veramente "lieto e consolante". Nel nostro caso il fatto consolante è la caduta di Babilonia (v. 8). È un motivo già ampiamente presente nei profeti, dai quali Giovanni lo deriva. "È caduta Babilonia e tutte le statue dei suoi idoli sono in frantumi per terra" (Is 21,9). "All’improvviso Babilonia è caduta, ridotta a pezzi" (Ger 51,8).
Già nei profeti, specialmente in Isaia 13,1-23, il tema è molto più ampio dei fatti precisi che riguardano l’impero babilonese. La caduta di Babilonia è un esempio, o un’illustrazione, di una legge generale. Il vero tema è il giudizio di Dio sulla storia.
Così è anche nell’Apocalisse, dove la caduta di Babilonia è uno dei temi più ricorrenti e importanti della seconda parte del libro: 14,8; 16,17-21; 17,16; 18,1-24. La tradizione apocalittica giudaica usava Babilonia come pseudonimo di Roma. Lo stesso fa Pietro nella sua prima Lettera 5,13: "La chiesa degli eletti che è in Babilonia, vi saluta". Anche l’Apocalisse usa il nome Babilonia per intendere Roma, come appare chiaro in 17,9: "Le sette teste sono i sette colli sui quali è adagiata la donna".
A questo punto possiamo trarre una conclusione: la lieta novella è molto semplice: Roma, proprio nel più bello della sua apparente vittoria, in realtà è già sconfitta. E in tutto questo c’è una grande ironia.
"Vangelo" era un termine particolarmente usato nell’ambito del culto imperiale. Dall’imperatore ci si attendeva salvezza e pace, e la sua salita al trono o un suo decreto o una sua visita erano detti "lieta notizia" (vangelo).
Per l’Apocalisse, al contrario, la lieta notizia è la caduta dell’impero e la liberazione degli uomini da simili fatue illusioni.
Non soltanto Babilonia è destinata a frantumarsi, ma anche tutti gli uomini che sono stati conniventi con le sue idolatrie, saranno sottoposti al giudizio di Dio. Per descrivere il castigo Giovanni ricorre a due immagini classiche della letteratura biblica. Anzitutto la sorte toccata a Sodoma e Gomorra (Gen 19,15-26): "Il Signore fece piovere sopra Sodoma e Gomorra fuoco e zolfo, e distrusse tutte quelle città e tutta la pianura e tutti gli abitanti". Abramo, volgendo lo sguardo verso Sodoma e Gomorra, vide che "dalla terra si alzava un fumo simile al fuoco di una fornace" (Gen 19,28). L’episodio è ripreso più tardi da Isaia, come esempio del castigo di Dio sui malvagi: "I suoi torrenti si muteranno in pece, la sua polvere in zolfo, la sua terra in un braciere; brucerà giorno e notte e il suo fumo salirà per sempre" (Is 34,9-10). Una seconda immagine è la visione della Geenna o della valle dell’Innon, nella quale erano bruciate le immondizie che ogni giorno venivano portate fuori da Gerusalemme. Immagini, dunque, che significano il castigo, ma che in nessun modo vogliono essere una descrizione realistica dell’inferno. Queste immagini saranno riprese più avanti in 19,20 e 20,10.
All’annuncio dei tre angeli fa seguito, a modo di conclusione, un commento sapienziale, confermato e precisato da una voce celeste e da un intervento dello Spirito. Di questi commenti, che insegnano al lettore l’atteggiamento da assumere, ne abbiamo già trovati due nel capitolo precedente: uno ricordava la "pazienza e la fede" (13,10), l’altro la"sapienza" (13,18). Sono i due atteggiamenti fondamentali che la comunità deve concretamente far propri: la saggezza di valutare gli avvenimenti in modo diverso dal mondo e l’opposizione perseverante nei confronti delle seduzioni dei falsi valori e di tutte le potenze che vorrebbero imporli.
Una voce celeste proclama la seconda delle sette beatitudini che troviamo nell’Apocalisse: "Beati i morti che muoiono nel Signore, sin d’ora" (v. 13). "Morire nel Signore" è una frase tipica del Nuovo Testamento (1Cor 15,18; 1Ts 4,16). Questi beati sono i martiri e tutti coloro che sono vissuti nella fedeltà al Signore sino alla morte. Non si sono lasciati ingannare dal mondo, hanno creduto e hanno operato il bene. Per questo sono già ora nel riposo di Dio. Il testo riecheggia la frase di Gesù: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo" (Mt 11,28).
