00 22/11/2011 11:49

1.1
L’indirizzo
(1,1)

1Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute.

v. 1 Seguendo l’antico stile epistolare, l’autore riporta il proprio nome e offre una designazione dei suoi destinatari. L’autore si chiama Giacomo che significa egli si afferrerà al calcagno. Egli si designa come servo di Dio. Ciò corrisponde all’uso orientale antico e veterotestamentario. Soprattutto i grandi dell’Antico Testamento vengono chiamati servi di Dio, come Mosè, Davide, Giosuè, Abramo, ecc.

Nel Nuovo Testamento, Paolo e i suoi accompagnatori vengono chiamati servi di Dio altissimo (At 16,17). Paolo stesso si denomina servo di Gesù Cristo (Rm 1,1; Gal 1,10; Fil 1,1). L’espressione assume perciò il carattere di una designazione onorifica, di una qualifica d’ufficio, di una vocazione a compiere un incarico importante da parte di Dio. Con il termine servo viene professato uno speciale rapporto di servizio rispetto a Dio e a Gesù: è una designazione di umiltà davanti a Dio e di nobiltà di fronte ai destinatari, ai quali Giacomo si presenta come rappresentante incaricato e scelto, ministro di Dio e di Gesù.

La lettera è indirizzata alle dodici tribù della diaspora. Egli scrive in greco, il che significa che si rivolge a comunità cristiane viventi fuori della Palestina, e la terra fuori della Palestina, per gli Ebrei, è diaspora. Giacomo designa i suoi lettori come le dodici tribù. Il giudaismo, come confederazione delle dodici tribù aveva già cessato di esistere dal 722 a.C. Quindi la restaurazione di Israele in confederazioni di dodici tribù sarà compito escatologico del Messia (Os 9,9; Ger 3,18; Ez 37,19.24; ecc.). Questa speranza Giacomo la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle dodici tribù, l’Israele definitivo. Nella comunità del Messia Gesù, Giacomo vede adempiersi la promessa profetica riguardante il risollevamento della tenda di Davide che era caduta (At 15,16; Am 9,11). Giacomo scorge nei destinatari cristiani della sua lettera il vero Israele nella sua restaurazione escatologica.

 

(2)
L'esistenza combattuta

In questo brano si parla della prova della fede dei lettori che deve servire al loro perfezionamento e che avviene soprattutto nelle molteplici tentazioni dalle quali sono colpiti i fedeli. Dall’accenno fatto alle tentazioni salutifere, il lettore potrebbe trarre la falsa conclusione che esse vengono da Dio. Questa deduzione viene decisamente respinta da Giacomo (vv. 13-14). Dio è solo datore di doni buoni (v. 17).

L’uomo è un ricevente (vv. 7-12) e un essere indigente per natura (vv. 4-5). Questa indigenza può essere eliminata soltanto da Dio, il quale concede sicuramente il suo aiuto, se l’uomo lo prega (v. 5) con una fiducia da credente, che non ammette dubbi (vv. 6-8). Così la fede si prova non solo con le tentazioni, ma anche nella preghiera piena di fiducia. E il fedele deve chiedere la sapienza, non la ricchezza terrena che svanisce (vv. 9-12).

Quindi ciò che lega strettamente i vv. 2-18 è il tema dell’esistenza combattuta del credente, la quale, proprio perché avversata in questo mondo, deve essere intesa e improntata in modo radicalmente escatologico.

 

2.1
Dalla prova della fede alla perfezione
(1,2-4)

2Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, 3sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. 4E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla.

v. 2-3. Nel saluto precedente Giacomo aveva mandato un augurio di gioia (chairein). Qui accentua tale gioia con l’attributo totale, perfetta, genuina (pasan).

E questa gioia completa è motivata dal ripetersi delle prove o tentazioni. La gioia dei tentati non è la gioia per le tentazioni in se stesse, ma perché le hanno sempre superate.

