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PARTE QUARTA:

PIANI, RACCOMANDAZIONI E RINGRAZIAMENTO
(2,19-3,1a; 4,2-7.10-20)

Al termine della lettera A, come spesso al termine delle sue lettere, Paolo si sofferma a parlare di cose personali, ma anche in questa parte conclusiva il suo linguaggio è sempre annuncio evangelico, parola pastorale.

 

La missione di Timoteo
(2,19-24)

19Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare Timòteo, per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. 20Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, 21perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. 22Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. 23Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. 24Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona.

La pericope riguarda un previsto invio a Filippi di Timoteo, che firmò come mittente questa lettera A, che è una specie di lettera di raccomandazione per Timoteo.

Le intenzioni manifestate presuppongono una vicinanza geografica a Filippi e valgono come indizio di una composizione della lettera durante una prigionia ad Efeso.

v. 19. Paolo non fa i suoi piani in base a riflessioni umane, ma nel Signore, nella coscienza del suo legame vivo col Signore Gesù. Il nome di Timoteo ricorre 24 volte nel NT. Secondo 1Ts 3,1-2, Paolo lo mandò da Atene a Tessalonica affinché consolidasse ed esortasse la comunità, per poi ritornare indietro. Secondo 1Cor 4,17; 16,10 egli si recò con incarico simile a Corinto, per ritornare poi ugualmente dall’apostolo dopo una breve permanenza.

Anche il viaggio a Filippi non deve durare a lungo perché Paolo vuole avere notizie della comunità.

Questo intento è congiunto a una nobile esortazione: le notizie portate da Timoteo devono incoraggiare Paolo.

v. 20. Paolo loda il suo collaboratore elogiandone soprattutto la sincerità dell’impegno missionario: è un uomo fidato che condivide appieno il pensiero e i programmi di Paolo.

Timoteo supera tutti gli altri collaboratori di Paolo e ha dato buona prova di sé soprattutto agli occhi della comunità di Filippi. Prendendosi a cuore gli interessi della comunità, Timoteo si preoccupa, in definitiva, degli interessi di Gesù Cristo (v.2).

La frase sottolinea quanto l’apostolo fosse legato a questo collaboratore per la sua buona condotta, e testimonia che sul piano cristiano non è determinante l’impegno concreto in sé, ma l’intenzione che lo anima. Prendersi sinceramente a cuore gli interessi degli altri è cosa degna di lode; è appunto tale qualità che viene qui attestata a lode di Timoteo (cfr. 1Cor 16,10).

v. 21. Questo v. sviluppa antiteticamente il v.20: come Timoteo si prende a cuore ciò che riguarda la comunità di Filippi, così "tutti" gli altri cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo. Paolo parla dei suoi collaboratori stretti, quelli che ha a disposizione in quel momento. A differenza di Timoteo, gli altri collaboratori mancano di una dedizione pura e disinteressata. Paolo non li allontana da sé, ma il suo rapporto con loro è fortemente turbato. La collaborazione con l’apostolo richiede un impegno totale, anima e corpo.

v. 22. Il pensiero ritorna a Timoteo, la cui affidabilità viene ricordata alla comunità che lo conosce fin dalla sua fondazione: in ogni circostanza Timoteo aveva dato buona prova di sé. Paolo sottolinea la loro attività comune, il loro servizio per il vangelo. Il servizio di schiavo per il vangelo non umilia, ma nobilita. Per sottolineare l’unione con Timoteo, Paolo usa l’immagine di padre e figlio e la applica a sé e a Timoteo (cfr. 1Cor 4,17). La comunità dovrà prendere atto che Timoteo viene a Filippi come rappresentante di Paolo, dotato di piena autorità, e dovrà accoglierlo con la dovuta reverenza.

v. 23. Apprendiamo la ragione per cui la missione di Timoteo non è ancora possibile al momento in cui parte la lettera A: la situazione incerta dell’apostolo non permette di stabilire quale esito avrà il processo.

v. 24. Riappare la speranza che diventa confidenza e fiducia nel Signore che lo può salvare. Se ciò accadrà, Paolo stesso potrà presto mettersi in viaggio per Filippi.

 

Il ritorno di Epafrodito
(2,25-30)

25Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità; 26lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. 27È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. 28L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. 29Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; 30perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me.

Questa pericope ha al centro una persona della cerchia dell’apostolo, Epafrodito. Egli è membro della comunità di Filippi dalla quale fu inviato a Paolo per consegnare un’offerta per le necessità del prigioniero (4,18) e per restargli vicino.

