INTRODUZIONE ALL'ANTICO TESTAMENTO

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00lunedì 24 agosto 2015 16:02

LE QUATTRO TRADIZIONI DEL PENTATEUCO


Per molti secoli il Pentateuco e stato considerato come opera di Mosè, scritta integralmente da lui stesso. Ma nel 1753 Jean Astruc (1684-1766), il medico di Luigi XV, stupito del fatto che Dio fosse chiamato sia Yahwè sia Elohim, avanzò l'ipotesi che questo si spiegasse con l'esistenza di due racconti paralleli. Era nata così l'ipotesi documentaria, che subirà trasformazioni grazie alle scoperte archeologiche che riportarono alla luce documenti assiro-babilonesi, come anche grazie agli studi d'insigni biblisti.


Le principali tappe derivate dal lavoro di questi ultimi possono essere così sintetizzati.


A seguito della proposta di Astruc, Hupfeld trovò nella Genesi i documenti Y ed E. Quest'ultimo documento aveva un duplice carattere: storico-profetico: E; legale: P; i due codici, si disse, sono indipendenti perché hanno una cronologia diversa.


Reuss allora li datò: i codici Y ed E non potevano risalire oltre la monarchia, e il codice P non oltre l'esilio.


Venne, poi, l'opera di Wellhausen che tentò di dare una base scientifica all'ipotesi con un tentativo meno approssimativo di cronologia secondo il seguente schema:


Y: 950 a.C. circa
E: 750 a.C. circa 
Y+E: fra il 720 e il 620 a.C.
D: 725 a.C. circa
P: dopo il 538 a.C.
Y+E+D+P: 444-400 a.C.

A. Il documento Yahwista: Y

Dopo la morte di Saul, verso il 1010 a.C., Davide fu unto re ad Ebron e riconosciuto come tale dalle tribù. Condusse una politica di conquiste resa necessaria dai numerosi pericoli che minacciavano il giovane regno. Alla sua morte gli successe il figlio Salomone, che si limitò ad organizzare il vasto impero costruito dal padre, costruì imponenti opere, sviluppò notevolmente i commerci. Fu l'esordio di una nuova cultura che pose Gerusalemme a contatto con le tradizioni di altri popoli.

Il documento "Y" fu redatto in quest'epoca. Vide la luce verso il 950 a.C., e fu sicuramente opera di un cittadino di Giuda che conosceva a fondo l'istituzione della monarchia e la sua ideologia. In effetti, nella storia Yahwista di Giuseppe, non èRuben il primogenito di Giacobbe, ma Giuda, che appare come capo (Gen 37), e per questo spiccato "campanilismo" del suo autore comunemente si colloca la stesura a sud, in Giudea.

L'impero di Davide sopravvive ancora, anche se appaiono già le prime spaccature. Il popolo delle tribù si crede al sicuro e dimostra grande fiducia verso il futuro.

Il tema centrale di tutta la tradizione è il richiamo della responsabilità del sovrano davidico e del suo popolo nei confronti dei popoli vicini.

Il testo chiave è sicuramente Gen 12, 1-3: la chiamata di Abramo.

B. Il documento Elohista: E

Molti autori dubitano dell'esistenza di un documento E. Si può facilmente riconoscere la presenza di doppioni che non appartengono né a Y né agli altri documenti più tardivi: "D" e "P"; ma che questo riveli l'esistenza di un antico documento che non sia Y non è affatto scontato. Nonostante tutto, però, dai frammenti a nostra disposizione percepiamo un'opera perfettamente composta che, in un contesto storico abbastanza preciso, ha tramandato un'interpretazione della tradizione antica di Israele. La situazione storica di questa redazione sembrerebbe abbastanza facile: fu elaborata nel Regno del Nord, molto dopo la morte di Salomone e la conseguente separazione fra Giuda ed Israele.

L'istituzione regale non fu riconosciuta come un'istituzione di salvezza, non più del sacerdozio. La presenza di Dio al popolo si manifestava soltanto negli "uomini di Dio", o profeti, di cui il più grande era Mosè. Il movimento profetico appare ben assestato e forte, si pensa, quindi, come data di stesura il 750 a.C.

Non è altrettanto facile stabilire dove inizi il documento: non racconta nessuna storia delle origini, a parte pochi frammenti in Gen 14. Il primo capitolo quasi interamente "E" è Gen 20.

Il testo chiave è il cosiddetto "Codice dell'Alleanza": Es 20, 22 – 23,19, una sorta di raccolta di leggi sulla linea del Codice di Hammurabi.

Questo documento fu fuso con lo Yahwista fra il 720 e il 620 a.C. per opera di un primo redattore, rimasto sconosciuto.

C. Il documento Deuteronomista: D

Il re Giosia regnò su Giuda dal 640 al 609 a.C. Salì al trono all'età di otto anni e da subito si rivelò un re "secondo il cuore di Dio". A partire dal 628 a.C., quando la decadenza dell'Assiria cominciò ad essere manifesta, il re inaugurò una riforma al tempo stesso politica e religiosa. Si liberò della tutela assira, riconquistò i territori di Israele e realizzò una riforma religiosa sulla quale i documenti biblici si soffermano a lungo (2 Re 22-23).

Nel quadro di questa riforma, Giosia decise di eseguire alcune riparazioni del Tempio di Salomone e, nel corso dei lavori, il Sacerdote Chelkia scoprì un libro della legge che fece recapitare al re. Costatando che non si era obbedito alle parole di questo libro, Giosia, dopo essersi consultato con la profetessa Culda, decise di farlo leggere davanti a tutto il popolo.

Cos'è, dunque, questo libro della legge o libro dell'alleanza trovato nel 622 nel Tempio di Gerusalemme? Vi si riconosce unanimemente un primo stadio del libro del Deuteronomio. Dal momento che rifletteva le tradizioni del Regno del Nord, questo libro doveva essere stato deposto nel Tempio durante il regno del re Ezechia (725 a.C.). Così, a partire dal 622 a.C.il Deuteronomio primitivo servì da legge per tutto il popolo ed entrò ufficialmente nel patrimonio religioso di Israele. Questo Codice è conservato oggi nelle moderne Bibbie in Dt 12-26.

Ultimamente alcuni teologi hanno avanzato un'altra teoria circa l'origine della tradizione "D". Si tratterebbe di un trattato di vassallaggio con Yahwè. Gli esempi più illuminanti al riguardo ci provengono dalla tradizione ittita, in cui il diritto svolgeva una parte importante (basti ricordare gli accordi bilaterali che portarono alla firma del trattato di Pi-Ramses nell'inverno del 1259 a.C. fra Hattusili re di Hatti e Usermaatra Setepenra, ossia il faraone Ramses II).

Tutti gli elementi tipici del trattato di vassallaggio sono presenti: il preambolo (contiene nome e titolo del sovrano che concede il vassallaggio, Dt 5,6; 12,1), il prologo storico (in cui si ricordano brevemente gli avvenimenti che hanno preceduto la conclusione del patto, i discorsi contenuti in Dt 1-11), le condizioni (Dt 12-26), le clausole specifiche (Dt 31, 9-13), gli dei chiamati a testimoniare (qui è il testo stesso, il libro della legge), maledizioni e benedizioni condizionali (esposte in Dt 27,15-26)

D. Il documento Sacerdotale: P

Con quello che è chiamato "codice sacerdotale" (si indica questa tradizione con la lettera P perché e la prima lettera della parola tedesca "Priestercodex", cioè codice dei sacerdoti) ci spostiamo a Babilonia intorno al 538 a.C. A seguito della conquista della Palestina nel 587 a.C. il sovrano neobabilonese Nabucodonosor decise di deportare quasi tutti gli abitanti di Gerusalemme. Gli esiliati si trovarono alle prese con una situazione nuova in cui le passate istituzioni non potevano giocare nessun ruolo. Il Re era prigioniero, il Tempio distrutto, la terra donata da Dio a centinaia di chilometri. Tra questi esiliati alcuni si scoraggiarono e passarono dalla parte dei vincitori, altri invece cercarono di trovare nel passato d'Israele qualcosa su cui fondare una fede e una speranza capaci di fronteggiare la nuova situazione. È quello che fecero alcuni sacerdoti esiliati a Babilonia, come Ezechiele. Questa tradizione fu elaborata prima della fine dell'esilio, quindi prima del 538 a.C.. Quest'opera si sforza di recuperare l'eredità del passato, mette l'accento sul sabato, sulla circoncisione, sulla necessità di comprendere il disegno di Dio. Il documento P fu unito al D e a Y+E fra il 444 e il 400 a.C.: da questo momento in poi il Pentateuco ebbe la forma che oggi noi consociamo.

