00 13/12/2011 13:18

UN VANGELO ETERNO

1 Poi guardai ed ecco l'Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo. 2 Udii una voce che veniva dal cielo, come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono. La voce che udii era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe. 3 Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e ai vegliardi. E nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra. 4 Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello. 5 Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia.
6 Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo. 7 Egli gridava a gran voce:
«Temete Dio e dategli gloria,
perché è giunta l'ora del suo giudizio.
Adorate colui che ha fatto
il cielo e la terra,
il mare e le sorgenti delle acque».
8 Un secondo angelo lo seguì gridando:
«E' caduta, è caduta
Babilonia la grande,
quella che ha abbeverato tutte le genti
col vino del furore della sua fornicazione».
9 Poi, un terzo angelo li seguì gridando a gran voce: «Chiunque adora la bestia e la sua statua e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, 10 berrà il vino dell'ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell'Agnello. 11 Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome». 12 Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù.
13 Poi udii una voce dal cielo che diceva: «Scrivi: Beati d'ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono».
14 Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d'uomo; aveva sul capo una corona d'oro e in mano una falce affilata. 15 Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: «Getta la tua falce e mieti; è giunta l'ora di mietere, perché la messe della terra è matura». 16 Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta.
17 Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, anch'egli tenendo una falce affilata. 18 Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, uscì dall'altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata: «Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le sue uve sono mature». 19 L'angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l'uva nel grande tino dell'ira di Dio. 20 Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue fino al morso dei cavalli, per una distanza di duecento miglia.

L’apocalittico è un uomo in crisi di fronte alla storia del suo tempo. Nel frammento di storia nel quale vive non vede segni di speranza, né appigli per una soluzione. E allora si immerge in una visione universale della storia che egli legge con una fondamentale certezza: questo mondo è votato alla rovina, ma sulle rovine di questo mondo ne sorgerà un altro: Dio ha creato due eoni, due tempi, non uno. Questo mondo, che sembra solido, è in realtà fragile, e Dio sta per farlo crollare. Anche l’Apocalisse di Giovanni si muove in questa atmosfera. Riassumiamo quanto abbiamo visto finora.

Le lettere alle sette chiese (cap. 2-3) avevano lo scopo di preparare i cristiani a una prova terribile che Giovanni vedeva avvicinarsi: in seguito abbiamo capito che si trattava della persecuzione dell’impero romano, che avrebbe costretto la comunità cristiana a scegliere fra l’adorazione del "Signore Gesù" e l’adorazione del "Signore Cesare". Abbiamo anche capito che la donna e il bambino e i loro seguaci sono "protetti" da Dio, ma non tolti dal mondo; e che satana è sconfitto in cielo, ma è ancora attivo in terra e si incarna nelle potenze idolatriche che di volta in volta dominano la scena del mondo e pretendono di sostituirsi a Dio.

Di qui la domanda: il popolo di Dio saprà resistere? La risposta è una descrizione anticipata della vittoria del popolo di Dio. Questa visione dei 144.000 va letta insieme alla precedente visione di 7,18. Sembra una ripetizione, ma qui ci sono delle indicazioni più precise. I 144.000 vittoriosi sono definiti "vergini": "Non si sono contaminati con donne: sono vergini" (14,4). La verginità va qui intesa, come anche altrove nella Bibbia (Os 2,14-21; Ger 2,2-6), in senso metaforico: vergine è colui che rifiuta di prostituirsi all’idolatria. Non si tratta dunque di un gruppo di celibi, ma del popolo di Dio che si è sottratto al fascino dell’idolatria del drago e delle due bestie. E difatti portano il nome dell’Agnello e non della bestia: loro Signore è il Cristo, non il Cesare. "Seguono l’Agnello dovunque vada": vivono la "sequela" del Cristo. E nella loro bocca non c’è "menzogna": la verità non è semplicemente l’assenza di bugie e la sincerità nelle parole, ma la sincerità dell’esistenza. Menzognero è colui che imposta la vita su falsi valori, sincero è colui che imposta la vita sui valori veri, quelli evangelici.

Le caratteristiche che definiscono i vittoriosi sono dunque le caratteristiche evangeliche dei discepoli: nulla di più e nulla di meno. I 144.000 sono definiti come "primizie": "sono stati riscattati tra gli uomini quali primizie per Dio e per l’Agnello" (14,4). Le primizie sono i frutti maturati per primi e indicano che anche il resto della mietitura è prossimo a maturazione. I 144.000 sono dunque un numero "limitato" che fa presagire una moltitudine molto più grande.

