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6) La disobbedienza di Israele (10,14-21).

14Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? 15E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!
16Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? 17La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo. 18Ora io dico: Non hanno forse udito? Tutt’altro:
per tutta la terra è corsa la loro voce,
e fino ai confini del mondo le loro parole.
19E dico ancora: Forse Israele non ha compreso?
Già per primo Mosè dice:
Io vi renderò gelosi di un popolo che non è popolo;
contro una nazione senza intelligenza
susciterò il vostro sdegno.
20Isaia poi arriva fino ad affermare:
Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano,
mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me,
21mentre di Israele dice: Tutto il giorno ho steso le mani
verso un popolo disobbediente e ribelle!

V. 14 - Se Cristo è la fine della legge e quindi di una via legale di salvezza e diventa lui stesso giustizia per chiunque crede professa e invoca, allora perché Israele non ha accettato questo Cristo? Paolo si chiede se i messaggeri del vangelo non siano stati inviati a Israele. In sostanza la lunga domanda chiede: dunque non si è adempiuta la Scrittura che parlava di coloro che evangelizzavano cose buone, cioè degli evangelizzatori della salvezza messianica a Israele? Ma la domanda non è ancora finita.

V. 15 - Come farà Israele a giungere alla fede e all’invocazione di Dio se nessuno gli annuncia il vangelo? Ma la Scrittura attesta che ciò è avvenuto. Si cita Is 52,7. Israele ha ricevuto il vangelo dai messaggeri inviati da Dio. Essi giunsero puntualmente.

Vv. 16 - 17 - Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Nel vangelo si manifesta e si trova la giustizia di Dio, alla quale ci si deve affidare con obbedienza per essere salvati. Ma proprio sotto questo aspetto la maggioranza d’Israele ha fallito. Non tutti hanno obbedito al vangelo. E anche questo è già annunciato nella profezia di Is 53,1. Così è portato a termine il corso dei pensieri e viene data la risposta. La fede dipende dall’ascolto della parola che è Cristo annunciato dagli evangelizzatori.

Vv. 18 - 19 - Non si può contestare che Dio ha inviato messaggeri e che il vangelo è stato annunciato a tutto il mondo e quindi anche a Israele. Israele ha udito e ha capito il vangelo, l’ha conosciuto ma non riconosciuto. Lo dimostra il fatto che Israele si indurì di fronte al vangelo e contro coloro che l’hanno accolto.

Vv. 20 - 21 - Nelle citazioni profetiche di Isaia viene data una seconda risposta alla domanda se Israele non ha capito. Dio si è fatto cercare e trovare da coloro che non lo cercavano. Ma ciò significa che Dio si è nascosto a Israele e si è rivolto ai pagani; Dio non si prende a cuore gli zelatori della legge, ma i senza-legge, perché egli è un Dio degli àtheoi, dei senza Dio (Ef 2,12). Certo, egli non abbandona Israele. Anzi, proprio a Israele egli dice di aver continuamente steso le sue mani verso di lui, benché fosse un popolo disobbediente e recalcitrante. Nei confronti d’Israele Dio non è soltanto pronto ad accoglierlo, ma desidera profondamente di attirarlo a sé. Ma Israele non ha accettato e continua a non accettare la giustizia offerta da Dio (Rm 10,3). E se Isaia è costretto a dire ciò, per il nostro contesto risulta che Israele ha ben capito. La ragione del fallimento d’Israele è una sola: è un popolo disobbediente e nettamente ribelle a Dio. A differenza di Israele i pagani hanno una cosa sola, ma è proprio quella necessaria: la fede. Ciò che vale è soltanto la fede e la giustizia di Dio in Gesù Cristo e nel vangelo. Israele invece cerca la prestazione e una giustizia propria. Così di fronte a Dio ha fallito. Paolo mostra al giudeo le cause della sua caduta. Egli non ha fede, e così rinuncia alla giustizia e alla salvezza. La caduta della comunità ebraica non confuta il vangelo di Paolo, ma lo conferma. Per coloro che credono il vangelo è salvezza, per coloro che non credono è occasione di caduta; per questo l’incredulità d’Israele è una prova della potenza salvifica della fede.