Michelangelo, "Il profeta Isaia", volta della Cappella Sistina (1508-1512)


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10lunedì 24 agosto 2015 16:04

 IL PROFETISMO


11.A - Il profetismo extra-biblico


Se Mosè rappresenta, nella tradizione biblica, la figura profetica più splendida, Balaam è in certo modo il profeta per eccellenza dei pagani idolatri. Questo modo di considerare Balaam si imporrà nella tradizione giudaica e giungerà fino al N.T. (2Pt 2,15, dove si parla della "via di Balaam di Bosor che amò un salario d'iniquità"). Balaam era probabilmente un indovino babilonese o di Mari, la famosa città sull'Eufrate dove esistevano figure paragonabili ai profeti biblici, come vedremo più avanti. Egli è descritto come un indovino (Nm 23,3.15), che ha dei sogni rivelatori, interpreta il comportamento degli animali per predire il futuro (Nm 22,23-30), trae auspici dai fenomeni atmosferici e astronomici. 1 Re ricorda altri profeti pagani come quelli di Baal, che sfidarono Elia in "singolar tenzone" (1 Re 18,20-40).


La Bibbia stessa riconosce, dunque, che il profetismo non è un fenomeno esclusivamente israelitico: anche gli altri popoli semiti contemporanei di Israele conoscono infatti un fenomeno che è stato paragonato al profetismo biblico. Qui possiamo fare solo qualche cenno al profetismo extra-biblico, in particolare nella tradizione egizio-cananea, sumero-accadica e in quella semitica occidentale di Mari.


Dall'ambiente egizio-cananeo possiamo ricordare il caso dell'egiziano Wenamon, addetto al tempio del dio Amon e vissuto verso il 1100 a.C. Egli andò a Biblos per incarico del faraone d'Egitto, per chiedere forniture di legname per il suo tempio. Il principe di Biblos, Zachir, si rifiutò di riceverlo e gli intimò di andarsene dalla città, ma Wenamon fece rispondere che non si sarebbe allontanato di lì se non fosse stata messa a sua disposizione una nave di Biblos. Mentre il principe stava compiendo un sacrificio ai suoi dei, uno dei suoi servi fu rapito in estasi e diceva: "Prendi l'idolo accogli il messaggero che lo ha con sé, Amon è il dio che lo ha inviato, egli l'ha fatto venire". Quel giovane ebbe un fenomeno d'estasi profetica. Dopo quel fatto il principe Zachir chiamò a corte Wenamon e concluse le trattative. L'estasi e il messaggio sono elementi che si ritrovano anche nel profetismo biblico.


Nel 1906 il console francese ad Aleppo Henri Pognon scoprì a 40 Km. da Aleppo, in Siria, una stele scritta in aramaico che racconta avvenimenti databili intorno all'805 a.C. circa. Questa stele oggi si trova al museo parigino del Louvre. Essa parla di un certo re Zachir di Hamat, il quale racconta che il dio Baal-Shamain, per mezzo di veggenti e indovini, gli disse: "Non temere perché io ti ho fatto re e ti sosterrò, ti libererò da tutti questi re che hanno posto l'assedio contro di te". Questi veggenti ed indovini avevano parlato in nome della divinità, alla stregua dei profeti biblici. Fra i documenti egiziani vanno ancora ricordati il papiro "Westcar 3033" di Berlino, insieme di racconti popolari favolosi e magici che risalgono alla XII dinastia, una specie di "Mille e una notte"; ed il papiro "Ipuwer I, 344" di Leinden, manifesto politico risalente alla XIX dinastia.


Nella letteratura sumero-accadica, lacunosa e ancora molto mal conosciuta, manca ogni testimonianza di profetismo intuitivo; compaiono invece la divinazione, l'oniromanzia e le lamentazioni storiche. Per quanto attiene alla divinazione e ai presagi, purtroppo non possediamo ancora nessun testo.


I Sumeri ignoravano l'augure, mentre conoscevano l'aruspice che prevedeva il futuro esaminando le interiora dei caproni. Già nel III millennio a.C. Urnanse di Lagash chiama a corte un gran sacerdote che aveva quest'ufficio ed all'epoca di Ur esiste il "mash-su gid-gid", cioè "colui che allunga le mani nelle interiora del capretto". I Sumeri praticavano anche l'oniromanzia e veneravano ben quattro dei addetti ai sogni. Questi sogni potevano essere simbolici, mitici, storici o semplicemente dei messaggi.


Altro ambito era quello delle lamentazioni; la città sumerica era una città-tempio, sacra, costruita dalla divinità. La sua distruzione per opera di nemici, costituì sempre un grosso problema religioso: come spiegare questa tragedia? Si rispondeva ricorrendo alla filosofia religiosa del peccato.


Famose sono le lamentazioni ancora conservate sulla distruzione di Lagash, Ur, Nippur, e la maledizione di Akkad, in cui si risentono molti temi svolti nelle "Lamentazioni di Geremia su Gerusalemme (Bar 4,5 ss).


Dall'ambiente semita-occidentale possiamo proporre come esempio l'archivio di Mari. Tra le rovine del palazzo dell'ultimo re, Zimri-Lim, di questa città, conquistata e distrutta da un suo ex alleato, Hammurabi di Babilonia, furono ritrovate circa 20.000 tavolette d'argilla. Una trentina contengono 35 oracoli divini. L'esempio più spesso citato è una tavoletta il cui testo è stato pubblicato nel 1950 da A. Lods: si tratta di un oracolo con minacce e promesse indirizzate al re e condizionate alla condotta che egli terrà. I testi di Mari presentano fondamentalmente due forme di comunicazione divina: le profezie pubbliche e private e i sogni.


Fra le profezie di Mari e il profetismo biblico ci sono innegabili somiglianze e analogie: il profeta è un inviato del dio, usa il formulario proprio dell'araldo, appare il fenomeno dell'estasi profetica come nei gruppi dei profeti estatici di cui parla la Bibbia (1 Sam 19.20).


Ma, al di là di queste convergenze, il profetismo biblico è molto diverso, sia per certe caratteristiche letterarie (nella Bibbia, a differenza di Mari, esiste una vigorosa tradizione letteraria d'origine profetica) sia soprattutto per i contenuti. Quasi un millennio separa i testi di Mari (1700 a.C.) dai profeti classici della Bibbia (secolo VIII-V a.C.). Gli oracoli di Mari erano quasi tutti diretti al re, furono salvati dall'oblio perché custoditi nell'archivio di corte, in loro non si trova per nulla l'appello alla conversione del cuore che occupa il centro della profezia biblica. A Mari non si parla di speranza escatologica o messianica; il quadro religioso è politeista, si praticano purificazioni magiche, manca il senso del peccato personale. Niente, dunque, a che vedere con l'attacco di Osea contro i riti pagani della fertilità, l'appello di Amos per la giustizia sociale, la teologia della fede di Isaia o le prediche di Ezechiele al popolo che corre verso la propria rovina: tutto questo è semplicemente inimmaginabile a Mari.


Da questo sguardo d'insieme al mondo extrabiblico possiamo concludere che il profetismo biblico ha avuto una lunga preistoria, di cui conosciamo solo alcune manifestazioni nel mondo dell'antico vicino Oriente, manifestazioni che ci aiutano a comprendere il tessuto culturale di quello biblico.