Il cap. 14 (e in particolare i vv. 14-20) è in certo senso la conclusione dei cap. 12 e 13. Nel cap. 12 abbiamo sentito che il drago è stato vinto in cielo, ma che ancora sta perseguitando la comunità cristiana interna. Nel cap. 13 ci è stata descritta la forma storica in cui il drago si incarna: l’idolatria politica e l’ideologia che la sostiene. Nel cap. 14 viene descritta, anticipatamente, la sorte di coloro che rimangono fedeli a Cristo e la sorte di coloro che invece adorano la potenza del drago. La narrazione si sviluppa in tre quadri: il trionfo dell’Agnello sul monte Sion, circondato dai 144.000 che portano scritto sulla fronte il suo nome (14,1-5); l’annuncio della caduta di Babilonia (14,6-13); la mietitura e la vendemmia (14,14-20).
Quest’ultima parte del cap. 14 ci presenta il giudizio finale. La descrizione del Figlio dell’uomo sulla nube non lascia dubbi: è la venuta del Signore nella parusia. Giovanni ci ripropone un insegnamento tradizionale. Sulla base di Gioele 4,13: "Si muovano e salgano le nazioni alla valle di Giosafat! Là mi assiderò per giudicare tutti i popoli confinanti. Prendete la falce, perché la messe è matura. Venite, premete, perché il torchio è pieno, i tini traboccano, tanto la loro malizia è grande! ", egli ha riunito i vari elementi già presenti nel Nuovo Testamento: la venuta finale del Figlio dell’uomo per il giudizio definitivo (Mc 13,26) e la venuta degli angeli con il compito di togliere tutti gli scandali e gli operatori di iniquità (Mt 13,41).
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vv. 1–5. La descrizione di gravi e imminenti pericoli che minacciano la comunità cristiana (cap. 13) suscita la domanda se il popolo di Dio sarà capace di resistere (6,17; 7,1-8). Giovanni riceve la risposta in una nuova visione. Egli vede sul monte Sion l’Agnello circondato dalla grande schiera di coloro che gli appartengono. Sion è il luogo dove il Messia apparirà per salvare Gerusalemme e giudicare i nemici (Gl 3,5). In questo versetto si fa il nome di Sion per designare il luogo della protezione di Dio, senza precisare se si trova in cielo o sulla terra. Intorno all’Agnello si raccolgono i 144.000 che portano il segno della loro appartenenza a lui. Si distinguono così dai seguaci della bestia, che ne hanno ricevuto il marchio (13,16-17). Il fragore di molte acque (1,15; 19,6) e il rimbombo del tuono (4,5; 8,5; 11, 19; ecc.) indicano la maestà divina dell’Agnello. Dalla liturgia celeste (5,9) sale ai 144.000 l’inno di lode. Non viene detto nulla, per ora, sul contenuto di questo canto. Solo alla fine del libro (19,1-10) saranno trascritti letteralmente gli inni di vittoria cantati dall’infinita moltitudine. Di questa moltitudine è detto prima di tutto che non si sono contaminati con donne, ma sono rimasti vergini. Nell’Antico Testamento l’impudicizia e la fornicazione significano, in senso traslato, la disobbedienza a Dio e l’apostasia (Os 2,14-21; Ger 2,2-6; ecc.). La comunità cristiana invece è la sposa di Cristo e gli viene presentata come una vergine casta (2Cor 11,2). I 144.000 che sono rimasti vergini rappresentano l’intera chiesa che è rimasta fedele nella grande tentazione e non si è prostituita al culto degli idoli. Essi non hanno adorato la bestia, ma seguono l’Agnello dovunque vada. I 144.000 sono stati riscattati tra gli uomini come primizia per Dio e per l’Agnello. Come si consacravano a Dio i primi frutti del raccolto perché esso gli appartiene interamente (Lv 23,9ss; Num 28,26ss; ecc.), così il popolo di Dio è proprietà sua e di Cristo, separato dal resto dell’umanità e offerto come primizia, perché tutti gli uomini appartengono a Dio. Infine essi si distinguono dal mondo della menzogna perché dicono la verità: nella loro bocca, come in quella del Signore Gesù servo di Dio, non c’è inganno (Is 53,9). Gli animali che venivano offerti a Dio dovevano essere senza macchia (Es 12,5; Lv 23,12-13; 1Pt 1,19), così anche i 144.000 sono consacrati a Dio e all’Agnello come offerta senza difetto, come popolo di sua proprietà.
vv. 6–13. Il contenuto del vangelo eterno predicato dall’angelo è un appello alla penitenza e a rendere onore a Dio creatore in vista dell’ora imminente del giudizio. Con ciò non si esprime una predicazione specificamente cristiana, ma si chiede la dedizione all’unico Dio.
