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 7) La situazione dell’uomo venduto come schiavo al peccato (7,14-25).

14Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. 15Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. 24Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.

Questo brano contiene un’analisi esistenziale dell’uomo come si presenta concretamente. Gli effetti della legge stravolta dalla potenza del peccato vengono ora mostrati nello specchio della concreta esistenza dell’uomo. La potenza del peccato, che trae dalla legge lo stimolo ad attuarsi concretamente, impronta di sé il modo di essere dell’uomo nella sua struttura esistenziale.

V. 14 - Non è il bene, ossia la legge, che procura la morte, ma il peccato. La legge infatti è spirituale (nel senso che è prodotta dallo Spirito, contiene lo Spirito ed è mossa dallo Spirito) mentre l’uomo è carnale. La torà è dunque in se stessa, nella sua origine ed essenza e quindi anche nella sua efficacia, compenetrata e sorretta dallo Spirito. E proprio per questo è anche santa, giusta e buona. Ma l’uomo a cui la legge si rivolge è carnale, soggetto alla carne, soggetto al mondo, venduto in potere del peccato, dominato dal peccato, impotente davanti ad esso e in balìa di esso.

Ma come si manifesta tutto ciò? Lo diciamo subito, anticipando sommariamente l’ampia e precisa risposta dei Vv.15-25: si manifesta in questo: che l’uomo nella sua esistenza storica, contesta sempre il suo essere creatura e non aderisce a ciò che vuole, ma a ciò che vuole in lui il peccato che lo domina.

Vv. 15 - 17 - L’uomo riconosce che la legge è buona e santa e la accetta, ma in lui vince sempre un’altra forza contraria che agisce in lui, il peccato. Si sente venduto schiavo in potere del peccato, misteriosamente e fatalmente asservito al peccato. L’uomo vede il bene e lo approva, ma concretamente fa il male. La legge buona e santa indica e dispensa il bene e la vita, il peccato procura il male e la morte. Questo io di cui parla Paolo è l’uomo venduto schiavo in potere del peccato, l’uomo che dal peccato - attraverso la legge - viene indotto alla concupiscenza, alla bramosia egoistica. L’uomo in quanto creatura umana vuole la vita, che è il fine a cui mira la legge, vuole procedere in conformità con la legge. Eppure non osserva mai la legge e quindi non consegue mai la vita.

L’uomo vuole la vita non la morte, ma di fatto non si procura la vita, ma la morte: non riesce a fare quello che vorrebbe.

Vv. 18 - 20 - Il v.18 fornisce la motivazione del precedente e a sua volta giustifica ciò che segue. L’io che fa quello che non vuole è l’uomo carnale, nel quale non abita nulla di buono. L’uomo può volere il bene che la legge imperiosamente comanda, ma non riesce a compierlo. Ma è chiaro allora che non sono io ad agire, ma il peccato che abita in me.

La creatura venduta al peccato, è costretta da esso a fare ciò che non vorrebbe. Il peccato fa sì che l’io, l’uomo, si fermi a volere il bene e non giunga mai ad attuare nella vita concreta il suo essere creatura.

Vv. 21 - 25 - Nei Vv.18-20 è stato esposto, per la seconda volta il dissidio lacerante che contrassegna l’uomo storico che in concreto non consegue mai ciò a cui tende in quanto creatura: il bene, la vita. Ora questa lacerazione viene presentata per la terza volta nei Vv.21-25 con una formulazione quasi nuova: l’uomo vuole il bene e si trova in mano sempre il male. Egli accetta con gioia la legge, la volontà di Dio, nel suo intimo, nell’uomo interiore. L’espressione o eso ànthropos è usata da Paolo anche in 2Cor 4,16 e in Ef 3,16, dove, in contrasto con o exo ànthropos, indica l’uomo nascosto e interiore, l’uomo creato dallo Spirito nel battesimo e che si rinnova di giorno in giorno, ossia nella nuova creatura (2Cor 5,17; Ef 2,9-10). Qui però non si tratta dell’uomo nuovo, ma dell’uomo originario, dell’uomo in quanto creatura. Egli, che vuole il bene e che dichiara buona la legge, accetta la legge nelle sue disposizioni e si compiace di essa (v.22). Ma asserisce di essere dominato da un’altra legge (v.23). Ciò è quanto risulta dall’analisi dell’esistenza umana. Per l’uomo vige questa regola spaventosa: la sua volontà originaria di creatura è volta al bene, ma nella sua esistenza concreta si trova solo il male. In altre parole: l’uomo storico è sempre in contrasto con l’uomo creatura. Ma non basta. Nella sua esistenza l’uomo non porta mai a compimento il suo essere creatura. Egli è legato alla legge del peccato: il peccato gli fa incontrare la legge di Dio che egli come creatura avverte e ama, in modo però che da questo incontro nasca soltanto un’esperienza di peccato e di morte. Il peccato fa sì che l’uomo intenda e pratichi la legge come qualcosa che eccita in lui la tendenza verso il proprio io, la sua concupiscenza, e lo conduce all’ingiustizia o alla giustizia paga di sé. A ciò si aggiunge che l’uomo non è neppure consapevole di questa situazione, non è cosciente di procurarsi la morte nel contrasto con se stesso.

E l’uomo, oppresso da questa situazione di per sé irrevocabile, in balìa di una vita siffatta che è la negazione della sua esistenza originaria, può soltanto gridare: Oh, me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? (v.24). Questo lamento è pronunziato proprio in riferimento a questo corpo, che è stato appena descritto come l’esistenza fisica, nella quale l’uomo contesta se stesso in quanto creatura.