Ma questa caduta è una riprovazione totale e definitiva d’Israele? Paolo riprende questo argomento nel cap. 11 per rivelare definitivamente il mistero d’Israele.

7) Il resto d’Israele scelto per grazia e l’indurimento dei rimanenti (11,1-10).

1Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. 2Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele?
3Signore, hanno ucciso i tuoi profeti,
hanno rovesciato i tuoi altari
e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita.
4Cosa gli risponde però la voce divina?
Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal.
5Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia.
6E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.
7Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti; gli altri sono stati induriti, 8come sta scritto:
Dio ha dato loro uno spirito di torpore,
occhi per non vedere e orecchi per non sentire,
fino al giorno d’oggi.
9E Davide dice:
Diventi la lor mensa un laccio, un tranello
e un inciampo e serva loro di giusto castigo!
10Siano oscurati i loro occhi sì da non vedere,
e fa’ loro curvare la schiena per sempre!

Alla domanda se tutto Israele è stato ripudiato da Dio, Paolo risponde: Non l’intero Israele è stato ripudiato da Dio. Lui stesso, Paolo, appartiene a Israele. E la Scrittura dice che c’è al presente un resto di Israeliti eletti per grazia. Gli altri però si sono ostinati e induriti.

In 11,11-24 viene data una ulteriore risposta: Israele non è caduto per sempre, ma la salvezza che, a causa della sua caduta, è arrivata ai pagani, deve stimolare il suo fervore. In 11,25-32 Paolo comunica il mistero: tutto Israele nel futuro escatologico verrà salvato. La conclusione di tutto il brano è costituita da una lode unica alla sapienza di Dio nelle sue vie imperscrutabili (11,33-36).

V. 1 - Con la domanda viene introdotta una possibile conseguenza che si potrebbe trarre dalla disobbedienza d’Israele. Questa conseguenza viene espressa citando il Sal 94,14. Il Sal 94,14 nega la riprovazione d’Israele e quindi è chiaro che alla domanda posta ora da Paolo si deve rispondere negativamente. È vero che Dio ha indurito il popolo disobbediente, però non l’ha ripudiato, quindi non l’ha respinto definitivamente. Se Dio avesse voluto ripudiare Israele, avrebbe dovuto farlo anche con Paolo, che è un israelita genuino.

V. 2 - Questo verso ripete e asserisce: Dio non ha ripudiato il suo popolo.

Dio lo ha da sempre conosciuto e quindi accettato. Non può respingerlo definitivamente. Ciò è asserito anche dalla Scrittura (11,3-5). Essa non parla solo di Elia sul monte Oreb, ma ha un significato anche per l’Israele attuale. Paolo presenta la sezione in cui si parla del lamento di Elia nei confronti d’Israele infedele e della risposta che Dio dà in 1Re 19,9-18. Il lamento di Elia viene presentato come un interpellare Dio, un accusare presso Dio, contro Israele.

Vv. 3 - 4 - Della lagnanza citata, per Paolo è di particolare importanza il terzo membro del v.3: e sono rimasto io solo. Già a quei tempi sembrava che di tutto Israele fosse rimasta una persona sola e quindi anche un solo testimone che Dio non ha ripudiato il suo popolo. Si potrebbe considerare Paolo come un secondo Elia, perché anch’egli è rimasto come unico Israelita; ma (v.4) come dice l’oracolo profetico, Dio si è scelto settemila uomini che non rendevano culto a Baal.

V. 5 - Dio ha conservato per sé questi settemila, e non soltanto Elia, perché sono rimasti fedeli a lui o a Israele. I settemila uomini sono per Paolo una cifra simbolica indicante il resto d’Israele. Per questo Paolo può aggiungere: Così anche attualmente si è formato un resto in base all’elezione della grazia. In questo resto creato per grazia si dimostra che Israele rimane eletto.