L’Apocalisse è tutta pervasa da inni liturgici. Essi svolgono diverse funzioni (un po’ come il coro nella tragedia greca): sono la risposta di fede e di ringraziamento nei confronti dell’azione salvifica di Dio, della sua vittoria su satana; sono professione di fede in Dio e in Cristo (e quindi un rifiuto dell’idolatria); sono anticipazioni del risultato finale della storia.

In questo brano non è indicato il contenuto del canto: sarà trascritto soltanto alla fine del libro (19,1-10). La visione è soltanto un’anticipazione del compimento futuro e come tale va letta. Si tratta di un canto "nuovo".

Di un canto nuovo si era già parlato in 5,9. Ma è soprattutto nel cap. 21 che il motivo della novità si presenterà con una certa insistenza: "Vidi un nuovo cielo e una nuova terra" (21,1); "E vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, discesa dal cielo" (21,2); "E colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, faccio nuove tutte le cose"" (21,5).

Si tratta della novità del mondo di Dio: un mondo che in pienezza è nel futuro, ma che già ora è anticipato. È la novità escatologica, che al mondo sfugge e che solo i discepoli scorgono, che è promessa ai vittoriosi e che è rifiutata agli idolatri ("cantavano un canto nuovo e nessuno poteva impararlo se non i 144.000, quelli che sono stati riscattati dalla terra").

Dopo questa prima visione, Giovanni riprende la visione del "piccolo libro" (10,1-11). Ma mentre là si parlava del "mistero di Dio", qui si parla di un "vangelo eterno".

La scena non intende essere soltanto una ripresa di motivi già accennati, ma un’anticipazione di temi che occuperanno tutto il resto del libro: la caduta delle idolatrie, il giudizio, il mondo nuovo.

Il messaggio della scena risulta di tre parti: un avvertimento: "Temete Dio, dategli gloria, adorate colui che ha creato il cielo e la terra"; poi un fatto: "È caduta Babilonia"; infine una minaccia: "Chi adora la bestia e la sua immagine berrà il vino del furore di Dio". "Vangelo" non è l’uno o l’altro di questi tre elementi, ma il loro insieme. E questo "vangelo" è "eterno", cioè immutabile e definitivo: le vicende degli uomini non possono annullarlo."Vangelo" significa "notizia consolante". Esso non può perciò esaurire il suo significato in un avvertimento, né tanto meno in un giudizio; ci deve essere un fatto che possa dirsi veramente "lieto e consolante". Nel nostro caso il fatto consolante è la caduta di Babilonia (v. 8). È un motivo già ampiamente presente nei profeti, dai quali Giovanni lo deriva. "È caduta Babilonia e tutte le statue dei suoi idoli sono in frantumi per terra" (Is 21,9). "All’improvviso Babilonia è caduta, ridotta a pezzi" (Ger 51,8).

Già nei profeti, specialmente in Isaia 13,1-23, il tema è molto più ampio dei fatti precisi che riguardano l’impero babilonese. La caduta di Babilonia è un esempio, o un’illustrazione, di una legge generale. Il vero tema è il giudizio di Dio sulla storia.

Così è anche nell’Apocalisse, dove la caduta di Babilonia è uno dei temi più ricorrenti e importanti della seconda parte del libro: 14,8; 16,17-21; 17,16; 18,1-24. La tradizione apocalittica giudaica usava Babilonia come pseudonimo di Roma. Lo stesso fa Pietro nella sua prima Lettera 5,13: "La chiesa degli eletti che è in Babilonia, vi saluta". Anche l’Apocalisse usa il nome Babilonia per intendere Roma, come appare chiaro in 17,9: "Le sette teste sono i sette colli sui quali è adagiata la donna".

A questo punto possiamo trarre una conclusione: la lieta novella è molto semplice: Roma, proprio nel più bello della sua apparente vittoria, in realtà è già sconfitta. E in tutto questo c’è una grande ironia.

"Vangelo" era un termine particolarmente usato nell’ambito del culto imperiale. Dall’imperatore ci si attendeva salvezza e pace, e la sua salita al trono o un suo decreto o una sua visita erano detti "lieta notizia" (vangelo).

Per l’Apocalisse, al contrario, la lieta notizia è la caduta dell’impero e la liberazione degli uomini da simili fatue illusioni.