Ma per fortuna, l’uomo che analizza se stesso e giunge a queste conclusioni non è più quest’uomo schiavo del peccato, ma l’uomo salvato, liberato da questa situazione umanamente senza via di scampo. Dio lo ha liberato tramite nostro Signore Gesù Cristo.

8) Il dono dello Spirito (8,1-11).

1Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito.
5Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. 6Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. 7Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. 8Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.
9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. 11E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

Il Cap. 8 è dominato totalmente dal pensiero dello Spirito (O. Kuss).

Il contenuto di questo capitolo rappresenta il vertice e la controparte del Cap. 7.

V. 1 - Paolo afferma anzitutto che ora non c’è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. La nuova condizione dell’umanità, il nuovo modo di essere del cristiano (in Cristo Gesù!) sono la conseguenza di quella giustizia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo e che è accessibile mediante la fede e il battesimo. Nella sfera del Cristo, nell’ambito della sua potestà salvifica, ora non vi è più alcuna condanna.

V. 2 - Non vi è alcuna condanna per coloro che vivono in Cristo Gesù, perché lo Spirito ci ha liberati dal peccato e dalla morte. Lo Spirito ci ha liberati dall’ordinamento del peccato stabilito in noi dalle due potenze che ci dominavano: il peccato e la morte. Il nuovo regime instaurato dallo Spirito della vita ha sostituito e abrogato il regime del peccato e della morte.

V. 3 - In questi primi tre versetti abbiamo i seguenti enunciati: ora non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù perché lo Spirito ci ha liberati dal regime del peccato e della morte. Infatti Dio ha mandato il Figlio suo per condannare il peccato nella carne. La condanna di questa potenza del peccato da parte di Dio è avvenuta nella carne, cioè nell’ambito in cui essa regna. La potenza del peccato è stata colpita là dove ha sede, cioè nell’esistenza carnale decaduta e asservita a quella potenza. Nelle sue pretese e nelle sue brame, nelle sue tensioni e nei suoi trascendimenti la carne ha sempre di mira se stessa, è rivolta alla autosoddisfazione: si tratta dell’egoismo di ogni specie, quello materiale e sensibile e ancor più quello spirituale che si esplica soprattutto nell’assolvimento della legge con opere che dovrebbero garantirci e promuoverci al cospetto di Dio mediante la nostra giustizia (Rm 10,3; Fil 3,3 ss.) o anche nella fiduciosa sicurezza di appartenere alla progenie del popolo di Dio (Fil 3,3 ss.), nel vanto e nell’autoedificazione attinta dalla sapienza o dai carismi (1Cor 1,26; 2Cor 11,18; ecc.). In quanto tale, la carne tende alla morte (Rm 8,26).

Infatti essa è, in tutto il suo atteggiamento, ostile a Dio e ribelle alla norma stabilita da lui. Della carne il peccato si serve in tutto e per tutto come di suo strumento; in lei dimora il peccato per dominarla. È proprio su questa potenza del peccato, che dimora e agisce nella carne, che si è abbattuta ora la condanna di Dio. Tale condanna, che colpisce il peccato dimorante nella carne e che risparmia la dannazione a quelli che sono in Cristo Gesù, si è attuata col fatto che Dio ha inviato il Figlio suo nella carne. Il modo in cui Dio ha condannato il peccato nella carne è stato l’invio del Figlio suo nella carne.

Lo spodestamento della potenza del peccato, compiuto da Dio mediante suo Figlio, viene contrapposto all’impotenza della legge: quanto alla legge era impossibile fare, Dio l’ha fatto per mezzo di suo Figlio. La legge, incapace di annientare il peccato, non era debole in se stessa, ma a motivo della carne. La carne, in quanto realtà dominata dal peccato, rende la legge così debole perché la intende come un incitamento all’egoismo di ogni sorta (Rm 7,7 ss.; Gal 2,16; ecc.). La debolezza per cui la legge non procura la salvezza, ma è addirittura una maledizione, si deve alla carne, alla condizione carnale dell’uomo, dominata dal peccato. La legge, che è in sé santa, giusta e buona, suscita, mediante la carne, l’egoismo e la ricerca di una autoedificazione nell’ingiustizia o nella propria giustizia, ossia nei peccati o nelle opere buone fatte per la propria gloria.

V. 4 - Mediante il Figlio suo, Dio ha condannato la potenza del peccato, affinché noi potessimo compiere gli atti di giustizia richiesti dalla legge e così facessimo la giusta volontà di Dio da cui dipende la nostra vita. La potenza del peccato è stata infranta da questo intervento di Dio in Gesù Cristo. E il fine di ciò era che la giusta volontà di Dio venisse di nuovo osservata da noi.

Ora noi, nella fede in virtù dello Spirito santo, e quindi liberi dall’egoistico attaccamento a noi stessi, liberi di attaccarci solo a Dio, pratichiamo o vogliamo praticare la legge.

Il camminare è vocabolo frequente negli scritti di Paolo e indica una certa condotta di vita. I cristiani non impostano la loro vita secondo le inclinazioni e le pretese della carne, ma assumono come norma di vita, lo Spirito.

Vv. 5 - 8 - La carne è ciò a cui tende l’uomo per sua natura. Essa fa sì che l’uomo prenda le sue parti, partecipi alle sue aspirazioni e pensi al modo suo. Ma un discorso analogo può farsi anche per coloro che vivono sotto il potere dello Spirito, ossia per coloro che sono in Cristo Gesù.