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11.B - Veri e falsi profeti


La Bibbia racconta il conflitto e lo scontro fra profeti: per esempio fra Michea e Sedecia (1 Re 22), fra Geremia ed Anania(Ger 28), ma gli uni non trattano mai gli altri come falsi profeti; addirittura nella lingua ebraica manca il termine per designare un falso profeta! Tuttavia se un profeta come Ezechiele è mandato a profetizzare contro i profeti d'Israele (Ez 13,1), si impone il problema circa l'autentica profezia e quella falsa. Come distinguere, allora i veri dai falsi profeti? La Bibbia stessa suggerisce alcuni criteri relativi sia al messaggio sia alla persona dei profeti.


A) Criteri relativi al messaggio:




  • La vera profezia deve realizzarsi (Dt 18,21-22), i contemporanei, dunque, o la storia giudicano della realizzazione di una profezia.




  • La vera profezia deve essere fedele alla tradizione (Dt 13,1-4). I profeti veri non negano mai l'autentica tradizione religiosa, perché ne fanno parte.




  • Gli oracoli di sventura sono veri, quelli di salvezza esigono la garanzia dell'attuazione (Ger 28,8-9). Questo criterio, per essere biblico, va riformulato in questa maniera: i profeti veri annunciano sempre il giudizio di Dio, che è di sventura o salvezza in dipendenza dell'atteggiamento di fede o infedeltà dell'uomo a Dio.




B) Criteri relativi alla persona:




  • Il vero profeta è un inviato di Dio, parla in suo nome. Quello che dice sulla sua vocazione è attendibile? Anche i falsi profeti possono rivendicare di essere inviati.




  • Il vero profeta è disinteressato, non agisce per desiderio di successo, di denaro o di gloria personale.




  • Il vero profeta vive coerentemente con ciò che predica. Tuttavia anche il vero profeta può peccare: Geremia mente ai ministri del re (Ger 38,24-27).




Come si può facilmente capire, questi criteri hanno un certo valore, ma non possono essere presi come regole matematiche da applicare rigidamente. Nessuno di essi rappresenta un criterio assoluto per discernere un vero da un falso profeta. Tuttavia sembra impossibile ammettere che sia vero profeta quello il cui messaggio o la cui vita personale non corrisponde a nessuno dei criteri enumerati. Un vero profeta deve realizzare almeno uno dei criteri esposti.


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11.C - Le epoche del profetismo


Abramo rappresenta la sorgente della storia israelitica, ed è naturale che la tradizione giudaica ne abbia fatto il primo grande profeta al quale è rivolta la parola di Dio. Anche Mosè fu considerato un profeta: "Non è più sorto in Israele un profeta come lui, con il quale il Signore parlava a faccia a faccia" (Dt 34,1). Nell'epoca precedente alla monarchia, "tutto Israele, da Dan a Bersabea, seppe che Samuele era costituito profeta del Signore" (1 Sam 3,20).


A) Dal 1000 al 750 a.C.
Questo periodo è caratterizzato da quello che potremmo definire "profetismo primitivo". I profeti di quest'epoca non scrivono nulla e noi conosciamo ben poco di loro. A parte il fatto che il N.T. designi anche Davide come profeta (Mt 22,43), ricordiamo alcuni nomi: Natan (2 Sam 7), Gad (2Sam 24,1l), Achia di Silo (1 Re 14), Semeia (1 Re 12, 21-24), e soprattuttoElia ed Eliseo. È molto difficile dire con precisione sia quale fosse l'esperienza religiosa di questi uomini, sia quale fosse la loro funzione specifica. Si appellano tutti ad una speciale comunicazione divina; alcuni vivono a corte, altri presso santuari come Silo, Galgala, Mizpa, Betel, ecc. dove conducono vita comunitaria, altri ancora sono del tutto autonomi. Spesso, magari con l'aiuto della danza, della musica o dei movimenti ritmici del corpo, entrano in uno stato di eccitazione irresistibile e pronunciano canti, grida, parole sconnesse, oracoli e predizioni. È questo il caso dei profeti estatici. Questo fenomeno non è esclusivo di questo periodo, tuttavia è in esso abbastanza comune, come nel caso del gruppo capitanato da Samuele (1 Sam 19,20). L'esperienza estatica faceva "diventare un altro uomo" (1 Sam 10,6), tanto che a volte la gente riteneva che un simile profeta fosse un matto (2 Re 9,11). Solitamente questi uomini profetavano in gruppo e formavano delle specie di corporazioni o associazioni profetiche, i cui membri erano chiamati "figli dei Profeti" (1 Re 20,35). Questi profeti si preoccupano delle istituzioni d'Israele (come Natan), della pace in seno alle tribù (come Semeia), della lotta contro l'idolatria (come Elia ed Eliseo).

B) Dal 750 al 587 a.C. (profeti pre-esilici).
È questo il periodo dei "profeti scrittori", così chiamati perché i loro discepoli ci hanno conservato dei resoconti della loro predicazione. Ciò non significa che questi profeti avessero anzitutto il compito di scrivere. Il profeta è sempre inviato anzitutto per proclamare a voce, né si vuole affermare che i profeti scrittori abbiano scritto di loro pugno i libri che sono stati loro attribuiti e che si sono formati attraverso un processo normalmente molto lungo, all'inizio del quale sta la persona, l'attività e la predicazione del profeta. Questi profeti non sono professionisti; non sono estatici e neanche sono legati ad un santuario. È l'epoca di Amos, del protoIsaia (Is 1-23.28-33.36-39), di Osea.

C) Dal 586 al 538 a.C. (profeti esilici).
I due grandi profeti dell'esilio sono Ezechiele e il deuteroIsaia (Is 40-55). Tema ricorrente di questi profeti è la speranza nel futuro, l'annuncio della consolazione per il popolo umiliato dalla prova dell'esilio.

D) Dal 538 al 150 a.C. (profeti post-esilici).
Di questo periodo sono il tritoIsaia (Is 24-27.34-35.56-66), Abdia, Aggeo. È un periodo in cui Israele si trova come sperduto in mezzo agli altri popoli, perché non costituisce più una nazione indipendente. I profeti di questo periodo invitano il popolo a risorgere non tanto per recuperare un ruolo politico nei confronti degli altri popoli, ma per prendere coscienza della funzione religiosa di Israele per il mondo intero.

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11.D - Il senso del profetismo

La nomenclatura sopra presentata di date e di nomi non ha soltanto uno scopo pedagogico- nozionistico, ma serve a capire come ogni profeta sia uomo del suo tempo. Il profeta, infatti, non è tanto l'uomo del futuro, quanto piuttosto l'uomo del presente. Egli è sempre coinvolto, nelle vicende politiche, sociali, economiche, religiose della società del suo tempo cui annuncia la parola del Signore. L'annuncio profetico è, dunque, sempre storicamente datato e muta da un profeta ad un altro, variando le situazioni storiche concrete. Il profeta, infatti, non è un uomo della teoria, non è un filosofo o un teologo che costruisce o spiega sistemi astratti, ma colui che legge in profondità la storia a lui contemporanea e pronuncia su di essa il giudizio di Dio. Profeta non è, dunque, come a volte si intende, colui che predice il futuro. I profeti annunciano anche eventi futuri, ma quegli eventi sono visti spesso come conseguenza del presente. Il profeta è in primo luogo la coscienza storica, civile e sociale del popolo d'Israele; anche per questo spesso fecero una brutta fine. È ovvio, dopo queste considerazioni, concludere che per capire i profeti è necessario collocarli nel loro tempo, conoscere l'ambiente socio-politico, culturale e religioso in cui operano, cercare di scoprire quali erano i problemi cui essi davano una risposta. Il profeta è sempre in dialogo con il suo tempo: bisogna cercare di ricostruire qual era il suo interlocutore. Capire i profeti è necessariamente capire la storia da loro vissuta e nella quale sono immersi.