Non soltanto Babilonia è destinata a frantumarsi, ma anche tutti gli uomini che sono stati conniventi con le sue idolatrie, saranno sottoposti al giudizio di Dio. Per descrivere il castigo Giovanni ricorre a due immagini classiche della letteratura biblica. Anzitutto la sorte toccata a Sodoma e Gomorra (Gen 19,15-26): "Il Signore fece piovere sopra Sodoma e Gomorra fuoco e zolfo, e distrusse tutte quelle città e tutta la pianura e tutti gli abitanti". Abramo, volgendo lo sguardo verso Sodoma e Gomorra, vide che "dalla terra si alzava un fumo simile al fuoco di una fornace" (Gen 19,28). L’episodio è ripreso più tardi da Isaia, come esempio del castigo di Dio sui malvagi: "I suoi torrenti si muteranno in pece, la sua polvere in zolfo, la sua terra in un braciere; brucerà giorno e notte e il suo fumo salirà per sempre" (Is 34,9-10). Una seconda immagine è la visione della Geenna o della valle dell’Innon, nella quale erano bruciate le immondizie che ogni giorno venivano portate fuori da Gerusalemme. Immagini, dunque, che significano il castigo, ma che in nessun modo vogliono essere una descrizione realistica dell’inferno. Queste immagini saranno riprese più avanti in 19,20 e 20,10.

All’annuncio dei tre angeli fa seguito, a modo di conclusione, un commento sapienziale, confermato e precisato da una voce celeste e da un intervento dello Spirito. Di questi commenti, che insegnano al lettore l’atteggiamento da assumere, ne abbiamo già trovati due nel capitolo precedente: uno ricordava la "pazienza e la fede" (13,10), l’altro la"sapienza" (13,18). Sono i due atteggiamenti fondamentali che la comunità deve concretamente far propri: la saggezza di valutare gli avvenimenti in modo diverso dal mondo e l’opposizione perseverante nei confronti delle seduzioni dei falsi valori e di tutte le potenze che vorrebbero imporli.

Una voce celeste proclama la seconda delle sette beatitudini che troviamo nell’Apocalisse: "Beati i morti che muoiono nel Signore, sin d’ora" (v. 13). "Morire nel Signore" è una frase tipica del Nuovo Testamento (1Cor 15,18; 1Ts 4,16). Questi beati sono i martiri e tutti coloro che sono vissuti nella fedeltà al Signore sino alla morte. Non si sono lasciati ingannare dal mondo, hanno creduto e hanno operato il bene. Per questo sono già ora nel riposo di Dio. Il testo riecheggia la frase di Gesù: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo" (Mt 11,28).

Il cap. 14 (e in particolare i vv. 14-20) è in certo senso la conclusione dei cap. 12 e 13. Nel cap. 12 abbiamo sentito che il drago è stato vinto in cielo, ma che ancora sta perseguitando la comunità cristiana interna. Nel cap. 13 ci è stata descritta la forma storica in cui il drago si incarna: l’idolatria politica e l’ideologia che la sostiene. Nel cap. 14 viene descritta, anticipatamente, la sorte di coloro che rimangono fedeli a Cristo e la sorte di coloro che invece adorano la potenza del drago. La narrazione si sviluppa in tre quadri: il trionfo dell’Agnello sul monte Sion, circondato dai 144.000 che portano scritto sulla fronte il suo nome (14,1-5); l’annuncio della caduta di Babilonia (14,6-13); la mietitura e la vendemmia (14,14-20).

Quest’ultima parte del cap. 14 ci presenta il giudizio finale. La descrizione del Figlio dell’uomo sulla nube non lascia dubbi: è la venuta del Signore nella parusia. Giovanni ci ripropone un insegnamento tradizionale. Sulla base di Gioele 4,13: "Si muovano e salgano le nazioni alla valle di Giosafat! Là mi assiderò per giudicare tutti i popoli confinanti. Prendete la falce, perché la messe è matura. Venite, premete, perché il torchio è pieno, i tini traboccano, tanto la loro malizia è grande! ", egli ha riunito i vari elementi già presenti nel Nuovo Testamento: la venuta finale del Figlio dell’uomo per il giudizio definitivo (Mc 13,26) e la venuta degli angeli con il compito di togliere tutti gli scandali e gli operatori di iniquità (Mt 13,41).