Giacomo offre una visione tutta positiva e motivata riguardo alle prove della vita. Affiora fin da queste prime righe uno dei motivi fondamentali di questa lettera: non basta un’esistenza di sola fede; la fede deve sostenere molte prove ripetutamente. Giacomo respinge espressamente al v. 13 il pensiero di una tentazione derivante da Dio. Ma poiché queste tentazioni sono un mezzo per sperimentare la fede, Giacomo le concepisce come permesse da Dio. Dio non libera il credente dalle situazioni pericolose in cui si trova nel mondo; il credente vive in uno stato di lotta tra Dio e satana, tra bene e male, e deve fare la sua scelta. La gioia del credente è giustificata dal fatto che le tentazioni superate producono la perseveranza, ossia la salvezza della fede, che diviene sempre più capace di affrontare ogni difficoltà. La perseveranza non è un atteggiamento passivo o rassegnato, ma una resistenza attiva e vittoriosa fino alla fine, come quella dei martiri.

v. 4. Il fine della perseveranza dei cristiani è di diventare perfetti e completi in ogni virtù. Questo versetto è un appello ai lettori perché, attraverso la perseveranza nelle prove, procurino di diventare opera perfetta. Nei vv. 2-4 Giacomo mira all’attuazione non di un ideale etico, ma della fede. L’opera perfetta è raggiunta quando fede e opere formano una unità vitale. La finale del v. 4 in nessun punto mancanti è un aggancio per la continuità col v. 5.

2.2
La preghiera fiduciosa per la sapienza
(1,5-8)

5Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. 6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; 7e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore 8un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni.

v. 5. Non si può acquistare la sapienza da soli; essa è un dono divino da chiedere nella preghiera. Giacomo assicura la certezza dell’esaudimento della preghiera: Dio dà volentieri e senza vantarsi. Mentre lo stolto dà con sette occhi (Sir 20,14), cioè con tutti i secondi fini possibili, il dare di Dio è senza riserve, senza mire, senza calcoli.

v. 6. Qui viene data una maggiore chiarificazione sulla qualità della preghiera. La semplice richiesta non basta, ma deve essere congiunta alla fede, altrimenti Dio non esaudisce la preghiera per ottenere la sapienza. La fede di cui si parla qui è la fede fiduciale, quella priva di dubbi che è giustificata dalla natura stessa di Dio. Colui che dubita vive in intimo conflitto tra confidenza e sfiducia davanti a Dio, gettato qua e là da ogni sorta di pensieri, invece di gettarsi nelle braccia di Dio con fiducia infantile. Il dubbioso non è colui che ha difficoltà intellettuali, ma chi vive in conflitto con se stesso, chi non ha ancora fatto una scelta decisa per Dio.

v. 7. Il dubbioso non ha alcuna fede reale nell’assoluta disposizione di Dio all’esaudimento della preghiera. Il v. 7 spiega perché la preghiera del dubbioso non è esaudita: il pensare (òisthai) non ha niente a che vedere con la fede fiduciale (pìstis). La fede è incontro reale con Dio e non conoscenza teorica di verità religiose.

v. 8. L’uomo che ha il cuore diviso è il contrario dell’uomo ideale dell’Antico Testamento: Tu devi appartenere tutto, senza divisione, di tutto cuore, a Jahvè tuo Dio (Dt 18,13). L’anima del dubbioso è sdoppiata perché oscilla continuamente tra fiducia e sfiducia.

Il dubbioso non segue la via diritta della fiducia, ma cambia continuamente strada ed è simile ad un’onda marina buttata qua e là dalla tempesta. La risolutezza del cristianesimo rappresentato e postulato da Giacomo appare già nettamente in questa prima esortazione.

 

2.3
La gloria del povero e del ricco
(1,9-11)

9Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione 10e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d’erba. 11Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese.