Il Regno di Giuda e il Regno d'Israele dopo lo Scisma


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00lunedì 24 agosto 2015 16:06

LA STORIA DI ISRAELE FINO
ALL'INIZIO DELL'ERA CRISTIANA

Salomone, successore e figlio di Davide, costruendo sulle fondamenta gettate dal padre portò Israele a primeggiare in molti campi. Gerusalemme fu ampliata; fu costruito il Tempio sulla collina nordorientale, molte città furono ricostruite. Salomone entrò in commercio con i paesi confinanti e si creò una grande fama come autore di proverbi e canti. La vita di corte era sontuosa, ma c'era anche il rovescio della medaglia: parti dell'impero di Davide cominciarono a staccarsi, e Salomone dovette addirittura cedere a Tiro qualche città israelita della pianura costiera a nord di Acco per pagare i lavori di costruzione. Fra gli israeliti che vivevano a nord di Giuda furono arruolate squadre di addetti ai lavori forzati. Quando nel 928 a.C. Salomone morì, le tribù settentrionali vollero presentare le loro lagnanze a Roboamo, figlio di Salomone, prima di accettarlo come re. Roboamo diede retta a coloro che lo consigliavano di non essere condiscendente, con il risultato che le dieci tribù settentrionali si ribellarono, si scelsero come re Geroboamo, fondando il regno d'Israele, inizialmente con capitale Sichem.

Il nuovo regno settentrionale nacque non solo in nome della giustizia sociale, ma anche in nome della religione. Geroboamo eresse due santuari, uno a Betel e uno a Dan, nei quali pose un vitello d'oro che rappresentava il trono del Dio invisibile. Per lui, che era stato incoraggiato a ribellarsi dal profeta Achia, il nuovo regno fu probabilmente un tentativo di riaffermare l'antica fede dell'Esodo che sembrava essere stata messa in disparte dalla centralità di Gerusalemme.

Nel 924 a.C. entrambi i regni, del sud o di Giuda e del nord o di Israele, furono duramente provati dalla campagna condotta dal faraone Sheshonq I (945-924 a.C.), che cinse d'assedio le principali città fortificate. Sheshonq riscosse pesanti tributi da Gerusalemme; la sua campagna fu, forse, il motivo che indusse Geroboamo a spostare la sua capitale da Sichem a Penuel in Transgiordania.

Nei primi anni del IX secolo a.C, Giuda, alleato con Damasco, divenne più potente d'Israele, riuscì a rinforzare la frontiera con il regno nemico mentre Damasco minacciava le città di Israele nell'alta Galilea. Nell'882-881 a.C. scoppiò, così, la guerra civile. Ne uscì vincitore il re di Israele Omri che trasferì la capitale a Samaria. Durante i regni di Omri e di suo figlioAcab (873-852 a.C.) vi fu un energico tentativo di sostituire la religione di Yahwè con quella del dio Baal di Tiro, sostenuta da Gezabele, moglie di Acab. Questa scelta ufficiale provocò la violenta reazione dei gruppi di profeti guidati da Elia ed Eliseo, di cui ci parla ad esempio 1 Re 18. Durante il suo regno Acab dovette fare i conti con la notevole forza dell'Assiria e di Damasco; con quest'ultima combatté parecchie durissime battaglie prima di rimanere ucciso a Ramot di Galaad (1 Re 22, 29-38).

Con l'ascesa al trono assiro di Tiglat Pileser III nel 745 a.C., sui due regni incombette di nuovo la minaccia settentrionale. Le piccole nazioni non riuscirono a respingere il re assiro, che nel 733 conquistò Damasco, la Galilea e la Transgiordania israelita. Acaz, re di Giuda, che aveva chiesto il suo aiuto contro Israele e Damasco, ignorando i consigli di Isaia (Is 7,1-9), divenne suo vassallo. Nel 724 il re di Israele Osea si ribellò all'Assiria. Dopo un assedio di tre anni Samaria cadde, e terminò così l'indipendenza del regno settentrionale. Il re assiro che di fatto la conquistò fu Sargon II che ne dà notizia nei suoi "Annali". Furono condotte in esilio ben 27.280 persone. Sargon ci riferisce:

« Gente della terra, prigionieri di guerra presi nelle mie mani, in lei io lasciai abitare. »

Qui è testimoniato il terzo ed ultimo stadio della prassi assira di occupazione, la liquidazione dello stato, di quella che era una volta la struttura statale ora decimata: deportazione in massa ed insediamento di una popolazione straniera proveniente da altra parte dell'impero. Ciò è confermato da 2 Re 17,6.

L'Impero Assiro dopo la caduta del Regno di Israele (722 a.C.)


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00lunedì 24 agosto 2015 16:09

  L'Impero Assiro dopo la caduta del Regno di Israele (722 a.C.)


I deportati furono inviati ad Assur, o meglio a Calak, altri nel territorio di Cabur, vicino alle fonti dell'Eufrate. Le deportazioni riguardarono soprattutto gli strati superiori della società. La grande massa della popolazione contadina rimase sul luogo, al proprio lavoro. Al Sommo Sacerdote Amazia di Betel, Amos aveva già ventilato la minaccia della deportazione (Am 7, 17) . In altro luogo Sargon racconta:


« Io resi Samaria più grande di prima, e gli abitanti della terra che ho occupato con le mie mani li lasciai abitare colà. Dei generali posi come governatori su di lei e la incorporai alla terra di Assiria. »


Giuda cercò di scrollarsi di dosso questi ingombranti padroni, con il risultato che nel 701 le truppe assire cinsero d'assedio Gerusalemme, ma essa sorprendentemente riuscì a resistere. L'esercito invasore era guidato dal grande Sennacherib, che in un'iscrizione detta del "prisma" ci riferisce:


« Lui stesso (Ezechia, re di Giuda) circondai, come un uccello in gabbia, in Gerusalemme, sua residenza. Gli scavai intorno delle trincee e gli resi impossibile uscire dalla porta della città. »


Questa disperata situazione di isolamento di Gerusalemme è descritta non meno chiaramente in questo passo di Isaia:


« La testa è tutta malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c'è in lui una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio. Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è una desolazione come Sodoma distrutta. È rimasta sola la figlia di Sion come una capanna in una vigna, come un casotto in un campo di cocomeri, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, già saremmo come Sodoma, simili a Gomorra. » (Is 1,4-9)


Tuttavia, come detto, la città non capitolò. Perché? In tempi recenti sono state proposte alcune ipotesi. Le più antiche risalgono alla stessa Bibbia. In 2 Re 19,35-37 si afferma che l'angelo di Yahwè colpì di notte l'accampamento assiro, provocando la morte di molti soldati. Per lo più gli studiosi pensano si sia trattato di una malattia contagiosa.


In 2 Re 18,13-16 si parla anche di un grosso tributo versato da Ezechia a Sennacherib, ed infatti anche l'iscrizione del prisma fa menzione ad un tributo.


Un'altra ipotesi proposta da alcuni studiosi e in parte avvallata da 2 Re 19,37 vuole che il rientro in Assiria dell'esercito di Sennacherib si sia reso necessario a causa di un colpo di stato. Tutto ciò apparve, in ogni modo, come un miracolo agli occhi degli abitanti di Gerusalemme.


Fu un'illusione di poco più di un secolo: nel 587 le città israelite furono conquistate dal re naeobabilonese Nabucodonosor. Una testimonianza diretta di questi fatti ce la forniscono i cosiddetti "ostraka di Lakis". I primi 18 furono scoperti durante gli scavi del 1934-35, i numeri 19-21 durante quelli del 1938. In Ger 34,7 si legge che solo Lakis e Azeqa resistevano ancora alla pressione babilonese; la tattica del nemico era l'isolamento progressivo di Gerusalemme da tutte le piazzeforti circostanti, per poi poterla investire da tutti i lati, una tattica già usata da Sennacherib nel 701, e poi molto più tardi da Titonel 67-70 d.C.