Un altro angelo proclama con solenni parole dei profeti (Is 21,9; Ger 51,7-8; Dan 4,27) che il giudizio sulla grande città di Babilonia è stato compiuto. Nell’Antico Testamento Babilonia è spesso considerata come la città dell’empietà per eccellenza. Qui è usata come pseudonimo di Roma. La capitale dell’impero è condannata perché ha ubriacato tutti i popoli con la sua idolatria (Ger 51,7). Il terzo angelo pronuncia la condanna che colpirà tutti coloro che hanno adorato la bestia e la sua immagine, ossia tutti quelli che hanno aderito al culto dell’imperatore. Anticamente le città empie di Sodoma e Gomorra erano state annientate con fuoco e zolfo: tale sarà la punizione di coloro che hanno adorato la bestia. La serie degli annunci si conclude con un appello rivolto alla comunità. È necessario perseverare e dimostrarsi costanti nel rimanere fedeli ai comandamenti e alla fede in Gesù. Una voce dal cielo, a conferma di questa esortazione, proclama beati quelli che d’ora innanzi muoiono nel Signore. Lo Spinto riprende questa beatitudine e vi aggiunge una promessa: ai cristiani che muoiono è promesso il riposo dalle loro fatiche ed essi entreranno nella patria celeste del popolo di Dio (Eb 4,3.9). Secondo la concezione giudaica le opere dell’uomo compaiono davanti al tribunale di Dio in veste di testimoni. Il dovere delle buone opere, collegato al dovere di credere, forma un’unità di fede e di opere. Tutto il Nuovo Testamento ne sottolinea l’importanza (per es., Gc 2,14-26).
vv. 14–20. Il triplice annuncio del giudizio è seguito dall’apparizione del Figlio dell’uomo (Dan 7,13; Mc 13,26; 14,62; ecc.). Nella sua qualità di re egli ha il capo adorno di una corona d’oro e reca in mano una falce affilata, segno della sua funzione di giudice. Un altro angelo viene ora dal tempio del cielo, ossia da Dio, e reca al Figlio dell’uomo un ordine: gli comanda, con le parole di Gioele 4,13, di dare inizio al raccolto, che qui va inteso nel senso figurato di giudizio (Mc 4,29; Gal 6,7-8). Il Figlio dell’uomo getta la sua falce sulla terra e subito il raccolto è fatto.
L’apparizione del Figlio dell’uomo dà inizio al giudizio che dovrà essere compiuto dagli angeli (vv. 18-20). Dopo la mietitura viene la vendemmia, che è anch’essa, secondo Gioele 4,13, un’immagine del giudizio (Is 63,2-3). L’uva è gettata nel gran tino dell’ira di Dio. Questo annuncio di giudizio ha poi la sua corrispondente realizzazione nella condanna dei nemici di Cristo, che sono la bestia e il falso profeta (19,15.20). L’uva nel tino viene pigiata fuori della città. Secondo le attese dell’apocalittica giudaica, il giudizio dei popoli avrebbe dovuto aver luogo nella valle di Giosafat (Gl 4,2.12), nelle immediate vicinanze di Gerusalemme, mentre Israele sarebbe rimasto al sicuro nella santa città (Zc 14,2ss; ecc.). Questa concezione è ripresa in questo passo: il giudizio contro gli increduli si effettua fuori della città. La dimensione di questo giudizio-torchiatura è tale che il sangue che esce dal tino raggiunge l’altezza delle briglie dei cavalli, come si legge nell’Apocalisse di Enoc, 100,3: "I cavalli cammineranno immersi fino al petto nel sangue dei peccatori, e i carri vi saranno sommersi per tutta la loro altezza". C’è qui un accenno ai cavalli dell’esercito, che accompagna il Messia, e che trionfano sull’esercito della bestia (19,14-19). Il campo di battaglia si estende per 1600 stadi (uno stadio = 192 m.). Questo numero va considerato come un multiplo di quattro, che è il numero cosmico (i quattro punti cardinali), e sta a indicare l’enorme estensione del giudizio. Tutto il mondo deve comparire davanti al trono di Dio e all’Agnello, ma la comunità cristiana è al sicuro sul monte Sion.