Essi prendono partito a favore dello Spirito e dei suoi doni, e ciò si rivela nel frutto dello Spirito di cui si parla, ad esempio, in Gal 5,22-23. Ma se è vero che coloro che recano l’impronta della carne fanno gli interessi della carne e coloro che vivono nello Spirito sostengono la causa dello Spirito, ne consegue che gli scopi degli uni e degli altri e i risultati a cui approdano sono del tutto contrari. Infatti le aspirazioni della carne conducono alla morte, quelle dello Spirito alla vita e alla pace. La carne porta alla morte perché non si sottomette a Dio e alla legge in cui si esprime la sua volontà dispensatrice di vita. E non è disobbediente solo di fatto, ma per sua natura, in quanto dominata dalla potenza del peccato, in quanto venduta in potere del peccato di Adamo (7,14). Coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio. Ma ciò significa la morte.

V. 9 - Voi però non siete nella carne, ma nello Spirito. Paolo si rivolge ai suoi lettori applicando a loro ciò che sta scrivendo. Il tempo in cui i cristiani conducevano la loro vita secondo la carne è passato. Ora vivono nello Spirito. Lo Spirito dimora in loro per mezzo del battesimo. Lo Spirito si è impossessato di loro, si è appropriato della loro esistenza. Essi quindi vivono nell’ambito, sotto il dominio dello Spirito. Il nostro essere nello Spirito è il suo essere in noi, e viceversa.

L’inabitazione dello Spirito in noi coincide con la nostra inabitazione nello Spirito. Lo Spirito di Cristo, che è lo Spirito di Dio, ci fa sperimentare Cristo come nostro Signore. Noi siamo sua proprietà.

V. 10 - Se Cristo (mediante il suo Spirito) abita in noi, ne consegue che:

1. il corpo è morto per quanto concerne il peccato. Se Cristo abita in noi, la nostra realtà di uomini ribelli a Dio è morta per effetto del battesimo che l’ha distrutta.

2. Invece lo Spirito è vita che fa sorgere in noi la giustizia di Dio, quella che è presente in lui. Lo Spirito è vita eterna e con ciò e in ciò è giustizia.

V. 11 - Se lo Spirito è vita, tale si manifesterà anche in noi, cioè nella risurrezione dai morti. Lo Spirito viene qui chiamato e definito come la potenza che Dio ha dimostrato nella risurrezione di Gesù Cristo. Questo Spirito si è impossessato di noi e noi siamo nella sfera della sua potenza. Di questo Spirito, che già si è rivelato in Cristo come Spirito della vita, noi facciamo la norma della nostra vita. Il nostro corpo, tramite il battesimo, per l’inabitazione dello Spirito, è sottratto al peccato e alla morte. Di questo corpo si prende cura lo Spirito che dà la vita che già ci ha concesso la vita di Dio nella forma della giustificazione. Lo Spirito - se rimane in noi e ci lasciamo guidare da lui - concederà anche la vita escatologica ai nostri corpi mortali.

9) Lo Spirito di figli di Dio (8,12-17).

12Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.
14Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. 15E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!". 16Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Abbiamo dunque ottenuto la giustizia con la liberazione dalla potenza del peccato e ci è stata dischiusa la vita presente e futura con la liberazione dal potere della morte compiuta dallo Spirito che dà la vita, il quale ha mostrato la sua potenza in Cristo e ora la dimostra in noi che siamo in Gesù Cristo. Tutto ciò ha conseguenze per la nostra condotta di vita. Questo nuovo stato di salvezza pone a noi richieste fondamentali e radicali. Essere nello Spirito significa che colui che ci dona la vita per ciò stesso accampa diritti su di noi. Non dobbiamo più vivere secondo la carne, ma secondo lo Spirito.

V. 12 - Questo versetto trae una conclusione da quanto precede (8,1-11).

Dall’essere nello Spirito e non più nella carne consegue che non abbiamo più alcun debito o impegno verso la carne e perciò le norme della carne non devono più guidare la nostra vita. L’uomo, come esiste concretamente da Adamo in poi, aveva un debito verso l’esistenza egoistica nel senso che gli pagava di fatto un tributo col proprio agire. Ora, nello Spirito, questa necessità è stata infranta. D’ora in poi il nostro debito è verso lo Spirito, e quindi verso Cristo e verso Dio. Siamo sottomessi alla legge dello Spirito e della vita (8,2).

V. 13 - Se la vita assume come norma la carne, ossia l’esistenza egoistica, muore. La carne trascina nella morte chi si muove nella sua direzione. Di contro a ciò viene promessa la vita a colui che nello Spirito uccide le opere del corpo. La frase: Ma se, in virtù dello Spirito, uccidete le opere del corpo, vivrete non si deve interpretare nel senso di un’ascesi corporale, sebbene questa, in talune circostanze, possa servire a ciò che qui viene inteso. Paolo ha in mente qualcosa di più vasto e di più fondamentale, cioè la soppressione di qualsiasi comportamento egoistico che rafforza il dominio del peccato (6,12), il rifiuto opposto a tutto l’egoismo. Questa uccisione avviene in virtù dello Spirito. Solo in tal modo essa ha la qualità e la forza di far morire l’uomo vecchio e evita di ricadere nel vivere secondo la carne alla stregua delle opere della legge. È lo Spirito, con il nostro libero consenso, che fa morire in noi l’egoismo. Proprio nello Spirito, soltanto nello Spirito, la carne deve morire (K. Barth). Lo Spirito, dandoci la libertà dal nostro egoismo, ci fa vincere le azioni egoistiche e ci rende capaci di fare veramente la volontà di Dio. Qualsiasi opera, anche la più degna moralmente, se vuole essere autonoma e non si compie nello Spirito, è un’opera di morte.