*****

vv. 1–5. La descrizione di gravi e imminenti pericoli che minacciano la comunità cristiana (cap. 13) suscita la domanda se il popolo di Dio sarà capace di resistere (6,17; 7,1-8). Giovanni riceve la risposta in una nuova visione. Egli vede sul monte Sion l’Agnello circondato dalla grande schiera di coloro che gli appartengono. Sion è il luogo dove il Messia apparirà per salvare Gerusalemme e giudicare i nemici (Gl 3,5). In questo versetto si fa il nome di Sion per designare il luogo della protezione di Dio, senza precisare se si trova in cielo o sulla terra. Intorno all’Agnello si raccolgono i 144.000 che portano il segno della loro appartenenza a lui. Si distinguono così dai seguaci della bestia, che ne hanno ricevuto il marchio (13,16-17). Il fragore di molte acque (1,15; 19,6) e il rimbombo del tuono (4,5; 8,5; 11, 19; ecc.) indicano la maestà divina dell’Agnello. Dalla liturgia celeste (5,9) sale ai 144.000 l’inno di lode. Non viene detto nulla, per ora, sul contenuto di questo canto. Solo alla fine del libro (19,1-10) saranno trascritti letteralmente gli inni di vittoria cantati dall’infinita moltitudine. Di questa moltitudine è detto prima di tutto che non si sono contaminati con donne, ma sono rimasti vergini. Nell’Antico Testamento l’impudicizia e la fornicazione significano, in senso traslato, la disobbedienza a Dio e l’apostasia (Os 2,14-21; Ger 2,2-6; ecc.). La comunità cristiana invece è la sposa di Cristo e gli viene presentata come una vergine casta (2Cor 11,2). I 144.000 che sono rimasti vergini rappresentano l’intera chiesa che è rimasta fedele nella grande tentazione e non si è prostituita al culto degli idoli. Essi non hanno adorato la bestia, ma seguono l’Agnello dovunque vada. I 144.000 sono stati riscattati tra gli uomini come primizia per Dio e per l’Agnello. Come si consacravano a Dio i primi frutti del raccolto perché esso gli appartiene interamente (Lv 23,9ss; Num 28,26ss; ecc.), così il popolo di Dio è proprietà sua e di Cristo, separato dal resto dell’umanità e offerto come primizia, perché tutti gli uomini appartengono a Dio. Infine essi si distinguono dal mondo della menzogna perché dicono la verità: nella loro bocca, come in quella del Signore Gesù servo di Dio, non c’è inganno (Is 53,9). Gli animali che venivano offerti a Dio dovevano essere senza macchia (Es 12,5; Lv 23,12-13; 1Pt 1,19), così anche i 144.000 sono consacrati a Dio e all’Agnello come offerta senza difetto, come popolo di sua proprietà.

vv. 6–13. Il contenuto del vangelo eterno predicato dall’angelo è un appello alla penitenza e a rendere onore a Dio creatore in vista dell’ora imminente del giudizio. Con ciò non si esprime una predicazione specificamente cristiana, ma si chiede la dedizione all’unico Dio.

Un altro angelo proclama con solenni parole dei profeti (Is 21,9; Ger 51,7-8; Dan 4,27) che il giudizio sulla grande città di Babilonia è stato compiuto. Nell’Antico Testamento Babilonia è spesso considerata come la città dell’empietà per eccellenza. Qui è usata come pseudonimo di Roma. La capitale dell’impero è condannata perché ha ubriacato tutti i popoli con la sua idolatria (Ger 51,7). Il terzo angelo pronuncia la condanna che colpirà tutti coloro che hanno adorato la bestia e la sua immagine, ossia tutti quelli che hanno aderito al culto dell’imperatore. Anticamente le città empie di Sodoma e Gomorra erano state annientate con fuoco e zolfo: tale sarà la punizione di coloro che hanno adorato la bestia. La serie degli annunci si conclude con un appello rivolto alla comunità. È necessario perseverare e dimostrarsi costanti nel rimanere fedeli ai comandamenti e alla fede in Gesù. Una voce dal cielo, a conferma di questa esortazione, proclama beati quelli che d’ora innanzi muoiono nel Signore. Lo Spinto riprende questa beatitudine e vi aggiunge una promessa: ai cristiani che muoiono è promesso il riposo dalle loro fatiche ed essi entreranno nella patria celeste del popolo di Dio (Eb 4,3.9). Secondo la concezione giudaica le opere dell’uomo compaiono davanti al tribunale di Dio in veste di testimoni. Il dovere delle buone opere, collegato al dovere di credere, forma un’unità di fede e di opere. Tutto il Nuovo Testamento ne sottolinea l’importanza (per es., Gc 2,14-26).

vv. 14–20. Il triplice annuncio del giudizio è seguito dall’apparizione del Figlio dell’uomo (Dan 7,13; Mc 13,26; 14,62; ecc.). Nella sua qualità di re egli ha il capo adorno di una corona d’oro e reca in mano una falce affilata, segno della sua funzione di giudice. Un altro angelo viene ora dal tempio del cielo, ossia da Dio, e reca al Figlio dell’uomo un ordine: gli comanda, con le parole di Gioele 4,13, di dare inizio al raccolto, che qui va inteso nel senso figurato di giudizio (Mc 4,29; Gal 6,7-8). Il Figlio dell’uomo getta la sua falce sulla terra e subito il raccolto è fatto.

