LA TENTAZIONE DI RIFIUTARE DIO

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Credente
00martedì 20 aprile 2010 07:54

Ateismo, riflessioni di un credente

L’ateismo è senza dubbio, – aveva  affermato Giovanni Paolo II- uno dei fenomeni più grandi, e bisogna anche dire, il dramma spirituale della nostra epoca (cf. Gaudium et Spes, 19). Inebriato dal turbine delle sue scoperte, assicurato da un progresso scientifico e tecnico apparentemente senza limiti, l’uomo moderno si scopre inesorabilmente messo di fronte al suo destino: “A che scopo andare sulla luna – secondo l’espressione di uno degli uomini di cultura più prestigiosi della nostra epoca -, se è per suicidarsi?” (André Malraux, “Préface” à L’enfant du rire de P. Bockel, Grasset).
Cos’è la vita? Cos’è l’amore? Cos’è la morte? Da quando vi sono uomini che pensano, queste domande fondamentali non hanno cessato di impegnare il loro spirito. Da millenni, le grandi religioni si sono sforzate di fornire le loro risposte. L’uomo stesso, non appare, allo sguardo penetrante dei filosofi, nel suo essere, indissolubilmente “homo faber”, “homo ludens”, “homo sapiens”, “homo religiosus”? E non è a quest’uomo che la Chiesa di Gesù Cristo intende proporre la buona novella della salvezza, portatrice di speranza per tutti, attraverso il flusso delle generazioni e il riflusso delle civilizzazioni?    Ma ecco che, in una gigantesca sfida, l’uomo moderno, dopo il rinascimento, si è eretto contro questo messaggio di salvezza, e si è messo a rifiutare Dio nel nome della sua stessa dignità di uomo. Dapprima riservato a un piccolo gruppo di spiriti, l’“intellighentia” che si considerava come un’élite, l’ateismo è oggi divenuto un fenomeno di massa che investe le Chiese. Molto di più, esso le compenetra dall’interno, come se i credenti stessi, ivi compresi coloro che si rifanno a Gesù Cristo, trovassero in sé una segreta connivenza rovinosa della fede in Dio, nel nome dell’autonomia e della dignità dell’uomo. Si tratta di un “vero secolarismo”, secondo l’espressione di Paolo VI  nella sua esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”:  “Una concezione del mondo per la quale quest’ultimo si spiega da solo, senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio;  Dio divenuto così superfluo e ingombrante. Un tale secolarismo per riconoscere il potere dell’uomo, finisce dunque per sorpassare Dio, e anche per negare Dio” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 55).    Tale è il dramma spirituale del nostro tempo. La Chiesa non saprebbe prenderne parte. Essa intende, al contrario, affrontarlo coraggiosamente, ha detto più volte nel corso del suo pontificato Giovanni Paolo II.   Perché il Concilio è stato inteso al servizio dell’uomo, non dell’uomo astratto, considerato come un’entità teorica, ma dell’uomo concreto, esistenziale, alle prese con i suoi interrogativi e le sue speranze, i suoi dubbi e le sue stesse negazioni. È a quest’uomo che la Chiesa propone il Vangelo. Bisogna dunque che egli lo conosca, di quella conoscenza radicata nell’amore, che apre al dialogo nella chiarezza e nella confidenza tra gli uomini separati dalle loro convinzioni, ma convergenti nel loro stesso amore dell’uomo.  “L’umanesimo laico e profano, ha detto Paolo VI al tempo della chiusura del Concilio, è apparso nella sua terribile statura e ha in un certo senso sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo si è scontrata con la religione – perché ce n’è una – dell’uomo che si è fatto Dio. Che cosa ne è derivato? Uno choc, una lotta, un anatema? Tutto questo poteva capitare, ma non ha avuto luogo. La vecchia storia del samaritano è stata il modello della spiritualità del Concilio” (Paolo VI, Homilia in IX SS. Concilii sessione habita, die 7 dec. 1965: AAS 58 [1966] 55).  