Il ragionamento di Paolo si può così riassumere: voi fratelli, siete nello Spirito e quindi nella vita ora e in futuro. Dunque non dovete più sentirvi legati al vostro vecchio ed egoistico modo di essere, ma dovete, nello Spirito, prendere una risoluzione contro ogni comportamento che abbia di mira il vostro io. Vivere per il proprio io conduce alla morte. Vivere per Dio conduce alla vita che viene offerta proprio dallo Spirito e che viene colta mediante una decisione che è libera dall’egoismo proprio in virtù dello Spirito.

Vv. 14 - 17 - Ma quale sarà la vita di coloro che nello Spirito uccidono le opere del corpo? Una risposta viene dai Vv.14-17. Tutti coloro che si fanno guidare dallo Spirito sono figli di Dio. Questa figliolanza che avrà in futuro la sua manifestazione, si è già dischiusa nella fede e nel battesimo (Gal 3,26). Ai suoi figli infatti Dio ha mandato nei cuori lo Spirito del Figlio suo (Gal 4,6) il quale li rivela a se stessi e agli altri appunto come figli di Dio. Lo stato di figli di Dio si manifesta in tre modi o momenti tra loro connessi:

1. lo stato che comincia col battesimo per chi ha fede (Gal 3,26; 4,6);

2. uno stato che si attua nella nostra esistenza sotto la guida dello Spirito (Rm 8,14);

3. lo stato escatologico nella sua manifestazione definitiva (Rm 8,19.23).

Questo stato di figli di Dio ci anticipa la vita eterna. Noi non abbiamo ricevuto uno spirito di schiavitù che ci sottomette all’angoscia che Paolo ha descritto nei Cap. 6 e 7: la situazione della legge, del peccato e della morte. I figli di Dio hanno sconfitto l’angoscia della morte perché hanno ricevuto lo Spirito di figli di Dio, il Padre. Abbà non è un’angosciosa evocazione del Dio assente, ma la fiduciosa invocazione del Dio presente, che è il Padre per eccellenza, al quale, secondo Ef 2,18, abbiamo accesso tramite lo Spirito.

Coloro che si lasciano guidare dallo Spirito e troncano il loro agire egoistico, vivranno. Essi sono infatti figli di Dio e hanno ricevuto lo Spirito che fa di essi, già schiavi ricolmi di angoscia radicale, figli di Dio ripieni di fiducia. Nella comunità riunita essi gridano nello Spirito: Abbà, Padre! Il v.16 ci spiega quello che ciò significa.

Lo Spirito stesso attesta così al nostro spirito che noi siamo figli di Dio, altrimenti non grideremmo Abbà. In che modo Paolo concepisca l’attuazione di questo attestare dello Spirito non si può dire con sicurezza. Probabilmente egli pensa che il nostro grido di Abbà dal quale apprendiamo dalla liturgia comunitaria di avere lo Spirito, sia in pari tempo un grido dello Spirito che ci rende certi del suo dono.

Ai figli di Dio che siamo noi si dischiude la speranza di essere eredi, eredi che condividono l’eredità con Cristo, insieme col quale vivremo per sempre (Rm 6,8). Ma questo presuppone una realtà: il nostro soffrire con Cristo.

È un richiamo inteso a preservare da fraintendimenti l’enunciato della nostra condizione di eredi. Cristo ci ha preceduti nel patire e la nostra sofferenza è, per così dire, il resto della sua (Col 1,24). Questo soffrire con Cristo che dischiude la futura partecipazione alla sua gloria, rappresenta per i cristiani l’attuazione del loro battesimo. Il soffrire con Cristo è il morire di 8,36.

Ricapitoliamo brevemente i concetti enunciati in 8,12-17. Paolo scrive: Voi siete nello Spirito e lo Spirito è in voi. La vostra esistenza è ora regolata dallo Spirito e ricolma dello Spirito. Quindi non abbiamo più l’impegno di obbedire alla carne (egoistica) che ci procura la morte.

Noi vivremo se uccidiamo le opere della carne e ci lasciamo guidare dallo Spirito. Noi siamo figli di Dio e eredi insieme con Cristo. E allora otterremo con lui la gloria futura proprio perché ora soffriamo con lui.

 10) L’anelito di tutti alla gloria (8,18-30).

18Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.
19La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza 21di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? 25Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
26Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.
28Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.

V. 18 - Rifacendosi alla connessione appena fissata tra la sofferenza e la gloria futura, Paolo afferma che i patimenti del tempo presente non contano nulla rispetto alla gloria incomparabile che si manifesterà in noi.

Rispetto al peso sovrabbondante ed eterno della gloria tutti i dolori sono una lieve tribolazione momentanea (2Cor 4,17). Il futuro di chi ha fede e speranza compenserà abbondantemente il presente e col suo splendore trascenderà incomparabilmente le miserie del presente. Tutta la creazione attende la manifestazione della gloria e anela ad essa. A questa gloria, che è la nostra speranza, va il gemito della creazione (Vv.19-22), dei cristiani che hanno lo Spirito (Vv.23-25), anzi dello Spirito stesso (Vv.26-27). Dove c’è attesa e desiderio, speranza e anelito, dove in qualsiasi modo ci si protende al di là di se stessi, ivi, secondo Paolo, si cerca la gloria della nostra salvezza.