Nei due salmi della povertà, il 49 e il 73, i ricchi vanno di colpo in distruzione e muoiono di spavento, mentre il povero viene strappato dal regno dei morti e rapito in Dio e la sua eredità rimane per sempre presso di Lui (49,16; 73,23-26). Così l’afflizione del povero si trasforma in gioia. Nel v. 9 Giacomo riprende l’invito alla gioia del v. 2 . Là aveva esortato tutti i fratelli alla gioia, qui esorta alla gioia il fratello che è povero.

v. 9. Gloriarsi è di per sé il comportamento normale dei ricchi, ma Giacomo esorta il povero (tapèinos) a gloriarsi. Questo verbo non vuole avere alcun connotato di presunzione, come il desiderio smodato dei ricchi che posseggono soprattutto per apparire e gloriarsi, ma esprime la grande gioia che deve riempire il povero. Il ricco è colui che dispone di potenza e di considerazione davanti a tutti, mentre il povero rappresenta l’uomo da poco, insignificante, che spesso viene oppresso dai ricchi (Gc 2,6). Quando Giacomo esorta il cristiano povero a gloriarsi della sua altezza, intende parlare in senso del tutto religioso. Qui Giacomo riprende, a modo suo, la prima beatitudine del discorso della montagna (Mt 5,3).

v. 10. L’energico imperativo rivolto al ricco perché si glori della sua condizione di umiliazione, non va inteso in senso ironico; è una esortazione seria rivolta ai ricchi della comunità. La successiva considerazione sulla morte del ricco fa pensare all’abbassamento futuro, di cui i ricchi devono gloriarsi già adesso. Questo è certamente uno strano gloriarsi, ma è la conseguenza logica della valutazione escatologica dell’esistenza, che considera con l’occhio della fede le cose ultime. Solo così l’esortazione ai membri ricchi della comunità può accompagnarsi ai duri giudizi che la lettera pronuncerà sui ricchi (2,6-7; 5,1 ss).

La vita del ricco è un rapido fiorire e un rapido disseccarsi e morire.

v. 11. Con i verbi sorse, seccò, cadde, venne meno il narratore riporta qualcosa che ha già osservato più volte nella sua vita. Qui non si parla solo del ricco cristiano, ma del ricco in genere, che è perennemente in viaggio per curare i suoi affari e mira solo al proprio utile. Immancabilmente, un giorno, lo raggiungerà la morte; egli appassirà come un fiore d’erba.

 

2.4
La beatitudine della perseveranza
(1,12-18)

12Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.
13Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. 14Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; 15poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte.
16Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi; 17ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento. 18Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature.

Dopo aver iniziato la sua lettera con un’esortazione alla gioia (v. 2 ) rivolta ai fratelli travagliati da ogni sorta di prove, e dopo aver incitato a un vanto glorioso anche il povero e il ricco (v. 9), ora Gc conclude con una beatitudine in cui riprende ancora una volta il tema delle tentazioni, ma modellato in forma fortemente escatologica. Il tema delle tentazioni fa però sorgere anche il pensiero della loro provenienza, e ciò induce l’autore a offrire una piccola teodicea (in greco Theòs dìke = giustizia di Dio) nei vv. 13-18.

v. 12. Il grido di salvezza Beato, assieme alla promessa della corona di vita, costituisce un ben riuscito contrasto con l’appassirà immediatamente precedente: caducità-vita eterna! In questo verso Giacomo non pensa a una precisa tentazione, ma a tutte, specialmente a quelle morali, come indicano i versi seguenti. La beatitudine viene motivata in senso escatologico: chi resiste alla tentazione riceverà la corona della vita eterna, che Dio ha promesso a quelli che lo amano. In ultima analisi Giacomo esorta i fratelli cristiani a perseverare perché ne vale la pena.