Papa  Giovanni Paolo II  dalla tribuna delle Nazioni Unite, a New York, il 2 ottobre 1979, ha espresso questo augurio: “Il confronto tra la concezione religiosa del mondo e la concezione agnostica che è uno dei segni dei tempi, potrebbe conservare delle dimensioni umane leali e rispettose, senza portare danno ai diritti essenziali della coscienza di ogni uomo o di ogni donna che vive sulla terra” (Giovanni Paolo II, Allocutio ad Nationum Unitarum legatos, 20, die 2 oct. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 538).  Tale è la convinzione del nostro umanesimo universale, che ci porta anche davanti a coloro che non condividono la nostra fede in Dio, in nome della loro fede nell’uomo – ed è questo il tragico fraintendimento da dissipare.  A tutti, dobbiamo  dire con fervore: anche noi, quanto e più di voi, se ciò è possibile, abbiamo rispetto dell’uomo. Così noi vogliamo aiutarvi – diceva  Giovanni Paolo II-  a scoprire e a condividere con noi la gioiosa novella dell’amore di Dio, di quel Dio che è la sorgente e il fondamento della grandezza dell’uomo, egli stesso figlio di Dio, e divenuto nostro fratello in Gesù Cristo.  Il fenomeno dell’ateismo  infatti ci assale da tutte le parti: dall’oriente in particolare,  e dall’occidente, dai paesi socialisti ai paesi capitalisti, dal mondo della cultura a quello del lavoro. Nessuna età della vita vi sfugge, dalla giovane adolescenza in preda al dubbio, alla vecchiaia aperta allo scetticismo, attraverso i sospetti e i rifiuti dell’età adulta. E non vi è nessun continente che ne è risparmiato. E questo che ha condotto Paolo VI,  a erigere in seno alla Curia romana, a fianco del segretariato per l’unità dei cristiani e per i non cristiani, un altro organismo votato, per vocazione, allo studio dell’ateismo e al dialogo con i non credenti (cf. Paolo VI, Regimini Ecclesiae Universae, die 15 aug. 1967: AAS 59 [1967] 920; Gaudium et Spes, 19-21 et 92). Infatti deve essere chiaro agli occhi di tutti che la Chiesa vuole essere in dialogo con tutti, ivi compresi coloro che si sono allontanati da essa e la rifiutano, tanto nelle loro convinzioni affermate e decise che nei loro comportamenti decisi e perfino militanti. Gli uni e gli altri del resto sono intimamente implicati. Le motivazioni suscitano l’azione. E l’agire, a sua volta, modella il pensiero.  ” Così è con riconoscenza che io accolgo – affermava  Giovanni Paolo II-  le vostre riflessioni, per integrarle nel cammino pastorale della Chiesa in direzione di tutti coloro che, a titoli diversi, e in molti modi, certo, si rifanno poco o tanto all’ateismo multiforme del nostro tempo. Cosa c’è infatti all’apparenza di comune tra paesi in cui l’ateismo teorico, si potrebbe dire, è al potere, e altri al contrario la cui neutralità ideologica professata ricopre un vero ateismo pratico? Senza dubbio la convinzione che l’uomo è, da sé solo, il tutto dell’uomo (cf. Giovanni Paolo II, Homilia ad sacrorum alumnos in Seminario “Issy-les-Moulineaux” habita, die 1 iun. 1980: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 1594ss). Certo, già il salmista andava ripetendo: “Insensati, coloro che dicono che non vi è alcun Dio” (Sal 14). E l’ateismo non è fenomeno d’oggi. Ma era come riservato alla nostra epoca di farne la teorizzazione sistematica, indebitamente pretesa scientifica, e di metterne in opera la pratica su scala di gruppi umani e anche di importanti paesi.   