V. 19 - L’apostolo volge lo sguardo alla creazione. Non è però ben chiaro che cosa egli intenda con la parola creatura o creazione. Già s. Agostino dichiarava: Questo capitolo è oscuro, perché non appare abbastanza chiaro ciò che qui l’Apostolo intende per creatura. Per comprendere Rm 8,18 bisogna considerare il contesto, dal quale risulta con certezza:

1. Paolo intende tutta la creazione (v.22). Egli ha davanti agli occhi la creazione sottoposta nel suo complesso alla vanità e alla corruzione, ossia gli uomini in quanto privi dello Spirito, la natura animata e inanimata, le potenze e le potestà (Rm 1,20).

2. Si tratta della creazione caduta in tale schiavitù per causa di Adamo.

3. La sua liberazione è connessa con quella dei figli di Dio (v.21).

4. Si tratta in ogni caso della creazione nel suo complesso, riferita all’uomo e al suo destino umano. Qui dunque la parola ctìsis designa probabilmente la natura e la storia in quanto sono create e ora rappresentano il mondo corrotto degli uomini, la creazione decaduta, ivi comprese le potenze.

A questa creazione, ossia al complesso della creazione, viene attribuito un anelito indefinito, un guardare al di là di sé scrutando l’orizzonte, un protendersi al di là di se stessa in uno stato di attesa di qualcosa che la trascende. La creazione quale si trova ad essere e quale si presenta nella sua corruzione all’occhio della fede, non è del tutto chiusa in se stessa, ha coscienza di essere incompiuta nella sua temporalità e finitezza, ma è colma di inquietudine e aspetta un’altra realtà che la trascende: è in tensione verso la gloria. Il creato è fatto per l’uomo. Così la creazione, ivi compreso l’uomo in quanto creatura, anela alla gloria che un giorno si effonderà sull’uomo, intorno all’uomo e nell’uomo e dalla quale anch’essa sarà investita. Essa attende la rivelazione dei figli di Dio, anela alla manifestazione di ciò che i cristiani già sono nella fede e che tutti gli uomini possono e devono essere: glorificati. Ma l’uomo glorificato è l’uomo in quanto figlio di Dio che è erede di Dio e coerede di Cristo. In tal modo viene a gravare sull’uomo una responsabilità sconfinata: quella di dare compimento all’anelito della terra e del cielo.

V. 20 - Senza alcun concorso da parte sua, la creazione è stata trascinata, per colpa di Adamo, nella vanità della sua presente esistenza storica; le rimane però la speranza appunto nei figli di Dio. Sottoposta da Dio, per colpa di Adamo, alla condanna della vanità e del disfacimento la creazione alla quale appartiene anche l’uomo come creatura, aspetta ardentemente la propria liberazione e la scorge ansiosamente in un futuro che può venire solo da Dio. Dio non l’ha imprigionata in un destino senza scampo, ma le ha concesso una speranza. Per questo la creazione aspetta e brama qualcosa che la trascende.

V. 21 - La creazione dunque, nel suo stato di vana parvenza, è legata alla speranza di essere liberata: l’esistenza escatologica dei figli di Dio con la sua potenza e il suo splendore libererà la creazione restituendola alla sua realtà e autenticità. Questa gloria non verrà dalla creazione stessa per evoluzione, ma sarà la gloria che i figli di Dio sperimenteranno in sé e in cui la creazione viene inserita. I figli di Dio ricevono la loro gloria in quanto partecipano alla gloria di Cristo.

V. 22 - Questo sappiamo non è una conoscenza scientifica, ma una conoscenza per fede. Colui che sa per fede ode il sospiro e il gemito della creazione gravata dal peso e dal dolore della sua esistenza prigioniera. La creazione quindi non è muta per chi sa, anzi gli svela la propria attesa di una realtà ineffabile che la trascende. Il lamento della creazione è il travaglio di una partoriente. Tutto il dolore della creazione non è annunzio e principio di morte, ma di salvezza, e ogni gemito in tutto il mondo, ogni attesa e ogni brama, ha un significato: la gloria della salvezza, la gloria dei figli di Dio, nella gloria di Cristo. Nelle sofferenze agisce fin d’ora, seppure nascosta nell’impotenza e nell’oscurità, la presenza irresistibile di Dio, con la sua potenza e il suo splendore.

Vv. 23 - 25 - Ma non soltanto la creazione è testimone della gloria futura, ma anche i cristiani. Anch’essi anelano a una manifestazione: alla rivelazione di se stessi nella gloria, che fin d’ora esiste in loro ma allo stato occulto. Noi cristiani abbiamo lo Spirito. Egli è una primizia che promette qualcosa di più, un anticipo, un primo pagamento, che però garantisce l’acquisto complessivo e definitivo. Il compimento definitivo sarà la redenzione del nostro corpo, la libertà della gloria. Lo Spirito è la forza dell’autorivelazione di Dio e la potenza con cui Dio e il Cristo si fanno presenti. Egli è la realtà a cui si conformano il nostro essere e la nostra esistenza (Rm 8,4.5), che regola tutto il nostro comportamento da cristiani (Gal 5,16); noi siamo guidati da lui (Rm 8,4; Gal 5,18); in virtù dello Spirito noi sconfiggiamo le nostre opere egoistiche (Rm 8,13). Nella potenza dello Spirito, attraverso la sofferenza, noi prepariamo a noi stessi il peso sovrabbondante della gloria (2Cor 4,17), e gemiamo anelando ad essa.