V. 6 - Da questo risulta quanto sia importante per Paolo precisare che è la grazia di Dio a far sì che Israele sopravviva nel suo resto. La dimostrazione che Israele non è totalmente riprovato è frutto della grazia e non delle opere della legge. La grazia esclude le opere della legge, considerate come esecuzione della legge. Ma chi è quel resto che deve la propria esistenza alla grazia ed è segno che Dio non ha ripudiato Israele? Sono i membri di Israele divenuti credenti, i giudeo-cristiani.

Il v.7 fa da riepilogo, e l’argomentazione si ricollega a 9,31. Non Israele, ma la parte scelta ha ottenuto ciò a cui Israele aspirava.

V. 7 - Il verbo al presente indica che l’aspirazione d’Israele cerca ancora di raggiungere il suo scopo, cioè la giustizia, anche attualmente. In virtù di tale aspirazione alla giustizia, anche adesso Israele è risoluto ad attenersi alla giustizia, anche adesso Israele è risoluto ad attenersi alla via della prestazione. Ma non ha ottenuto mai ciò a cui ancora aspira. Mentre l’hanno ottenuto gli eletti per grazia. Ma il v.7 non è solo conclusione dell’argomento fatto finora, bensì anche l’inizio di un nuovo pensiero: Ma i rimanenti vennero induriti. La luce dell’elezione ha un’ombra cupa accanto a sé.

Vv. 8 - 9 - Quali effeti eserciti questo indurimento Paolo non lo dice con parole proprie, ma con citazioni dall’AT. Non è lui che parla d’Israele in questo modo, ma un’autorità superiore riconosciuta anche da Israele, la Scrittura. La prima citazione rappresenta una combinazione di Dt 29,3 con Is 29,10, mentre la seconda cita il Sal 69,22-23 e il Sal 35,8. L’indurimento d’Israele (ad eccezione del resto o della parte eletta) consiste dunque nel fatto che Dio diede loro uno spirito di torpore o di apatia. La conseguenza di tale stordimento è la cecità e la sordità d’Israele fino al giorno d’oggi, quindi fino al presente. Ma anche Davide, in quanto ritenuto autore dei Salmi, predice l’ostinazione di questo Israele (Vv.9-10), in quanto ciò che egli augura ai suoi nemici (Sal 69,22-23; 35,8) è accaduto a Israele. Quindi, per Paolo, l’augurio di Davide era destinato all’Israele incredulo.

V. 10 - Il significato di torpore viene enunciato così: Si oscurino i loro occhi così da non vedere e il loro dorso s’incurvi per sempre.

Questo Israele cieco e sordo, intontito dal sonno e apatico, continuerà a piegare il dorso: un’immagine che indica la sua condizione di schiavo alle dipendenze dei popoli. Il Messia è venuto, ma Israele non si avvede di nulla. Il messaggio di Dio, in cui si rivela la sua giustizia come offerta della salvezza, viene proclamato. Israele non sente nulla; così è continuamente in pericolo e insicuro. Il suo dorso deve curvarsi, sempre di nuovo, sotto il giogo dei popoli.

8) Il senso della caduta d’Israele (11,11-24).

11Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. 12Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!
13Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. 15Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?
16Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. 17Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, 18non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te.
19Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! 20Bene; essi però sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi! 21Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!
22Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti; bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso. 23Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà, saranno anch’essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo! 24Se tu infatti sei stato reciso dall’oleastro che eri secondo la tua natura e contro natura sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!

Qual è il senso del giudizio di Dio sull’Israele incredulo? Questo è il quesito conduttore di questa nuova sezione, il cui sviluppo logico non è facilmente comprensibile. I Vv.11-12 lasciano intendere che la caduta d’Israele ha un significato di salvezza per il cosmo e che la sua completa reintegrazione sarà ancora più importante.