LE SETTE COPPE
(15,1–16,21)
Ancora una descrizione delle sciagure che colpiscono l’umanità. Questa descrizione ha lo scopo di introdurre direttamente il racconto del giudizio su Babilonia (cap. 17-18). Ma prima di indagare il senso è opportuno premettere una sommaria spiegazione di alcuni simboli che incontriamo per la prima volta. Dopo che è stata versata la terza coppa, si ode un commento dell’angelo delle acque (16,5): nell’apocalittica era frequente la convinzione che le forze della natura fossero controllate dagli angeli; in 7,1 abbiamo già sentito parlare dei quattro angeli che trattengono i venti della terra, e in 14,18 dell’angelo che ha il potere sul fuoco.
Alla sesta coppa si prosciuga il fiume Eufrate in modo che i re dell’Oriente possano attraversarlo (16,2): probabilmente qui si allude ancora una volta alle invasioni dei Parti (6,1ss; 9,13-21). Gli spiriti demoniaci (16,13), che hanno il compito di radunare tutti i re della terra in una sorta di rivolta generale contro Dio, assomigliano a rane perché nel parsismo le rane erano considerate come esseri al servizio del dio delle tenebre.
Il luogo del grande raduno è chiamato harmaghedón (16,16) che è una città alle falde dei monti che prolungano il Carmelo, ed è un punto di passaggio obbligato per i traffici della Palestina del Nord e del Sud e luogo di molte battaglie.
La grande città che si spacca in tre parti è Babilonia, ossia Roma. L’Apocalisse racconta tre volte il giudizio di Dio, e tutte le volte utilizza lo schema del numero sette: i sette sigilli (cap. 6), le sette trombe (cap. 8-9), le sette coppe (cap. 15-16). Non si tratta di tre momenti diversi di un unico tema svolto per tappe, ma del medesimo tema raccontato tre volte.
Se i settenari delle sette trombe e delle sette coppe sono simili nella struttura lo si deve anche al fatto che ambedue sono costruiti sul modello delle piaghe d’Egitto. Questo sfondo biblico è di grande importanza per comprendere il senso teologico dell’intera costruzione. Le piaghe d’Egitto non sono ricordate tutte, né nel loro ordine, ma in modo sommario e in ordine sparso. Più importante è notare che Giovanni non sembra rifarsi soltanto direttamente al racconto dell’esodo, ma sulla meditazione che di quegli eventi fece il libro della Sapienza. La Sapienza vede nei gesti dell’esodo l’intervento di Dio che "arma la creazione per punire i suoi nemici" (5,17). Le punizioni sono inviate come una lezione (questa è per la Sapienza la prima intenzione di Dio): "per insegnare che l’uomo è punito proprio dalle cose di cui si è servito per peccare" (Sap 11,16). Questa idea è sostanzialmente presente anche nel racconto dell’Apocalisse: di fronte ai flagelli inviati da Dio gli uomini avrebbero dovuto convertirsi e dar gloria al Signore.
Da tutto questo emerge che gli avvenimenti storici, di cui le sette coppe costituiscono la narrazione simbolica, non sono semplicemente una serie di disgrazie, ma un intervento liberante di Dio, un nuovo esodo, ancor più grandioso del primo e definitivo: non sono coinvolti più soltanto Israele e l’Egitto, ma il mondo intero.
Nei confronti delle sciagure che colpiscono l’umanità si contrappongono due letture: una lettura dall’alto e una dal basso, quella di Dio e quella degli uomini, una lettura di fede e una lettura priva di fede. La lettura dall’alto scorge nelle sciagure che colpiscono gli uomini e nel crollo della grande città l’avverarsi del giudizio di Dio ("I tuoi giudizi sono giusti e veri") e il compimento del suo disegno ("È fatto"): gli uomini hanno "portato il marchio della bestia" e ne hanno "adorato l’immagine", hanno "versato il sangue dei santi e dei profeti" e ora raccolgono il frutto delle loro malvagità ("l’hanno meritato").
