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Appendici

1
Il valore religioso della povertà nella lettera di Giacomo.

Non c’è elemento della religione dei poveri dell’Antico Testamento che non s’incontri anche nella lettera di Giacomo, dove povero è sinonimo di umile e giusto, dove s’inveisce minacciosamente contro l’empietà dei ricchi e si applica lo schema umiliazione-esaltazione caratterizzandolo escatologicamente: umiliazione del povero per mano dei ricchi potenti ed empi, esaltazione del povero per opera di Dio e giudizio di annientamento per i ricchi. I poveri sono gli eletti di Dio.

La povertà come atteggiamento davanti a Dio è intesa non nel senso proletario, ma in senso strettamente religioso. A Giacomo sta a cuore la chiara affermazione di un ideale per il quale l’essere povero e l’essere cristiano coincidono (Dibelius). E questo ideale ha un’importanza e un valore perenne, perché da esso deriva il giusto comportamento davanti a Dio. La ricchezza non significa una speciale elezione da parte di Dio, ma, al contrario, il più grande pericolo per la salvezza dell’anima. Che devono fare i ricchi con le loro sostanze? Giacomo lo dice in modo inequivocabile: aiutare i poveri, le vedove e gli orfani! Così possono salvare le loro anime. Perciò anche la trattazione riguardante la giustificazione (2,14-26) sotto un certo aspetto è posta in funzione del suo ideale religioso di povertà, perché l’opera che giustifica è l’aiuto concreto ai poveri. Altrimenti la fede è vana.

La lettera di Giacomo è in stretta corrispondenza con l’insegnamento di Gesù tramandatoci dai vangeli. Gesù era di famiglia povera (Lc 1,52-53; 2,7.24) e ha chiamato beati coloro che sono poveri nel senso vero e proprio del termine (Lc 6,20). A loro viene annunciato il vangelo (Lc 4,18). Gesù non ha condannato radicalmente il possesso dei beni di questo mondo, tuttavia egli grida all’indirizzo dei ricchi la sua lamentazione: ahimè per voi...! (Lc 6,24) e dice che è difficile che un ricco entri nel regno di Dio (Mc 10,23 ss). Non è possibile servire, nello stesso tempo, Dio e mammona (Mt 6,24). Troppe volte la ricchezza soffoca la parola di Dio (Mc 4,19) e pregiudica l’esistenza escatologica (Mt 6,19-29; Lc 12,15021). Il regno di Dio, secondo Gesù, è quella perla preziosa e quel tesoro nel campo, che rendono inutile il possesso terreno (Mt 13,44 ss). Una eccessiva proccupazione per i beni della terra è caratteristica nei pagani, poiché Dio Padre dà in più a colui che cerca il suo regno (Mc 6,13-14). Specialmente il discepolo che Gesù chiama a seguirlo più da vicino e integralmente, deve rinunciare a tutto (Lc 14,23; Mt 10,9-10). Gesù inoltre esige che si aiuti il prossimo bisognoso (Lc 16,9; 19-21). E chi dà un banchetto deve invitare i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi (Lc 14,13).

Per Giacomo come per Gesù, i poveri sono gli eredi del regno di Dio. Ambedue scagliano invettive contro i ricchi e mettono in guardia contro la loro ingorda cupidigia. Ambedue esigono un aiuto concreto per il prossimo indigente, togliendo ogni confine al concetto di prossimo.

 

2
La giustificazione nella lettera di Giacomo.

Il problema della giustificazione riguarda la salvezza dell’uomo e i mezzi di salvezza. Che l’uomo non possa salvarsi da sé, ma che deva essere salvato da Dio, è per Giacomo cosa ovvia.

Il salvatore dell’uomo è Dio, il Padre delle luci, dal quale deriva ogni dono perfetto (1,17). Si sottolinea così il punto di partenza di ogni dono buono: esso si trova in Dio. Dio è l’autore personale della nuova creazione escatologica dell’uomo: Per sua volontà ci generò con la parola di verità, perché fossimo una primizia delle sue creature (1,18). Va particolarmente notato che nella lettera di Giacomo la forza ricreante e salvifica di Dio viene collegata alla sua parola. Il che ha una chiara risonanza paolina e giovannea.