V. 11 - Il senso segreto della caduta d’Israele come l’ha presente Dio, non è quello che Israele fallisca definitivamente, ma che i popoli pagani siano salvati, rendendo così i giudei gelosi e stimolandoli alla conversione. Hanno incespicato perché, mediante la conversione dei pagani diventati credenti, divenissero anch’essi inquieti per Dio. Quindi il senso complessivo è il seguente: Dio non abbandona a terra l’Israele caduto. Questi ha fatto un passo falso ed è caduto, ma da ciò ne è venuta la salvezza ai pagani. E ciò dovrebbe far ridiventare Israele geloso del suo Dio e poi portarlo alla conversione. Dio continua a prendersi cura d’Israele.

V. 12 - Per l’incredulità degli israeliti il cosmo, cioè tutti i popoli che abitano la terra, ha ottenuto la pienezza escatologica della salvezza. La loro riprovazione è riconciliazione del cosmo, cioè dei popoli pagani. Già in questo verso Paolo prevede, al di là del primo effetto della disobbedienza d’Israele, cioè la salvezza dei pagani, il frutto escatologico della loro conversione.

V. 13 - Ora Paolo si rivolge direttamente ai cristiani provenienti dal paganesimo per impedire che si propaghino tra loro dei malintesi. Come prima cosa Paolo esalta questo suo servizio o incarico, che è anche la sua vocazione da parte di Dio (Gal 2,7 ss.): essere apostolo dei popoli pagani.

V. 14 - Egli esalta il suo servizio di apostolo per rendere Israele geloso e salvare alcuni di loro. Il ministero dell’apostolo per i pagani finisce per servire ancora ai giudei per suscitare in loro la gelosia e, di conseguenza, salvarne qualcuno.

V. 15 - Compare ancora l’idea di Dio che domina e sceglie con tutta libertà, che salva, elegge, riaccetta e raccoglie Israele per effetto della sua misericordia senza limiti. Se la riprovazione d’Israele è stata la salvezza dei popoli pagani, la loro accettazione da parte di Dio sarà la risurrezione dei morti, la riconciliazione finale universale, la salvezza messianica escatologica.

V. 16 - Paolo fa un duplice paragone. Il primo è desunto dal rituale giudaico (Nm 15,17-21) secondo cui gli israeliti sono tenuti a offrire a Jahvè ogni anno una piccola parte della prima pasta lievitata del nuovo raccolto del grano come sacrificio di prelievo. Il secondo paragone si riallaccia probabilmente a raffigurazioni d’Israele quale olivo (Ger 11,16). Qui si parla dei singoli israeliti intesi come rami dell’albero.

La prima parte della pasta e la radice sono i padri d’Israele: Abramo, Isacco e Giacobbe (cfr. Rm 4,1 ss; 9,5 ss; 11,28; 15,8). Essi, come dono delle primizie consacrate a Dio e come radice dell’olivo-Israele, garantiscono la sua santità complessiva e la santità dei singoli membri d’Israele. Ciò rende comprensibile la speranza contenuta nei Vv.12 e 15.

In seguito, sulla base dell’immagine dell’olivo, questo argomento viene più dettagliatamente sviluppato, tenendo presenti l’Israele disobbediente che ha inciampato e si è indurito e i pagani divenuti credenti.

Vv. 17 - 18 - Paolo si rivolge ai cristiani provenienti dal paganesimo e li ammonisce a non vantarsi nei confronti dei giudei che sono stati esclusi. Essi come rami di olivo selvatico furono innestati fra i rami dell’olivo autentico e sono diventati partecipi della pinguedine dell’olivo autentico. I frutti dell’olivo autentico contengono grasso, mentre quelli dell’oleastro, se si spremono, schizzano solo acqua (Maier).

