00 22/11/2011 11:55

(10)
La minaccia del giudizio grava sui ricchi privi di senso sociale
5,1-6

1E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! 2Le vostre ricchezze sono imputridite, 3le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! 4Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. 5Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. 6Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza.

L’accenno alla smania di guadagnare di 4,13 fa pensare che Giacomo si rivolgesse a dei ricchi. Ora egli si pone direttamente contro di essi, come richiede lo stile profetico.

v. 1. I ricchi devono piangere e lamentarsi. Non si tratta di una esortazione alla penitenza, ma di un annuncio profetico dell’inevitabile catastrofe che fra poco cadrà sui ricchi.

vv. 2-3. Il versetto 2 non va interpretato sulla base del verso precedente (v.1), ma di quello seguente. Nel v. 3, a proposito della ruggine dell’oro e dell’argento, si dice: Essa diventerà una testimonianza contro di voi quando Dio giudicherà. La ruggine in certo senso testimonierà l’atroce ingiustizia sociale, perpetrata dai ricchi sebbene avessero l’occasione di agire secondo la giustizia sociale (vv. 5-6): invece di impiegare la loro ricchezza per soccorrere i poveri, hanno preferito ammucchiarla e lasciarla marcire. E invece di donare ai poveri e ai bisognosi parte delle loro vesti, hanno preferito lasciarle corrodere dalle tarme. E invece di usare il loro oro e argento per il giusto e tempestivo pagamento del salario, l’hanno lasciato arrugginire nelle casseforti, trattenendo ingiustamente la mercede dei mietitori. Che in realtà l’oro e l’argento non possano arrugginirsi, non interessa a Giacomo; egli usa locuzioni tradizionali: Sir 29,10: Sacrifica il tuo denaro per un fratello e per un amico; non arrugginisca infruttuoso sotto una pietra e Mt 6,19-20: Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.

La ruggine dei loro tesori testimonierà contro i ricchi nel giudizio imminente di Dio e li accuserà del loro comportamento asociale. In un certo senso la ruggine si attaccherà agli stessi ricchi divorando la loro carne come la lebbra. Con una tagliente ironia il v. 3 termina così: Tesori avete ammassato negli ultimi giorni. L’accento cade sulla seconda parte della frase. I ricchi hanno ammucchiato tesori, senza però accorgersi che gli ultimi tempi sono già spuntati e il giudizio è alle porte. Così si tocca un tema che sarà poi esplicitamente trattato nei vv. 7 ss.

v. 4. Giacomo ora dice perché il giudizio si rivolgerà contro i ricchi latifondisti: essi hanno trattenuto la giusta mercede ai poveri lavoratori dei loro campi.

Il salario che grida al cielo è il pianto stesso dei mietitori che invocano la vendetta di Dio. Il contenuto del verso deriva dalla tradizione dell’Antico Testamento: Pane scarso è il sostentamento dei poveri; chi glielo toglie è un sanguinario. Uccide il prossimo chi gli toglie il vitto, e sparge il sangue chi priva l’operaio della sua mercede (Sir 34,25-26 LXX). Un povero e un bracciante bisognoso...tu non puoi opprimere. Nello stesso giorno gli darai il suo compenso, e il sole non deve tramontare su di esso...Altrimenti potrebbe gridare a Jahvè contro di te e ti sarà imputato come colpa (Dt 24,14-15).

v. 5. Continua l’accusa contro i ricchi. Non solo essi hanno ammucchiato tesori e non hanno pagato il salario dovuto, ma addirittura sono vissuti in un consumismo scandaloso per tutto il tempo della loro vita. Essi hanno nutrito i loro cuori per il giorno del macello. Si tratta del giorno del giudizio finale. Geremia grida a Dio contro i malvagi: Toglili di mezzo come pecore per il macello, destinali per il giorno dell’uccisione (Ger 12,3). Il Sal 37 parla con ferma fiducia del povero contro il malvagio: Il Signore si fa beffe di lui, egli vede già il suo giorno avvicinarsi (v.13). Di fronte a questi testi, ed altri ancora, non sussiste più alcun dubbio che con il giorno del macello Giacomo 5,5 intende il grande giorno del giudizio. L’accenno immediatamente seguente, circa la parusia del Signore (v. 7), conferma la giustezza di questa interpretazione. Ai ricchi manca la vigilanza escatologica; nella loro vita di piacere non riconoscono i segni dei tempi (Lc 12,13-21). Essi nutrono i loro cuori con le gioie e i desideri terreni (4,1) come il ricco epulone, invece di far penitenza (Lc 16,19-31).