L’apparizione del Figlio dell’uomo dà inizio al giudizio che dovrà essere compiuto dagli angeli (vv. 18-20). Dopo la mietitura viene la vendemmia, che è anch’essa, secondo Gioele 4,13, un’immagine del giudizio (Is 63,2-3). L’uva è gettata nel gran tino dell’ira di Dio. Questo annuncio di giudizio ha poi la sua corrispondente realizzazione nella condanna dei nemici di Cristo, che sono la bestia e il falso profeta (19,15.20). L’uva nel tino viene pigiata fuori della città. Secondo le attese dell’apocalittica giudaica, il giudizio dei popoli avrebbe dovuto aver luogo nella valle di Giosafat (Gl 4,2.12), nelle immediate vicinanze di Gerusalemme, mentre Israele sarebbe rimasto al sicuro nella santa città (Zc 14,2ss; ecc.). Questa concezione è ripresa in questo passo: il giudizio contro gli increduli si effettua fuori della città. La dimensione di questo giudizio-torchiatura è tale che il sangue che esce dal tino raggiunge l’altezza delle briglie dei cavalli, come si legge nell’Apocalisse di Enoc, 100,3: "I cavalli cammineranno immersi fino al petto nel sangue dei peccatori, e i carri vi saranno sommersi per tutta la loro altezza". C’è qui un accenno ai cavalli dell’esercito, che accompagna il Messia, e che trionfano sull’esercito della bestia (19,14-19). Il campo di battaglia si estende per 1600 stadi (uno stadio = 192 m.). Questo numero va considerato come un multiplo di quattro, che è il numero cosmico (i quattro punti cardinali), e sta a indicare l’enorme estensione del giudizio. Tutto il mondo deve comparire davanti al trono di Dio e all’Agnello, ma la comunità cristiana è al sicuro sul monte Sion.

 

 

LE SETTE COPPE
(15,1–16,21)

PRELUDIO IN CIELO

1 Poi vidi nel cielo un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi si deve compiere l'ira di Dio.
2 Vidi pure come un mare di cristallo misto a fuoco e coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine e il numero del suo nome, stavano ritti sul mare di cristallo. Accompagnando il canto con le arpe divine, 3 cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell'Agnello:
«Grandi e mirabili sono le tue opere,
o Signore Dio onnipotente;
giuste e veraci le tue vie,
o Re delle genti!
4 Chi non temerà, o Signore,
e non glorificherà il tuo nome?
Poiché tu solo sei santo.
Tutte le genti verranno
e si prostreranno davanti a te,
perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati».
5 Dopo ciò vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza; 6 dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli, vestiti di lino puro, splendente, e cinti al petto di cinture d'oro. 7 Uno dei quattro esseri viventi diede ai sette angeli sette coppe d'oro colme dell'ira di Dio che vive nei secoli dei secoli. 8 Il tempio si riempì del fumo che usciva dalla gloria di Dio e dalla sua potenza: nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli.

Il giudizio di Dio, che questo passo introduce, è la conclusione della vicenda che ha avuto il suo inizio al cap. 12: la lotta tra la donna e il drago, tra le comunità cristiane e le forze sataniche. Ne è l’atto conclusivo: l’intervento di Dio pone fine alla furia del drago e alle forme storiche in cui essa si incarna. I primi due segni introducono i personaggi del dramma, il terzo la conclusione.

Il numero sette collega la narrazione ai settenari precedenti: i sette sigilli e le sette trombe. Difatti questi giudizi di Dio ripetono i precedenti, ma sono definiti ultimi. Gesù tiene saldamente in pugno gli eventi di tutta la storia e li conduce alla loro conclusione: la storia trova in lui la direzione, il senso e il compimento. Vengono alla mente le parole del signor Z del breve racconto dell’Anticristo di Vladimir Soloviev: "Beh!, sulla scena vi saranno ancora molte chiacchiere e vanità, ma il dramma è già stato scritto interamente da un pezzo sino alla fine e non è permesso né agli spettatori né agli attori di apportarvi alcun mutamento".

Questi flagelli sono ultimi, perché concludono il discorso e gli danno, finalmente, un senso: se la storia non arrivasse a questa conclusione non solo mancherebbe del suo ultimo atto, ma resterebbe senza senso anche tutto quello che è accaduto prima.