La comunità voleva esprimere in questo modo la sua partecipazione in forma materiale e personale. Epafrodito diventa così il testimone eloquente dell’ottima intesa tra Paolo e i Filippesi.

v. 25. Paolo elogia Epafrodito come fratello, compagno di lavoro e di combattimento, sottolineando così il suo impegno attivo per la causa dell’apostolo e quindi per la causa del vangelo. Come portatore dell’offerta e rappresentante della comunità egli svolse un servizio straordinario: la sua funzione ha valore religioso e per questo può essere chiamato leiturgòs, liturgo.

v. 26. Paolo espone i motivi per cui si sentì spinto a rinunciare ai servizi di Epafrodito.

Il testo indica, sia pure con grande delicatezza, che Epafrodito ha interrotto anzitempo la sua permanenza vicino all’apostolo e quindi in un certo senso è venuto meno alla sua missione.

Vengono indicati due motivi: nostalgia e malattia. La sua debolezza viene interpretata, con carità cristiana, positivamente; la nostalgia diventa, nella interpretazione di Paolo, una nostalgia per tutti loro. E Paolo usa qui le stesse parole con cui descriveva la propria nostalgia della comunità in 1,8.

La malattia è presentata come preoccupazione della comunità. Forse i Filippesi avevano messo in dubbio la serietà della malattia di Epafrodito.

vv. 27-28. Di fronte a un tale sospetto, Paolo difende energicamente Epafrodito. La malattia fu seria, anzi tale da implicare un pericolo di morte; così quello che doveva essere un alleggerimento per l’apostolo, divenne un peso in più.

Se la malattia fosse stata mortale, l’apostolo avrebbe avuto una pena in più. Ma ciò non avvenne: Paolo lo attribuisce alla misericordia di Dio per Epafrodito, ma anche per se stesso.

Se egli rimandava a casa Epafrodito con particolare fretta, non devono aversene a male; devono invece rallegrarsi di rivederlo sano.

v. 29. Paolo contraddice chiaramente quelli che ritenevano Epafrodito un disertore, e li prega non solo di accoglierlo con gioia ma anche di onorarlo. Il suo ritorno è dovuto a circostanze delle quali egli non è responsabile. L’accoglienza deve venire nel Signore (cfr. Rm 16,2) così come si conviene fra credenti.

Anche altrove Paolo esige onore e stima per quelli che hanno assunto una responsabilità o un servizio per la comunità (cfr. 1Cor 16,16-18).

v. 30. Questo v. costringe però a pensare che Epafrodito fosse stato criticato a Filippi, forse anche con una certa vivacità.

Paolo invece gli tributa un grande elogio. Anche se il successo esterno può essere mancato, o se si poteva avere avuta addirittura un’impressione contraria, Epafrodito aveva comunque reso un servizio all’opera di Cristo. L’apostolo è così strettamente congiunto con la causa della fede, che si identifica con essa.

La giustificazione di Epafrodito è un capolavoro di Paolo. Si ha un esempio simile nella lettera a Filemone. Là si tratta del perdono da concedere a uno schiavo fuggito, qui dell’onore di un membro della comunità.

 

Raccomandazioni ai collaboratori Filippesi
(3,1a;4,2-3)

1aPer il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore.
2Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. 3E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.

La maggior parte dei commentatori ha avvertito la frattura esistente nel v. 3,1. Ad un invito alla gioia, Paolo fa seguire l’improvvisa constatazione che per lui "non è tedioso scrivere le stesse cose". Questa affermazione si può solo riferire alla messa in guardia dagli eretici, che inizia con 3,2 ss. Abbiamo proposto già nell’introduzione la soluzione di considerare 3,1b l’inizio di un frammento di lettera che va fino a 4,1. Questa pericope continua il discorso di 2,2 ss. Si trovano qui i concetti che là erano dominanti: l’invito alla gioia, (2,2) il medesimo sentire (2,2) e l’esortazione (2,1). Solo che qui Paolo si rivolge a due donne, eminenti nella comunità per il loro impegno. La loro discordia va messa in rapporto con l’invito alla unanimità rivolto alla Chiesa, ma non va ritenuta in ogni caso come l’unico suo motivo. Il motivo per cui la raccomandazione alle donne non ricorre prima (vv. 2,1 ss.) è la consuetudine di Paolo di porre solo alla fine delle sue lettere consigli e disposizioni singole.

3,1a. Risuona di nuovo il motivo della gioia. Se è vero che Paolo invita alla gioia anche in altre lettere (2Cor 13,1 - 1Ts 5,1), l’imperativo di questa lettera ha un significato potenziato.