v. 13. La storia di Abramo e di Giobbe, a cui nella lettera si rimanda esplicitamente (2,21; 5,11) potrebbe far pensare che è Dio stesso la causa delle tentazioni in cui l’uomo incorre. E avendo ognuno sperimentato che l’inclinazione cattiva appare inscindibilmente con la natura dell’uomo, viene spontaneo pensare che il Dio della creazione sia responsabile dei conflitti etici dell’uomo, e che quindi l’uomo è sgravato da ogni responsabilità. Per distogliere da opinioni tanto pericolose Giacomo svolge una breve teodicea che respinge decisamente l’idea di un Dio causa delle tentazioni: Nessuno che venga tentato deve dire: da Dio vengo tentato. Il rifiuto di un’opinione così blasfema è fondato da Giacomo in primo luogo teologicamente, partendo dal concetto di Dio: Dio non è tentato dal male. E di conseguenza neppure tenta alcuno al male. Qui si parla di male come di azioni moralmente cattive, non di prove della fede come quelle superate da Abramo e Giobbe.

v. 14. Giacomo parla della vera provenienza delle tentazioni: ciascuno, senza eccezione, è tentato dalla propria concupiscenza. Le cupidigie scaturiscono dall’intimo di ciascuno (Mt 15,18-20; Mc 7,20-23).

La concupiscenza appare qui quasi come un essere personale al quale l’uomo è strettamente legato, ma non consegnato come impotente. La sua attività nell’uomo si manifesta nella forma di trascinare, attrarre, allettare, adescare. Giacomo presenta la concupiscenza come una specie di meretrice che con il suo fascino adesca l’uomo.

v. 15. Ci viene presentata la genealogia della morte: la concupiscenza genera il peccato, il peccato genera la morte. È una fosca antitesi alla promessa della corona di vita: chi resiste alle tentazioni otterrà la corona della vita eterna, chi accondiscende alla concupiscenza incorrerà nella morte eterna.

Poiché nel v. 14 la concupiscenza appare come una meretrice che alletta e seduce l’uomo, il v. 15 rimane probabilmente nello stesso ordine di idee: la meretrice-concupiscenza concepisce quando l’uomo tentato cede a lei, cioè aderisce a ciò a cui la concupiscenza vuole adescarlo. Dopo aver concepito, la concupiscenza genera il peccato. Donde propriamente derivi la concupiscenza dell’uomo, la lettera non lo dice. Però i vv. 14 e 15 fanno pensare al racconto del peccato originale che si legge in Gen 3.

Il peccato genera la morte solo quando è giunto al compimento, alla maturazione.

Il peccato (gr. = hamartìa) è in un certo senso il feto della concupiscenza. E solo quando il peccato è diventato maturo ed è cresciuto fino alla pienezza della sua natura, genera la morte. I vv. 14 e 15 nella loro inesorabile sequenza, il cui termine ultimo è la morte, certamente mirano anzitutto a scopi parenetici: Resisti alle tentazioni e deciditi per la vita! Forse Giacomo si ispira a Sir 15,17 dove l’uomo è invitato a prendere una decisione: Davanti all’uomo sta la vita e la morte; ciò che egli vuole, gli sarà dato.

v. 16. Il versetto unisce le affermazioni negative su Dio del v. 13 alle seguenti positive. L’esortazione non lasciatevi traviare mette in guardia da un pericoloso accecamento che consiste nel supporre che Dio sia la vera causa delle tentazioni e quindi delle cattive azioni dell’uomo. Chi vive in tale errore e lo difende cerca di sottrarsi alla sua responsabilità davanti a Dio, riversando su di lui la colpa dei propri peccati; dietro una simile opinione ci sarebbe inoltre un falso concetto di Dio. Per questo Giacomo spiega subito che Dio è datore solo di doni buoni.

v. 17. Ogni donazione buona e ogni dono perfetto discende dall’alto; quindi ciò che alla fine reca la morte, come la tentazione, la concupiscenza e il peccato, non può venire da Dio. Dio viene designato come Padre delle luci, evidentemente in riferimento alla creazione delle stelle, come indica la continuazione del versetto.