Giovanni parla di cantico di Mosè e dell’Agnello. L’Antico Testamento ricorda due cantici di Mosè (Es 15; Dt 32). Ma se Giovanni attribuisce il canto dei vittoriosi a Mosè non è perché le sue parole sono prese da Es 15 e Dt 32, ma perché vuole che pensiamo alla liberazione dall’Egitto, alla peregrinazione nel deserto e all’entrata nella terra promessa. Dire "Cantico di Mosè" è come dire "Canto dell’Esodo o della liberazione". Ma il vero Mosè, di cui il primo era la figura, è il Cristo morto e risorto, e il vero esodo non è la liberazione dall’Egitto, ma la vittoria sulle forze del male e l’entrata nel regno di Dio: ecco perché vi aggiunge "e dell’Agnello". Il nuovo esodo non sta all’antico come un di più da aggiungere, ma come la realtà sta alla figura. Le figure dell’Antico Testamento sono come degli involucri che si aprono a un nuovo contenuto: le opere grandi e meravigliose, le vie giuste e vere sono i gesti di salvezza che Dio ha compiuto in Gesù Cristo. Questo inno va accostato agli altri che abbiamo già incontrato: 7,9ss; 12,10ss; 14,1ss. In tutti è menzionato l’Agnello. Tutti sono inseriti, esplicitamente o implicitamente, in una visione universale, che abbraccia l’intera umanità. E tutti vogliono essere un incoraggiamento e un atto di fede: un incoraggiamento ai fedeli che ancora sono nella persecuzione; un atto di fede nella capacità di Dio di dominare gli eventi e nell’efficacia della morte e risurrezione di Cristo.

*****

vv. 1–4. Giovanni contempla nuovamente la moltitudine dei cori celesti che esaltano la vittoria di Dio. Essi stanno davanti al trono di Dio, sul mare di vetro (4,6), ossia sulla volta del cielo. Il mare di vetro è misto a fuoco: infatti dal cielo guizzano i lampi. I redenti hanno le cetre di Dio e intonano un inno che è composto da citazioni dell’Antico Testamento. Come un tempo Mosè lodò Dio dopo che Israele aveva attraversato il Mar Rosso, così coloro che hanno ottenuto la libertà per mezzo dell’Agnello esaltano le grandi opere di Dio manifestatesi nei suoi giudizi. Il contenuto dell’inno si riferisce già alla vittoria finale di Dio, di cui l’Apocalisse parlerà soltanto più avanti.

vv. 5–8. Una seconda scena mostra come i sette angeli si apprestino al loro compito. Essi escono dal tempio celeste. Indossano la veste bianca dei sacerdoti, recano intorno al petto la cintura d’oro dei re (1,13) e ricevono da uno dei quattro viventi le coppe piene dell’ira di Dio. Per incarico di Dio devono eseguire la loro tremenda opera come servizio sacerdotale. Finché le coppe che contengono condanna e distruzione non siano state versate, nessuno può entrare nel luogo santo, perché la maestà giudicante di Dio annienterebbe chi osasse avvicinarglisi.

 

 

IL VERSAMENTO DELLE SETTE COPPE

1 Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: «Andate e versate sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio».
2 Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna sugli uomini che recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti alla sua statua.
3 Il secondo versò la sua coppa nel mare che diventò sangue come quello di un morto e perì ogni essere vivente che si trovava nel mare.
4 Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque, e diventarono sangue. 5 Allora udii l'angelo delle acque che diceva:
«Sei giusto, tu che sei e che eri,
tu, il Santo,
poiché così hai giudicato.
6 Essi hanno versato il sangue di santi e di profeti,
tu hai dato loro sangue da bere:
ne sono ben degni!».
7 Udii una voce che veniva dall'altare e diceva:
«Sì, Signore, Dio onnipotente;
veri e giusti sono i tuoi giudizi!».
8 Il quarto versò la sua coppa sul sole e gli fu concesso di bruciare gli uomini con il fuoco. 9 E gli uomini bruciarono per il terribile calore e bestemmiarono il nome di Dio che ha in suo potere tali flagelli, invece di ravvedersi per rendergli omaggio.
10 Il quinto versò la sua coppa sul trono della bestia e il suo regno fu avvolto dalle tenebre. Gli uomini si mordevano la lingua per il dolore e 11 bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei dolori e delle piaghe, invece di pentirsi delle loro azioni.
12 Il sesto versò la sua coppa sopra il gran fiume Eufràte e le sue acque furono prosciugate per preparare il passaggio ai re dell'oriente. 13 Poi dalla bocca del drago e dalla bocca della bestia e dalla bocca del falso profeta vidi uscire tre spiriti immondi, simili a rane: 14 sono infatti spiriti di demòni che operano prodigi e vanno a radunare tutti i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente.
15 Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non andar nudo e lasciar vedere le sue vergogne.
16 E radunarono i re nel luogo che in ebraico si chiama Armaghedòn.
17 Il settimo versò la sua coppa nell'aria e uscì dal tempio, dalla parte del trono, una voce potente che diceva: «E' fatto!». 18 Ne seguirono folgori, clamori e tuoni, accompagnati da un grande terremoto, di cui non vi era mai stato l'uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. 19 La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa di vino della sua ira ardente. 20 Ogni isola scomparve e i monti si dileguarono. 21 E grandine enorme del peso di mezzo quintale scrosciò dal cielo sopra gli uomini, e gli uomini bestemmiarono Dio a causa del flagello della grandine, poiché era davvero un grande flagello.