Anche i cristiani che hanno lo Spirito attendono il momento in cui avverrà la trasformazione della loro esistenza corporea (1Cor 15,42 ss).

Essi bramano che Cristo, a compimento dell’adozione a figli instaurata nello Spirito, trasformi il corpo della miseria e lo renda simile al suo corpo di gloria (Fil 3,21). Il loro ardente desiderio non è che questo corpo venga distrutto perché l’anima possa più speditamente giungere a Dio, ma che questa esistenza fisica e corporea, liberata dal peso delle tentazioni e dalla mortalità, possa entrare ed espandersi nella libertà della gloria, che è una partecipazione alla gloria di Gesù Cristo.

I Vv.24-25 spiegano ancora una volta e in altro modo il motivo per cui anche i cristiani gemono e attendono. Noi siamo stati salvati per la speranza. La salvezza per noi è già venuta, nel battesimo e nel vangelo, e continua a venire nel vangelo e nell’eucaristia, così che noi possiamo coglierla nella fede, ed essa agisce nella carità che fa di tutti i carismi un dono d’amore. Ma la salvezza ci è venuta e ci viene pur sempre sul fondamento della speranza perché manca ancora l’esperienza della visione a faccia a faccia. Noi siamo salvati in vista di un avvenire. La nostra esistenza di salvati è aperta ad una salvezza futura ancora nascosta. Anche noi abbiamo lo Spirito, gemiamo e attendiamo. Siamo stati salvati nel senso che speriamo in un certo bene.

Ma che cos’è la speranza? Non è qualcosa di visibile, ma uno stato di attesa. Noi quindi aspettiamo con pazienza. Speranza, attesa e pazienza sono tra loro connesse. Una vera speranza e una vera attesa si manifestano nella pazienza (Rm 12,12; 15,4; 1Ts 1,3). La forza di attendere dà una capacità di non cedere, di non essere sopraffatti, ma di reggere il peso del presente e di conservare ciò che si è ricevuto (Schlatter).

V. 26 - Ma vi è ancora un altro che geme dimostrando così la grandezza della gloria futura: è lo Spirito santo. Il gemere dello Spirito è un gemere per noi, è un venire in soccorso della nostra debolezza, della nostra insufficienza e incapacità. Lo Spirito col suo gemito ci soccorre nel nostro gemito; ci sgrava in parte di una fatica perché noi siamo troppo deboli: siamo deboli nel senso che noi preghiamo, ma, nel pregare, solo debolmente consideriamo, vogliamo e diciamo ciò che è conveniente, ciò che è doveroso, ciò per cui anzitutto e propriamente dobbiamo pregare, ciò che è conforme alla volontà di Dio. Nelle nostre preghiere noi gemiamo anelando a quella gloria, ma siamo veramente consapevoli e veramente vogliamo, soltanto se lo Spirito stesso intercede per noi pregando nei nostri cuori, se leva la sua voce in noi e per noi. Proprio questo levare la sua voce per noi è il soccorso che egli reca alla nostra debolezza.

Il gemere dello Spirito non ha linguaggio, neppure quello della glossolalìa. È senza parole alàletos, inenarrabile, inespresso, già per la mancanza di qualsiasi vocabolo idoneo a significare la realtà che suscita il gemito, perché la dòxa, la gloria, trascende ogni linguaggio. Ma in pari tempo quel lamento dice pure qualcosa. È un gemito levato da Dio a Dio per noi, nei nostri cuori. È il gemito di chi non ha la nostra debolezza, ma vi partecipa e se ne fa carico.

V. 27 - Dio che scruta i cuori, ode la voce dello Spirito che sale a lui dal cuore dei cristiani. Dio sa quello che lo Spirito vuole: solo e sempre la volontà di Dio nei nostri riguardi. Dio sa quello che vuole lo Spirito in noi: la manifestazione della sua gloria in coloro che egli ha già reso santi nella fede.

Vv. 28 - 30 - Ma Dio non solo conosce l’invocazione senza parole dello Spirito per noi, ma anche la esaudisce. Infatti Dio soccorre in ogni modo i santi che egli ha chiamati e che lo amano. Per coloro che lo amano, Dio non fa accadere nulla che non serva alla loro salvezza. Dio è pensato come colui che agisce per il bene in tutte le cose, anche nella sofferenza.

Coloro che amano Dio sono qualificati come chiamati secondo la volontà di Dio. Dio ha prevenuto coloro che lo amano. La sua chiamata ha dischiuso loro i favori di Dio. I santi che amano Dio lo amano in risposta all’eterna chiamata del suo amore in Gesù Cristo. Dio volgerà ogni cosa a profitto della loro salvezza.

Questa realtà della salvezza si trova descritta in Ef 1,5 con una formulazione particolare, ossia che Dio ci ha predestinati a essere suoi figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo. Nel nostro passo la figliolanza per mezzo di Gesù Cristo viene espressa con altre parole: per essere conformi all’immagine del Figlio. In altre parole: fin dal principio Dio ha predestinato gli uomini a divenire partecipi dell’essere in Cristo.