Nella lettera XV, linea 12, leggiamo: « Non vediamo più i segnali d'Azeqa, mentre quelli di Lakis sono ancora visibili dalle piazzeforti » (per il sistema segnaletico vedi Ger 6,1b). Nabucodonosor conquistò così Gerusalemme e organizzò la più imponente delle tre deportazioni (597, 587, 582). Il re Ioakin e il profeta Ezechiele finirono in questo primo gruppo di deportati.

L'Impero Neobabilonese di Nabucodonosor (605-562 a.C.)

L'Impero Neobabilonese di Nabucodonosor (605-562 a.C.)


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00lunedì 24 agosto 2015 16:10
Nel 589 Sedecia (zio di Ioakin), che regnava dal 597, si ribellò a Nabucodonosor. La capitale israelita fu assediata e, nonostante Geremia suggerisse che la cosa migliore sarebbe stata la resa, resistette per 18 mesi, per poi cadere nel 587. Vi fu una seconda, più limitata deportazione, ma in questo caso la città e il Tempio di Salomone furono distrutti. Quest'esilio ebbe delle conseguenze devastanti sulla cultura e sulla memoria storica e religiosa degli israeliti, ma non durò molto: nel 540 Babilonia cadde nelle mani di Ciro il Grande, re dei Persiani, il quale concesse agli ebrei di tornare a Gerusalemme. A metà del V secolo Neemia trovò Gerusalemme in condizioni pietose, con mura inservibili, macerie in ogni luogo e una popolazione poco numerosa e per giunta oppressa da abusi sociali e religiosi (Ne 2,1l-15). Egli riorganizzò non solo la città, ma tutta la nazione giudaica (da dopo l'esilio, gli storici parlano di nascita del giudaismo).

Il successivo grande cambiamento avvenne con le conquiste di Alessandro Magno, dopo la sua vittoria sui Persiani nella battaglia di Isso (333 a.C.). Alessandro inglobò nel suo impero la Siria, la Palestina e l'Egitto, aprendo la strada alla diffusione della cultura e della lingua greca in questi territori. Nel 323 a.C., dopo la sua morte prematura, la Palestina cadde sotto il dominio dei Tolomei, e dal 200 a.C. sotto quello dei Seleucidi. A Gerusalemme divenne acutissima l'ostilità fra coloro che apprezzavano e coloro che rifiutavano la cultura greca; la carica di Sommo Sacerdote era offerta al miglior offerente, e i soldi finivano nelle casse del re di Siria. Antioco IV nel dicembre del 167 a.C. tentò di estirpare la religione ebraica, introducendo nel Tempio di Gerusalemme la statua di Zeus, "l'abominio della desolazione". La scelta di Antioco provocò l'insurrezione dei Maccabei, cominciata dal sacerdote Mattatia, e proseguita dai suoi figli Giuda, Gionata e Simone. Non è da escludere che la rivolta si fosse scatenata prima che il giudaismo fosse messo al bando; anzi, che la sua proscrizione fosse una risposta all'insurrezione, della quale ad ogni modo prese il comando la famiglia di Mattatia, chiamata anche degli Asmonei. Dopo il 70 a.C. le rivalità all'interno della famiglia reale provocarono la caduta degli Asmonei e l'intervento di Roma, guidato da Pompeo Magno. Nel 37 a.C. Erode, un idumeo, fu nominato dai Romani re della Giudea, sulla quale governò fino al 4 a.C., anno della sua morte. Il suo regno fu caratterizzato dalla pace e da un imponente piano di ristrutturazione, che trasformò Cesarea nella principale città della provincia e diede a Gerusalemme l'aspetto che anche Gesù conobbe. Oltre ad essere ingrandito, il Tempio fu in concreto ricostruito. Alla sua morte il regno fu diviso fra i tre figli.

Sui Libri Storici dell'A.T. si veda anche il seguente LINK

http://www.fmboschetto.it/religione/libri_storici/frame.htm
Credente
00lunedì 24 agosto 2015 16:17

GRUPPI RELIGIOSI E POLITICI IN ISRAELE
ALL'INIZIO DELL'ERA CRISTIANA

A) I samaritani.
Lo scisma fra samaritani e giudei ci è riportato, con dovizia di particolari, da Flavio Giuseppe nelle sue "Antichità Giudaiche" (XI,304-312). Egli narra che il Sommo Sacerdote Yaddua aveva un fratello, Manasse, il quale aveva sposato una certa Nikaso, figlia di Sanballat, governatore di Samaria. Lo stesso Sommo Sacerdote disapprovò il matrimonio, e Manasse si trovò costretto a rinunciare o alla moglie o al sacerdozio. La situazione fu risolta dal suocero, Sanballat, il quale offrì a Manasse di diventare Sommo Sacerdote in un altro Tempio da costruire in Samaria. In termini generici, ma sufficientemente precisi, ci è anche fornita la data di questo avvenimento, perché si afferma che Sanballat fu mandato a governare la Samaria da Dario III Codomano, il re persiano sconfitto da Alessandro: dunque, per Giuseppe Flavio, il fatto sarebbe avvenuto nella seconda metà del IV secolo a.C.
L'avvenimento narrato da Giuseppe Flavio è molto simile a quello presentato da Ne 13,28. Lo scisma apparve subito insanabile, perché troppi erano gli interessi in campo: si consolidò al nord un nucleo ebraico, il quale finì con lo sviluppare un proprio culto sul monte Garizim, nei pressi di Sichem, culminato nella costruzione di un Tempio analogo e concorrente con quello di Gerusalemme. La costruzione di questo era certamente compiuta nel 328 a.C.
I rapporti fra Samaria e Gerusalemme devono essere restati fluidi per parecchio tempo. L'ipotesi che il legislatore-riorganizzatore Esdra abbia avuto contatti con questo "resto" sono validi, e spiega bene come mai il Pentateuco samaritano sia strutturato come quello di Gerusalemme, su tutt'e quattro le fonti (J, E, D, P). Oggi i samaritani sono ancora presenti in Israele, e restano ancora separati da Gerusalemme, portando avanti la consuetudine endogamica che ne ha ridotto notevolmente il numero.

B) I farisei. 
Fariseo significa "santo". La loro origine risale al II secolo a.C. Loro caratteristica fondamentale era quella di fondare il proprio modo di essere e di agire sulla Torah: tale atteggiamento risaliva sostanzialmente alla comunità giudaica postesilica del VI secolo a.C. 
Il fariseismo continuava, perciò, un'evoluzione logica dell'A.T. La legge era considerata segno di elezione. In tal modo Israele aveva coscienza di essere il popolo eletto, essendo legato alla legge, quindi incentrato sull'uomo pio, che studia, pratica e ama la legge; non era essenzialmente legato ad un luogo particolare come il Tempio, perciò fu la corrente che prevalse dopo la distruzione del Tempio come unica rappresentante del giudaismo ufficiale. Nella storia di questo movimento non va taciuto lo spaventoso eccidio perpetrato dal re Alessandro Ianneo (103-76).
Dal momento che suo padre, Giovanni Ircano, era figlio di una ex prigioniera di guerra, in considerazione del fatto che quest'ultima era considerata sempre impura, in quanto molto probabilmente violentata durante la cattività, ne derivava che i suoi figli non potevano vestire gli abiti di Sommo Sacerdote che per antonomasia doveva essere "il Puro". Giovanni Ircano invece, in quanto re, aveva ricoperto la carica di Sommo Sacerdote in barba sia al popolo sia ai farisei. Stessa considerazione e situazione riguardavano Alessandro Ianneo. In occasione di una festa dei Tabernacoli, mentre compiva il sacrificio all'altare, Alessandro fu colpito più volte da grossi cedri lanciati dal popolo sobillato dai farisei.
La repressione fu durissima: ottocento farisei furono crocifissi, dopo che le loro mogli e i loro figli erano stati sgozzati davanti ai loro occhi, mentre lui banchettava nel suo palazzo con le sue donne. I farisei accusarono i sadducei di aver suggerito al re questa durissima vendetta, e per questo i rapporti fra i due movimenti politici rimasero sempre problematici.