Ancora una descrizione delle sciagure che colpiscono l’umanità. Questa descrizione ha lo scopo di introdurre direttamente il racconto del giudizio su Babilonia (cap. 17-18). Ma prima di indagare il senso è opportuno premettere una sommaria spiegazione di alcuni simboli che incontriamo per la prima volta. Dopo che è stata versata la terza coppa, si ode un commento dell’angelo delle acque (16,5): nell’apocalittica era frequente la convinzione che le forze della natura fossero controllate dagli angeli; in 7,1 abbiamo già sentito parlare dei quattro angeli che trattengono i venti della terra, e in 14,18 dell’angelo che ha il potere sul fuoco.

Alla sesta coppa si prosciuga il fiume Eufrate in modo che i re dell’Oriente possano attraversarlo (16,2): probabilmente qui si allude ancora una volta alle invasioni dei Parti (6,1ss; 9,13-21). Gli spiriti demoniaci (16,13), che hanno il compito di radunare tutti i re della terra in una sorta di rivolta generale contro Dio, assomigliano a rane perché nel parsismo le rane erano considerate come esseri al servizio del dio delle tenebre.

Il luogo del grande raduno è chiamato harmaghedón (16,16) che è una città alle falde dei monti che prolungano il Carmelo, ed è un punto di passaggio obbligato per i traffici della Palestina del Nord e del Sud e luogo di molte battaglie.

La grande città che si spacca in tre parti è Babilonia, ossia Roma. L’Apocalisse racconta tre volte il giudizio di Dio, e tutte le volte utilizza lo schema del numero sette: i sette sigilli (cap. 6), le sette trombe (cap. 8-9), le sette coppe (cap. 15-16). Non si tratta di tre momenti diversi di un unico tema svolto per tappe, ma del medesimo tema raccontato tre volte.

Se i settenari delle sette trombe e delle sette coppe sono simili nella struttura lo si deve anche al fatto che ambedue sono costruiti sul modello delle piaghe d’Egitto. Questo sfondo biblico è di grande importanza per comprendere il senso teologico dell’intera costruzione. Le piaghe d’Egitto non sono ricordate tutte, né nel loro ordine, ma in modo sommario e in ordine sparso. Più importante è notare che Giovanni non sembra rifarsi soltanto direttamente al racconto dell’esodo, ma sulla meditazione che di quegli eventi fece il libro della Sapienza. La Sapienza vede nei gesti dell’esodo l’intervento di Dio che "arma la creazione per punire i suoi nemici" (5,17). Le punizioni sono inviate come una lezione (questa è per la Sapienza la prima intenzione di Dio): "per insegnare che l’uomo è punito proprio dalle cose di cui si è servito per peccare" (Sap 11,16). Questa idea è sostanzialmente presente anche nel racconto dell’Apocalisse: di fronte ai flagelli inviati da Dio gli uomini avrebbero dovuto convertirsi e dar gloria al Signore.

Da tutto questo emerge che gli avvenimenti storici, di cui le sette coppe costituiscono la narrazione simbolica, non sono semplicemente una serie di disgrazie, ma un intervento liberante di Dio, un nuovo esodo, ancor più grandioso del primo e definitivo: non sono coinvolti più soltanto Israele e l’Egitto, ma il mondo intero.

Nei confronti delle sciagure che colpiscono l’umanità si contrappongono due letture: una lettura dall’alto e una dal basso, quella di Dio e quella degli uomini, una lettura di fede e una lettura priva di fede. La lettura dall’alto scorge nelle sciagure che colpiscono gli uomini e nel crollo della grande città l’avverarsi del giudizio di Dio ("I tuoi giudizi sono giusti e veri") e il compimento del suo disegno ("È fatto"): gli uomini hanno "portato il marchio della bestia" e ne hanno "adorato l’immagine", hanno "versato il sangue dei santi e dei profeti" e ora raccolgono il frutto delle loro malvagità ("l’hanno meritato").