v. 6. L’accusa contro i ricchi tocca qui la sua punta massima. Giacomo continua a pensare a esperienze concrete vissute dalla comunità cristiana a causa dei suoi potenti e influenti avversari. Non esclude certamente Gesù, specie se si ricorda che o Dìkaios (= il giusto) nella predicazione apostolica primitiva era un titolo del Messia Gesù. Ma qui si parla di ogni cristiano perseguitato. Per quanto concerne il motivo dell’inerme mitezza del giusto perseguitato si può vedere Sap 2,19 e Is 53,7, ma soprattutto il discorso della montagna: Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio... (Mt 5,39-40).

 

(11)
Ammonimento alla paziente attesa della parusia e alla
5,7-11

7Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera. 8Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. 9Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. 10Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore. 11Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione.

Il nesso tra questa breve ma importante sezione e quella precedente è molto stretto. Il brano precedente ha parlato del giorno del giudizio e questo parla della parusia del Signore che comporterà anche il grande giorno del giudizio. I cristiani perseguitati dai ricchi ripongono la loro speranza nella parusia del Signore che li libererà dalle loro persecuzioni.

La pericope si articola su tre imperativi: siate pazienti (v. 7), non lamentatevi (v. 9), prendete come esempio (v. 10).

v. 7. I poveri, perseguitati dai ricchi, corrono il rischio di perdere la pazienza nell’attesa del giudice divino. Giacomo li ammonisce alla perseveranza. I cristiani guardano al giorno della parusia con grande impazienza, perché li libererà dai loro persecutori. La caratteristica dei cristiani è che essi aspettano (Schlatter). L’esempio del contadino che attende la maturazione della messe è efficace.

v. 8. Dall’esempio del contadino i lettori devono imparare l’attesa paziente di qualcosa che avverrà certamente.

L’imperativo rafforzate i vostri cuori è un incoraggiamento alla pazienza e alla tenacia. Mentre i ricchi nutrono i loro cuori (v. 5) i poveri cristiani devono rafforzare i propri cuori con la fede.

v. 9. Questo verso pare turbare il senso logico della pericope. L’accenno ai modelli biblici (i Profeti e Giobbe) dei vv. 10-11 si connetterebbe organicamente all’esempio del contadino paziente (v. 7). Forse il tema del giudizio imminente ha spinto Giacomo a parlare ora del lagnarsi reciproco. Evidentemente, egli scorgeva in ciò una vicendevole critica, che quasi vorrebbe anticipare e riservare a sé l’imminente giudizio di Dio.

vv. 10-11. Dopo l’interruzione del v. 9 vengono ora ricordati alcuni esempi biblici che possono aiutare i lettori all’imitazione nella sofferenza e nella perseveranza: i Profeti e Giobbe.

 

(12)
Esortazione all'assoluta veracità
5,12

12Soprattutto, fratelli miei, non giurate, né per il cielo, né per la terra, né per qualsiasi altra cosa; ma il vostro «sì» sia sì, e il vostro «no» no, per non incorrere nella condanna.

Questa parenesi si conclude con un deciso rimando al giudizio. È un versetto che si connette agli ammonimenti precedenti, che a partire da 4,12 sono appunto dominati dal pensiero del giudizio.

v. 12. Il giuramento di cui si intende parlare qui è soltanto quello del commercio e delle affermazioni della vita quotidiana; quindi non si dà una direttiva che regoli il comportamento del cristiano nei processi pubblici. Si tratta di un’etica per la vita di ogni giorno, come ci insegna anche il discorso della montagna: Avete anche inteso che fu detto agli antichi: non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è uno sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare, sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno. È l’esigenza dell’assoluta veracità nel parlare, che rende superfluo ogni giuramento. Anche questa parenesi è connessa a un minaccioso accenno all’imminente giudizio di Dio. Questa messa in guardia va spiegata, forse, col fatto che il giuramento rappresenta già in se stesso un giudizio di Dio, una sentenza di Jahvè (R. de Vaux) che non può essere anticipata o provocata. Il frequente giuramento infatti comporta gravi pericoli, che sono enumerati in Sir 23,11 (sconsideratezza, superficialità, spergiuro, infrazione del giuramento) e che provocano il giudizio di Dio.

(13)
Istruzioni per diverse circostanze della vita
5,13-15

13Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. 14Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. 15E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati.