Il chàirete en Kyrìo è un invito a rallegrarsi nel Signore. Paolo pensa solo alla gioia che proviene dalla fede e dalla comunione con Cristo, a quella gioia "nel Signore" alla quale non partecipano i non credenti, ma che non è negata all’apostolo prigioniero. È quindi una gioia permanente, una gioia che sostiene l’esistenza cristiana.

4,2. L’esortazione è indirizzata a Evodia e Sintiche, due donne della comunità di Filippi di cui non sappiamo altro all’infuori del nome. Abbiamo qui un’altra testimonianza che le donne ebbero una loro importanza nella vita attiva delle più antiche comunità cristiane. In che cosa sia consistita la loro discordia non lo sappiamo. Ciò che conta è che Paolo le invita alla concordia e all’amore e non ha paura di correggerle in una forma personale citandole per nome in una lettera pubblica alla comunità.

v. 3. Si parla però di un altro membro eminente della comunità che dovrà fare da mediatore nella lite delle donne. Paolo unisce il dolce all’amaro, ricordando l’impegno che queste donne mostrarono un tempo per il vangelo, probabilmente al tempo della fondazione della comunità.

L’interpretazione più plausibile per quanto riguarda il nome Sùzugos (che la bibbia della CEI traduce come "compagno di giogo" - suo fedele collaboratore) è che si tratti del nome proprio di uno degli episcopi o dei diaconi della comunità.

Incaricando costui, aumenta in Paolo il ricordo degli altri collaboratori di Filippi, dei quali però nomina solo Clemente.

I loro nomi stanno nel libro della vita.

Questo concetto, che si radica nell’AT e che si ricollega ai registri ufficiali della tribù e della stirpe, vuole esprimere la volontà salvifica di Dio che elegge. Secondo Dn 12,1, nel tempo della tribolazione saranno salvati tutti quelli "che si trovano scritti nel libro" (cfr. Sal 69,29; 139,16; Es 32,32; Lc 10,20; Ap 3,5; 20,15; 21,27).

L’esortazione alla concordia e all’amore riceve quindi la sua motivazione essenziale e al tempo stesso è di nuovo aperta la strada alla gioia. L’accenno alla grazia del Dio che sceglie ed elegge serve di collegamento con il brano che segue.

 

Raccomandazioni finali alla comunità
(4,4-7)

4Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. 5La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! 6Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; 7e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.

v. 4. Paolo si rivolge di nuovo a tutta la comunità e riprende l’imperativo della gioia. La gioia è il tema costante della lettera A e vuole anche dare il tono a tutta la vita dei Filippesi.

Il "sempre" qui aggiunto, rispetto al v. 3,1a, vuol dire che la gioia non è motivata né motivabile naturalmente: essa ha le radici nella salvezza ottenuta in Cristo, come aveva già ricordato il v.3. L’imperativo ripetuto due volte ha una forza particolare soprattutto se si tiene conto che l’invito viene da un detenuto in attesa di giudizio. Se non lo dovessero più vedere, devono ricordare che la sua ultima raccomandazione è stata la gioia del Signore.

v. 5. La gioia però non è fine a se stessa, non può essere introversa ma deve aprirsi agli altri. In questo v. la bontà è intesa come il segno distintivo della comunità che deve giungere agli altri uomini come un appello e un segno. La comunità anticipa e rappresenta in questo modo il giorno del Signore.

La vicinanza del Signore allude alla parusia del Kyrios.

v. 6. Ogni preoccupazione si oppone alla gioia. Le preoccupazioni di cui si parla indicano, in senso generale, i problemi della vita quotidiana. Il contenuto è affine a quello di Mt 6,25. In ogni circostanza sono invitati a pregare Dio, ricordandosi prima di tutto di ringraziare per il bene già ricevuto.

v. 7. Una promessa di pace chiude le raccomandazioni. Pace va qui interpretata sul suo sfondo biblico ed equivale a salvezza. Questa pace è la salvezza operata in Cristo Gesù. Nel v.6 era descritto il volgersi della comunità a Dio, nel v.7 è sottolineato il movimento contrario: abbandonandosi a Dio con fiducia, possono contare sulla sua custodia; la sua "salvezza" custodirà i loro cuori e i loro pensieri.