E nonostante ciò, come non riconoscerlo con ammirazione, l’uomo resiste davanti questi assalti ripetuti e questi fuochi incrociati dell’ateismo pragmatico, neopositivista, marxista , psicoanalitico, esistenzialista, strutturalista, nietzchiano ecc. L’invasione delle pratiche e la destrutturazione delle dottrine, non impediscono, ma al contrario, perfino anche fanno sorgere, al cuore stesso dei regimi ufficialmente atei, come in seno a società chiamate consumistiche, un innegabile risveglio religioso. In questa situazione contrastante, c’è una vera sfida che la Chiesa di Benedetto XVI  deve affrontare, e un impegno gigantesco che deve realizzare, e per il quale essa ha bisogno della collaborazione di tutti i suoi figli: rendere di nuovo cultura la fede nei diversi spazi culturali del nostro tempo, reincarnare i valori dell’umanesimo cristiano.  Non è una richiesta pressante degli uomini e delle donne del terzo millennio  che, perfino disperatamente e come a tentoni, ricercano il senso del senso, il senso ultimo? A dispetto delle loro differenze di origine e di orientamento, le ideologie moderne si incontrano al crocevia dell’autosufficienza dell’uomo, senza che alcuna di esse riesca a colmare la sete di assoluto che lo attanaglia. Perché, “l’uomo supera infinitamente l’uomo”, come notava Pascal nei suoi “Pensieri”. È perciò che, dalla troppa sicurezza delle sue certezze, come dal vuoto delle sue domande, sempre risorge l’istanza di questo infinito di cui egli non può allontanare da sé l’immagine, anche quando egli la fugge: “Tu eri dentro di me. E io ero fuori da me stesso”, confessava già sant’Agostino (S. Agostino, Confessiones, X,27).   Nella sua enciclica “Ecclesiam Suam”, Paolo VI s’interrogava su questo fenomeno, vedendovi la via di un dialogo di salvezza: “Le ragioni dell’ateismo, impregnate di ansietà, colorate di passione e di utopia, ma spesso anche generose, ispirate da un sogno di giustizia e di progresso, tese verso finalità d’ordine sociale divinizzate: tante succedanee dell’assoluto e del necessario… Gli atei, noi li vediamo anche a volte mossi da nobili sentimenti, disgustati dalla mediocrità e dall’egoismo di tanti mezzi sociali contemporanei, e in grado di improntare al nostro Vangelo delle forme e un linguaggio di solidarietà e di compassione umana: saremo noi un giorno capaci di ricondurre alle loro vere origini, che sono cristiane, queste espressioni di valori morali?” (Paolo VI, Ecclesiam Suam, die 6 aug. 1964, Typ. Pol. Vat., pp. 66-67.). ” L’ateismo – annotava  Giovanni Paolo II – proclama  la necessaria scomparsa di ogni religione, ma è esso stesso un fenomeno religioso. Non ne facciamo, pertanto, un credente che si ignora. E non riconduciamo quello che è un dramma profondo a un fraintendimento superficiale. Davanti a tutti i falsi dèi che rinascono senza posa dal progresso, dal divenire, dalla storia, sappiamo trovare il radicalismo dei primi di fronte agli idolatri del paganesimo antico, e ridire con san Giustino: “Certo, noi lo confessiamo, noi siamo gli atei di questi pretesi dèi” (S. Giustino, Apologia I, VI, n. 1).”   