Fuor di metafora, il v.17 significa: il pagano ha avuto parte alla benedizione, ossia alla promessa e alla fede di Abramo e dei padri d’Israele. Non la chiesa formata da ex-pagani ha usurpato Israele coi suoi padri; ma Israele nei suoi padri ha accolto i pagani in sé e ha concesso loro di partecipare alla promessa che sta alla base di Israele. La chiesa sorta dal paganesimo è uno straniero accolto nel vero Israele. È possibile vantarsi non solo, come fa il giudeo, della propria origine, del segno della grazia di Dio che è la circoncisione, del possesso della legge, delle proprie prestazioni, ma anche - ed è il caso del cristiano proveniente dal paganesimo - della vocazione a popolo di Dio, intesa come conferma dei propri privilegi e dei meriti personali. Ci si può vantare egoisticamente anche della fede, come se fosse un’opera propria e un merito. Se gli etnico-cristiani si gloriano nei confronti d’Israele, dovrebbero pensare che questo atteggiamento è del tutto infondato. Infatti non sono loro a portare la radice che è santa, ma i padri d’Israele reggono anche la chiesa formata da ex-pagani.

Vv. 19 - 21 - Il motivo della resezione dei rami è l’incredulità, quello dell’innesto è la fede. La fede è l’unica cosa che il cristiano può esibire per la sua salvezza. A lui non sono stati concessi né padri, né benedizione paterna, né promesse fatte ai padri, né alleanze stipulate coi padri, come invece sono stati concessi a Israele. Egli ha ottenuto soltanto di partecipare alla benedizione dei padri d’Israele. E questa partecipazione è resa possibile solo dalla fede. La fede è in pericolo se diventa presunzione religiosa, magari verso Israele che ha inciampato.

La boria religiosa non è fede. La fede c’è soltanto nel caso che Dio sia rispettato. Infatti come farà Dio a risparmiare i pagani, se non ha risparmiato i giudei che sono i rami naturali? Il pagano che perde la fede non è più nulla. Il giudeo che non crede in Cristo continua tuttavia ad appartenere all’olivo autentico di Dio. Le parole di Paolo trovano una tremenda conferma nel presente. I popoli cristiani che perdono la fede precipitano effettivamente a un tale punto di imbarbarimento e inconsistenza, che per i giudei è impossibile (Peterson).

Vv. 22 - 24 - Improvvisamente Paolo si riporta ancora al tema principale della futura salvezza d’Israele. All’etnico-cristiano, che alla vista dell’Israele incredulo non deve insuperbirsi, ma temere Dio, viene ora fatto osservare che in Dio vi sono due proprietà: la bontà e la severità.

Il cristiano ex-pagano dev’essere memore dell’una e dell’altra. La bontà di Dio - schiusa su di lui mediante il vangelo accolto nella fede - da parte del credente è sempre messa in pericolo. La fede dev’essere continuamente rinnovata e conservata. La minaccia del v.21, che Dio non risparmierà neppure il pagano, diverrà realtà, se l’etnico-cristiano non persevera nella fede, cioè nella bontà di Dio. Inoltre è stato disposto da Dio che i giudei, se non persisteranno nella loro incredulità, ma verranno alla fede, saranno di nuovo accolti e innestati nell’Israele dei padri. Anche l’indurimento dei singoli giudei non è irreversibile.

Il v.24 dice al pagano che egli è stato reciso dall’olivo selvatico e contro natura è stato inserito nell’olivo autentico. Ma allora il giudeo, che per natura appartiene all’olivo autentico, a maggior ragione può essere nuovamente innestato. Se i giudei rinunciano alla loro incredulità nei riguardi di Cristo, saranno nuovamente inseriti nell’olivo (Peterson).

 9) La salvazione definitiva d’Israele (11,25-32).

25Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. 26Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto:
Da Sion uscirà il liberatore,
egli toglierà le empietà da Giacobbe.
27Sarà questa la mia alleanza con loro
quando distruggerò i loro peccati.
28Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, 29perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, 31così anch’essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch’essi ottengano misericordia. 32Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!

Questo brano passa dallo stile della diatriba a quello dell’insegnamento teologico di rivelazione e comprende in primo luogo la comunicazione di un mistero seguita da una propria deduzione e dalla prova scritturistica (Vv.25-27), in secondo luogo la spiegazione di questo mistero in riferimento agli avvenimenti della storia della salvezza presso pagani e giudei, con la conclusione riassuntiva (Vv.28-32).