L’idea del testo vuole mettere in rilievo la protezione dell’uomo "interiore". La pace di Dio "che sorpassa ogni intelligenza" si può interpretare in due modi: la pace di Dio è più grande di quanto l’uomo possa immaginarsi; oppure: essa sorpassa tutto ciò che l’intelligenza umana è in grado di raggiungere. La grandezza della pace di Dio fa tacere ogni inquietudine umana, non appena se ne prende coscienza. La promessa di pace potrebbe chiudere tutta la lettera, ma Paolo aggiunge ancora alcune righe di ringraziamento per il dono che la comunità gli ha fatto pervenire.

 

Il ringraziamento per l’aiuto finanziario
(4,10-20)

10Ho provato grande gioia nel Signore, perché finalmente avete fatto rifiorire i vostri sentimenti nei miei riguardi: in realtà li avevate anche prima, ma non ne avete avuta l’occasione. 11Non dico questo per bisogno, poiché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; 12ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. 13Tutto posso in colui che mi dà la forza. 14Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. 15Ben sapete proprio voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli; 16ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario. 17Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio. 18Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio. 19Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù. 20Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Questa pericope, per quanto riguarda il contenuto, si stacca dal resto. Tema dominante è il ringraziamento alla comunità per l’offerta già ricordata nel brano relativo a Epafrodito (2,25-30). Ciò che caratterizza questa parte della lettera è la sua oggettività apostolica. Paolo ringrazia in modo che non appare come l’unico beneficato, ma fa capire ai Filippesi che anche loro traggono beneficio da questo aiuto dato all’apostolo. Il ringraziamento diventa insegnamento, esortazione, ed i rapporti umani sono riempiti di un senso cristiano.

Si è giustamente parlato di un "grazie senza gratitudine" (Dibelius). Ciò che sorprende è che non si rimane solo al livello di una "ricevuta", ma si passa sul piano della predicazione. L’apostolo mostra qui la sua eccezionale capacità di muoversi nella sfera profana senza cadere nel profano, ma illuminandola con la parola della fede. Nei vv. 12 -13 Paolo si serve addirittura di una forma poetica improvvisata per l’ occasione: una breve poesia con la quale ci viene concesso di gettare un rapido sguardo nel destino dell’apostolo.

v. 10. Paolo non parla di ringraziamento e di dono, ma della sua grande gioia e del loro pensiero per lui.

Come già in 3,1;4,4, la sua gioia si attua nel Signore ed è impregnata della loro unione comune con Cristo. Nel loro reciproco "pensarsi" essi sono aperti gli uni verso gli altri: essi partecipano della grazia (1,7), egli riceve il loro aiuto. I Filippesi, dopo aver desiderato a lungo di potergli nuovamente far pervenire un aiuto economico, hanno avuto finalmente l’occasione per farlo. Paolo fa capire che non ha accolto il loro aiuto con degnazione né tanto meno con avidità, ma con gioia per il loro affettuoso pensiero.

v. 11. Alla dura scuola della sua professione apostolica Paolo ha imparato ad adeguarsi a tutti i tipi di condizioni, ad essere autarchico. L’autarchia rappresentava una virtù fondamentale della filosofia morale stoica: essa significa essere autosufficiente, indipendente da qualsiasi bene esteriore.

Paolo ha riconosciuto in linea di principio che i predicatori hanno il diritto di vivere del loro lavoro e si richiama anche a una parola del Signore (1Cor 9,4-18).

Egli non si serve però di questo diritto e ritiene ciò un onore di cui nessuno lo può privare. Accettando il sussidio dei Filippesi egli fa una chiara eccezione che va considerata un atto di riconoscimento per questa comunità.

Ciò che lo spinse a rinunciare al diritto di essere mantenuto fu soprattutto il timore che la predicazione del vangelo ne potesse avere un danno, che al vangelo di Cristo fosse frapposto un ostacolo (1Cor 9,12). Un timore tanto giustificato perché allora vagavano schiere di predicatori di ogni tipo, spinti spesso da motivi egoistici. Nonostante il particolare rapporto con i Filippesi Paolo vuol affermare anche in questo caso la sua indipendenza:

"un apostolo non è un impiegato della Chiesa" (Peterson).