Giacomo non contrappone le opere dell’amore alla fede. Per lui la fede è solo la fede viva, che si manifesta nelle opere della misericordia (2,16-25) e dell’ubbidienza a Dio (2,21). Obbedienza a Dio e misericordia verso il prossimo sono quelle opere per mezzo delle quali la fede viene completata (2,22) e la promessa della scrittura sulla forza giustificante della fede viene adempiuta (2,23). Poiché la fede viva deve necessariamente esprimersi in opere, Giacomo formula brevemente così il v. 2,24: Vedete che dalle opere l’uomo viene giustificato, e non dalla fede soltanto. Bisogna sempre considerare che per Giacomo non esistono né opere soltanto né fede soltanto. Entrambe queste concezioni sono per lui inaccettabili.

S. Agostino si pone la domanda: secondo Paolo e Giacomo, che portata hanno fede e opere nella giustificazione dell’uomo? La sua risposta, divenuta classica, suona così: Paolo parla delle opere che precedono la fede, Giacomo delle opere che seguono la fede (PL XL, 89). È evidente che in questa lettera Giacomo parla dell’uomo già credente. Bisogna distinguere bene la fede morta, che secondo Giacomo hanno anche i demòni (2,19) e la fede viva che opera mediante l’amore (Gal 5,6).

Scrive sant’Agostino: Gli uomini che non hanno capito quello che dice Paolo: "Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28) hanno pensato che egli dicesse che all’uomo basta la fede, anche se vive male e non compie le buone opere. Questo è totalmente contrario alle convinzioni di Paolo il quale ha detto: "In Cristo non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità" (Gal 5,6). Questa è la fede che distingue i fedeli di Dio dai demòni immondi: infatti anch’essi, come dice Giacomo "credono e tremano" (2,19), ma non fanno il bene. Colui che ha la fede "soltanto" quindi non ha questa fede per la quale il giusto vive (Rm 1,17), cioè la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6). Questa fede è indispensabile perché Dio possa concedere all’uomo la vita eterna secondo le sue opere (Grazia e libero arbitrio 7,18; PL XLIV 892).

Secondo Giacomo, giustifica solo una fede che si dimostri vera nelle opere dell’amore. Poiché la dottrina di Paolo della fede soltanto è pur sempre esposta al malinteso teologico e pratico, l’insegnamento di Giacomo sulla giustificazione resta il suo insostituibile contrappeso: ad esso la Chiesa non può rinunciare, se si vuole che il cristianesimo rimanga autentico.

 

3
L’escatologia della lettera.

La convinzione che gli ultimi tempi della storia sono già spuntati viene programmaticamente espressa nelle due proposizioni di 5,8-9 La parusia del Signore si è avvicinata e il giudice è alle porte. Mentre la prima accentua la prossimità cronologica della parusia del Signore, la seconda guarda di più alla figura del giudice che è già alle porte, cioè ad ogni momento può apparire sul palcoscenico della storia. Così il tempo presente è determinato dalla fine imminente. Esso è perciò l’ultimo tempo. I ricchi, nel loro accecamento, non possono riconoscere che vivono nell’ultimo tempo e stoltamente ammucchiano tesori negli ultimi giorni (5,4) e per il giorno del macello (5,5), il giorno del giudizio imminente, che rivelerà l’insensatezza e la vacuità del loro febbrile acquisto di beni, di cui non resterà nulla (1,10-11; 5,1-3). Per la comunità credente, il presente così inteso è un tempo di tentazioni, nelle quali si deve dare buona prova con la perseveranza (1,2-4.12; 5,7-11). Secondo la tradizione apocalittica infatti l’ultimo tempo è un momento di aggravate persecuzioni e quindi una speciale occasione, per la comunità cristiana, per acquistare e dimostrare la perseveranza. La vera struttura dell’esistenza umana in questo tempo viene particolarmente espressa nelle due invettive contro i ricchi. Il ricco passa come il fiore del campo (1,10) e scompare assieme alle sue imprese (1,11; 4,14: fumo voi siete, che per un po’ appare e poi scompare). Le dichiarazioni si inaspriscono in considerazione del valore escatologico del tempo presente, che vieta a chiunque l’autonoma progettazione della vita e ogni presuntuosa ideazione dei propri piani (4,13-16). Il domani è nascosto a tutti e Giacomo dirige decisamente lo sguardo dei suoi lettori al futuro reso positivo da Dio (1,12.18.21.25; 2,5; 4,12; 5,7-8.20) e soprattutto dall’imminente giudizio.