C) I sadducei.
Questo gruppo derivava il proprio nome da quello di Sadoq, la famiglia della tribù di Levi nelle cui fila era scelto il Sommo Sacerdote. Rappresentavano il partito nazional-liberale dell'alta borghesia, al contrario dei farisei che rappresentavano invece le fasce meno abbienti del popolo. La loro dottrina era diversa da quella dei farisei, per esempio negavano la risurrezione (Mc 12,18-27), gli angeli e gli spiriti (At 23,8). Finirono con la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.), perché erano legati troppo anacronisticamente al passato e perché troppo ristretti ai ceti alti.

Resti di Qumran, foto di Franco Maria Boschetto

Resti di Qumran, foto di Franco Maria Boschetto

D) Gli esseni.
Nell'inverno del 1947 un giovane pastore arabo di nome Mohammed adh-Dhib, che era in cerca di una capra smarrita in prossimità della riva nordoccidentale del Mar Morto, scoprì per caso delle grotte in località Khirbet Qumran.
Il beduino entrò e trovò al loro interno numerose giare abbandonate. Tornato sul luogo con un amico, cercò di recuperare le giare (potevano essere utili per trasportare l'acqua), e i due scoprirono che i recipienti contenevano alcuni rotoli di pelle avvolti in tele consunte. Non fu mai chiaro quanti manoscritti furono trovati dai beduini; ciò che è certo è che nel 1954 alcuni di questi erano finiti nella camera blindata dell'Hotel Waldorf Astoria di New York, e furono comperati dal governo israeliano al prezzo di 250.000 dollari. Altri manoscritti, invece, erano finiti al Museo Rockefeller, nella parte est di Gerusalemme, in mano giordana. Si formarono così due commissioni di studio indipendenti: una sotto il controllo diYigael Yadin, in Israele, e l'altra sotto il controllo di Padre de Vaux, un sacerdote cattolico, in Giordania. Fu ben presto chiaro che a Khirbet Qumran era stata compiuta una delle più grandi scoperte dell'archeologia biblica dell'ultimo secolo. Migliaia di rotoli furono recuperati in successive campagne di ricerca che interessarono tutta la zona. Oggi i manoscritti sono conservati al Museo di Israele, nel cosiddetto Shrine of the Book.
I rotoli, fu spiegato, erano stati nascosti nelle grotte da un gruppo di monaci ebrei, detti Esseni, che intendevano in tal modo sottrarli alla distruzione dell'esercito romano guidato da Tito. 
Gli Esseni, come i farisei, derivarono dal movimento degli Asidei (pii) che si era imposto nel periodo maccabaico, di cui rappresentarono la versione più radicale. È stato possibile far luce sulla loro storia grazie ad un'altra scoperta avvenuta presso la sinagoga del Cairo: in una "genizah" è stato rinvenuto il "Documento di Damasco", la regola della comunità.
Siamo così venuti a sapere che nel II secolo a.C. molti ebrei si accorsero che la società stava smarrendo se stessa; era il momento del rapido ingresso dell'ellenismo in Gerusalemme, dell'umiliazione del Sacerdozio. Già allora un gruppo di ebrei si era staccato dalla comunità con un gesto per loro rivelatosi controproducente, perché di fatto "per venti anni erano come ciechi, come gente che cerca la via a tentoni", in una parola non sapevano che fare.
 Costruirono alcuni edifici che fungevano da monastero, in un ambiente ostile e deserto. Dopo vent'anni si aggiunse al gruppo un uomo che fu indicato con il nome di Maestro di Giustizia, sacerdote e sadocita, il quale dettò alla comunità una regola, dandole una struttura gerarchica. Sotto la guida di questo Maestro vissero una vita monastica; si consideravano la comunità della nuova alleanza e coltivavano idee apocalittiche, tanto che furono vicini alla rivolta antiromana, e perciò furono spazzati via per sempre.
Non sono mai nominati nei Vangeli, anche se molto probabilmente il famoso 7Q5, frammento papiraceo rinvenuto proprio a Qumran visibile qui a destra, appartiene proprio ad un apografo del Vangelo di Marco. Molte sono le ipotesi su un possibile influsso degli Esseni su Giovanni Battista e sullo stesso Gesù. Di Giovanni Battista ilVangelo di Luca 1,80 dice che « visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele », ma evidentemente nel deserto non crebbe certo da solo: forse in una comunità essenica, dalla quale avrebbe mutuato il rito del battesimo con l'acqua.
Quanto a Gesù, in Marco 14, 13-16 a un certo punto dice a discepoli: « "Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo, e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi." I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua  »(che tra l'altro Gesù consumò con un giorno di anticipo, secondo il calendario di Qumran). Probabilmente il Cenacolo era un luogo di preghiere essene a Gerusalemme. Infatti in quella comunità non c'erano donne, ed anche i lavori femminili, come attingere l'acqua con la brocca, erano svolti da maschi!

E) Gli zeloti.
Come gruppo organizzatosorsero nel 66 d.C., con l'inizio della rivolta contro Roma. Probabilmente, però, anche se non organizzati, esistevano anche prima. Era un gruppo vicino all'ambiente apocalittico (Qumran) e sacerdotale. Erano nemici giurati dei romani e dei Giudei collaborazionisti. Corrispondono ai nostri moderni partigiani, ma il loro scopo era essenzialmente religioso; volevano cioè purificare la terra santa dagli influssi stranieri.

F) I sicari. 
Fu un gruppo che oppose strenua resistenza ai Romani per circa un secolo, sotto la guida di una stessa famiglia, quella diGiuda il Galileo, figlio di Hiskìa, partigiano antiromano dell'epoca di Erode. Egli brandì le armi contro gli invasori nel 6 d.C. in occasione di un censimento. Anche gli insorti di Masada, che resistettero fino al 73 d.C., erano capeggiati da un discendente di Giuda, che si chiamava Eleazaro. Uccidevano proditoriamente il nemico con un pugnale, la sica (da cui il nome) che tenevano nascosto sotto la tunica.

Il frammento 7Q5: un brano del Vangelo di Marco?

Credente
00venerdì 3 maggio 2019 16:12
A quale testo «originale» si rifanno le traduzioni dell'Antico Testamento?


Perchè le traduzioni cristiane dell'Antico Testamento si basano sulla versione dei «Settanta», che nella tradizione ebraica è ritenuta non corretta, e non sul Codice di Aleppo?

Davide Chessa

Risponde Giovanni Ibba, docente di ebraico
La traduzione dell'Antico Testamento è oggi fatta dall'ebraico (e dall'aramaico, per quanto riguarda alcune parti del libro della Genesi e di Daniele; dal greco, per quanto riguarda i deuterocanonici) anche se è probabile che molte delle prime comunità cristiane usassero la versione dei «Settanta», a cura della comunità ebraica di Alessandria (che era una traduzione dall'ebraico, non un testo in qualche modo «originale»), soprattutto perché per loro più facile da comprendere (e questo tra l'altro spiega la disposizione di molti testi: è probabile che la comunità cristiana abbia seguito in linea di massima l'ordine dei libri secondo la traduzione dei Settanta, anche se però ci sono differenze importanti). È chiaro però che in epoche successive, quando i cristiani non parlavano più il greco, furono fatte traduzioni della Bibbia nelle lingue correnti, come il latino e, in altre zone geografiche, come il siriaco, i copto, il gotico, l'armeno il georgiano, l'arabo e lo slavo. Queste comunità cristiane da quale versione traducevano la Bibbia? La così detta Vetus Latina, la versione latina antica, usava probabilmente delle versioni in greco, a differenza della Vulgata di Gerolamo (fine IV secolo) che si basa sull'ebraico per i testi dell'Antico Testamento. Ma anche qui il discorso si fa complesso, soprattutto di fronte a questo enorme lavoro di traduzioni che, fra le altre cose, ha coinciso con la nascita della scrittura di alcune tradizioni linguistiche.