Le varie istruzioni religiose date da Giacomo ai membri delle comunità riguardano circostanze dolorose e gioiose (v. 13) e il caso di malattia (vv. 14-15). L’istruzione è data in forma di imperativo singolare. Solo il terzo imperativo è connesso a più precise istruzioni e promesse.

v. 13. L’imperativo preghi ha qui il senso di una preghiera particolarmente fervida ed è suggerito dalla convinzione che Dio esaudisce certamente la supplica elargendo all’infelice forza e ristoro. Ciò del resto corrisponde già alla mentalità veterotestamentaria dei Salmi. L’imperativo canti di buon umore non ha bisogno di commento: naturalmente si tratta di canti rivolti a Dio, non di canzonette.

v. 14. Gli anziani della comunità non sono dei carismatici provvisti del dono delle guarigioni (1 Cor 1,9.28.30), ma persone che ricoprono un ufficio o una funzione. La loro abilitazione all’azione salvifica sacramentale sul malato deve essere connessa al loro carattere di ministri.

Gli anziani devono pregare sul malato e ungerlo con olio. L’olio nel giudaismo era molto usato come farmaco (Is 1,6; Mc 6,13; Lc 10,34). L’unzione del malato si fa nel nome del Signore. En onòmati (= nel nome) non significa soltanto per incarico ma anche nella forza. Secondo Lc 10,17 i discepoli riferiscono a Gesù: Anche i demoni si sono sottomessi a noi nel tuo nome. Anche Pietro guarisce uno storpio nel nome di Gesù (At 3,6). Il nome sta quindi per la persona o almeno per la sua forza. Forza e nome sono concetti paralleli. Negli Atti degli Apostoli alla domanda: quale forza o in quale nome fate questo? (4,7) segue la risposta: nel nome di Gesù (4,10).Con l’invocazione nel nome di Gesù è il Signore stesso che si rende presente, o almeno la sua forza. Alla guarigione di Enea in Lidda, Pietro dice: Enea, ti sana Gesù Cristo, alzati e fa’ il tuo letto (At 9,34).

Considerando questi passi, molto probabilmente nel nome del Signore (5,14) va inteso non tanto per incarico del Signore, quanto piuttosto con l’invocazione del suo nome, mediante la forza del suo nome. Gli anziani della comunità compiono la loro opera sul malato non in nome proprio, ma con la forza del Signore da loro invocato, come è chiaramente confermato dal v.15: Il Signore lo solleverà.

v. 15. La preghiera della fede che salverà il malato è quella che proviene da una profonda convinzione di fede. Con questo accenno alla preghiera viene esclusa ogni azione magica dell’olio. La preghiera e l’unzione non vanno isolate l’una dall’altra. Che cosa significano i verbi salverà, lo rialzerà? Nell’Antico Testamento il termine salvare viene usato nel senso di una preservazione dalla morte fisica e dallo Sheol e, positivamente, nel senso di una nuova elargizione di vita da parte di Dio all’uomo. Anche nel Nuovo Testamento salvare viene messo in connessione con il trasferimento dalla sfera della morte a quella della vita, nel senso sia terreno-fisico sia escatologico. Tuttavia nel salvare di questo verso non va esclusa una salvezza naturale. Gli anziani non sono stati chiamati presso un moribondo, ma presso un malato. Alle preghiere dei presbiteri è promessa l’efficacia di ridare la salute al corpo del malato. Il sollievo allude direttamente a qualcosa che va al di là della salute fisica, cioè al sollievo dell’anima. Il Signore dona al malato forza e vigore per il superamento psicologico del suo dolore.

All’azione sacra degli anziani viene collegata un’altra promessa: E se avesse commesso dei peccati, gli sarà perdonato. L’efficacia soprannaturale dell’unzione produce il perdono dei peccati. Le tre promesse menzionano tre fatti diversi riguardanti il corpo, l’anima e la salvezza eterna. La fiducia che Giacomo pone nella preghiera degli anziani non può sorprendere, data la sua dottrina sulla preghiera stessa. È sua ferma convinzione (1,5-7; 4,3) che Dio certamente esaudisce una preghiera fatta nella fede.

L’unzione degli infermi è un incarico che Gesù ha dato agli apostoli mandati in missione: E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13).

Il fatto che gli apostoli compiano un’unzione sul malato indica che essi la intendono compresa nella missione ricevuta da Gesù. Con questo intervento sul malato essi riproducono l’attività di Gesù. Ora, se l’unzione degli infermi da parte dei discepoli di Gesù, com’è riportata da Mc, non è ancora il sacramento dell’unzione degli infermi, ne è però il fondamento.