Siamo dunque, in spirito e verità, dei testimoni del Dio vivente, portatori della sua tenerezza di padre al vuoto di un universo rinchiuso su se stesso e oscillante dall’orgoglio luciferino alla disperazione disingannata. Come in particolare non essere sensibili al dramma dell’umanesimo ateo, di cui l’ateismo e più precisamente l’anticristianesimo, schiaccia la persona umana che esso aveva voluto liberare dal pesante fardello di un Dio considerato come un oppressore? “Non è vero che l’uomo non possa organizzare la terra senza Dio. Quel che è vero, è che, senza Dio, egli non può in fin dei conti che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano” (Henry de Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Spes, 1944, p. 12; Paolo VI, Populorum Progressio, 42). A sei  decenni di distanza, ciascuno può riempire queste indicazioni premonitrici di padre de Lubac, del peso tragico della storia della nostra epoca. Quale invito a ritornare al cuore della nostra fede: “Il redentore dell’uomo Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia”(Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 1).
Il crollo del deismo, la concezione profana della natura, la secolarizzazione della società, la spinta delle ideologie, il relativismo, l’emergenza delle scienze umane, le rotture strutturaliste, il ritorno dell’agnosticismo, e il crescere del neopositivismo tecnicistico non sono tante provocazioni per il cristiano a ritrovare in un mondo vecchio tutta la forza della novità del Vangelo, sempre nuovo, sorgente inesauribile di rinnovamento:·“Omnem novitatem attulit, semetipsum afferens?” E san Tommaso d’Aquino, a undici secoli di distanza, prolungava il motto di sant’Ireneo: “Christus initiavit nobis viam novam” (S. Tommaso, Summa Theologiae, I-IIae, q. 106, a. 4, ad 1).  È al cristiano che spetta di darne testimonianza. Egli porta certo questo tesoro in vasi di argilla. Ma non per questo egli è meno chiamato a porre la luce sul candelabro, affinché essa rischiari tutti coloro che sono nella casa. È anche il ruolo della Chiesa, della quale il Concilio ci richiamava che essa è portatrice di colui che, solo, è “lumen gentium”. Questa testimonianza deve essere in una volta una testimonianza del pensiero e una testimonianza della vita. Quanti battezzati sono divenuti estranei a una fede che forse non hanno posseduto in se stessi veramente perché nessuno l’aveva loro ben insegnata! Per svilupparsi, il seme della fede ha bisogno  come piu’ volte ha affermato papa Benedetto XVI  in quasi cinque  anni di Pontificato di essere nutrito della parola di Dio, dei sacramenti, di tutto l’insegnamento della Chiesa e questo in un clima di preghiera. E, per raggiungere gli spiriti guadagnando i cuori, bisogna che la fede si presenti per ciò che essa è, e non sotto falsi rivestimenti. Il dialogo della salvezza è un dialogo di verità nella carità.   Oggi, per esempio, le mentalità sono profondamente impregnate di metodi scientifici. Ora una catechesi insufficientemente informata della problematica delle scienze esatte come delle scienze umane, nella loro diversità, può accumulare ostacoli in una intelligenza, al posto di aprirvi il cammino all’affermazione di Dio. Ed è a  filosofi e teologi, che Benedetto XVI  si  rivolge: cercate le vie per presentare il vostro pensiero in modo che sia di aiuto agli scienziati nel riconoscere la validità della vostra riflessione filosofica e religiosa. Perché ne va della credibilità, perfino della validità di questa riflessione, per molti spiriti influenzati, anche a loro insaputa, dalla mentalità scientifica con cui vengono a contatto mediante i mass-media. Di fronte, più che mai, al dramma dell’ateismo, la Chiesa intende oggi rinnovare il suo sforzo di pensiero e di testimonianza, nell’annuncio del Vangelo. Quando uno sciame di domande assedia lo spirito dell’uomo in preda alla modernità, il mistero dimora al di là dei problemi. E, come il Concilio Vaticano II ci ha insegnato, “il mistero dell’uomo non si chiarisce veramente che nel mistero del Verbo incarnato” (Gaudium et Spes, 22 § 1)”