Il termine morfè, forma, non designa l’aspetto esteriore, ma il modo di essere. Il vocabolo eikòn, immagine, indica qui la manifestazione dell’essenza. L’immagine di Cristo è un’esistenza corporea piena di gloria (Fil 3,21; 2Cor 3,18; 4,4). Il termine fisso a cui Dio ha predestinato l’esistenza umana come si manifesterà in coloro che lo amano (v.23) è la partecipazione alla gloria di Cristo, ad avere come lui la sovrabbondanza della gloria nel proprio corpo. In tal modo Dio ha associato a Cristo, il primogenito, molti fratelli affinché egli fosse il primogenito tra molti fratelli. La destinazione originaria dell’esistenza umana è di partecipare, in Cristo e tramite Cristo, alla gloria ossia al modo di essere di questo fratello primogenito. Egli è tale sia in rapporto alla creazione (Col 1,15) sia in rapporto alla risurrezione dai morti (Col 1,18; Rm 8,11; 1Cor 15,22 ss.; Ap 1,5). Questa gloria, che è la condizione futura dell’uomo stabilita dall’eternità, ci è già stata elargita: ci ha glorificati con Cristo (v.30).

Il compimento storico della predestinazione prende le mosse dalla chiamata che è avvenuta e continua ad avvenire nella predicazione del vangelo (1Ts 2,12; 5,24; 2Ts 2,14). Nell’annuncio del vangelo Dio ci ha chiamati alla comunione col Figlio suo Gesù Cristo, nostro Signore (1Cor 1,19). Ma insieme con questa chiamata è accaduto anche dell’altro: E coloro che ha chiamati, li ha anche giustificati. L’esistenza del chiamato è diventata giusta nella risposta della fede. In Rm 5,9 abbiamo letto che noi siamo stati giustificati nel sangue di Cristo. E in Rm 5,1 Paolo diceva: giustificati per fede, abbiamo pace. In 1Cor 6,11 sta scritto: Ma voi siete stati lavati (nel battesimo), voi siete stati santificati, siete stati giustificati per il nome di nostro Signore Gesù Cristo e lo Spirito santo del nostro Dio. Tramite la morte di Cristo i chiamati sono ammessi, per la fede e nel battesimo, alla giustizia di Dio e sono giustificati in modo tale da sperimentare in anticipo la futura giustificazione che dà la vita (Rm 5,18). La chiamata di Dio si manifesta come giustificazione della nostra esistenza da parte della giustizia di Dio.

Infine la giustificazione dell’esistenza si manifesta fin d’ora come ingresso nella gloria: Coloro che ha giustificati, li ha anche glorificati. Il verbo edòxasen è un aoristo che designa un fatto già compiuto. Dunque la gloria non è solo futura. La glorificazione non è solo una speranza. Essa è anche un’anticipazione concessa da Dio per grazia, la quale non solo esprime la certezza del futuro, ma designa un avvenimento presente e attuale. Come la gloria del vangelo è brillata sul volto di Cristo (2Cor 4,4.6), così noi, rivolti al Signore e al suo Spirito e contemplando la sua gloria nello specchio del vangelo, già ora veniamo trasformati da gloria a gloria, nell’essenza gloriosa di Cristo (2Cor 3,16 ss.). Quindi la gloria ci ha già afferrati e circondati completamente. L’esistenza cristiana di essere chiamati e giustificati è già entrata nel grande oceano della gloria traboccante.

Ripercorriamo la pericope 8,17-30. La vita terrena è ricolma di tribolazioni e di dolori. Ma le si dischiude una prospettiva travolgente che Paolo sa indicare soltanto col vocabolo dòxa, gloria. Di fronte a questa gloria le sofferenze di questa terra perdono tutto il loro peso. Il moto fondamentale di tutta la creazione vincolata alla corruzione e condannata ad essere vana, irreale, tende alla gloria che si manifesterà negli uomini che conseguiranno la libertà definitiva, ossia nei figli di Dio quando diverranno manifesti. Tutto ciò che è creatura è compreso nel destino e nella libertà dell’uomo. Nel suo divenire, la creazione, percorsa da un unico grande gemito, espressione dei dolori presenti e della certezza della gloria futura, è tutta un travaglio generativo che sfocerà nella pienezza trascendente e sovrabbondante della gloria. Questa gloria comprende anche la redenzione dell’esistenza corporea, la quale per effetto del battesimo e nella fede, fin d’ora non è più in balìa del peccato e della morte, ma è pur sempre mortale e soggetta alla tentazione, esposta dunque alla possibilità di soggiacere al peccato e alla morte. I cristiani, in virtù dello Spirito hanno acquisito nella fede la libertà di amare e di sperare, ma nella loro esistenza carnale sono ancora vincolati alla bassezza del loro passato. A questa potrà sottrarli solo la manifestazione travolgente della gloria futura. Anche i cristiani quindi gemono anelando a questa realtà avvenire. E con loro geme lo Spirito stesso; geme per loro. Con il suo gemito impercettibile, senza parole, lo Spirito viene in soccorso di coloro che gemono e pregano senza però comprendere veramente per che cosa si debba pregare. Così egli trasforma la preghiera dei deboli (i cristiani!) in una preghiera forte, cioè nella schietta preghiera per la gloria. E Dio ascolta questa preghiera elevata dallo Spirito nei cuori e la esaudisce. E Dio da tutta l’eternità ha predestinato l’uomo alla gloria e l’ha già data ai giustificati nell’atto stesso di chiamarli. Tutto attende la gloria; l’attendono le creature e l’attende lo Spirito.

