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Capitolo primo: TRA INDIFFERENZA RELIGIOSA E RITORNO DELLA RELIGIONE (pagg. 11-21)

La problematica della fede nel contesto culturale odierno

Bobbio: la fede è un qualcosa di illusorio che nasce da una ferrea volontà di credere, non dall’intelletto, la volontà di credere offusca l’intelletto e, proprio per questo, crea intolleranza e fanatismo.
Severino: la fede è volontà di credere che imprigiona l’intelletto, la fede è violenza.
A monte torna continuamente la questione del rapporto fede/ragione in cui le due, a partire dalla modernità ripresa radicalmente dall’illuminismo, si sono prima contrapposte e poi scomunicate (per cui chi ha ragione non può aver fede).
Da qui il passo ai grandi sistemi ateistici è breve.
Oggi però il problema della fede si pone in maniera diversa, non l’ateismo, ma l’indifferentismo è il grande problema, benché oggi si cominci a parlare di ritorno alla religione.
Ma tale ritorno è problematico per la fede cristiana in quanto spesso prende le vie ambigue delle sette, o perché si caratterizza per una multireligiosità tollerante.
Dunque ritorno alla religione non significa necessariamente ritorno alla fede cristiana neppure qui da noi.
Sentimento, istinto, intuizione, emozione sembrano essere dimensioni-guida di una nuova religiosità che non considera la dimensione intellettuale e non chiarisce il rapporto con una rivelazione.
Metz: oggi si direbbe religione sì, Dio no!, religione dionisiaca, dunque (profeta: Nietzsche!), cioè religione che dà felicità, piacere, soddisfazione immediata ed eviti il dolore, preveda la reincarnazione, una possibilità ulteriore etc.
Queste derive moderne della religiosità rendono ancora più profondo il solco tra ragione e fede restando nell’ambito della emozione.
In tal modo si priva però la fede di quella base ragionevole che non le è accessoria, ma fondamentale.
Proprio questa razionalità consentiva a Pietro di fare l’invito ai cristiani di motiva re le proprie scelte davanti al mondo pagano: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto” (1Pt 3, 15).

Alla ricerca della ragionevolezza della fede

Il credente cristiano sa perciò che la ragione entra legittimamente in gioco nella professione di fede.
Non si tratta di dimostrare la fede (nel qual caso non sarebbe fede), ma di mostrare la sua piena ragionevolezza all’uomo d’oggi, è questo uno dei compiti fondamentali della teologia fondamentale che viene eseguito oggi andando al centro della questione, intrinsecamente al cuore della fede che il credere in Cristo Gesù (un tempo con i preambula fidei la giustificazione del credere veniva fatta a partire da fatti esterni, estrinseci, come i miracoli o l’avverarsi delle profezie).
Sapere umano e fede nella distinzione degli ambiti possono collaborare fruttuosamente, la storia, la filosofia le scienze umane sono settori preziosi ed imprescindibili per una matura professione dei fede del credente cristiano.
Perciò la ragione può lavorare sull’interpretazione storica dell’evento Gesù di Nazaret, e sulla risposta che la religione cristiana dà all’istanza umana di ricerca di assoluto e di senso.

Capitolo secondo: CHE COSA SIGNIFICA CREDERE (pagg. 23-38)

Credere: molteplicità di senso di un’esperienza umana originaria

Credere in senso debole indica un’opinione non sicura, un’ipotesi comunque probabile o almeno possibile.
Questo significato non può essere applicato alla fede cristiana.
In senso forte credere indica tutta la convinzione sulla verità di un concetto, di una persona, di una testimonianza, si crede a qualcosa e a qualcuno.
Il cristiano crede a Gesù Cristo, a quanto ha detto, alla testimonianza che gli apostoli hanno dato e che la chiesa lungo i secoli ha fedelmente conservato e tramandato.
Questo credere è un fidarsi di la certezza di ciò che si crede non sta in ma, me sta in un altro di cui mi fido.
In questo senso la fede è una dimensione connaturata all’uomo il che, dal punto di vista antropologico, legittima l’esistenza di ogni fede, dunque anche della fede cristiana.
L’uomo si interroga a partire dalle proprie esperienze e va alla ricerca dell’originario (del bello, del buono, del giusto, del senso…), nasce come pienamente legittima l’ipotesi Dio quale forma elementare del credere assolutamente universale (dunque naturale?).
Se la fede originaria ci rimanda al mistero assoluto, quella cristiana chiama quel mistero con nome e cognome: Gesù Cristo, il Dio rivelatoci da Gesù Cristo.