Il Magistero, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, ha sottolineato l'importanza, nelle traduzioni della Bibbia, di tenere sempre presente l'evoluzione delle così dette scienze bibliche, che comprendono molte competenze come la filologia, l'archeologia, la codicologia, la linguistica, la critica testuale ecc. Per cui non c'è, da parte del Magistero, una preferenza precostituita rispetto a un codice o a un altro, ma una forte attenzione alle fonti, le quali devono essere il più possibile antiche e, per quello che si può comprendere, vicine a un ipotetico «originale» (che è spesso per il filologo un vero e proprio mito).

II problema delle traduzioni della Bibbia è oggi al centro di importanti ricerche, soprattutto dopo la scoperta di molte copie di testi biblici nelle grotte di Qumran, che ha voluto dire avere a disposizione copie in ebraico di tali testi precedenti ai codici ebraici fino ad allora utilizzati. La critica testuale sta fornendo molte notizie sulla formazione dei libri biblici, per cui, sul piano prettamente scientifico e storico, non si può parlare di fonti più corrette di altre. Per esempio sembra evidente che il testo dei Settanta, pur trattandosi di traduzione, presenta significative coincidenze con alcuni manoscritti biblici ebraici di Qumran, che sono assai più antichi dei codici che generalmente abbiamo preso in considerazione prima della scoperta dei rotoli del Mar Morto. In ogni caso, come detto sopra, il testo dell'Antico Testamento in latino fu fatto da Gerolamo dal testo ebraico (ad esclusione dei deuterocanonici o apocrifi), non da quello greco.

Come avrà capito, la questione del canone è dibattuta, ma in senso positivo. Il Magistero promuove per questo fortemente gli studi biblici, per quanto siano complessi. Infine, è vero che in alcune tradizioni cristiane (in particolare le Chiese Orientali), il testo greco dei Settanta è stato accolto come testo fondamentale, ma il discorso, anche qui, è molto complesso e richiederebbe uno spazio che qui non è possibile avere. Al riguardo però aggiungo solo che è «usato», per esempio nella liturgia, in greco e senza traduzione.
Credente
00venerdì 3 maggio 2019 16:16
Le differenze tra Bibbia ebraica e cristiana


Sono ebreo, sposato felicemente, ho 71anni. Interessato al Cristianesimo, ho molte domande precise. Ecco le prime: con quale criterio il magistero ecclesiastico decreta che la tradizione scritta nostra, la Torah scritta ovvero l'Antico Testamento dei cristiani, è considerato parola di Dio e non viene considerata la nostra Torah orale o Tradizione che per noi è anche parola di Dio molto importante? E perché non rispettate il numero dei libri che noi abbiamo in meno al vostro Canone?


Risponde Giovanni Ibba, docente di ebraico

La Mishnah, o Torah orale, è certamente frutto di una tradizione precedente alla sua fissazione (avvenuta nel II secolo d.C.), tradizione molto probabilmente cominciata già con i Farisei. Alcuni storici concordano col dire che dopo la distruzione del Tempio il giudaismo si sia sviluppato prevalentemente in due branche principali, il cristianesimo e il rabbinismo. Di conseguenza, la Mishnah viene vista come un'opera che, similmente al Nuovo Testamento per i cristiani, caratterizza un nuovo indirizzo dell'Ebraismo. Pertanto, se è così, è evidente che la Mishnah, come il Nuovo Testamento, fosse visto come un testo che distingueva nettamente il giudaismo dal cristianesimo.

Non mi risulta che ci siano state polemiche da parte cristiana nei confronti della Mishnah in quanto tale, fatto che potrebbe aggiungere una qualche spiegazione a quanto le ho scritto. I problemi, mi pare, sono sorti soprattutto in epoca successiva. Il magistero ha sempre fatto riferimento a ciò che si legge nella Bibbia cristiana (Antico e Nuovo Testamento), ossia all'insieme di libri che sono stati composti, a quanto pare (dico così perché nei Detti dei Padri si legge che la Torah orale è stata tramandata a partire da Mosè), prima della fissazione della Mishnah. Questo forse spiega in parte perché non la prende in considerazione. In ogni caso il pensiero religioso che emerge dalla Mishnah corrisponde effettivamente a una corrente che si distingue da quella del cristianesimo delle origini, per esempio in merito all'interpretazione di norme e di questioni importanti relative alla vita del fedele. Ma anche qui, la distinzione dello stile di vita di molti cristiani rispetto a quello degli ebrei non sempre era evidente, soprattutto perché anch'essi erano in prevalenza di provenienza ebraica. Una strada di ricerca già avviata da tempo è proprio quella che cerca di definire meglio le caratteristiche di tutti i gruppi giudaici tra il I e il II secolo d.C., ricerca che permette di capire meglio chi erano i cristiani delle origini. In effetti, si può vedere nella fissazione del Nuovo Testamento e di quello della Mishnah un tentativo di distinzione tra due movimenti religiosi.

Infine, un elemento importante è che la Mishnah è stata scritta (cioè fissata) dopo la Bibbia (ebraica e antico Testamento cristiano) e questo significa che per i cristiani tutti gli scritti posteriori a quelli biblici, per intendersi quelli dell'Antico Testamento, erano interpretabili alla luce del Messia Gesù; quindi, se i testi successivi a questi non erano attinenti a questo, ossia a ciò che per loro era divenuto il fondamento della loro fede, non erano presi in considerazione. Ma, detto questo, le dico che le mie sono solo supposizioni perché i primi due secoli dell'era cristiana, dove avviene anche la scelta dei libri da considerarsi ispirati, sono estremamente complessi.

Riguardo alla sua seconda domanda, come ben sa il canone della Bibbia ebraica, come il canone della Bibbia cristiana, è stato formato agli albori del II secolo d. C., il che vuol dire che le scelte dei testi da considerare come ispirati si sono prodotte dopo un dibattito molto complesso. Come fa notare nella sua domanda, alcuni testi del canone cristiano-cattolico non sono compresi in quello ebraico (in seguito, la riforma protestante seguirà la Bibbia Ebraica riguardo al così detto Antico Testamento). Il punto secondo me importante da tenere presente per capire perché certi testi sono inclusi mentre altri no, è che prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme c'era a disposizione un enorme numero di opere circolanti, di cui solo alcune poi furono incluse nei due canoni. È probabile che le prime comunità dei seguaci di Gesù, per la buona parte di provenienza giudaica, fossero anch'essi, come tutti gli altri giudei, alla ricerca di un criterio per comprendere quali fossero i testi da considerare per tutti e, forse, quali invece da considerare difficili da comprendere e non adatti all'uso delle comunità (quelli che normalmente sono chiamati deuterocanonici o, anche, apocrifi). Credo che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme si sia cercato di selezionare questa grande "biblioteca" di testi. Certamente era attestata da tutti l'autorità della Torah, cioè la Legge scritta, così come anche quella di altri testi. C'è anche da considerare la presenza della traduzione detta dei Settanta (LXX), a cura della comunità ebraica di Alessandria che, di fatto, aveva già fatto una scelta di testi già nel III secolo a.C.