11) L’amore di Dio in Gesù Cristo supera ogni cosa (8,31-39).

31Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? 35Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Proprio come sta scritto:
Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo trattati come pecore da macello.
37Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Paolo si avvia rapidamente a concludere il suo capitolo sullo Spirito e quindi il suo discorso sui doni di Dio concessi all’uomo giustificato.

Paolo abbandona il piano dell’esposizione dottrinale e avvia un discorso carismatico, impregnato di elementi della diatriba.

V. 31 - L’espressione tutto ciò si riferisce a quanto detto precedentemente: essa include tutto il cap. 8 o addirittura i cap. 5-8. Il contenuto di tutto ciò riguarda le opere di salvezza compiute da Dio in Gesù Cristo mediante lo Spirito santo. Paolo lo concentra nella semplice espressione: Dio è per noi. Emerge qui la scena del giudizio finale. La vita dell’uomo si svolge costantemente e fondamentalmente in una condizione di responsabilità di fronte al giudizio di Dio. Paolo non dà risposta alla domanda perché la risposta è già contenuta in essa: Dio è per noi.

V. 32 - Qui si parla del sacrificio di Gesù Cristo per noi, del sacrificio col quale ci viene concessa ogni cosa. Il per noi di Dio si manifesta nell’aver dato per tutti noi il Figlio suo; nel consegnare il Figlio a vantaggio di tutti noi. E col dare il Figlio suo per noi tutti Dio ci concede tutto. In Gesù Cristo è contenuta ogni salvezza, la salvezza definitiva e totale, la nostra eredità. Tutto ciò che Dio ci ha dato donandoci suo Figlio è un suo libero dono, l’effusione della sua grazia.

V. 33 - Dio non muoverà certo delle accuse contro gli eletti. Egli infatti è colui che giustifica, colui che rende giustizia, colui che fa essere giusto l’uomo, che lo predestina, lo chiama, lo glorifica.

V. 34 - Prosegue la domanda con soggetto il Cristo invece di Dio Padre. Cristo non ci condanna. Egli infatti è morto e risorto, partecipa della potenza di Dio e come tale intercede per noi. L’evento storico della sua morte per noi prosegue in certo modo nell’essere il Glorificato, in quanto tale, per noi. Perciò il Cristo che intercede per noi davanti a Dio, non può condannarci, così come non può accusarci Dio che giustifica.

V. 35 - Dio non ci accusa, ma ci giustifica. Cristo non ci condanna, ma intercede per noi. E nulla e nessuno può separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, Signore nostro. Tutto quello che abbiamo sperimentato in Gesù Cristo viene condensato nell’espressione: amore di Cristo. Questo amore si è manifestato nella donazione che Cristo ha fatto di se stesso per noi sulla croce. In questo amore agisce l’amore del Padre che si impossessa di noi nell’amore di Cristo (Rm 15,30). Da tale amore non può separarci nessuna avversità che incontriamo nel mondo presente. Le sette esperienze di avversità sono le esperienze stesse di Paolo e le esperienze fondamentali di ogni cristiano: esse illustrano la differenza tra l’esistenza mondana e quella escatologica.

V. 36 - Tutto è concentrato sulla citazione del Sal 43,23 LXX, che i rabbini riferivano al sacrificio del martire. Tutte le esperienze amare e spaventose menzionate nel versetto precedente sono un incessante essere messi a morte ed essere portati al macello a motivo di Cristo.

V. 37 - L’amore di Cristo ci fa essere vincitori anche e soprattutto nelle tribolazioni escatologiche che con lui condividiamo. Nulla (neppure la morte) ha il potere di vanificare la nostra vittoria. In questo caso c’è più che una vittoria, c’è un trionfo, se è vero che persino la concreta morte di tutti i giorni non ci allontana dall’amore di Cristo proprio in virtù di questo amore che non ci abbandona mai e ci ama in modo assoluto.

Ma non si tratta soltanto di essere vincitori nel dolore e nei travagli che noi subiamo principalmente dagli uomini, ma anche di essere vincitori delle potenze che ci minacciano dal cielo e dalla terra.

V. 38 - Anche il cosmo con le sue potenze non può separarci dall’amore di Dio. Sono enumerate dieci potenze. Al primo posto sta la morte, che secondo 1Cor 15,26 è l’ultimo nemico e quindi la potenza peggiore. Qui però la morte è accoppiata a un’altra potenza: la vita. Anche la vita può allettarci con le sue lusinghe a volgere le spalle all’amore di Dio ed essere quindi un pericolo. Persino la vita calma e innocua, non meno della vita agiata e pericolosa, può diventare una realtà ostile, proprio perché separa dall’amore di Cristo. I cristiani non devono vivere per se stessi o per il mondo, ma devono vivere e morire per il Signore (Rm 14,7-9). Al secondo posto si trovano gli angeli e i principati, ed entrambi sono concepiti quali potenze del mondo del demonio. A queste potenze appartengono anche le forze cosmiche delle specie più svariate.

Queste forze e potenze vogliono separare i cristiani dall’amore di Cristo. Anche il tempo presente e futuro e lo spazio sono una continua tentazione e minaccia che vuole strapparci dall’amore di Dio in Cristo.

V. 39 - L’altezza e la profondità dell’universo designano tutto il creato. Tutte queste potenze che circondano e sollecitano l’uomo non possono separarci dall’amore che Dio ci ha manifestato e continua a manifestarci in Gesù Cristo.