La fede nella Bibbia

Il vocabolo ebraico emunah indica fede nel senso di abbandono totale e filiale dell’uomo a Dio, fiducia e confidenza in lui.
Il vocabolo greco pistis si riferisce più ai contenuto oggettivi della fede.
Buber caratterizza la fede ebraica come emunah e quella cristiana come pistis mettendole in contrapposizione.
In realtà il cristiano sa bene come la sua fede sia anche fiducia e abbandono e l’ebreo riconosce i contenuti oggettivi del suo credo.
Si può dire comunque che ci sia una differenza di accenti, l’Antico Testamento sull’aspetto della fiducia, il Nuovo Testamento su quello dei contenuti del messaggio, ma un accento non esclude mai l’altro.
Biblicamente fede significa “fiducia nella parola divina, sottomissione obbediente, dedizione personale di sé da parte dell’uomo a Dio che si rivela” (pag. 31) sempre a partire da un evento di rivelazione al cui vertice sta l’evento-Cristo.
Nell’Antico Testamento i vari termini che esprimono la fede hanno come comune radice aman che significa abbandono fiducioso e appoggio sicuro, Dio è la roccia su cui si può costruire, l’esempio classico è Abramo che si fida di Dio e parte per la terra indicatagli.
A partire dal credere l’uomo interpreta se stesso in modo nuovo, si scopre amato da Dio, sa di dover vivere secondo la sua legge, sperimenta il rifiuto del peccato e le conseguenze.
Nel Nuovo Testamento pistis indica la fiducia, il sapere di non poter contare su di sé, ma sull’onnipotenza di Dio (nei sinottici è l’atteggiamento di chi chiede fiducioso a Gesù le guarigioni), essa indica, più approfonditamente, il sì a Cristo morto e risorto e al valore salvifico di quegli avvenimenti (soprattutto Paolo), solo in Cristo vi è salvezza (Atti 4,13).
A partire da ciò il Nuovo Testamento (in quanto si fonda sull’evento Cristo, qualcosa di più vicino, di più oggettivabile) mette anche a tema il contenuto oggettivo della fede, ciò in cui si crede che ci viene trasmesso dall’annuncio (fides ex auditu Rm 10,17) e non è frutto del ragionare dell’uomo (questa è la filosofia).
La fede in Cristo comporta anche la convinzione di una solidarietà dell’uomo con lui e la convinzione di poter condividerne il destino di gloria come dono d’amore e mai come conquista-merito (polemica paolina con la legge ebraica).
Giovanni associa credere con conoscere quando ci si riferisce a Cristo, perciò la conoscenza comporta sempre un coinvolgimento vitale del credente.

Capitolo terzo: FEDE COME FIDUCIA E COME CONOSCENZA (pagg. 39-50)

La fede secondo i protestanti e i cattolici

Le due dimensioni della fede, l’abbandono a Dio e il contenuto oggettivo, sono state accentuate dal mondo protestante, la prima e cattolico, la seconda al punto da essere causa di divisione.
Per Lutero fede significa fiducia totale e assoluta nella misericordia di Dio che salva, tutto il resto è secondario, non contano per la salvezza le conoscenze religiose intellettuali (reazione all’intellettualismo della dogmatica), conta il mio rapporto con Cristo, non la verità del suo essere.
Si veda questa attenzione in Schleiermacher dove la cristologia è l’esperienza dell’autocoscienza religiosa di Cristo (non la sua verità ontologica), nella teologia liberale e poi in Bultmann.
Barth reagisce a queste cose e recupera la dimensione contenutistica della fede.
Il luterano Pannenberg recupera anch’esso il dato conoscitivo oltre una semplice fede fiduciale.
Contro il soggettivismo della fede fiduciale, il cattolicesimo della controriforma sottolineò l’oggettivismo dei contenuti della fede e diede perciò largo spazio al tema dell’ortodossia e del magistero, il garante dell’unica fede (vertice al Vaticano I).
Qui il rischio era la riduzione della fede a conoscenza di verità.
Queste due posizioni in realtà oggi vanno verso una loro conciliazione, la filosofia personalistica ha aiutato il cattolicesimo a recuperare meglio la dimensione della fede come di un rapporto con il Tu di Dio.
In DV 5 si definisce la fede come un abbandono al Dio che si rivela, dunque, prima di tutto, ad un Tu, non a delle verità teoretiche.

Struttura dell’atto di fede

Il dare fiducia e l’abbandonarsi è questione umana quotidiana in ogni ambito, la fede in qualcosa o in qualcuno è dunque un atto pienamente umano.
Lo stesso vale per l’esperienza cristiana, il nocciolo della fede consiste infatti nell’abbandono fiducioso in Cristo Gesù, il poter dire: Io credo in te !
Questo comporta anche accettare quanto Gesù ha detto, fatto, e ciò che Gesù è, accettare il suo rivelarsi a noi (come per l’Antico Testamento si trattava di accettare gli eventi liberatori di Jahvè).
Dunque la fede è un credere in (fides qua creditur) e un credere che (fides quae creditur), nel Credo si dice credo in Dio Padre onnipotente, ma anche credo che Dio è il creatore del cielo e della terra…
In altre parole credere è credere Deum (elemento contenutistico) e credere Deo (abbandonarsi a Dio).
I contenuti concreti e la dimensione personale vanno entrambi mantenuti per una matura professione di fede, ma tra i due prevale l’aspetto interpersonale, il credere in.
La vita di fede mantiene sempre poi la sua dimensione ecclesiale, la chiesa conserva e trasmette e il singolo nell’atto di fede comprende l’appartenenza alla chiesa voluta e fondata da Cristo Gesù.
Infine la fede è un atto che monopolizza tutta la vita del credente, ma che chiede anche di essere continuamente approfondita e motivata, anche in una logica tutta umana di peccato e conversione.