V. 25 - Alla comunità di Roma Paolo vuole comunicare questo mistero. Questo mistero non proviene dalle sue conoscenze e da quelle dei fratelli, ma è rivelazione del decreto divino, la sola in grado di concedere la vera conoscenza. Non si può parlare di Israele se non si accetta la rivelazione del mistero. Tutte le nozioni storiche, sociologiche e psicologiche riguardanti questo popolo non sono sufficienti, anzi inducono in errore. Per se stesso Israele è, in definitiva, un mistero.

L’indurimento parziale d’Israele durerà fino a che la totalità dei pagani, determinata da Dio, sarà entrata nella salvezza. Dopo di che tutto Israele sarà salvato.

Vv. 26 - 27 - Che Paolo abbia interpretato giustamente il mistero d’Israele e che i cristiani non debbano vedere il giudeo solo storicamente lo dimostra la Scrittura stessa in Is 59,20-21 e 27,9. Stando alla composizione paolina delle citazioni, il profeta conferma la dichiarzione dell’apostolo sul mistero d’Israele nel senso che Paolo in primo luogo associa la salvezza d’Israele con la venuta del Messia Gesù da Sion, dalla Gerusalemme di lassù (Gal 4,26), e in secondo luogo lo vede consistere nel fatto che il Messia toglierà da Israele le empietà e quindi proprio l’incredulità; infine che Dio, per mezzo del Messia Gesù, concluderà con Israele un nuovo patto. Questa è una nuova interpretazione dell’aspettativa giudaica, cioè del pentimento finale di Israele. È significativo che Is 59,20 fosse interpretato in senso messianico anche dai rabbini (Sanh. b. 98a,19). Il mistero di cui Paolo parla dicendo che Israele nella sua totalità alla fine sarà salvato, si può interpretare anche teologicamente col ricorso all’insondabile misericordia di Dio.

V. 28 - Questo verso espone anzitutto il rapporto dei giudei con Dio: essi gli sono nemici, ma sono da lui amati. Essi sono nemici di Dio per il contegno che tengono nei confronti del vangelo. Ma essi hanno qualcosa che i pagani non hanno o hanno solo in quanto cristiani: ad essi appartengono i padri per amore dei quali Dio ama l’intero Israele.

V. 29 - Grazie ai suoi padri Israele rimane amato. Infatti i doni della grazia di Dio e la sua chiamata sono irrevocabili. Dio è fedele (3,3), e la fedeltà di Dio mantiene il suo patto, fa sì che la sua fedeltà al patto si eserciti irrevocabilmente nonostante l’infedeltà d’Israele e che il suo amore per Israele nei suoi padri non cessi mai. Proprio per questo, tale fedeltà avrà anche l’ultima parola su tutto Israele, e la sua ultima parola è la salvezza d’Israele.

Vv. 30 - 31 - Questi due versi hanno lo scopo di mettere in risalto ancora una volta, riassuntivamente, la misericordia di Dio, che in definitiva dispone ogni avvenimento, e l’irrevocabile fedeltà di Dio a Israele. La verità della tesi del v.29 la si riconosce dalle sorti dei popoli e di Israele, che corrispondono l’una all’altra e che, ciascuna per sé e poi unitamente, mostrano la misericordia di Dio, dalla quale sono guidate.

La disobbedienza dei pagani (Rm 1,18 ss; Ef 2,2; 5,6) ha trovato risposta e fine nella misericordia di Dio, quando Israele disobbediente non accettò il vangelo. Analogamente si deve parlare dei giudei, i quali, al tempo di Gesù, sono diventati disobbedienti. La disobbedienza dei giudei tornò a profitto della misericordia usata da Dio con i pagani. Il vangelo passò dai giudei ai pagani. Ma ciò avvenne affinché ora i giudei trovassero misericordia. Ai pagani nel periodo della loro lontananza da Dio corrispondono i giudei nel periodo della loro lontananza da Cristo. Come là all’inizio sta una fase di disobbedienza (Rm 1,18 ss) aggravata dal giudizio di Dio che provoca l’ostinazione (1,24.26.28), la quale poi nel tempo della salvezza viene sostituita da un’epoca di grazia (Rm 9,25-30; 10,19-20) provocata dall’incredulità dei giudei che non accettarono il vangelo, così anche Israele deve passare attraverso una fase di disobbedienza, ossia di resistenza al vangelo, per diventare così maturo per il prodigio della misericordia divina.