Ma totalmente opposta è la lettura degli increduli: tre volte è detto che, anziché pentirsi, si "misero a bestemmiare Dio" (16,9.11.21).
Non negano che le sciagure vengano da Dio. Negano che si tratti di una giusta punizione e non riconoscono che si tratta della logica conseguenza di ciò che essi stessi hanno costruito. Danno la colpa a Dio e non a loro stessi, e di conseguenza non comprendono che l’unico modo per salvarsi è un cambiamento urgente e radicale. È una cecità morale prima ancora che intellettuale. Questi uomini che bestemmiano Dio di fronte alla violenza, che essi stessi hanno scatenato, non sono semplicemente peccatori, ma peccatori ostinati nel loro peccato: peggio ancora, lo giustificano. Sono nelle tenebre e le amano (Gv 3,19). Ed è questo loro amore per le tenebre che li rende ciechi e ottusi.
C’è dunque la lettura della fede e quella dell’incredulità, e la comunità deve, ovviamente, scegliere la prima. Ma non basta: la comunità deve anche trarne le conseguenze sul piano del comportamento. È questa, appunto, la funzione dell’avvertimento che viene improvvisamente inserito nello svolgersi della narrazione: "Ecco, io verrò come un ladro: beato colui che vigila e custodisce le sue vesti" (16,15).
Nella serie delle sette beatitudini dell’Apocalisse questa è la terza. Beati coloro che nel succedersi degli avvenimenti, che possono sorprendere e disorientare, rimangono vigilanti e fedeli. Vigilare è un verbo tipico della spiritualità cristiana. Significa essere svegli (e non assonnati) in modo da cogliere il senso di ciò che succede ed essere pronti ad approfittarne; non lasciarsi distrarre dalle apparenze e rimanere aggrappati alle parole sicure della tradizione apostolica (3,1-2); vegliare sul proprio comportamento perché non vi si insinui lo spirito mondano.
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vv. 1–21. I tre primi flagelli che gli angeli riversano sul mondo per ordine di Dio superano di molto le piaghe d’Egitto e le conseguenze delle prime tre trombe perché causano una distruzione totale. Tutti i seguaci della bestia, ossia tutti gli uomini che hanno aderito al culto dell’imperatore, sono colpiti da ulcere maligne (v. 2).
L’angelo delle acque conferma che il giudizio di Dio è giusto. Dio punisce tutti coloro che hanno versato il sangue dei cristiani. Una voce che proviene dall’altare celeste, ai cui piedi si trovano le anime dei martiri (6,9-11), risponde approvando: i giudizi di Dio sono giusti. La quarta coppa è versata sul sole. Le prime quattro visioni rappresentano lo stesso ordine delle prime quattro trombe: terra, mare, fiumi, astri. Pur colpiti dalle precedenti catastrofi, gli uomini rifiutano la conversione, che consiste nel dar gloria a Dio. Anzi, essi continuano nelle loro bestemmie contro Dio, come viene affermato qui e in seguito come in un ritornello (vv. 11.21). La quinta coppa è rovesciata sul trono della bestia, ossia sulla sede dei Cesari (13,1ss), il cui impero si oscura come un tempo si oscurò quello del faraone. Il sesto flagello prosciuga le acque dell’Eufrate (Is 11,15; Ger 51,36; Zc 10,11) in modo che i re dell’Oriente abbiano via libera. Qui si ricorda di nuovo il pericolo che i Parti costituivano per tutto l’impero (6,1-2; 9,13-21). Il seguito della bestia è presentato sotto figura dei re dell’Oriente che si radunano per il loro ultimo assalto (17,12ss; 19,19). L’esercito delle tenebre si raccoglie per la battaglia nella località di Harmaghedón "il monte di Meghiddo". Questo nome serve per indicare il luogo sinistro dove avrà luogo la definitiva battaglia apocalittica.
L’ultima coppa viene versata nell’aria. Ne sorgono tempeste e terremoti di un’intensità mai vista. Lo scuotimento del cosmo precede immediatamente la fine (6,12-17). La città che si spacca in tre parti è Roma. Ora il giudizio sta per essere pronunciato su di lei a causa delle sue azioni empie. Quest’ultima serie di sette flagelli escatologici introduce direttamente alla scena del giudizio su Babilonia-Roma (cap. 17-18).