Giacomo quindi dall’opera del creatore, che è buona (Gen 1,18) deduce la natura del creatore, il quale, come padre della luce, può dare solo doni buoni. Egli respinge quella pericolosa opinione che considera Dio come causa del male.

Dio non può cambiare; infatti in lui non c’è mutazione, né oscuramento per alterazione. Forse con i tre termini: mutazione, oscuramento, alterazione si intende descrivere il corso giornaliero del sole. Mentre il sole nel suo corso causa un mutamento quotidiano tra luce e tenebra, presso il Padre delle luci non è così. Egli rimane inalterato nella sua proprietà di concedere solo doni buoni.

v. 18. Qui Giacomo parla della creazione escatologica, di cui i cristiani sono la primizia. In questo versetto si fa riferimento al battesimo che è una rinascita e una nuova creazione; esso è visto in stretta connessione con la docile accettazione della Parola presentata nella predicazione missionaria. Pertanto la parola della verità significa il vangelo che gli uditori hanno accolto nell’istruzione battesimale e che per essi è diventato forza vivificante e salvifica (cf 1,21).

La nascita divina dell’uomo ha come scopo che i battezzati siano, in certo modo, primizia delle creature del Padre. I cristiani per Giacomo sono l’inizio della nuova creatura e forse egli pensa qui soprattutto ai giudeo-cristiani, che furono proprio i primi membri della nuova comunità del Messia Gesù. Dio ci ha generati nel battesimo, affinché noi fossimo la primizia delle sue creature e non figli della concupiscenza e del peccato che genera alla morte. Così appare anche il collegamento del tema delle tentazioni con l’idea della nascita divina dei battezzati. Le tentazioni, appena si accondiscende alla concupiscenza, conducono l’uomo alla morte; il vincerle conduce invece a quella vita che Dio dona ai battezzati, i quali sono la primizia della nuova creazione. L’elezione ad essere primizia si basa esclusivamente sulla libera chiamata mediante la libera grazia di Dio.

 

L'attuazione della Parola
1,19-27

La nuova serie di sentenze è rivolta con energia verso l’esigenza fondamentale della lettera: un cristianesimo fattivo. Questa sezione contiene una serie di proposizioni di coerenza etica per l’agire del cristiano. La nascita da Dio e la Parola piantata in noi obbligano!

 

3.1
Le predisposizioni giuste dell’uditore
(1,19-21)

19Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. 20Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. 21Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime.

v. 19. Ogni uomo deve avere tre caratteristiche: veloce ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. L’ascoltare non è necessariamente l’ascolto della parola di Dio, ma innanzitutto un paziente ascolto degli altri. A questo viene collegata l’esortazione ad essere lenti a parlare, aspettando e riflettendo. Solo così viene evitato l’improvviso e adirato brontolare contro gli altri, l’essere lenti all’ira. Giacomo espone innanzitutto importanti norme per la vita in comune, che sono nello stesso tempo delle premesse importanti per il giusto ascolto della Parola come indica il nesso con il v. 21. E già si fa visibile a questo punto uno degli scopi che si propone la lettera: il fattivo amore del prossimo che evita anche i problemi di lingua (v. 26).

v. 20. Questo versetto giustifica l’ammonimento ad essere lenti all’ira. L’ira provoca un precipitoso ingiusto giudizio sul proprio simile, e così non opera la giustizia di Dio. Compie la giustizia di Dio chi vive secondo la sua volontà. Chi si adira, invece, viola il comandamento dell’amore del prossimo: in questo modo non attua la giustizia di Dio, ma distrugge l’ordinamento comunitario voluto da Dio. Probabilmente il pensiero di Giacomo è già rivolto alle guerre e battaglie di cui parlerà in 4,1 ss. Ora è importante per lui ammonire la comunità ad un paziente ascolto degli altri e alla mansuetudine.