Il giudizio spetta a Dio solo unico giudice (4,12). Per chi in vita non ha esercitato la misericordia, anche il giudizio di Dio sarà senza misericordia (2,13); la fede senza le opere non può salvare davanti al tribunale di Dio (2,14). Chi invece sarà stato misericordioso e avrà adempiuto il regale comandamento dell’amore del prossimo, potrà entrare nella misericordia di Dio nel giudizio; in tal caso la misericordia trionfa sul giudizio (2,13).

Da un punto di vista positivo, la lettera proclama la salvezza della comunità, le promette da parte di Dio la corona della vita (1,12), riserva ai poveri l’eredità del regno (2,5) e assicura ai malati il perdono dei peccati (5,15). La comunità cristiana è già la primizia della nuova creazione escatologica di Dio (1,18).

La lettera dunque orienta radicalmente tutta la vita del cristiano verso la mèta escatologica: o salvezza o giudizio di condanna. Tra escatologia ed etica c’è uno stretto legame. In modo particolare è l’imminente giudizio a giocare qui una parte importante. Così in 3,1 si mette in guardia della mania dell’ammaestramento, perché un grande giudizio attende il maestro della comunità. In 4,11 e 5,9 si ammonisce di guardarsi dalla spietata critica del prossimo, mediante il rimando al giudizio di Dio. La comunità nel suo parlare deve essere assolutamente veritiera perché non incorriate nel giudizio (5,12). All’asociale comportamento dei ricchi viene minacciato un giudizio terribile che annienta tutta la ricchezza ammassata negli ultimi giorni e i suoi possessori (5,1-5).

Ma non mancano motivazioni escatologiche positive: Beato l’uomo che sostiene la tentazione poiché riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a quelli che lo amano (1,12). Chi persevera nella legge perfetta della libertà, sarà beato per il suo agire (1,25).

Infine la sollecitudine per la salvezza del fratello errante viene motivata in 5,20 con la salvezza della propria anima dalla morte eterna. L’etica di Giacomo trova dunque in suoi motivi profondi nell’escatologia e non in qualche dottrina naturale della perfezione.

La tesi di Dibelius secondo cui la lettera di Giacomo non conterrebbe alcuna teologia, va riveduta. Se per teologia s’intende soltanto cristologia, la lettera di Giacomo ha poca teologia. Ma se la teologia è anche essenzialmente escatologia, questa lettera allora va posta tra i migliori testi teologici del Nuovo Testamento. Anzi, l’escatologia e l’etica della lettera di Giacomo è molto vicina a quella di Gesù. Anche Gesù infatti annuncia l’èra finale; anche nella sua predicazione escatologica il pensiero del giudizio gioca una parte importante, anch’egli parla del suo ritorno, senza fissarne il momento; il tempo rimasto a disposizione è un tempo di prova per i discepoli. Anche l’etica di Gesù è fondata su una motivazione escatologica. Tale è dunque l’escatologia della lettera di Giacomo che da essa ne riceve una chiara e immutabile fisionomia e nel suo insieme è molto più di un puro agglomerato di tradizionali e parenetici detti sapienziali.