Coordin.
00sabato 11 settembre 2010 10:17

La purezza del diavolo

Il primo avversario della Chiesa non è l’ateo», perché Satana non dubita di Dio né della sua dottrina. Intervista a Fabrice Hadjadj

di Rodolfo Casadei

Conosce alla perfezione le verità della dottrina cristiana e non ne dubita. È perfettamente casto e non ha mai commesso un peccato di lussuria in vita sua. Dona gratuitamente del suo senza esigere contropartite materiali. Eppure è il nemico assoluto di Dio e dell’uomo, menzognero, omicida e tessitore di inganni. È il diavolo, l’angelo ribelle. Questo ritratto geniale e sconcertante di Satana si trova nelle pagine di La fede dei demoni, l’ultimo libro di Fabrice Hadjadj tradotto in italiano (da Marietti).
Lo scrittore francese parte di qui per sviluppare una tesi suggestiva: l’ateismo e i peccati della carne, frutto dell’ignoranza e della debolezza umana, non sono i mali peggiori. Molto più gravi per le loro conseguenze sono gli spiritualissimi peccati propri del diavolo, soprattutto quando vengono compiuti dai cristiani: superbia, invidia, odio e disprezzo, vizi dello spirito, sono la base delle più grandi sciagure e di permanenti divisioni fra gli uomini. Per questo il diavolo li ispira continuamente. Dopo l’estate italiana dei giudizi sprezzanti distillati da tribune cristiane, delle gare di purezza e di sputtanamenti fra politici, difficile dare torto ad Hadjadj. Il quale indica anche la strategia per respingere l’assalto diabolico: affidarsi all’incarnazione, cioè alla carne di Cristo e alla carne di Maria, prefigurata nel Genesi come la donna che senza sforzo o paura schiaccia il serpente demoniaco sotto il proprio tallone. Contro ogni superbia, imparare da Maria l’apertura alla Grazia. Perché Maria è accoglienza della Parola di Dio che si fa carne, mentre il diavolo è il contrario dell’accoglienza. È orgoglioso, trae tutto da sé e non vuole ricevere.


Fabrice Hadjadj, il diavolo non è ateo, e perciò, lei dice, l’antitesi fondamentale non è quella fra teismo e ateismo, ma quella fra conoscenza e riconoscimento di Dio. Cosa vuol dire?
Anzitutto va notato che il primo riconoscimento di Gesù Cristo come figlio di Dio nel Vangelo non è quello di san Pietro o degli altri apostoli, ma dell’indemoniato di Cafarnao. Nella sinagoga di quella città un indemoniato incontra Gesù e il diavolo che possiede quell’uomo dice: «Io so chi sei tu, il Santo di Dio». Notare questo ci obbliga a rimetterci in discussione, perché forse non abbiamo le idee chiare sull’identità del nemico radicale e della natura della vera lotta: che non è quella contro l’ateo o il libertino, ma contro un’intelligentissima creatura spirituale. Un puro spirito, ovvero uno spirito impuro che è puro spirito. Pertanto non sarà appellandosi alla mera spiritualità che lo si potrà affrontare: quella è una specialità del demonio, che ha per progetto di ridurre il cristianesimo a uno spiritualismo. Lo scopo del mio libro non è soltanto di ricordare che la fede non è mera conoscenza, ma è riconoscimento che anima il cuore; è anche ricordare che la fede non è evasione in un mondo etereo, ma incarnazione. Dio ha voluto donarci la sua Grazia attraverso la carne, ed è nella carne e attraverso la carne che noi lo raggiungiamo. I grandi teologi ce l’hanno spiegato: il primo peccato del diavolo è stata l’invidia, scaturita dal fatto di sapere che il Verbo si sarebbe incarnato. Satana è inorridito all’idea che Colui che era spirito, e dunque aveva una connivenza speciale con gli angeli come lui, potesse farsi carne, e che gli angeli, puri spiriti, avrebbero dovuto adorare la carne, una carne umana.