L’ "autarchia" va vista in rapporto all’indipendenza della sua azione apostolica.

vv. 12-13. Paolo parla per esperienza. Egli conosce le più diverse condizioni di vita ed è in grado di affermare la sua indipendenza. Si riesce a capire l’intenzione del discorso, solo se si rispettano le antitesi: essere povero/essere ricco, essere sazio/avere fame. L’indipendenza dell’apostolo poteva essere minacciata da due lati: dalla fame e dalla sazietà. Non si sa quale delle due cose costituisca il maggior pericolo per l’autarchia. In questo rimbalzare tra bisogno e sazietà, fame e abbondanza, l’apostolo sente che non la propria forza, ma la forza di Cristo attinta dalla fede lo sostiene e gli consente quel distacco dalla condizione di vita che era necessario per l’attuazione della missione.

v. 14. Si riprende l’indirizzo personale abbandonato al v.11. Semplicemente e concretamente Paolo dice che hanno fatto bene a prendere parte alla sua tribolazione.

v. 15. L’apostolo si sofferma a guardare con riconoscenza a tutte le volte che i Filippesi l’hanno aiutato. Paolo ora parla come un uomo d’affari: le parole usate sono termini correnti della contabilità. È certamente un dare e un avere tutto particolare, quello che li unisce: su una colonna sta scritto pneumatikà (beni spirituali) e sull’altra sarkikà (beni materiali) (cfr. 1Cor 9,11).

Di fronte alle altre comunità Paolo può vantarsi di portare loro gratuitamente la predicazione (1Cor 9,18). Il "dare e avere" dei Filippesi verso Paolo è un onere e un onore alla stesso tempo.

v. 16. Viene nominata espressamente Tessalonica perché è lì che i Filippesi hanno inviato il loro primo aiuto, al quale poi ne sono seguiti altri. La notizia di questo aiuto inviato all’apostolo a Tessalonica non contrasta con At 17,2, ma crea qualche difficoltà con 1Ts 2,9 dove Paolo ricorda il proprio lavoro manuale durante la sua prima attività apostolica in quella comunità, svolto "per non essere a carico di nessuno". Si deve tener presente che, di fronte ai costi delle iniziative missionarie di Paolo e dei suoi collaboratori, il contributo finanziario della comunità di Filippi non poteva bastare.

v. 17. Paolo precisa con tutta chiarezza ciò che gli sta a cuore: non il dono materiale, ma il guadagno spirituale. Ora questo torna a vantaggio dei Filippesi i quali sono così, in definitiva, quelli che ricevono il dono.

Il senso profondo che sta dietro questo v. pieno di termini commerciali, si rileva dalla parola karpòs che ha il significato escatologico e indica il raccolto dell’ultimo giorno. Essi dovranno infatti allora essere ricolmi del "frutto di giustizia" (1,11). Non è naturalmente il dono materiale a portare frutto spirituale, ma la fraterna intenzione cristiana dalla quale il dono proviene.

v. 18. Si continua nell’ambito di una terminologia commerciale. Apècho significa "accuso ricevuta": Paolo conferma per iscritto la ricevuta dell’offerta di denaro. Egli assicura che le sue necessità sono state coperte abbondantemente: i Filippesi non devono leggere tra le righe un suo desiderio di ulteriori sussidi. Di nuovo ricorda Epafrodito, il loro inviato; come già in 2,25 e 30, l’apostolo eleva il loro servizio sul piano sacro: la loro fu un’offerta spirituale, che essi, in definitiva, offrono a Dio. Nell’AT si parla del "profumo soave" a proposito dell’olocausto (Es 29,18; Gen 8,21; Lv 1,9-13; Ez 20,41); l’immagine è dettata dalla concezione primitiva che l’odore del sacrificio arso col fuoco allieta Dio.

v. 19. Il discorso sfocia in preghiera che è al tempo stesso promessa e lode. Il nesso viene presentato dal termine chrèia (necessità di cui si ha bisogno): come la comunità venne incontro ai bisogni dell’apostolo, Dio prenderà a cuore le necessità della comunità. Qui vengano intesi i beni spirituali, ma soprattutto i beni materiali. Dio li farà partecipi della sua doxa in Cristo, sia adesso che in futuro. Doxa indica qui la vita donata per mezzo di Gesù Cristo. La grandezza del dono di Dio è proporzionale alla sua grandezza: il suo dono è la doxa, la gloria del paradiso.

v. 20. La dossologia costituisce il punto d’arrivo dell’aspirazione e dell’azione del credente. Il nostro Dio e Padre è colui al quale appartiene la doxa; ciò non significa che essa gli possa venire assegnata o addirittura conferita, ma che gli viene riconosciuta con lode. La successione degli eoni, determinata dalla doxa di Dio, trascende ogni comprensione umana e fa capire con tutta chiarezza che l’uomo non può apportarvi niente di suo, ma solo riconoscere e lodare. L’amen non equivale a un punto fermo finale, ma rafforza quella confessione di fede con cui la debolezza umana si aggrappa alla grandezza di Dio.