Ma totalmente opposta è la lettura degli increduli: tre volte è detto che, anziché pentirsi, si "misero a bestemmiare Dio" (16,9.11.21).

Non negano che le sciagure vengano da Dio. Negano che si tratti di una giusta punizione e non riconoscono che si tratta della logica conseguenza di ciò che essi stessi hanno costruito. Danno la colpa a Dio e non a loro stessi, e di conseguenza non comprendono che l’unico modo per salvarsi è un cambiamento urgente e radicale. È una cecità morale prima ancora che intellettuale. Questi uomini che bestemmiano Dio di fronte alla violenza, che essi stessi hanno scatenato, non sono semplicemente peccatori, ma peccatori ostinati nel loro peccato: peggio ancora, lo giustificano. Sono nelle tenebre e le amano (Gv 3,19). Ed è questo loro amore per le tenebre che li rende ciechi e ottusi.

C’è dunque la lettura della fede e quella dell’incredulità, e la comunità deve, ovviamente, scegliere la prima. Ma non basta: la comunità deve anche trarne le conseguenze sul piano del comportamento. È questa, appunto, la funzione dell’avvertimento che viene improvvisamente inserito nello svolgersi della narrazione: "Ecco, io verrò come un ladro: beato colui che vigila e custodisce le sue vesti" (16,15).

Nella serie delle sette beatitudini dell’Apocalisse questa è la terza. Beati coloro che nel succedersi degli avvenimenti, che possono sorprendere e disorientare, rimangono vigilanti e fedeli. Vigilare è un verbo tipico della spiritualità cristiana. Significa essere svegli (e non assonnati) in modo da cogliere il senso di ciò che succede ed essere pronti ad approfittarne; non lasciarsi distrarre dalle apparenze e rimanere aggrappati alle parole sicure della tradizione apostolica (3,1-2); vegliare sul proprio comportamento perché non vi si insinui lo spirito mondano.

*****

vv. 1–21. I tre primi flagelli che gli angeli riversano sul mondo per ordine di Dio superano di molto le piaghe d’Egitto e le conseguenze delle prime tre trombe perché causano una distruzione totale. Tutti i seguaci della bestia, ossia tutti gli uomini che hanno aderito al culto dell’imperatore, sono colpiti da ulcere maligne (v. 2).

L’angelo delle acque conferma che il giudizio di Dio è giusto. Dio punisce tutti coloro che hanno versato il sangue dei cristiani. Una voce che proviene dall’altare celeste, ai cui piedi si trovano le anime dei martiri (6,9-11), risponde approvando: i giudizi di Dio sono giusti. La quarta coppa è versata sul sole. Le prime quattro visioni rappresentano lo stesso ordine delle prime quattro trombe: terra, mare, fiumi, astri. Pur colpiti dalle precedenti catastrofi, gli uomini rifiutano la conversione, che consiste nel dar gloria a Dio. Anzi, essi continuano nelle loro bestemmie contro Dio, come viene affermato qui e in seguito come in un ritornello (vv. 11.21). La quinta coppa è rovesciata sul trono della bestia, ossia sulla sede dei Cesari (13,1ss), il cui impero si oscura come un tempo si oscurò quello del faraone. Il sesto flagello prosciuga le acque dell’Eufrate (Is 11,15; Ger 51,36; Zc 10,11) in modo che i re dell’Oriente abbiano via libera. Qui si ricorda di nuovo il pericolo che i Parti costituivano per tutto l’impero (6,1-2; 9,13-21). Il seguito della bestia è presentato sotto figura dei re dell’Oriente che si radunano per il loro ultimo assalto (17,12ss; 19,19). L’esercito delle tenebre si raccoglie per la battaglia nella località di Harmaghedón "il monte di Meghiddo". Questo nome serve per indicare il luogo sinistro dove avrà luogo la definitiva battaglia apocalittica.

L’ultima coppa viene versata nell’aria. Ne sorgono tempeste e terremoti di un’intensità mai vista. Lo scuotimento del cosmo precede immediatamente la fine (6,12-17). La città che si spacca in tre parti è Roma. Ora il giudizio sta per essere pronunciato su di lei a causa delle sue azioni empie. Quest’ultima serie di sette flagelli escatologici introduce direttamente alla scena del giudizio su Babilonia-Roma (cap. 17-18).