 

(14)
Confessione dei peccati e preghiera d'intercessione
5,16-18

16Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. 17Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. 18Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto.

La nuova parenesi è strettamente collegata a quella precedente. Dai vv. 14-15 viene tratta una conseguenza importante: Poiché la preghiera è così potente da ottenere per un altro il perdono dei peccati, rendetevi l’un l’altro questo servizio. Ciò che vale per la preghiera d’intercessione degli anziani in favore dei malati, vale altrettanto per quella di ciascuno in favore di tutti.

v. 16. Queste parole Confessate dunque gli uni agli altri i peccati sono comprensibili soltanto se nei vv. 14-15, per Giacomo, sia compresa, nel caso dell’unzione, una confessione del malato davanti agli anziani, anche se essa non viene esplicitamente menzionata. Altrimenti il rapporto logico indicato sul dunque non può essere capito con chiarezza.

La confessione dei peccati (pubblica o privata) era una cosa del tutto ovvia nel giudaismo. Nel Nuovo Testamento la conversione è legata alla confessione dei peccati (Mc 1,5; Mt 3,6; At 19,18; ecc.). Anche qui si allude a una confessione pubblica l’uno di fronte all’altro. Se essa sia fatta (o deve essere fatta) davanti agli anziani, dal testo non risulta. In ogni modo in questo verso non si attribuisce agli anziani nessuna funzione, in analogia con quella menzionata per l’unzione degli infermi; anzi non si fa più menzione di loro. Non è possibile dire che qui si parla della confessione sacramentale.

Brevemente Giacomo accenna allo scopo della sua istruzione: affinché veniate guariti. Cosa si intende per guarigione? È il perdono dei peccati. L’intercessione vicendevole ha come scopo il perdono dei peccati conferito l’uno all’altro.

Molto può l’efficace preghiera del giusto.

Il giusto è colui che compie la volontà di Dio. È sempre stata viva nel giudaismo la convinzione dell’efficacia dell’intercessione del giusto. Quando gli uomini peccano e accendono la collera di Dio egli cerca innanzitutto un intercessore che sia in grado di difenderli, e gli spiana la via. Così fu nei giorni di Geremia (Ger 5,1); anche quando i sodomiti avevano peccato, Dio comunicò il fatto ad Abramo perché li difendesse (Gen 18,16-33). Dio esaudisce i desideri dei giusti. Perciò Ester parlò davanti al re in nome di Mardocheo (Est 2,22); infatti pensava: Io so che Mardocheo è un giusto e che Dio farà ciò che gli chiede.

vv. 17-18. Come di consueto, Giacomo conferma la sua tesi con un modello biblico, che questa volta è Elia. Giacomo non pone la forza della preghiera di Elia nella sua grandezza sovrumana, ma proprio nella sua umanità, nell’essere un uomo come noi.

La sua preghiera tuttavia chiuse il cielo per tre anni e mezzo. Tanto potente è la preghiera di un giusto nella comunità!

 

(15)
Aiuto spirituale per il fratello traviato
5,19-20

19Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, 20costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati.

L’aiuto spirituale del cristiano non si estende soltanto ai malati e ai peccatori (ordinari) all’interno della comunità, ma anche a quelli che hanno del tutto smarrito la strada e si abbandonano a una vita di peccato. Questi devono essere ricondotti sulla retta via e salvati. A ciò è dedicata la parenesi conclusiva della lettera.

vv. 19-20. Mentre prima si è parlato di quei membri della comunità, i quali riconoscono sempre e confessano i loro peccati per ottenere il perdono, ora si allude a chi si trova su una pericolosa strada sbagliata, lontano dalla verità, e ha bisogno di un urgente ammonimento, anzi di una formale conversione, se non vuole andare completamente perduto. L’errante dalla verità è colui che trasgredisce la volontà rivelata da Dio e devia dalla retta condotta. Chi si prende cura del fratello errante lo salva dalla morte eterna. Dio fa una doppia promessa: vita per chi viene ricondotto sulla via della verità e salvezza dell’anima per chi lo ha ricondotto; tutti e due ricevono il perdono dei loro peccati. Vale ciò che Giacomo ha già scritto in 2,13: La misericordia trionfa sul giudizio.

Così termina la lettera. La conclusione è un po’ brusca, ma positiva, perché racchiude una promessa piena di speranza. La finale improvvisa si spiega nel migliore dei modi con il carattere di enciclica di questa lettera. I saluti e gli auguri erano scritti, presumibilmente nella missiva che accompagnava la lettera.