 

4
Il cristianesimo secondo Giacomo.

Per riconoscere un cristianesimo secondo Giacomo bisogna anzitutto aver presente la caratteristica negativa di un certo cristianesimo da lui prospettato e stimato vuoto. Si tratta di un cristianesimo indeciso, doppio, dubbioso, che durante le persecuzioni non può avere un atteggiamento deciso, fiducioso e tutto orientato a Dio. Esso è continuamente oscillante, presto entusiasta, ma privo di perseveranza nel bene. In tale cristianesimo la fede decade facilmente nell’increscioso culto della personalità che adotta misure diverse da quelle di Dio. Esso diventa pertanto facilmente ingiusto e asociale. È un cristianesimo che brilla per la sua sapienza terrena, ricco di cavillose discussioni, legato alla polemica e al settarismo. È irrispettoso e presuntuoso, sempre intento a dare insegnamento agli altri, invece di lasciarsi esso stesso ammaestrare. Perduto dietro il mondo è quindi pieno di gioia sfrenata e mancante della sobrietà cristiana occorrente negli ultimi giorni. I progetti sulla vita sono fatti senza Dio e servono soprattutto all’arricchimento personale, all’insaziabile avidità di denaro e di guadagno. È perciò una vera brama di gloria, che si rivela specialmente nell’ingiusto e asociale comportamento verso i poveri. Un simile apparente cristianesimo, secondo Giacomo, non ha nulla a che fare con il cristianesimo vero.

Il cristianesimo vero, secondo Giacomo, si dimostra attraverso la pazienza e la perseveranza nelle tentazioni sopportate gioiosamente, perché si riconosce in esse un mezzo di prova della fede. La preghiera di questo cristianesimo è fiduciosa, libera da ogni dubbio. I veri cristiani sono umili, pronti ad ascoltare e a lasciarsi ammaestrare. E se essi stessi esercitano un insegnamento, le loro parole sono piene di dolcezza e di sapienza dall’alto. Ciò che contraddistingue il vero cristiano è soprattutto il suo amore per la pace e la sua prontezza nell’aiutare le vedove e gli orfani. Egli non conosce alcun culto della personalità. Suoi amici sono i disprezzati dal mondo, i ritardati, i poveri, poiché Dio stesso ha eletto questi uomini per l’eredità del suo regno. Di conseguenza la fede agisce assieme alle opere dell’amore; anzi, una fede senza le opere è del tutto impensabile per lui. I seguaci di un tale cristianesimo non smaniano di intervenire come maestri tra i loro fratelli; più volentieri ascoltano, perché conoscono i pericoli della lingua. Essi ascoltano la Parola e gli esempi della Scrittura per imitarli. Sempre e in tutto ciò che progettano e fanno, essi dicono: Solo se il Signore lo vuole!. In ogni circostanza della vita sono uniti a Dio, pongono tutto in connessione con Lui e riferiscono tutto a Lui, sia la gioia sia il dolore. Amano la veracità e sono nemici di ogni menzogna e calunnia verso il prossimo. Essi confessano onestamente e lealmente i loro peccati l’uno all’altro, pregano gli uni per gli altri e sono pieni di premura per la salvezza eterna dei fratelli. Essi sanno della corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano. Pensano sempre al giudizio imminente. Sanno che sono già arrivati gli ultimi tempi e ciò li rende vigilanti e liberi dalle ubriacature del mondo. Essi attendono pazientemente il Cristo che ritorna.

Gesù firmerebbe ogni frase della lettera di Giacomo. Essa insegna Cristo. Giacomo era fratello del Signore non soltanto secondo la carne, ma anche secondo lo spirito. La lettera di Giacomo non presenta il cristianesimo. Al cristianesimo appartiene essenzialmente anche la lettera di Paolo ai Romani. Ma né Paolo né Giacomo rappresentano da soli tutto il cristianesimo, né allora né oggi. La Chiesa li ha posti l’uno accanto all’altro nel canone delle Scritture e ha con ciò sottolineato che non si può ascoltare l’uno senza l’altro; essi devono essere ascoltati entrambi, perché possa apparire e diventare operante la pienezza del cristianesimo.