Pertanto, siccome la comunità cristiana, con la produzione delle prime fonti (poi incluse nel così detto Nuovo Testamento), usava normalmente il greco, mentre invece quelle giudaiche prevalentemente l'ebraico (anche l'aramaico, ma la lingua liturgica e sacerdotale, come quella biblica, è sostanzialmente l'ebraico), è probabile che la comunità cristiana abbia seguito in linea di massima l'ordine dei libri secondo la traduzione dei LXX, anche se però ci sono differenze importanti. Di conseguenza, secondo questo ragionamento, dall'altra parte, per la formazione del canone, sono state scartate tutte quelle opere composte in greco, o comunque che avevano a disposizione solo in greco. Questo lo dico perché le opere che compaiono nel canone cristiano/cattolico e che non ci sono in quello ebraico (per esempio i libri dei Maccabei), non mostrano in alcun modo posizioni dottrinali contrarie alla Torah o all'ebraismo in genere: si tratta di vere opere giudaiche. Per tale motivo penso anche che il canone ebraico non segua lo stesso ordine di quello cristiano semplicemente perché quello segue in linea di massima la sequenza dei libri presente nella versione della Bibbia Alessandrina, la traduzione cioè dei Settanta. Nella scelta dei libri e della disposizione di molti di essi ha dunque pesato l'esigenza dei due movimenti religiosi di distinguersi, e per far questo hanno scelto come criterio la lingua.
Credente
00mercoledì 24 luglio 2019 14:10

I versetti “imbarazzanti” della Bibbia: una buona risposta



Una delle numerose accuse al cristianesimo cattolico è senz’altro quella di prendere alla lettera alcune parti accettabili della Bibbia, chiedendo di contestualizzare in relazione all’epoca in cui furono scritte e alla mentalità allora diffusa, le parti oggi inaccettabili. Un esempio è il versetto 21, 9 del Levitico (“Se la figlia di un sacerdote si disonora prostituendosi, disonora suo padre; sarà arsa con il fuoco.”) o i versetti 39 e 40 del capitolo 10 del libro di Giosuè (“La prese con il suo re e tutti i suoi villaggi; li passarono a fil di spada e votarono allo sterminio ogni essere vivente che era in essa; non lasciò alcun superstite. Trattò Debir e il suo re come aveva trattato Ebron e come aveva trattato Libna e il suo re. Così Giosuè battè tutto il paese: le montagne, il Negheb, il bassopiano, le pendici e tutti i loro re. Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele.”).


L’accusa è ovviamente quella di ignorare, o fingendo di ignorare, che in tali versetti – a quel che i cristiani stessi sostengono – parla pur sempre il Dio in cui dicono di credere. Si tratta di un’accusa che giustamente Marco Beccaria, nel suo blog su Panorama, ha definito la cherry picking fallacy (letteralmente, la “fallacia del raccogliere ciliegie”, altresì detta “fallacia di evidenza incompleta”), sostenendo e tentando di dimostrare, però, che «questo argomento sia a sua volta fallace, almeno nei confronti del cattolicesimo».


Infatti il cattolicesimo, spiega Beccaria, «non è una “religione del Libro”», lo dice il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 108: «La fede cristiana tuttavia non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio, di una parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”. Perché le parole dei Libri Sacri non restino lettera morta, è necessario che Cristo, Parola eterna del Dio vivente, per mezzo dello Spirito Santo ci “apra la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45)». Il cristianesimo è un avvenimento, un’esperienza di vita nella comunità ecclesiale, e la Bibbia è -ha proseguito Beccaria- «il racconto, composito e articolato in una gran varietà di forme, di come questa esperienza si è svolta e sviluppata in una storia lunga più di tre millenni». Un cattolico non si approccia ad essa come un manuale da seguire pedissequamente, un libretto di istruzioni, un elenco di istanze etiche alle quali obbedire. Come invece sono tenuti a fare ebrei, sopratutto, e islamici.


Sempre proseguendo con le indicazioni della Chiesa, leggiamo che «nella Sacra Scrittura, Dio parla all’uomo alla maniera umana. Per una retta interpretazione della Scrittura, bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole […]. Si deve tener conto delle condizioni del loro tempo e della loro cultura, dei “generi letterari” allora in uso, dei modi di intendere, di esprimersi, di raccontare, consueti nella loro epoca. “La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in varia maniera storici o profetici, o poetici, o con altri generi di espressione». La Parola di Dio, dunque, va interpretata alla luce della Tradizione e della vita della Chiesa.


In molti ritengono che la Chiesa abbia iniziato ad “interpretare” la Sacra Scrittura soltanto in seguito allo scontro con la modernità (dopo Darwin, Copernico o Galileo), ma in realtà «chi conosca anche superficialmente un po’ di storia culturale della civiltà occidentale sa che le cose non stanno così e che l’idea che la Sacra Scrittura vada interpretata su più livelli, con strumenti culturalmente raffinati e anche al di là della mera ricezione letterale è antica come il cristianesimo stesso», ha commentato Beccaria. Origene di Alessandria, ad esempio, all’inizio del III secolo dopo Cristo spiega come la Sacra Scrittura possa e debba essere interpretata allegoricamente, in relazione al fatto che i suoi autori umani non sono meri strumenti inconsci, bensì contribuiscono alla nascita del testo biblico con le loro conoscenze e con il loro stile. Nei primi Concili ecumenici (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia), ancora, i dogmi fondamentali del cristianesimo – trinitario e cristologico – sono affermati mediando la rivelazione biblica in termini e concetti presi di peso dal contesto culturale greco (ousiaphysishypostasis). Anche Agostino, ha proseguito con gli esempi Beccaria, dopo la conversione ha superato  le sua difficoltà nei confronti del testo biblico ascoltando le prediche di Ambrogio, vescovo di Milano, il quale faceva largo uso dell’interpretazione allegorica e filosofica dell’Antico Testamento.


Fin dalle sue origini il pensiero cristiano «ha letto e interpretato la Bibbia come un racconto e una riflessione teologica stratificata, complessa, articolata, e perciò bisognosa del dispiegamento di tutti i mezzi culturali disponibili per decodificarne appieno il senso». La Chiesa ha sempre insistito nella necessità di abbinare sempre, come fonti della fede cristiana, Sacra Scrittura e Tradizione, cioè il testo sacro e la storia delle sue interpretazioni alla luce della fede e del Magistero della Chiesa.


Ovviamente alcune volte non è andata così, come mostra il noto “caso Galileo”, il cui errore –come ha affermato Giovanni Paolo II- «nel sostenere la centralità della terra fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della S. Scrittura». Occorre dire che la posizione del cardinale Bellarmino, allora capo del Sant’Uffizio, era, in realtà, molto aperta. Innanzitutto fu disponibile ad accettare il copernicanesimo qualora fosse inteso non come una descrizione veridica della struttura fisica del cosmo ma come modello interpretativo della realtà, come di fatto sono le scoperte scientifiche. Inoltre, in una lettera nel 1615 a Paolo Antonio Foscarini, sostenitore del copernicanesimo, scrisse:  «quando ci fusse vera demonstratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, alhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicar le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra.  Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata […].». Moltissimi studiosi “laici”, infatti, contestavano il copernicanesimo e tanti sacerdoti invece lo sostenevano (Copernico stesso), nessuna lotta dunque tra geocentrismo ed eliocentrismo come una lotta tra scienza e religione.


Le richieste della Chiesa, nelle veci di Bellarmino, «di non rinunciare troppo frettolosamente a un modello perfettamente conciliabile con la lettera del testo biblico traduce certamente una profonda preoccupazione pastorale, ma correttamente collocato in prospettiva storica non è affatto irragionevole», il capo del Sant’Uffizio invocava «invoca prove e maggiore chiarezza in un momento in cui la comunità scientifica era spaccata», lasciando comunque intendere che di fronte a una dimostrazione chiara occorrerà considerare meglio le Scritture «che paiono contrarie, e più tosto dire che l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Le cose precipitarono a causa di un conflitto personale tra Urbano VIII e Galileo, una rottura nel loro patto di fiducia, oltretutto il Papa era in quel periodo fortemente messo in discussione dalla Riforma protestante. In questo caso l’errore fu proprio quello di pendere maggiormente per la prudenza per evitare di contraddire un passo biblico sulla base di affermazioni ancora poco dimostrate, ma tuttavia «se Galileo fosse vissuto e avesse fatto le sue scoperte un paio di secoli prima forse avrebbe avuto un’altra accoglienza», ha commentato giustamente Beccaria.



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