V. 32 - Questo verso è riassunto e conclusione. La legge dell’alternanza di disobbedienza e misericordia, che è legge di Dio, è universale. Paolo considera la sorte dell’umanità al completo: è una disobbedienza universale. Ma tale chiusura universale di giudei e pagani nella disobbedienza avviene soltanto perché si realizzi il progetto di salvezza di Dio che si manifesta nell’usare misericordia a tutti. Così l’ultima parola per l’umanità e quindi anche per Israele è misericordia: il mistero della grazia che alla fine vincerà.

10) Esultanza di lode a Dio (11,33-36).

33O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
34Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero
del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?
35O chi gli ha dato qualcosa per primo,
sì che abbia a riceverne il contraccambio?
36Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.

Le argomentazioni dei Cap. 9-11 si concludono con una specie di inno. Queste esclamazioni di confessione e di giubilo sono state poste da Paolo tra due testi dell’AT: Is 40,13; Gb 41,3.

V. 33 - Di fronte alla sorte d’Israele, alla sua elezione, alla sua caduta e alla sua salvezza escatologica, ma anche di fronte alla sorte dei pagani, che è intrecciata nel modo più stretto con quella d’Israele, quindi al cospetto dell’agire di Dio che si volge a tutto il mondo e se ne impietosisce, Paolo non può far altro che prorompere nel grido che esalta l’abissale ricchezza, sapienza e scienza dell’amore di Dio. L’essenza di Dio è un insondabile abisso d’amore.

Vv. 34 - 35 - Nessuno ha capito lo Spirito di Dio, i suoi piani e le sue decisioni. Nessuno è consigliere di Dio. A nessuno Dio è debitore di qualche cosa. Le sue vie che egli percorre e fa percorrere, le decisioni giudiziarie che egli prende, sono incomprensibili. Esse vengono stabilite dalla sua abissale ricchezza, sapienza e scienza, di fronte alle quali si può stare soltanto in adorazione, sopraffatti dallo stupore.

V. 36 - Da lui e per mezzo di lui e in vista di lui: queste espressioni indicano Dio come l’origine unica e sempre attuale della creazione dell’universo e di tutta la storia come fonte di ogni evento; come autore e operatore di ogni evento; e, da ultimo, come il fine di tutto ciò che accade e verso il quale ogni cosa è orientata e tende. Non vi è nulla che non sia debitore a Dio, che non rimandi a lui, che non arrivi a lui e non finisca in lui. Questo brano di genere innico conclude appropriatamente con l’amen. In tal modo si concludono tutti gli enunciati dei cap. 9-11 che trattano proprio di questo Dio impenetrabile nelle sue vie, con speciale riguardo alla sua inimmaginabile grazia nei confronti d’Israele e dei pagani.

 

 

IV°
ESORTAZIONE APOSTOLICA
(12,1-15,13)

Col cap. 12 inizia la quarta parte della lettera ai Romani. Essa ha il carattere di esortazione e di incoraggiamento e presenta le conseguenze e le applicazioni alla vita pratica del kerigma.

1) La caratteristica fondamentale della vita cristiana (12,1-2)

1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

V. 1 - Il testo contiene due esortazioni. Questi ammonimenti hanno il senso di una deduzione da quanto precede, specialmente dai cap. 5-8. La frase: Ora io vi esorto, fratelli, attraverso la misericordia di Dio significa che per mezzo di Paolo la misericordia e la pietà di Dio fanno sentire il proprio incoraggiamento e la propria esigenza. Paolo è colui del quale si serve la misericordia di Dio, la quale parla attraverso la parola di lui. L’esortazione apostolica è la chiamata - che richiede, comanda, scongiura e incoraggia - della sempre preveniente misericordia di Dio.