v. 21. Ogni immondizia ed abbondanza di malizia che devono essere deposte, nel contesto di una parenesi battesimale, si riferivano alla precedente vita pagana. Giacomo si rifà all’ammonizione battesimale perché essa pone delle esigenze che devono essere permanentemente attuate. Anche il secondo ammonimento ad accogliere con mansuetudine la parola piantata in voi sembra essere attinto alla tradizionale parenesi battesimale. Questo imperativo accogliete, così spesso ripetuto nella lettera, acquista un carattere di particolare intensità: accogliete davvero la Parola piantata in voi nel battesimo, in ogni sua conseguenza e soprattutto in mansuetudine, senza irose obiezioni, senza opposizioni arroganti. La mansuetudine è chiaramente posta in antitesi con la precedente ira. La Parola piantata è quella dell’istruzione battesimale: le verità cristiane fondamentali, ascoltate nel catecumenato battesimale, non hanno solo contenuto cristologico-soteriologico, ma anche etico. La Parola piantata ci rende nota la volontà di Dio e deve portare frutto, cosa che dipende anche dall’atteggiamento di coloro nei quali essa è piantata. Giacomo attribuisce una forza salvifica alla parola di Dio. La salvezza dell’anima (gr. Psukè, ebr. Nefesh) significa la salvezza dell’uomo intero, la salvezza della vita. Per un giudizio d’insieme sulla teologia di Giacomo è di grande importanza notare qui che egli attribuisce una forza salvifica non solo alle opere, ma anche alla Parola. Ma perché la Parola possa esercitare la sua potenza salvifica, dev’essere trasformata dall’uomo in buone azioni. Dunque l’efficacia salvifica della Parola non ha un carattere magico o meccanico.

 

3.2
Siate esecutori della Parola
(1,22-25)

22Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. 23Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: 24appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. 25Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.

Accettazione della Parola significa attuazione della Parola nell’esperienza di ogni giorno. Un semplice ascolto della Parola equivarrebbe a un’illusione.

v. 22. L’accettazione della Parola ha tre momenti: udire la Parola, accettarla nella fede, tradurla in atto. I primi due sono in funzione del terzo: Siate esecutori della Parola!. La volontà di Dio viene annunciata per essere fatta. Importante non è lo studiare, ma il fare (Abot, 1,17). Non quelli che ascoltano la legge sono giusti presso Dio, ma quelli che la mettono in pratica verranno dichiarati giusti (Rm 2,13). Per Giacomo l’attuazione della volontà di Dio non si concretizza in un inasprimento dell’osservanza della Torà, ma nelle opere dell’amore del prossimo, come vedremo di seguito.

vv. 23-25. Giacomo, mediante un paragone, smaschera chi è solo uditore. Chi ascolta soltanto, senza essere esecutore, è simile a un uomo che guarda un momento nello specchio il proprio volto, quello che ha dalla nascita, ma poi ritorna alle sue occupazioni e intanto dimentica come era fatto. Con questa frase Giacomo parla della superficialità e della leggerezza di coloro che si specchiano nella Bibbia, ma non ne traggono le conseguenze pratiche per il proprio contegno pratico. Nel v. 25 invece si sottolinea la costante fatica che l’uomo deve fare per scrutare con attenzione la legge perfetta della libertà. Probabilmente con Parakùpsas (= chi ha attentamente considerato) si intende l’atteggiamento di chi legge con attenzione e zelo, mentre si china sul rotolo della Torà (Schlatter). La legge perfetta della libertà è l’Antico e il Nuovo Testamento.

L’agire dell’esecutore attento e zelante della Parola, sono le opere dell’amore del prossimo, specialmente l’aiuto ai poveri e agli oppressi. Il contenuto essenziale della legge perfetta della libertà Giacomo lo vede certamente espresso nella legge regale secondo la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso (2,8) che anche Gesù ha equiparato al comandamento dell’amore di Dio (Mt 22,39). Per Legge perfetta della libertà si intende la volontà di Dio, il quale esige che si faccia il bene del prossimo. Per Giacomo la libertà consiste nella liberazione da ogni egoismo, che si realizza in una amorosa premura verso il prossimo. Per libertà perfetta si intende la legge antica, completata da Gesù (Mt 5,17).