Lei distingue fra la fede come dono di Grazia, che gli uomini sperimentano, e la fede come perspicacia dell’intelligenza naturale, che attribuisce ai demoni. In cosa sono differenti?
Gli angeli, compresi quelli caduti, hanno un’intelligenza più sviluppata della nostra. A loro i segni dell’agire di Cristo e della Chiesa sono sufficienti per ammettere che c’è qualcosa che viene da Dio. Per quanto attiene alla fede come dono di Dio, la fede che opera attraverso la carità, questa passa attraverso motivi di credibilità, perché l’atto di fede non annulla la ragione, non è un salto nell’assurdo. Ma i motivi ragionevoli non sono sufficienti a costringere l’intelligenza umana alla fede. L’uomo entra in essa attraverso una sorta d’umiltà, di abbandono. Al cuore della fede come dono c’è un atto di amore: non c’è semplicemente l’intelligenza che riconosce un fatto oggettivo, come nel caso dei demoni, ma un’intelligenza che chiama in causa il cuore e implica un atto di volontà. La volontà pone un atto di adesione, di fiducia, in una sorta di penombra. La fiducia, come ogni atto di amore, non si colloca né in piena luce né nelle tenebre, ma in una penombra. Nel Credo noi non diciamo: «Credo che Dio è così e cosà, è onnipotente e creatore». Noi diciamo: «Credo in Dio». Ed è l’“in” del modo accusativo del latino: «Credo in unum Deum». Cioè c’è un movimento per andare verso. Invece i demoni dicono: «Credo Deum», credo Dio. Cioè c’è l’intelligenza ma manca il cuore. E siccome è una fede prodotto delle sole forze del soggetto, è automaticamente orgogliosa. Lo si è visto a Cafarnao: il diavolo dice «io so chi se Tu». La prima parola è “io”.

 

Oggi succede un fatto curioso: la maggioranza della gente non crede nel diavolo come realtà teologica, ma allo stesso tempo è sedotta e intimorita dall’immagine della sua potenza. Film e telefilm propongono in continuazione il tema delle forze malefiche soprannaturali, e tanti si rivolgono a maghi e guaritori convinti di essere vittime di spiriti malvagi. Perché questa contraddizione?
Perché quando si abbandona il giusto rapporto con una realtà, immediatamente si manifestano due errori opposti. L’umanità è entrata nel razionalismo, ma il razionalismo non soddisfa il cuore umano. Di conseguenza si produce una reazione uguale e contraria: l’invasione dell’irrazionale. Il razionalismo ha detto: il Mistero è irrazionale, nessun rapporto con esso è possibile. La conseguenza è stata una reazione che instaura un rapporto ossessivo e anarchico con le forze delle tenebre. E che riconosce la potenza del diavolo, ma non la sua intelligenza: lo raffigura folcloristicamente come un caprone, lo associa ai sacrifici di animali. Ma il diavolo agisce più attraverso la sua intelligenza che attraverso la forza, la sua specialità è provocare due o più derive opposte, è orchestrare quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato “strutture di peccato”: peccati che non sono in rapporto con un’intenzione umana univoca, ma che si creano per l’opposizione di due o più parti. Pensiamo alla Spagna, dove la reazione alle stragi anticristiane è stato il fascismo e da lì tre anni di guerra civile. Pensiamo al trionfo del nulla in tivù: nessuno l’ha deciso a tavolino, eppure si ha l’impressione che qualcuno l’abbia orchestrato. Il fatto è che il diavolo distingue perfettamente l’errore dalla verità, e moltiplica coscientemente gli errori per giocarci. Noi invece, anche quando siamo nell’errore, crediamo di essere nella verità, e ci teniamo. Il diavolo non ci tiene, ed è per questo che è capace di manovrare e di creare strutture che ci spingono a commettere cose che vanno al di là delle nostre intenzioni coscienti.