Questa esortazione mira prima di tutto a ottenere che i cristiani offrano i loro corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. Quindi la misericordia di Dio esige e richiede l’offerta di un sacrificio, di un sacrificio corporeo, dell’offerta dell’intera vita della persona. Il corpo è l’uomo nella sua presenza corporea. La misericordia di Dio esige che questo corpo in carne e ossa si doni in sacrificio, che ognuno offra concretamente in sacrificio se stesso. Paolo esorta i cristiani di Roma ad essere al tempo stesso sacerdoti e vittime.

Questo sacrificio è vivente, santo e gradito a Dio perché viene offerto da viventi, santi e graditi a Dio. I viventi sono i battezzati che conducono la nuova vita escatologica sotto l’impulso dello Spirito (Rm 6,1 ss; 8,1 ss). Questi viventi sono anche i santi, che per Paolo significa: i chiamati alla santificazione (1Ts 4,7; 2Ts 2,13), i santificati nel battesimo (1Cor 6,11). Questo sacrificio santo è gradito a Dio. Questa dedizione di se stessi a Dio è il culto razionale, spirituale, morale o mistico, in cui l’uomo si offre come un essere simile a Dio.

V. 2 - Una componente del sacrificio vivente, santo e gradito a Dio è il non conformarsi a questo mondo, il non comportarsi secondo la logica del mondo che non conosce Cristo.

Nei confronti di questo mondo occorre un radicale non conformismo. Il non conformarsi al mondo esige anzitutto non di trasformare il mondo, ma di trasformare se stessi. E questa trasformazione non si compie una sola volta per tutte, ma deve avvenire sempre di nuovo. Questa radicale e fondamentale metamorfosi esistenziale si compie innanzitutto attraverso il rinnovamento del pensiero. Secondo Col 3,10 l’uomo nuovo rivestito nel battesimo viene rinnovato per mezzo di una piena conoscenza in modo da diventare immagine del suo Creatore. Ma nel battesimo viene rinnovato non solo l’essere del cristiano, ma anche il suo modo di esistere. La rinascita nel battesimo è una nuova creazione prodotta dallo Spirito santo che Dio ha riversato abbondantemente su di noi per opera di Gesù Cristo. Questa nuova creazione in Rm 12,2 riguarda il modo di pensare, è un nuovo modo di pensare. La trasformazione sempre nuova del cristiano consiste primariamente nell’incessante rinnovamento del pensiero, del modo di valutare che deve manifestarsi nelle scelte pratiche. Questo modo nuovo di pensare e di valutare sta alla base di tutto il resto. Questo pensiero rinnovato è il modo di pensare proprio della carità. Questa nuova mentalità serve per poter distinguere la volontà di Dio da ogni altra esigenza e decidersi a suo favore. Tale volontà di Dio è la santificazione (1Ts 4,3) e può essere parafrasata con le parole di 1Ts 5,17: Siate sempre lieti, pregate incessantemente, rendete grazie per tutto; questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù per voi. La volontà di Dio che il pensiero rinnovato sa discernere e per la quale esso riesce a decidersi è ciò che è buono e gradito e perfetto. Ma che cosa è vero, giusto e puro? È ciò che i cristiani hanno imparato, ricevuto e udito da Paolo e visto in lui: Ciò che avete imparato, ricevuto e ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare (Fil 4,9).

Il tèleion (= ciò che è perfetto) è il fine da perseguire ininterrottamente (cf. Col 1,28). Solo l’amore rende perfetti (Col 3,14).

Riassumendo: la misericordia divina esorta i cristiani alla vera donazione di sé, al sacrificio vivente, al culto di Dio spirituale, morale, mistico. Per fare ciò occorre una distanza critica e non un conformismo rispetto al mondo presente e una novità nel pensare che dia al cristiano la possibilità di vedere e di fare la volontà di Dio.