Al frettoloso andarsene del paragone, corrisponde antiteticamente nella realtà il fermarsi e perseverare. In che cosa bisogna perseverare? Nel continuare a guardare nella legge perfetta senza andarsene più. Così l’uomo può incessantemente vedere come lo stimoli all’azione, lo spinga a un comportamento risoluto e non sopporti un puro ascolto superficiale in cui venga dimenticata la volontà di Dio. Dio aveva detto a Giosuè: Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte e cerca di agire secondo quanto vi è scritto (Gs 1,8). La Torà spinge all’azione e, perciò, secondo Abot 1,15 (Shammai), bisogna stabilire delle ore fisse per il suo studio. All’udire deve seguire l’azione altrimenti il cristianesimo è illusione.

 

3.3
Falsa e vera religiosità
(1,26-27)

26Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. 27Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo.

La vera religiosità per Giacomo sta in un cristianesimo vissuto. Nell’intenzione di Giacomo la pietà non si esaurisce solo in quanto dice in queste righe, come appunto indicano le esortazioni nel seguito della lettera. Ma quello che dice qui deve stargli particolarmente a cuore.

v. 26. Se uno crede di essere religioso (e intanto) non frena la sua lingua, ma soltanto inganna se stesso, la sua religiosità è nulla. Per Giacomo non c’è alcuna vera religiosità, là dove la lingua non viene dominata. Di questa illusione si è già parlato anche nel v. 22.

Perché Giacomo pone in relazione la pietà apparente con il dominio della lingua?

In seguito egli metterà espressamente in guardia dalla smania dell’insegnamento, riferendosi nuovamente ai terribili pericoli che emanano proprio dalla lingua (3,1 ss; 13ss.). Egli scorge le comunità piene di lotte e dissidi (4,1 ss) e in questi le contese religiose hanno una parte importante. Quindi già in 1,26 potrebbe trovarsi un’allusione a contese religiose che dimostrano apparentemente zelo e vera religiosità, ma sorgono invece da un autoinganno. Una simile religiosità è nulla, inutile e morta (2,20.26). La primitiva missione cristiana era accompagnata da violenti dissidi, come attestano le lettere di Paolo e gli Atti. Il conflitto partiva spesso dalla parte giudeo-cristiana, ed è del tutto possibile pensare che Giacomo voglia richiamare alla ragione i giudeo-cristiani proprio nella sua veste di loro capo riconosciuto. Il N.T. presenta il fratello del Signore come un uomo che mira all’accomodamento e alla pace (Gal 2,9; At 15,13-21; 21,17-25). La sua lettera lo conferma.

v. 27. Alla religiosità nulla viene opposta quella vera agli occhi di colui che è Dio e Padre. La religiosità vera e incontaminata, che vale davanti a Dio, è la traduzione quotidiana della Parola nell’azione. Si tratta di un’esigenza energicamente sollevata già nell’Antico Testamento. Vedove e orfani non avevano difensori nei loro diritti ed erano abbandonati all’arbitrio dei loro avversari ricchi e potenti. Naturalmente non si tratta solo di vedove e di orfani in senso stretto; queste due categorie rappresentano ogni uomo indifeso e impotente. Ciò che Giacomo esige è l’aiuto a coloro che soffrono per miseria e ingiusta oppressione.

La seconda esigenza della religiosità pura e incontaminata consiste nel prendere una continua distanza dal mondo: non si allude alla creazione, ma al mondo caduto in balia dei piaceri terreni e della ricchezza. Simile ideale di religiosità è sobrio e pratico, lontano da ogni forma di cristianesimo teoricizzante e letterario; esso è attinto alla migliore tradizione del giudaismo e allo spirito del discorso della montagna (Mt 5-7).