Lei semina il dubbio anche riguardo a parole feticcio sia del cristianesimo che della modernità come “dono” e “amore”. Lei dice che donare è cosa buona solo a condizione che il dono non nuoccia a chi lo riceve, e che il valore dell’amore dipende dal valore di ciò che si ama. Dunque anche il dono e l’amore possono essere astuzie diaboliche?
A don Luigi Giussani veniva rimproverato di usare poco la parola “amore”, e lui rispondeva che nella nostra cultura era diventata una parola equivoca. Aveva ragione. Oggi viviamo in un’eresia dell’amore. Il primato dell’amore è un’invenzione cristiana, ma il diavolo distorce la cosa così: purché sia amore, tutto è legittimo. Se una donna si innamora di un boa constrictor e desidera sposarlo, fa bene, perché è amore. Nel nome dell’amore, si perde di vista l’oggettività dell’amore. Perché amare non è semplicemente avere dei sentimenti per l’altro, è anche volere il bene dell’altro. Quando amo io debbo chiedermi: “Qual è il bene per l’altro?”. Ciò che conta di più è questa oggettività.

E per quanto riguarda il dono?
Intorno al dono effettivamente si è installata tutta una retorica moderna, dovuta soprattutto alla realtà dell’economia capitalista, per cui il dono appare come un argine alla logica del mercato. Ora, non è il dono in quanto tale ad essere una cosa cattiva, ovviamente, ma la logica del “dono di sé”, perché al centro mette il “sé”. Il punto non è dare se stessi all’altro, il punto è il bene dell’altro. Non devo donare me stesso all’altro, devo ridonare l’altro a se stesso. E ciò implica il Bene. L’ha detto perfettamente Heidegger: «L’amore predispone uno spazio affinché l’altro possa donarsi all’altro, non solo a me che lo amo. E affinché possa essere se stesso, e non è se stesso se non nella sua relazione col bene». La seconda cosa che va sottolineata è che il dono non è mai principio in una creatura. Il proprio di una creatura è di ricevere prima di donare. La creatura non ha l’iniziativa del dono, ce l’ha il Creatore. Come si legge nella lettera di san Giacomo: «Dio ci ha amato per primo». Se si dimentica questo, il dono entra in una logica demoniaca. Il diavolo è uno che vuole dare senza dover ricevere. Accetta la natura con cui Dio l’ha creato, ma rifiuta la Grazia, perché vuole dare da se stesso, con le sue proprie forze. La sua è una posizione di ebrezza e di orgoglio: io non ricevo, io do da me stesso, senza bisogno della Grazia. Il peccato del diavolo e di quanti sono sotto la sua influenza è di voler fare il bene con le sole proprie forze e secondo i propri piani. Pensiamo ai totalitarismi: hanno cercato di dare all’umanità una società perfetta, ma a partire dai propri piani, senza considerare il carattere irriducibile dell’altro, la singolarità di ogni essere umano. Il totalitarismo consiste nel voler dare all’uomo tutto, ma a partire da una teoria, da un’ideologia, e dunque in maniera totalmente riduttiva e soffocante, come si è visto nella storia.

Lei considera due errori opposti di ispirazione diabolica anche la riduzione del cristianesimo a cristianità, cioè a istituzione secolare, e l’opzione di una Chiesa dei pochi e dei puri, che rinuncia programmaticamente a influire politicamente. Cosa bisognerebbe fare per non cadere nella duplice trappola?
Che i due errori siano diabolici si vede da una cosa: un cristianesimo politicamente realizzato cadrebbe nell’orgoglio di sé, così come il ripiegamento su di sé di una piccola Chiesa di gente pura che ha rinunciato al potere provocherebbe un settario orgoglio spirituale. E l’orgoglio, lo sappiamo, è un caratteristico peccato del diavolo. Nel primo caso, la riduzione del cristianesimo a istituzione secolare ci impedirebbe di donare veramente il nostro cuore, ridurrebbe il paradosso cristiano a slogan, trasformerebbe la vocazione a essere martiri in vocazione a essere signori. Nel secondo caso, l’accontentarci di una piccola Chiesa di puri farebbe di noi una setta che guarda la società dall’alto in basso con disprezzo, e che dimentica che Cristo non è venuto per i cristiani, ma per tutti gli uomini.

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